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| << | < | > | >> |IndiceAvvertenza ix Verso la pratica filosofica 1 Faccia a faccia. La consulenza filosofica 53 Nel gruppo. L'esercizio di pratica filosofica 77 Il percorso delle opere 109 |
| << | < | > | >> |Pagina 1CAPITOLO 1
Verso la pratica filosofica
Direzione? Vado in una direzione precisa, più sulla scorta di una suggestione, o di una credenza, che sulla base di argomenti inconfutabili. La direzione è quella che porta a un bivio: di qua è la filosofia come disciplina, la filosofia accademica, chiamiamola semplicemente così e nessuno s'offenda, e di là c'è la pratica filosofica. Provengono da una medesima via, che a un certo punto si biforca e si distingue. Da questa parte, dunque, io seguo la via di una pratica che non è ancora canonizzata, eppure esiste; esiste nelle forme della vita filosofica, della Consulenza Filosofica, dell'Esercizio di pratica filosofica di gruppo.
La fermezza di questo assunto non inganni: anche quando
si cammina nel deserto si è convinti di tirare dritto, ma solo
se abbiamo dei punti di riferimento siamo sicuri di non perderci. In queste
pagine cercherò qualche punto di riferimento fra le dune e la sabbia.
Che cos'è Questo libro non risponde alla domanda che cos'è la pratica filosofica? Innanzitutto perché non possiede una tale risposta, in secondo luogo perché non la ritiene una domanda legittima, considerando che qui si vorrebbe far parlare un altro discorso. Non quello che pone la domanda del concetto, che cos'è?, ma quello che la realizza attraverso l'esperienza. E, si sa, l'esperienza richiede sempre lunghi giri, approssimazioni, tentativi, avvicinamenti progressivi, errori... Ma, poiché non intende parlare di nulla, né apparire vuota per scelta, si sforzerà di tracciare qua e là dei segni di riconoscimento, alludendo alla Consulenza Filosofica individuale e all'Esercizio Filosofico di gruppo, ma anche al Dialogo interiore come manifestazione di quella vita filosofica che regge e dà senso a tutto questo quadro.
Ecco, io mi accontento di questa provvisoria descrizione
come limite di campo della ricerca. Dopo di che non mi aspetto una risposta
finale. Ciò che conta è, prima di tutto, il processo del domandare, non la
domanda in sé, né la risposta.
Posizione Quando si sceglie un percorso, è chiaro, si sacrificano altre possibilità, altre strade, altre direzioni possibili. Così ti potrai stupire nel non trovare in queste pagine una dettagliata ricostruzione storica di quel che è stato pensato dai filosofi in merito al loro "fare filosofia". È, infatti, abitudine inveterata del filosofo che si interroga, ripercorrere continuamente dall'inizio la stessa strada ogni volta che intende fare un passo in avanti. Qui, invece non si seguirà affatto la via maestra della storia, non si metteranno in fila i filosofi del passato per consentire loro di emettere una sentenza, di dare una risposta, per poi aggiungere, alla fine, la mia, quasi che si tratti di sistemare l'armonia di un coro stonato. Nulla contro la storia in sé, ci mancherebbe, semplicemente si tratta di un altro percorso, che ora a me interessa poco. Preferisco collocarmi direttamente in quel punto troppo piccolo e sempre sfuggente che chiamiamo appunto il presente, e di qui mettere alla prova la mia esperienza.
Ciò va inteso come una prospettiva più che come una collocazione
spazio-temporale definita; la prospettiva dalla quale osservo gli eventi e cerco
di comprenderli. Servendomi del passato per quanto ancora immediatamente vivente
nel movimento del qui e ora. Utilizzando quel che la storia cede al
presente e che questo metabolizza e ricrea.
Filosofare Qui si intende la filosofia innanzitutto come una pratica, il filosofare, attraverso cui portiamo alla narrazione la nostra esperienza e la mettiamo alla prova del dialogo. Questo non toglie, e non impedisce, che la filosofia sia anche la disciplina che oggi si riconosce in quel nome, e che si nutre di un complesso di regole di linguaggio, attraverso le quali fonda e costruisce la propria storia, la propria identità, il proprio presente. Le due possibilità non si escludono in via di principio ma esigono una scelta in via di fatto. Io scelgo la prima via, perché sono convinto che il punto di partenza debba essere l'atto, il gesto, l'operare attraverso cui sono me stesso nel mondo che mi appartiene. E trovo in quel gesto filosofico il momento in cui scopro la via, il percorso che mi è proprio, nella direzione verso me stesso attraverso la quale posso divenire ciò che sono. Esistono dunque due filosofie? Posto che forse ne esistono mille e forse nessuna, perché esistono essenzialmente i filosofi, la mia risposta è comunque affermativa. Nel senso che la filosofia si presta per me a due diversi progetti, l'uno essenzialmente culturale, di approccio a un oggetto, nel quale io mi pongo di fatto quale osservatore estraneo a un mondo per il quale provo interesse, curiosità, ma che resta fondamentalmente altro da me; per quanto il frutto di tale interesse possa divenire motore di cambiamenti epocali, possa trasformare (non solo interpretare) il mondo, e spingerlo verso la sua realizzazione o il suo disastro (ed è, forse, proprio questo che mi preoccupa), un progetto di prospettiva globale, dunque, il sogno di cambiare il mondo, l'umanità, il destino, un progetto che suppone una insolita confidenza con gli universali, con le grandi categorie del pensiero, strani oggetti e strani soggetti, forse più fantasmi che corpi... L'altro, è il progetto per cui io stesso mi propongo di vivere filosoficamente, oppure di assumere l'atteggiamento filosofico come il filtro attraverso il quale mi getto nel mondo alla ricerca di me stesso. Progetto di dimensioni apparentemente più modeste, ma che almeno ha il pregio di avere a che fare con soggetti reali, con oggetti solidi, con realtà e non con fantasmi. Nel primo caso posso diventare forse un intellettuale, per usare un termine antico, oppure un insegnante, o un ricercatore, un critico, un pubblicista, e persino un Filosofo con l'iniziale maiuscola, cioè un personaggio pubblico riconosciuto e ammirato; anche se questo non cambierà necessariamente il mio modo d'essere, né il mio modo di vivere, di amare, di lottare, di scontrarmi, di confrontarmi, di consolarmi, di addolorarmi... Nel secondo caso, posso ugualmente diventare un "filosofo", ma devo metterci le virgolette, e accettare di ridimensionare il termine a un livello basso, umano, senza impegno e senza storia, che non qualifica né la genialità né l'eccezionalità ma, riportato al significato antico, va accolto come emblema di colui che è amico della sapienza e verso di essa punta il proprio cammino, proprio perché non la possiede, né mai la possiederà nella sua interezza. In questa semplice accezione, filosofo (e non ci servono più le virgolette) è essenzialmente colui che ha intrapreso un cammino verso la conoscenza di sé nel mondo, perché ha accettato una sfida con il mondo, con se stesso, con gli altri. Ed è questa ambigua (per ora) qualità che lo differenzia. La pratica filosofica è il suo cammino. Questo non esclude che, operata la scelta, di natura esistenziale, di avviare la propria vita sul terreno della filosofia, il filosofo non senta la necessità (profonda, irrinunciabile, incancellabile), di fare i conti con l'altra filosofia, la disciplina, e la sua storia e tutti i suoi affioramenti. Operando così una rilettura, che trasforma dall'interno il corpo chiuso della filosofia, e una volta rotta la crosta d'isolamento, la rende disponibile a essere parte di quell'altra dimensione nella quale è coinvolto. In questo senso la pratica filosofica è stile di vita, ma anche studio, e confronto con le straordinarie esperienze dei grandi filosofi. E quindi impone allo stesso tempo, un attento esame di sé e una diversa lettura delle opere. | << | < | > | >> |Pagina 77CAPITOLO 3
In gruppo. L'esercizio di pratica filosofica
Entro in una stanza. Un piccolo gruppo di persone mi aspetta. Non sono propriamente amici, non sono allievi, non sono pazienti, non sono spettatori. Sono persone, hanno un nome, che io conosco. Stringo loro la mano. Ci stringiamo la mano, e ci sediamo lungo il bordo di un immaginario ovale. Non c'è un tavolo, ci siamo noi, la nostra presenza, il nostro peso, lo spazio è ristretto. Ci sediamo in formazione ellittica così da vederci negli occhi quando parliamo. Non siamo equidistanti, ognuno di noi è posto a un diverso intervallo dagli altri e dal centro ipotetico della situazione. A una delle curve più strette siedo io. Non siamo qui per parlare, siamo qui per fare filosofia. Per fare filosofia bisogna parlare. Dare la prima parola è il mio compito. Che gli altri mi riconoscono. Le nostre parole si cercano, intorno a un punto che dapprima sfugge, poi comincia a solidificarsi come uno dei fuochi dell'ellisse. Abbiamo stabilito delle regole d'ingaggio per parlare e per tacere. Abbiamo stabilito delle regole d'uso delle parole, non ogni parola è ammessa, alcune sono disdicevoli, non proibite, ma inopportune, inadatte, inadeguate. Abbiamo stabilito di dare vita a un senso comune, una comune occasione d'intesa. Sappiamo che dietro di noi c'è uno sterminato discorso, una lunghissima storia, un intreccio di ragioni. Io ne conosco più degli altri, ma sono sempre e comunque minime tracce. In questa situazione sono filosofo di fronte agli altri, non filosofi. E il discorso che circola è filosofia. Siamo qui per questo. Il nostro tema non è collocato al di sopra delle nostre teste. Non aleggia fra di noi come un fantasma, non è stato lasciato fuori della porta prima di entrare. Il nostro tema è con noi, perché è dentro di noi. Ognuno porta il proprio dono dentro di sé. Le nostre parole lo espongono. Ognuno lo afferra a proprio modo. Così il tema viene esposto, e circolando all'interno della formazione ellittica acquista un colore, un peso, una rilevanza. E ognuno se ne riappropria, se ne riprende quanto gli serve, quanto gli è necessario.
Ognuno di noi lascerà il proprio dono e coglierà qualcosa
di quello degli altri. Usciremo da questa stanza diversi da come siamo entrati.
Usciremo, forse, almeno in piccolissima parte, trasformati.
Distribuisco un foglio. L'ho scritto io. Senza pretese. Non
fa storia, non analizza, non sintetizza, non declama e non
proclama. Sono io stesso, quella è la mia stessa voce perché è
quel che dico io, sono io che attraverso lo scritto ripeto insistentemente ciò
che sono. Non sono ipotesi: sono le mie parole che io metto a disposizione di
tutti perché tutti ne usino quel tanto che serve a far uscire l'esperienza di
ognuno.
Una lettura condivisa. Semplice, elementare: una frase per
ciascuno da punto a punto.
Primo incontro. Fare pratica filosofica Mi chiedo: esistono forse due filosofie? Le cose sembrano stare proprio in questo modo. C'è di sicuro una filosofia come oggetto di studio, cioè una materia strutturata rigidamente da un complesso di regole, che provengono dalla sua storia e che garantiscono la sua identità. Una materia che si può facilmente rappresentare attraverso un insieme di opere e un elenco di nomi, tutti i bei nomi di cui essa può vantarsi: Platone, Aristotele, Agostino, Cartesio ecc. Potremmo chiamarla la filosofia dell'Accademia perché oggi essa sopravvive, un po' stancamente, quasi soltanto nelle Università. Ma c'è anche un'altra filosofia che va intesa piuttosto come un'attività di natura personale, esistenziale, chiamiamola pratica filosofica. Attraverso questa attività scopro la via che mi appartiene, la direzione verso me stesso lungo la quale posso divenire ciò che sono. Nel primo caso la filosofia si pone dunque come oggetto di studio, come un sapere al quale io posso avvicinarmi ma che resta inesorabilmente altro da me. Nel secondo caso invece, essa diviene una pratica, che si presenta innanzitutto come il progetto in base al quale mi propongo di vivere filosoficamente e quindi di assumere l'atteggiamento filosofico come il filtro attraverso il quale mi getto nel mondo alla ricerca di me stesso. La pratica filosofica è un modo di vita, dunque, ben prima di essere una materia di studio. In questo senso la pratica filosofica non può essere intesa come un mezzo, essa infatti, non serve a nulla perché non è serva di nulla, e quando dà l'impressione di servire vuol dire che essa è già caduta in rovina. Quando, dunque, ti domandi quale sia l'utilità della filosofia, sei già lontano da essa. Il semplice fatto di aver posto una simile domanda dimostra una profonda incomprensione della sua natura più autentica.
In questo senso, ancora, la filosofia è origine. E io posso
accoglierla come quel modo di vita che mi impone di interrogare la mia stessa
esistenza nei suoi rapporti con il mondo e con gli altri. La pratica filosofica
è questa scelta originaria, a partire dalla quale mi avvio sul cammino della
conoscenza di me stesso. Ma la conoscenza di me stesso non è un fine, come
potrebbe esserlo la contemplazione di una immagine in un
quadro perfetto (o in uno specchio lucidissimo). La conoscenza di sé è un
processo, un cammino, lungo il quale ci si
avvia all'insegna del motto: diventa ciò che sei. Ma, ancora,
tutto questo suona troppo teorico.
Finito il giro della lettura. Ci fermiamo un istante. Lasciamo che gli occhi tornino sulla carta. Lasciamo che per un istante ognuno si chiuda in sé con la propria voce interiore. Pensare. È un momento di silenzio. Un silenzio imbarazzato perché molto impegnativo, perché carico di significati. È il silenzio in cui si prepara il discorso, facendo il proprio rendiconto interiore. E poi di nuovo alla voce. La voce rimbalza. Dal testo allo sguardo, dal testo alla persona. Dal testo all'esperienza del singolo. Dall'esperienza del singolo a quella condivisa. Dalla condivisione al dialogo. Al confronto.
Ci si ascolta. Chi racconta l'esempio per rendere vera
l'idea. Chi dice l'idea per rendere vero l'esempio. Chi dice
anch'io. Una altalena inarrestabile dall'esperienza alla testimonianza. Al
concetto. Ci sono i concetti? Sì ci sono, ma qui si espone il loro essere
direttamente incatenati all'esperienza vissuta.
Siamo qui in carne e ossa. Interamente. Non dobbiamo far
finta che il nostro peso sia vuoto, non siamo tenuti a essere
solo spirito, solo voce senza consistenza. Qui si richiede d'esserci interi,
peso vero, autentica sostanza, esperienza.
Le parole ci si presentano sotto molti aspetti diversi. Sono concetti. Sono concetti della filosofia. E insieme sono parole proprie. Non di altri. Le facciamo nostre nella discussione, di ognuna di esse esiste una nostra versione. La sola vera, qui e ora. Perché dice di ognuno di noi chi è, cos'è. E le tiriamo queste parole, le stendiamo, le rovesciamo, per vederne i limiti, per metterle l'una contro l'altra. Il filosofo conosce qualche astuzia in proposito. Forse ne approfitta, talvolta per spingere la discussione su binari efficaci, per far sì che non si perda nel nulla, che non si areni nelle sacche di un piagnisteo, o nelle trappole di una falsa contraddizione, o nell'imbuto di una conclusione affrettata. Cambiare prospettiva, questa è la prima astuzia del filosofo. Osservare la stessa parola, lo stesso concetto da una posizione diversa, spostare l'io nel tu, mutare il soggetto in oggetto, ribaltare il fare e il subire, alternare il dire e l'ascoltare.
Ci si lascia che le parole ancora ruotano intorno a noi, alcune sembrano più
solide. Per qualche istante abbiamo tutti
la sensazione che alcune verità siano state messe in scena. E
quel che ci fa pensare di aver guadagnato qualcosa, di essere
più ricchi di quando siamo entrati. E quel che ci fa pensare
che ne valeva la pena e che l'occasione non è stata sprecata.
Ci ritroveremo. Ci diamo un appuntamento.
Secondo incontro. Conosci te stesso Distogliere lo sguardo dal mondo e rivolgerlo verso di me. Mi dico: è questo il primo gesto della pratica filosofica. Ma se pensi che in tal modo io voglia rinchiudermi nella mia solitudine per cercarvi una specie di oscura profondità senza fondo, sei in errore. Ammesso che si trovasse un simile luogo interiore, nulla distingueremmo in quel buio senza una luce, ma anche la fiammella più debole annienterebbe l'oscurità. Soltanto un silenzio mortale potremmo forse ascoltare. Ma io non sono lì dentro, non sono prigioniero in me stesso. Io non esisto prima di essere annodato in una grande rete di relazioni che mi sostiene e mi rende possibile. La rete dice chi sono io, chi sei tu. Così come le singole carte da gioco non significano niente perché il loro valore dipende soltanto dall'insieme a cui appartengono e dalle regole del gioco in cui sono giocate. Qualcun altro decide dunque per noi? Non dico questo. Dico piuttosto che tante cose non le ho decise io. Guardo me stesso, infatti, e scopro di appartenere a un tessuto fitto fitto di relazioni. Prima fra tutte quella che mi lega a mia madre e a mio padre e a quella famiglia in cui sono nato. E poi appartengo a una comunità, a un popolo, a un paese. E sono parte di questo tempo e non di un altro, e di questo mondo, dove si parla una certa lingua e si discute sulla base di una certa cultura. Tutto questo non l'ho scelto io. Non l'hai scelto tu. E poi c'è tutto quel sistema degli affetti (amore, odio, amicizia, indifferenza, solidarietà, pietà, compassione ecc.) che mi lega, mi coinvolge, e fa di me una persona viva. Insomma, che strano, rivolgo lo sguardo verso di me e vedo tutte queste presenze, questi legami, queste relazioni. Cerco me stesso e trovo gli altri? Rischio di non sapere più chi sono, rischio di perdermi.
Eppure so che sono sempre io, quello di ieri e quello di
oggi, quello con la cartella in mano che va alla scuola elementare, quello che
un giorno si laurea e poi si sposa e diventa padre. Ero io allora, sono io
adesso. Certo, molto è cambiato, il
fisico innanzitutto, prima perché cresceva ora perché invecchia. C'è soltanto
una somiglianza, sempre più vaga quanto
più si risale nel tempo. E il carattere? No, quello è davvero
cambiato, posso dirlo con certezza. Ma allora, in base a cosa
mi ostino a pensare dì essere sempre io, sempre lo stesso?
Certo, ora come allora, resto figlio di mia madre e di mio padre, membro di
questa famiglia e di questo tempo. Insomma
ancora una volta, cerco me stesso e trovo la trama delle relazioni che mi
compongono. Devo forse rassegnarmi e rinunciare a una identità tutta mia,
personale, intima, privata?
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