Copertina
Autore Adelino Zanini
Titolo Filosofia economica
SottotitoloFondamenti economici e categorie politiche
EdizioneBollati Boringhieri, Torino, 2005, Saggi Storia filosofia e scienze sociali , pag.406, cop.fle., dim.145x220x22mm , Isbn 978-88-339-1596-8
LettoreRiccardo Terzi, 2005
Classe economia , politica
PrimaPagina


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Indice

  7    Introduzione


       Filosofia economica


 21 1. Della sovrapposizione.
       Adam Smith: il governo delle passioni

    1. Premessa, 21
    2. Spettri hobbesiani, 27
    3. Immaginazione e morale, 56
    4. La medietà sociale del «prudent man », 64
    5. Le aporie della «justice», 82
    6. Io medio sociale, scambio, lavoro, 93
    7. Smith «impolitico»?, 113
    8. Genesi imperfetta, 124

136 2. Della critica.
       Karl Marx: plusvalore e differenza

    1. Premessa, 136
    2. Un'astrazione determinata, 139
    3. «The sudden changes of 1856», 148
    4. «Arbeit als Subjektivität», 160
    5. Il plusvalore come differenza, 174
    6. Un frammento controverso, 186
    7. «Absolute Trennung», 196

204 3. Della disgiunzione.
       Joseph A. Schumpeter: il logos dell'economica

    1. Premessa, 204
    2. Una gnoseologia funzionale 206
    3. Statica e dinamica, 223
    4. Schumpeter «politico», 237
    5. Il logos dell'economica, 246
    6. Scienza economica e ideologia, 262

271 4. Della sintesi.
       John M. Keynes: incertezza e normazione

    1. Premessa, 271
    2. «Epistemic Probability», 277
    3. Indifferenza e normazione, 286
    4. Un improbabile «ordre naturel», 299
    5. La crisi dello Stato di diritto liberale, 311
    6. Equazioni fondamentali e vie tortuose, 322
    7. Domanda effettiva e offerta politica, 336
    8. «Im Lauf der Zeit», 345
    9. «We bave to abate somewhat...», 353

361 Riferimenti bibliografici
391 Indice dei nomi
401 Indice analitico

 

 

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Pagina 7

Introduzione


La relazione altamente problematica tra sovranità politica e sfera economica è espressione precipua dell' esperienza moderna. Manifesta la necessità di forme di governo politicamente adeguate ai bisogni espressi dalla civil society nel suo rapporto critico-osmotico con lo Stato. Di questa relazione tra Politico ed Economico è abbastanza semplice individuare gli estremi storici e teorici, ben più complessa è però la messa in forma di uno sviluppo concettuale che li tenga insieme, sapendo cogliere la dyskrasía, il gioco di sovrapposizioni e le sfasature, che essi modernamente generano. Al riguardo, una linea argomentativa che corra tra metà Seicento e metà Novecento, congiungendo idealiter Hobbes a Keynes, non potrebbe che apparire, storicamente e concettualmente, inconcepibile e banale. Forse meno improprio potrà risultare perciò il riferimento a una consecuzione di intrecci problematici, in cui ogni nodo rappresenti una discontinuità concettuale con la quale misurarsi - un próblema, dunque, che crei theoría anche quando non consenta un adeguato dipanamento.

In fondo, la questione moderna per eccellenza non è costituita tanto dal rapporto inevitabile tra Economico e Politico. quanto dalle ripetute aporie che esso solo modernamente genera, là dove sovranità e bisogni non trovino adeguata composizione per mezzo della rappresentanza degli interessi. Diversamente formulato, il problema parrebbe rimanere il medesimo: tra Hobbes e Locke, Carl Schmitt e Hans Kelsen, differenze e ripetizioni si danno relativamente al fondamento dell'idea di potere, al suo esercizio legittimo, alla sua rappresentabilità, prima e dopo la crisi dello jus publicum europaeum. Senonché, tale crisi non è un «evento» ma un «processo»; perciò - in particolare nel passaggio cruciale tra Otto e Novecento - il quadro risulta interamente scompaginato ogni volta in cui la dialettica dei bisogni sfugga alla sovradeterminazione politica dell'interesse generale. Da Hegel in poi, il problema sarà posto in questi termini.

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Pagina 10

Ebbene, è facile osservare che la percezione di una crisi esplicita del primato del Politico nei confronti dell'Economico può essere considerata, dopo Marx, come un elemento che «segna» trasversalmente alcune delle forme più radicali del pensiero moderno. Con esse la dottrina economica in quanto tale non intrattiene - storicamente e concettualmente - particolari relazioni; ma con i problemi che esse sollevano crediamo debba fare i conti, in quanto sono i suoi fondamenti, sebbene non le sue articolazioni analitiche, a essere ripetutamente chiamati in causa. Di ciò questo libro si occupa: prima e dopo Marx. Più esattamente, cerca di spiegare perché la relazione tra dottrina economica e categorie politiche non possa che essere colta nel carattere aporetico, discrasico, che qualifica il rapporto - moderno per eccellenza - tra Economico e Politico. Di qui la presunzione di poter commisurare fondamenti economici e categorie politiche.

Prima e dopo Marx, dunque - partendo da Smith, per giungere a Keynes attraversando Schumpeter. Si può discutere anzitutto il «tragitto», non vi è dubbio; ma su ciò sarebbe superflua - perché comunque opinabile - qualsiasi giustificazione secondo dottrina. Basti dire che il tratto comune che individuiamo negli autori considerati non è costituito tanto dall'approccio, in senso lato macroeconomico, quanto e soprattutto dalla «sensibilità» particolare (sia essa esplicita o implicita) nei confronti del rapporto stretto tra Economico e Politico in un quadro interpretativo macroeconomico. In breve, tra Smith, Marx, Schumpeter e Keynes ci pare di poter cogliere il delinearsi storico e dottrinale di quel rapporto stretto che caratterizza la relazione moderna tra Economico e Politico. Che ci fosse un pensare economico prima di Smith, è fuori dubbio; che ci siano, da trent'anni e più, innumerevoli revisioni «post» e «neo»keynesiane, è questione che non muta il nostro problema. In particolare, siamo convinti che, sulla specifica questione, Keynes chiuda la parabola ascendente del pensiero economico moderno - senza nulla togliere ai pochi grandi eterodossi successivi. Sulla specifica questione, certo: il resto, ed è moltissimo, è nobilissima teoria economica.

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Pagina 14

Di questa medesima irriducibilità rende diversamente conto la sintesi operata da Keynes, per il quale Economico e Politico devono invece procedere insieme, avendo, quale loro comune denominatore, la somma di razionalità e irrazionalità dell'agire umano. Di tale sintesi si sono potuti cogliere meglio i fondamenti a seguito anche della riscoperta del Treatise on Probability del 1921 e della conseguente individuazione dei possibili legami con la categoria di uncertainty che caratterizza la General Theory. Si tratta infatti di un legame che legittima la messa in questione delle radici epistemologiche ed etiche di un'infondata lex naturae su cui dovrebbe poggiare un improbabile ordre naturel economico e politico, da Keynes demolito nella sua critica al laissez-faire. Tale messa in questione comporta l'esclusione di ogni «fondazione naturale» dell' Economics, sulla base del riconoscimento dell'incertezza che caratterizza i processi di conoscenza inerenti all'agire umano e dell'infondatezza etica del darwinismo sociale spesso invocato per legittimare ogni agire umano. Quanto consegue è la necessità di contenere tale uncertainty e tale infondatezza; quindi, l'urgenza di definire scelte politiche capaci di giungere là dove la sola scelta economica non può giungere. Il rapporto tra funzione epistemologica e normazione pratica si rivela conseguenziale rispetto all'impossibile «fondazione naturale» di qualsivoglia ordine sociale, di qualsivoglia Substanzbegriff. L'orizzonte normativo - unico vero tramite tra incertezza e razionalità pratica - diventa perciò politico, perché commisurato non solo alla psicologia mutevole degli animals spirits, ma anche all'«offerta politica» espressa dalle istituzioni economiche e politiche. Le stesse con le quali il Keynes politicus si misurò ripetutamente.

Questi, in sintesi, sono i nodi concettuali in base ai quali ci sembra di poter affermare che nella dyskrasía tra Etico, Economico e Politico è possibile cogliere il «destino» a cui soggiace ogni pretesa Entscheidung moderna. Di questo destino, però, e questo è il punto, non è chiamato a rendere conto solo il Politico. Non meno complesse diventano, conseguenzialmente, scena etica e scena economica. In effetti il problema cruciale come già s'è detto, non è rappresentato dalla dinamica sovrappositiva o da quella disgiuntiva in quanto tali, bensì dal fatto che nessuna delle quattro forme che qualificano la scena moderna è in se stessa sufficientemente stabile. In termini strettamente analitici, per forza di cose decontestualizzati, è sin troppo semplice osservare come non vi sia una «misura», una «tolleranza» a cui rapportare lo scorrimento inevitabile e reciproco del piano etico, di quello economico, di quello politico. Ed è questa la ragione per cui, modernamente, si produce dapprima un intreccio di competenze - inteso a sopperire, di volta in volta, a una mancata «decisione politica», a un'inadeguata «strategia economica» - e poi un'epocale supplenza etica, intesa a coprire i fallimenti di Stato e mercato. Vero è altresì che proprio questa supplenza dimostra a fortiori il venir meno di un'idea moderna di sovranità politica - di deficit di legittimità dello Stato-nazione si parla non a caso dagli inizi del Novecento; quindi, in un certo senso, il circolo si salda, diviene autoreferenziale. La sua saldatura impone però la messa da parte dell'idea suggestiva di una Polarität tra heterogene Sphären su cui aveva insistito Schmitt. Non è affatto casuale che il capitolo 24 della General Theory finisca con l'invischiarsi nel medesimo circolo chiuso; né può essere considerato casuale che da quel circolo l' economic theory più aperta a suggestioni esterne - non necessariamente la più radicale, anzi - cerchi vie d'uscita ragionevoli, spesso segnate sulle mappe tracciate da John Rawls o Robert Nozick. A dispetto di tutto, forse, se la situazione fosse davvero quella indicata dal pensiero moderno «radicale» - sia esso autoritario o democratico -, il cielo della teoria sarebbe più terso. O forse semplicemente meno bigio, perché anche la filosofia economica, in fondo, potrebbe essere considerata una contradictio in adjecto.

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Pagina 204

3.

Della disgiunzione. Joseph A. Schumpeter: il logos dell'economica


1. Premessa

La sorte toccata a Schumpeter è quella riservata a ogni altro stummer Prophet. Storicamente stretto tra l'eredità walrasiana e la Scuola austriaca, tra la Scuola di Cambridge e il progressivo imporsi del paradigma keynesiano, l' opus schumpeteriano non rappresentò più che una grande anomalia agli occhi dei contemporanei. Per la sua eterodossia, certamente, fu inviso ai sostenitori dell' Economics - considerato troppo «socialmente» attento per essere «scientificamente» credibile. Interessò altre scuole, la neomarxista, per esempio, e coloro che in genere vollero e seppero andare oltre la tradizione della stessa Economics. In quanto teoresi, comunque, esso rimase sempre a margine. Schumpeter as social scientist, in breve, non fu un epitaffio scontato.

Non di meno, resta per noi ugualmente problematico ammetterne d'emblée la fondatezza. Avanzare un tale sospetto potrà apparire paradossale. Un rompicapo, però, è indubbiamente presente. A una attenta lettura, l'opera schumpeteriana può certamente essere interpretata secondo un paradigma storico-sociale. Il prevalere dello sviluppo, dell'innovazione, del credito non vincolato al risparmio, in breve della dinamica sulla statica, parrebbe essere di per sé una esplicazione sociale dei fenomeni economici. Tuttavia, ferme restando queste determinazioni, una lettura puntigliosa — e parimenti lontana da tutte le tradizioni neoclassiche — può ritrovare nell'opera schumpeteriana una messe ricchissima di elementi legittimati a contestare l'interpretazione di Schumpeter as social scientist - almeno nella sua forma più scontata. Elementi pertinenti il metodo, in prima istanza, ma di fatto connessi, senza soluzione di continuità, con la sistematica teorica schumpeteriana, che proprio in extremo spiritu, non a caso, sintetizzerà il quesito di una vita domandando quale fosse il nesso tra scienza economica e ideologia.

Nella sua essenza, il contributo metodologico schumpeteriano si delinea anticipatamente rispetto alla più matura teoria dello sviluppo economico e si dispiega in un ambito i cui confini spaziano fra tradizione ed eterodossia: Léon Walras e Karl Marx. Si delinea pressoché compiutamente tra gli scritti giovanili e la prima grande opera del 1912, muovendo dal cosiddetto metodo della variazione (Variationsmethode), in base al quale Schumpeter pone la fondamentale distinzione tra economia teorica e teoria economica. Si tratta di un approccio metodologico che avrà conseguenze di grande rilievo, poiché per suo mezzo l'economista austriaco determina e circoscrive il senso e le applicazioni della modellistica neoclassica, differenziando, allo stesso tempo, il modello statico da quello dinamico. L'analisi metodologica schumpeteriana non è tuttavia un «esercizio» che si esaurisca in sé; per suo mezzo - e solo per essa - è possibile rendere ragione anche di alcune non indifferenti aporie che si daranno dentro la successiva teoria dello sviluppo e perciò oltre i limiti del modello walrasiano. Il maturo rapporto critico tra Economico e Politico, il suo carattere disgiuntivo, soprattutto, sembra ricevere solo alla luce di questi presupposti l'effettiva spiegazione del suo essere interno all'opera schumpeteriana, ma solo perché in essa imposto come dato esogeno. Di questa esogenità parla l'impolitico schumpeteriano.

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Pagina 237

4. Schumpeter «politico»?

L'efficienza e la possibilità di espansione del capitalismo come sistema economico per Schumpeter non sono mai in questione. I risultati storicamente ottenuti e quelli ragionevolmente prevedibili sono tali da escludere qualsiasi riduzione sistematica del saggio di profitto e qualunque immiserimento progressivo delle classi più deboli: «In altri termini, il processo capitalistico, non per una coincidenza, ma in virtù del suo stesso meccanismo, determina un progressivo aumento del livello di vita delle masse». Ciò conferma che il criterio di selezione che presiede all'ascesa della borghesia non può essere posto in questione per il fatto che serve a «far quattrini», nemmeno quando vengano meno quelle forme concorrenziali di cui aveva parlato la generazione di Alfred Marshall e Knut Wicksell.

Distinguendosi dalle teorie della concorrenza monopolistica e oligopolistica maturate a ridosso degli anni trenta, la teoria schumpeteriana presuppone infatti una diversa concezione della concorrenza: non quella basata sulla riduzione dei prezzi, ma quella che si esplica mediante i processi innovativi dinamici. Nella realtà capitalistica, quel che conta «è la concorrenza creata dalla nuova merce, dalla nuova tecnica, dalla nuova fonte di approvvigionamento, dal nuovo tipo organizzativo (per esempio la grande unità di controllo), che condiziona un vantaggio decisivo di costo e di qualità e incide non sui margini di profitto e sulla produzione delle ditte esistenti, ma sulle loro stesse fondamenta, sulla loro vita». Pertanto, non è infondata la convinzione che il miglioramento del livello di vita delle masse sia attribuibile soprattutto al big business.

Non basta dunque sostenere che, essendo impossibile nelle moderne condizioni industriali [...] una concorrenza perfetta, l'azienda o l'unità di controllo su vasta scala va accettata come un male necessario inseparabile dal progresso economico [...]. Dobbiamo riconoscere ch'essa è divenuta l'arma più potente di questo progresso e, in particolare, dell'espansione a lungo termine della produzione totale, non solo a dispetto, ma (in notevole misura) a causa di una strategia che pure, vista nel caso singolo e dal singolo punto del tempo, ha un'apparenza così restrittiva.

Economicamente, il capitalismo ha funzionato e funziona; ci si deve però chiedere se esso funzionerà - o funzionerebbe, se posto in condizione di farlo - nel prossimo futuro. La portata politica di Capitalism, Socialism and Democracy sta in questo interrogativo.

Per Schumpeter non ci sono ragioni economiche stricto sensu per le quali il capitalismo debba crollare: nulla conduce ad asserire che non siano realizzabili ulteriori innovazioni, o che la saturazione dei bisogni possa giungere a far crollare la domanda. È prevedibile, piuttosto, che l'aumento dei redditi determini nuovi consumi; lo stesso diffondersi di pratiche monopolistiche potrebbe favorire l'innovazione, anziché ostacolarla. Economicamente, il capitalismo ha funzionato, funziona e, con ogni probabilità, funzionerebbe; ma le condizioni affinché ciò avvenga non dipendono solo da «variabili» economiche; quindi, sono economicamente «improgettabili». Ecco il punto.

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Pagina 262

6. Scienza economica e ideologia

Ma è una scienza l'economica? Schumpeter si è misurato costantemente con un tale quesito. Se vi è un filo rosso che attraversa la sua riflessione, questo è certamente costituito dalla preoccupazione e dalla volontà di vedere separate e di separare «scienza» e «ideologia», proprio in funzione di vedere distinti Economico-endogeno e Politico-esogeno. Questa preoccupazione, costantemente posta in rilievo e infine sintetizzata in Science and Ideology del 1948, trova opportuna collocazione e trattazione nella parte prima della History of Economic Analysis. Certamente il lavoro dello Schumpeter storico dell'analisi economica richiederebbe da solo un'ampia premessa. Resta comunque il fatto - come nota Richard Swedberg - che la parte prima della History of Economic Analysis è la chiave per comprendere non solo quest'opera, ma l'intera opera schumpeteriana - e dunque il filo rosso che l'attraversa. Infatti, nel momento in cui ci si propone di rendere conto dei processi che legittimano la scienza economica qua scienza, l'ostacolo primo e ultimo è, secondo l'economista austriaco, l'ideologia come «preconcetto»; quanto è richiesto sia compiuto è «il miracolo di conoscere ciò che non possiamo conoscere». Seguiamo dunque l'autore nella sua argomentazione, tenendo presente che essa rappresenta, in un certo senso, la sua parola ultima circa la disgiunzione tra Economico e Politico. La riflessione sulla natura della scienza economica e sulle «parentele» che la sorreggono conferma altresì le ragioni per le quali quella disgiunzione è per Schumpeter un problema, non una banale ipostasi.

Egli prende le mosse da lontano, ma non senza aver prima chiarito che la storia dell'analisi economica è «la storia degli aspetti analitici o scientifici del pensiero economico», e non senza aver prima osservato che, a differenza delle altre scienze, lo storico dell'analisi economica non ha a che fare con un «oggetto» ben definito, tanto che «le stesse idee di analisi economica, di sforzo intellettuale, di scienza, sono avvolte nella nebbia, e le regole o i principi che debbono guidare lo storico lasciano adito a dubbi o, peggio, a malintesi». Va da sé che l'indeterminatezza dello «oggetto», causata non dall'assenza di attributi espliciti, ma da una vera e propria sovrabbondanza, è un problema essenziale di cui tener conto. Ma qual è il senso di studiare la storia della scienza economica?

La risposta schumpeteriana si articola in quattro punti. In primo luogo, poiché l'analisi scientifica in genere non procede secondo un moto rettilineo e i suoi metodi, problemi, risultati sono sempre storicamente determinati, essi «non possono essere pienamente afferrati senza una conoscenza dei precedenti metodi e problemi, da cui i primi sono scaturiti (per tentativi)». In secondo luogo, lo studio della storia della scienza economica consente di trarre «nuove ispirazioni» e lezioni utili circa il procedere a zig zag del progresso scientifico e, quindi, circa gli sforzi che hanno avuto buon esito e quelli che non l'hanno avuto. In terzo luogo, la storia della scienza economica - come quella di ogni altra scienza - insegna i molti modi in cui opera la mente umana, «rivela la logica nel concreto, la logica in azione, la logica intimamente unita alla visione e allo scopo perseguito». Infine, poiché «l'oggetto dell'economica è esso stesso un unico processo storico», ciò che la storia dell'analisi economica rende possibile è la descrizione di «ciò che può essere chiamato "il processo di filiazione delle idee scientifiche" - ossia, il processo attraverso cui gli sforzi degli uomini rivolti a comprendere i fenomeni economici costruiscono, migliorano e demoliscono strutture analitiche in una sequenza senza fine».

Ma è una scienza l'economica, ripetiamo? Secondo Schumpeter, la risposta dipende da ciò che intendiamo per scienza. Se per scienza intendiamo «qualsiasi campo del sapere che abbia sviluppato tecniche specializzate per la scoperta di fatti e per l'interpretazione o la deduzione (analisi)», non c'è dubbio che, dal momento che l'economica impiega linguaggi e tecniche specifici, essa è certamente una scienza, quantunque particolarmente complessa da definire, «giacché in essa le nozioni di senso comune, relativamente alla conoscenza scientifica che siamo stati capaci di ottenere, sono molto più importanti che in quasi tutti gli altri campi». Somiglia perciò a una foresta tropicale, più che a un edificio razionalmente eretto; è più simile alla medicina che non all'acustica, in quanto «agglomerato di campi di ricerca mescolati insieme e mal coordinati». In essa, l'economista «scientifico» sa muoversi secondo criteri peculiari, in quanto è detentore di «tecniche» e di «linguaggi», che lo differenziano da tutti coloro che ragionano di economia senza possederli. Tecniche e linguaggi che derivano dal saper dominare i campi di sapere che costituiscono l'analisi economica: ossia la storia, la statistica, la sociologia economica e la teoria.

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Pagina 271

4.

Della sintesi. John M. Keynes: incertezza e normazione


1. Premessa

Keynes ha inciso sul pensiero moderno come pochi altri. Splendeurs et misères dell'opus dell'economista britannico sono state più volte affermate e negate. Spesso, come normalmente accade, il giudizio è dipeso dai presupposti da cui l'interprete ha preso le mosse (basti menzionare gli esiti infiniti della cosiddetta sintesi neoclassica). Di certo, dopo Keynes, nessuno ha potuto pensare il sistema economico capitalistico a prescindere da Keynes. Tentare di aggiungere un'ulteriore interpretazione generale non rientra nelle nostre intenzioni e possibilità. L'ambizione è molto più misurata e muove da una domanda più volte posta: qual è, se vi è, la relazione tra il primo Keynes e la social philosophy che pervade l'opera keynesiana e con cui si chiude la General Theory? Il quesito, certo, è stato fin troppo riproposto quanto all'evoluzione del metodo; persiste inevaso, però, sul versante più propriamente normativo, da non intendersi necessariamente in senso etico, ma come agire pratico, connesso a possibili «scelte politiche», e per il quale l'esigenza di regolamentazione del ciclo economico impostasi con la fine del primo conflitto mondiale non sarà evento contingente, bensì strategico. Non per nulla, in ciò si delineerà, in termini di filosofia politica, quel disincanto epocale che culminerà nella crisi della forma-stato liberale e che avrà in Keynes uno dei protagonisti principali.

Da oltre vent'anni, la riscoperta del Treatise on Probability (1921) ha aperto un vero e proprio nuovo filone di ricerca, da cui sono emersi i molti legami esistenti tra il modello epistemologico delineato nel Treatise e l' uncertainty che caratterizza la General Theory. A dispetto della superficiale consonanza, all'interno di questo nuovo filone le differenze sono in alcuni casi notevoli. Quello che però è stato forse sottovalutato è il quesito a nostro avviso decisivo: come avviene il tradursi di un sapere «relativo» e di un conseguente modello epistemologico «regionale» (inerente cioè a un definito corpus of knowledge) in un sistema di regolazione «pratico», in una filosofia sociale normativa? L'idea che questa traduzione rispecchi l'evolversi di alcuni dei valori etici ed estetici che stavano, in continuità e in contrasto, tra Henry Sidgwick, George Edward Moore e Bertrand Russell, appare ragionevole, ma comporta, alla lunga, un'insidia possibile: fare di Keynes un genialissimo dandy à la Bloomsbury, il cui assunto basilare era estetico piuttosto che politico. In verità, la parabola keynesiana rivela aperture la cui portata travalica quanto nella Cambridge di inizio secolo vi era di più geniale, austero o, semplicemente, di frivolo. L'indagine su ciò conduce altresì su di un terreno aperto, dove le consuete coordinate storiografiche non bastano. E sebbene il punto d'arrivo sia sin troppo ovvio - si tratta nientemeno che della conclamata crisi della forma-stato liberale seguita al primo conflitto mondiale -, esso continua a sembrarci decisivo.

In altri termini, quello che intendiamo proporre è una complicazione del legame accreditato che, come un filo rosso, va dal Treatise del 1921 alla General Theory sulla base del rapporto - più o meno accentuato - tra la stessa logica del Treatise e l' uncertainty che caratterizza l'opera del 1936. Tale legame è certamente decisivo, ma non può essere trascurato quanto lo regge e, forse, lo semplifica: la critica keynesiana al laissez faire, nella sua radicalità. Essa non si limita infatti a stigmatizzare ciò che nel puro modello di mercato non funziona; mette ancor prima in discussione le radici epistemologiche ed etiche di una infondata lex naturae su cui dovrebbe poggiare un improbabile ordre naturel economico e politico. Tale messa in discussione si basa su una convinzione — anch'essa etica ed epistemologica a un tempo — che ha già escluso ogni «fondazione naturale» dell' Economics e ha già riconosciuto la «regionalità» che ne caratterizza i processi di conoscenza: di per se stessi e, a maggior ragione, quando riguardino l'agire umano, socialmente orientato e determinato. Qui, più che in qualsiasi altro luogo dell'opera keynesiana, è forse possibile cogliere quanto produce incertezza: si tratta dell'interazione tra la «regionalità» che connota il moderno funzionalismo epistemologico e l'impossibile «fondazione naturale» di qualsiasi ordine sociale. Coniugate insieme e nello specifico, esse indicano l' incertezza che distingue una monetary economy dalla neutral economy.

Quanto consegue è in primo luogo la necessità di contenere tale uncertainty - individuando anzitutto opportuni strumenti monetari - e, in secondo luogo, l' urgenza di definire scelte politiche capaci di giungere là dove la sola politica monetaria non può giungere. La complicazione che proponiamo discende quindi da ciò: e qui dove l'orizzonte normativo, che è politico, s'impone; è qui dove il rapporto tra «funzione» e «norma» si rivela conseguenziale rispetto all'impossibile «fondazione naturale» di ogni ordine sociale e alla «regionalità epistemica» tipica di ogni conoscenza che abbia rinunciato all'idea stessa di un Substanzbegriff. Diremmo che sia il Keynes politicus il vero tramite tra sapere relativo e incertezza; colui che si misura, ripetutamente, non solo con la psicologia mutevole degli animals spirits, ma anche con le scelte operate (o meno) dalle grandi istituzioni politiche ed economiche. Le seconde non tolgono la prima; semplicemente hanno a che vedere con un'incertezza che è sempre sistemica e richiede una sintesi tra Economico e Politico.

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Pagina 322

6. Equazioni fondamentali e vie tortuose

Considerando gli scritti che in base a un'assiologia assolutamente contingente potremmo definire «minori», ci siamo spinti sino a lambire tematiche del discorso keynesiano sicuramente appartenenti al periodo della maturità. Si è fatto più volte cenno al peso da attribuire al Tract del 1923, sul quale si fondano, almeno in parte, le riflessioni «minori» considerate. Ebbene, assunto che dal 1924 in poi il lavoro al Treatise on Money apra tale periodo, è possibile notare come siano proprio gli scritti «minori» considerati a delineare il passaggio tra il Tract e il Treatise on Money, sulla base di un tragitto che muove dal concetto di stabilità del livello generale dei prezzi e arriva al sistema di prezzi relativi; tragitto sul quale è bene indugiare, in quanto esprime l'evolversi dell'ipotesi normativa in relazione alla moneta.

Un'adeguata teoria e un'adeguata stabilità monetarie paiono a Keynes gli obiettivi primi da raggiungere nel contesto europeo postbellico. Nel Tract on Monetary Reform è perciò il tradizionalismo aureo che appare essere, per primo, insostenibile e politicamente dannoso. La stabilità economica pensata sulla base della rigidità monetaria aurea è ormai una pia illusione. La moneta, quando non sia più moneta di conto, non per questo è semplice variabile riferita al suo «valore intrinseco» - concetto peraltro fantasioso, dato che di «convenzione» relativa si tratta, espressa nel rapporto variabile tra moneta e sistema generale dei prezzi. La diversa capacità d'acquisto della moneta, inflazione e deflazione, sono fenomeni monetari economicamente rilevanti, palesati dal mutare dei prezzi dei beni e dei servizi espressi in moneta, non da improbabili variazioni nel «valore intrinseco» della moneta. Fenomeni che, per di più, dopo il primo conflitto mondiale, si mostrano di fatto insensibili alle politiche delle scorte oro, comportando una radicale redistribuzione del reddito e un mutamento nel livello dei consumi e della domanda aggregata, tali da imporre un criterio di regolazione monetaria. Sconvolgimenti non di per sé iniqui, ma esiziali al mantenimento di uno stabile quadro economico e sociale. L'iniquità rappresentata dal taglio dei risparmi in titoli monetari dovuto all'inflazione «ha ben altre conseguenze» - sostiene appunto Keynes - ed esige per questo una stabilità monetaria vera, non demandata a un sovrano dalla testa lucente ma senza poteri.

Non è l'inflazione (o la deflazione) come stortura intrinseca alla moneta a essere un problema. Il problema esiste in quanto la moneta non è semplice numerario, bensì mezzo il cui ruolo rende il processo economico dinamico. Se diminuisce «la capacità di risparmio della classe risparmiatrice», si distrugge «quell'atmosfera di fiducia che è condizione necessaria della volontà risparmiatrice». Come semplice variazione nominale, l'inflazione è solo ingiusta; ma in quanto incide sui rapporti tra le variabili economiche reali, genera ben altri problemi: rischia, soprattutto, di togliere la distinzione basilare tra capitale e reddito, poiché «il continuo aumento del valore monetario degli oggetti che compongono il capitale nazionale nasconde temporaneamente una diminuzione nella loro quantità effettiva». Per converso, un andamento deflazionistico «può paralizzare tutto il processo produttivo»; la general fear che ne consegue è concreta variazione economica, altrettanto reale, che si traduce in disoccupazione e disaccumulazione. Tra inflazione e deflazione, la scelta kevnesiana è notoriamente netta; ciò non toglie che «l'ideale» consista nel «fare sì che non si formi mai uno stato generale di attesa fiduciosa sia in un rialzo sia in un ribasso generale dei prezzi». Per raggiungere la stabilità del livello generale dei prezzi - e del valore della moneta - occorre «controllare l'unità di misura del valore in modo che, quando avvenga un fatto il quale, abbandonato a se stesso, susciterebbe l'attesa di un movimento nel livello generale dei prezzi, l'autorità competente prenda misure tali da controbilanciarla mettendo in moto qualche forza che operi in senso contrario».

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9. «We bave to abate somewhat...»

Su quale presupposto i soggetti economici possono fondare le loro aspettative di lungo termine? E conseguentemente: su quali basi è prefigurabile il lungo periodo? La risposta keynesiana è pronta e inequivocabile: sullo stato della fiducia. Al di là di ogni «calcolo», cioè, le aspettative, per la loro natura incerta, sono garantite solo dallo stato della fiducia, ossia dal suo carattere convenzionale com'è stipulabile nel breve periodo. Evidentemente, è decisivo capire quanto stabile possa essere la convenzione. Al riguardo, Keynes afferma come non si possa concludere «che tutto dipenda da ondate di psicologia irrazionale. Al contrario, lo stato dell'aspettativa a lungo termine è spesso costante, e anche quando non lo è, gli altri fattori esercitano i loro effetti compensatori». Se ci si chiede però quali siano i fondamenti previsionali delle «decisioni umane influenti sul futuro», siano esse personali, politiche o economiche, ci accorgiamo non solo del fatto che essi non possono dipendere da una rigorosa mathematical expectation, ma anche che spesso hanno a che fare col capriccio, il sentimento, il caso. In altri termini, la convenzione ha un fondamento convenzionale.

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Solo qualche mese prima, a lato della sua articolata polemica con Jan Tinbergen, Keynes aveva scritto a Harrod osservando come la scienza economica non potesse essere considerata alla stregua di una scienza naturale; essa è piuttosto una moral science, dal momento che ha a che fare with introspection and with values, ma anche with motives, expectations, psychological uncertainties.

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