Copertina
Autore Stefano Zenni
Titolo Storia del jazz
SottotitoloUna prospettiva globale
EdizioneNuovi Equilibri, Viterbo, 2012, New Jazz People , pag. 608, ill., cop.fle., dim. 17x24x3,4 cm , Isbn 978-88-6222-184-9
LettoreGiorgio Crepe, 2012
Classe musica , storia sociale , paesi: USA
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice


  5 RIGRAZIAMENTI
  7 GUIDA ALLA LETTURA
  9 PRELUDIO

 15 Capitolo I.
    BAMBOULA! SCHIAVI AFRICANI, MUSICHE AMERICANE

 15 Storie di culture migranti
 17 Patting Juba: la musica degli schiavi
 26 I Caraibi e New Orleans: prima del jazz

 34 Capitolo II.
    THE ENTERTAINER. TRADIZIONI ORALI E REPERTORI SCRITTI

 34 Composizione e spettacolo
 43 La chitarra e lo spartito: la diffusione del blues

 51 Capitolo III.
    BUDDY BOLDEN'S BLUES. I SUONI DI NEW ORLEANS

 71 Capitolo IV.
    BLACK AND TAN FANTASY. LE MIGRAZIONI URBANE DEL JAZZ

 71 Modernismo in bianco e nero
 83 Estetica ed economia della nuova musica
 93 Le notti di Chicago
 93 Professione jazzista
 99 Il regno della polifonia: King Oliver
104 New Orleans Rhythm Kings
105 Nostalgia di un mondo nuovo: Jelly Roll Morton
111 Gli architetti del solismo: Louis Armstrong e Earl Hines
119 Il ricco tessuto del jazz nero
121 Giovani ribelli bianchi
123 In a Mist: la parabola di Bix Beiderbecke
128 New York e il cosmopolitismo nero
128 Nasce la big band: Fletcher Henderson e Don Redman
134 La giungla urbana di Duke Ellington
140 Le contraddizioni dell'Harlem Renaissance
143 Le grandi orchestre nere
145 Futurismo da camera: i virtuosi bianchi
149 L'espansione globale del jazz

156 Capitolo V.
    STOMPING AT THE SAVOY. GLI ANNI DELLA DEPRESSIONE

156 La danza e la musica: il lindy hop
163 Nuovi attori in scena: la radio e il management
168 Il mattatore Louis Armstrong
171 Fats Waller, pianista
174 Symphony in Black: Duke Ellington
177 La fantasia al potere: Luis Russell e le Boswell Sisters
178 Il panorama delle orchestre regionali
182 Il Sudovest e la Kansas City di Bennie Moten
186 The Scat Song. Cab Calloway
188 Rhythm Is Our Business. Jimmie Lunceford
190 Take It Easy. Altre orchestre nere
192 Chick Webb, piccolo grande uomo
192 I grandi solisti: trombe
195 I grandi solisti: tromboni
197 Coleman Hawkins e i sassofoni
199 La scena europea
200 Uno zingaro regnante: Django Reinhardt

204 Capitolo VI.
    I GOT RHYTHM. L'ERA DELLO SWING

204 Musica per una nuova generazione
205 L'economia dello Swing
210 Jitterbug Waltz. Il ballo e gli hipster
212 Il nuovo repertorio
215 New World A-Comin'. La politica dello Swing
219 Questioni di diritti e d'autori
221 Roll 'Em. Le big band
221 Lo Swing come perfezione: Benny Goodman
227 Count Basie conquista l'America
230 Lo Swing regionale
232 Le narrazioni cromatiche del Duca
241 From Spirituals to Swing. La coscienza storica
245 Il Dixieland Revival
247 Body and Soul. I grandi improvvisatori
247 La strada che non dorme mai
253 I pianisti: Art Tatum e Teddy Wilson
258 Le trombe: Bunny Berigan e Roy Eldridge
260 Coleman Hawkins e Lester Young
264 Le voci: Mildred Bailey e Billie Holiday
267 Il buffone e il seduttore: Fats Waller e Nat "King" Cole

270 Capitolo VII.
    NOW'S THE TIME. LA GUERRA E LE NUOVE STRADE DEL JAZZ

270 Charlie Christian e le jam session di Harlem
272 Gli anni della Seconda guerra mondiale: i V-Disc
275 La nascita del concerto jazz
280 Un nuovo paradigma: i piccoli gruppi
282 La rivoluzione del bebop
282 Persistenze e discontinuità
287 Maestri del bebop: Dizzy Gillespie
289 Maestri del bebop: Charlie Parker
294 Collaboration. La scrittura del nuovo jazz
294 Compositori e didatti del mondo classico
296 Il progressive jazz
297 A Night in Tunisia. Afro-Cuban Bop
302 L'orchestra di Woody Herman
304 Un Ellington sperimentale
305 Glass Enclosure. Altri mondi del bop
305 Maestri del bebop: Bud Powell
307 Maestri del bebop: Thelonious Monk
312 Le altre vie del bop. Dalla California al vocalese
319 Il quieto radicalismo del cool
319 Una nuvola sonora: la Tuba Band
322 Le visioni interiori di Lennie Tristano

329 Capitolo VIII.
    WESTERN SUITE. LE DUE ANIME DELLA CALIFORNIA

329 Gerry Mulligan: contrappunto in punta di piedi
331 Incident in Jazz. Stan Kenton
333 Pastorale americana: Jimmy Giuffre
334 Il suono californiano
335 La fioritura del jazz europeo

340 Capitolo IX.
    BLUES&ROOTS. TRADIZIONI REALI E INVENTATE

340 Charles Mingus e lo sperimentalismo newyorkese
342 La riscossa della provincia: Clifford Brown
346 Hard bop in punta di penna: Horace Silver
349 L'invenzione della tradizione: il soul jazz
355 Art Blakey, l'università del jazz
359 Poesia beat e bohème musicale

364 Capitolo X.
    THE REAL AMBASSADORS. LA RINASCITA GLOBALE DEL JAZZ

364 La Guerra Fredda e l'espansione del jazz
369 L'onda lunga del mainstream
374 Such Sweet Thunder. Il ritorno delle big band
376 La scoperta dell'Africa
382 Musica delle Americhe: bossa nova e tango

385 Capitolo XI.
    PITHECANTHROPUS ERECTUS. IL RINNOVAMENTO DEL LINGUAGGIO

385 Cinque per uno: Miles Davis
387 Entra un grande retore: Sonny Rollins
389 Oltre le categorie: John Lewis, il Modern Jazz Quartet e
    la Third Stream
395 Scene e racconti polimorfici di Charles Mingus

400 Capitolo XII.
    MILESTONES. IL CIRCOLO MODALE

400 Una nuova teoria della musica
405 Le strade di Kind of Blue
408 Gli orizzonti di John Coltrane
414 Forme del tempo: Eric Dolphy e Bill Evans

421 Capitolo XIII.
    THIS IS OUR MUSIC. I MOVIMENTI DEGLI ANNI SESSANTA

421 Una new thing: Ornette Coleman
428 L'apocalisse del pianoforte: Cecil Taylor
430 Freedom Now Suite. Politica, musica e conquiste civili
436 La seconda ondata del free: Albert Ayler, Archie Shepp,
    Sun Ra e Bill Dixon
441 Generazioni a confronto: l'evoluzione continua
441 Oltre i confini della forma: Charles Mingus
443 Una diversa libertà: il quintetto di Miles Davis
447 Un'altra modalità: la scuola Blue Note
449 John Coltrane: oltre il rito di Ascension
451 Ritorno al suono. L'esperienza dell'AACM
455 Conversations with Myself. Sfide in solitudine

458 Capitolo XIV.
    GLOBE UNITY. IL JAZZ DALL'AFRICA ALL'EUROPA

460 Tears for Johannesburg. La diaspora sudafricana
462 Astigmatic. Il Nord Europa di Jan Johansson e Krzysztof
    Komeda
468 Eine Partie Tischtennis. Il nuovo free jazz europeo
469 Le scuole nazionali
474 Gli strumenti
476 Le orchestre
477 Filosofia dell'improvvisazione musicale

480 Capitolo XV.
    I SING THE BODY ELECTRIC. METAMORFOSI TRA ROCK ED ETNICA

480 Inghilterra e USA. Il rock e il jazz si avvicinano
483 La svolta elettrica di Miles Davis
486 Ritmi dal mondo. L'India e gli apolidi del jazz
491 L'eredità di Miles

493 Capitolo XVI.
    MO' BETTER BLUES. IL PASSATO RITORNA

493 La fioritura delle orchestre
495 Tempi duri, tra i loft e l'accademia
498 Tempo di revival
500 Neoclassicismo e riscoperte. Dal new hard bop a Wynton
    Marsalis

512 Capitolo XVII.
    SONIC GENOME. PERCORSI CONTEMPORANEI

512 Forme senza confini. Anthony Braxton
515 Oltre la tradizione: Hemphill, Threadgill e l'Europa
519 Pulsazioni contemporanee: Steve Coleman, Tim Berne e il
    postmoderno

522 CODA

527 NOTE
535 BIBLIOGRAFIA
551 INDICE DEI NOMI
579 INDICE DEI BRANI
602 INDICE DELLE FIGURE


 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 9

PRELUDIO


Questa è la prima storia del jazz di vasto respiro realizzata da un autore italiano dai tempi del fondamentale Jazz di Arrigo Polillo. Il libro dello storico direttore di «Musica Jazz», pubblicato per la prima volta nel 1975 e ristampato in varie edizioni, anche con piccoli aggiornamenti (POLILLO 1997), conserva intatta la sua densità documentaria e l'eccezionale forza narrativa, anche a distanza di trentasette anni dalla sua stesura. Tuttavia, molte cose sono cambiate nel frattempo, e molto si è discusso sui più diversi aspetti: metodologie e dati storici, approcci musicologici, prospettive narrative. Nel corso del presente volume questi problemi non verranno affrontati direttamente, in quanto l'intero impianto metodologico è come sotteso alla narrazione, in modo da non interferire con essa. Tuttavia, gli elementi di novità sono tanti e tali che ci è sembrato necessario chiarire in questo Preludio quali sono i criteri che costituiscono le fondamenta di una nuova storia del jazz.

Anzitutto, vanno segnalati i numerosi dati — prima sconosciuti — che questo libro rende disponibili al lettore italiano. In alcuni campi in particolare, come nello studio sulle origini del jazz, la ricerca ha fatto passi da gigante. Sono stati individuati molti errori, il più clamoroso dei quali si è rivelato il falso reportage di George W. Cable su Congo Square (un aggiornamento ancora non recepito dalle edizioni più recenti del Polillo). Una più corretta valutazione della sentenza Plessy vs. Ferguson, del 1896, ha permesso di chiarire molti aspetti legati alle dinamiche razziali che operavano a New Orleans a cavallo tra l'Ottocento e il Novecento, la cui influenza sulla vita dei musicisti era di notevole portata. Si tratta di dati ormai acquisiti da anni, ma curiosamente alcune storie del jazz, seppure assai curate e di gran pregio (ad esempio SHIPTON 2008) continuano a non tenerne conto.

Se da un lato la ricerca mira a correggere gli errori storici, dall'altro si è concentrata sugli approfondimenti in campi prima inesplorati. Forse, il più affascinante di questi è il lavoro di identificazione della cultura di provenienza degli schiavi, che permette di desumere lo stile musicale di cui questi si sono fatti portatori. Anche se alcuni studiosi non ne hanno ancora preso atto, oggi «la musica degli schiavi» non ci appare più come un tutto indistinto, ma come un mosaico di stili di cui è finalmente possibile ricostruire cronologia, strumenti, tratti costitutivi in relazione alle culture africane di provenienza. Lo studio della musica a stampa si è rivelato un altro campo denso di novità. In effetti, si tratta di un fenomeno che è stato centrale nel jazz degli anni Dieci e Venti, e che ha avuto ampi risvolti anche nella diffusione del blues; tuttavia, la sua portata stenta ancora a essere riconosciuta nelle storie generaliste. Per un motivo molto semplice: è un aspetto che entra in collisione con l'immagine del jazz quale musica spontanea e improvvisata, di pura tradizione orale, suonata da musicisti semianalfabeti. Qui invece ne rendiamo conto abbondantemente, dedicando una particolare attenzione agli stock arrangements degli anni Venti. Questi ultimi, in particolare, ci costringono a riconsiderare certe storiche attribuzioni compositive, nonché valutazioni estetiche che hanno fatto accademia: scoprire che Copenhagen di Fletcher Henderson, considerato da Gunther Schuller uno dei capolavori del nascente jazz orchestrale, non sgorgasse dalla penna di Don Redman ma fosse basato su uno spartito acquistato in negozio pone qualche delicato problema filologico ed estetico.

La storiografia si è rivelato un altro dei settori in cui la ricerca più recente ha portato i migliori frutti: per la prima volta sono stati messi sotto la lente dell'analisi i meccanismi profondi della narrazione storica del jazz, a partire dal seminale saggio di Scott DeVeaux (1991) fino agli studi di Bruce Boyd Raeburn (2009b) sulla nascita del concetto di storia del jazz. Un altro fertile terreno è rappresentato dalla nuova storia culturale: in particolare negli anni Novanta, i ricercatori hanno pubblicato una grande quantità di lavori in cui sono state chiarite le connessioni tra gli sviluppi musicali e le forze economiche, sociali e politiche. Allo stesso tempo, sono state prese in considerazione la storia del costume e la storia della critica (GENNARI 2006). Ne è emerso un nuovo e proficuo modello di ricerca storica, talvolta connessa all'analisi musicologica, che ha prodotto opere importanti, come quella di Scott DeVeaux sulla nascita del bebop (DEVEAUX 1997). Per quanto ci è dato sapere, la nostra è la prima storia generale del jazz in grado di accogliere nella narrazione queste nuove conoscenze. L'economia dello spettacolo, le regole del diritto d'autore, i meccanismi di diffusione della musica, il rapporto tra luoghi dell'intrattenimento e forme musicali, il delicato intreccio tra musica e politica (che non è affatto limitato agli anni Cinquanta e Sessanta), il potere dell'industria discografica, la creatività e lo spirito imprenditoriale dei produttori: sono solo alcune delle forze, in apparenza extra-musicali, che invece hanno modellato il corso degli eventi storici, la creazione artistica e la sua evoluzione. In tale ambito, una delle novità di questo volume è l'analisi dei rapporti tra danza e musica. Dopo tutto, per molti anni, e fino alla fine della Seconda guerra mondiale, il jazz è stato - con poche eccezioni - una musica da ballo, destinata tanto a un pubblico danzante quanto all'accompagnamento di ballerini professionisti. Esaminando le interconnessioni fra i due mondi, si scopre che sono stati i passi di danza a stimolare alcune delle più profonde e durevoli innovazioni del linguaggio: un risultato ormai noto agli specialisti ma ancora assente dalle ricostruzioni storiche disponibili in libreria, per quanto approfondite esse siano.

Uno dei grandi meriti del lavoro di Arrigo Polillo consisteva nell'offrire al lettore una selezione ragionata di capolavori: titoli di dischi o brani la cui conoscenza risulta indispensabile per poter davvero apprezzare la grandezza e la varietà del jazz. Molti lavori successivi, presi dal bisogno di comprendere la musica nel suo contesto storico e sociale, hanno ridotto l'attenzione verso la musica, non di rado limitandosi ad analizzare uno o due brani di un certo autore, come se la storia fosse una serie di case studies. Qui si ritorna alla lezione di Polillo, dal momento che l'abbondanza di musica oggi disponibile ci impone di sottolineare quali sono i capolavori, o comunque la grande musica che tiene viva la storia del jazz. Solo così, del resto, si può comprendere come la visione artistica dei grandi musicisti si sia evoluta nel tempo. Per questo motivo, tutti i brani che il lettore trova citati vanno ascoltati e conosciuti; a nostro giudizio essi rappresentano l'espressione più alta e significativa della musica di cui ci stiamo occupando.

Chi scrive ha una formazione musicologico-analitica, pertanto il libro si ripropone di offire la più ampia sintesi delle conoscenze analitiche oggi disponibili sugli autori oggetto della discussione. Ciò nonostante, si tratta di un volume di storia e non di analisi, per cui la sintesi è rimasta l'obiettivo principale, rimandando il lettore alle dovute fonti per gli approfondimenti. Pur con queste limitazioni, in queste pagine si è cercato di intrecciare la narrazione storica con indicazioni stilistiche dettagliate e aggiornate, in grado di rendere conto – in maniera concisa eppure completa – del complesso mondo stilistico di ogni grande musicista. D'altra parte, chi fosse interessato ad approfondire le questioni analitiche e di linguaggio è rimandato al mio studio I segreti del jazz (ZENNI 2007), di cui questo volume rappresenta una sorta di complemento storico.

Nel corso del testo, spesso tra due diversi capitoli, il lettore troverà complessi diagrammi ad albero, fitti di nomi, a volte raggruppati in insiemi e collegati da linee continue o tratteggiate. Quei nomi si riferiscono ai grandi compositori, di ambito principalmente jazzistico, con occasionali sconfinamenti nel mondo della musica classica e del rock. In molte occasioni, l'evoluzione del jazz è raccontata come una genealogia di improvvisatori; anzi, come sostengono autorevoli studiosi, il jazz si è rinnovato attraverso l'opera degli improvvisatori. In fondo, il bebop non sarebbe nato senza Charlie Parker e Dizzy Gillespie, e le creazioni estemporanee di John Coltrane rimangono tra le più influenti della storia. Tutto ciò corrisponde alla realtà. Nondimeno, la mitologia dell'improvvisazione ha sempre oscurato un'altra verità: che il jazz è anche una musica di grandi compositori (e quanti grandi improvvisatori sono stati allo stesso tempo autorevoli compositori: è il caso di Parker, Gillespie, Monk, e dello stesso Coltrane). Inoltre molte della innovazioni del jazz sono nate non dagli improvvisatori, ma dagli uomini di penna, e tra gli uni e gli altri si sono attivati scambi continui tutt'altro che univoci. In certi casi bisogna anche ripensare il concetto di compositore o di improvvisatore: Miles Davis, come si vedrà nelle prossime pagine, è un perfetto esempio di musicista che non può essere ricondotto esclusivamente né all'una né all'altra definizione. In ogni caso, la composizione riveste un ruolo centrale: basti pensare a cosa sarebbe il jazz degli anni Venti senza Don Redman. Inoltre, tutto il grande rinnovamento stilistico del lindy hop (e, quindi, dell'era dello Swing) è opera di compositori e arrangiatori quali Benny Carter e Fletcher Henderson; e Duke Ellington non è stato solo un gigante della composizione, ma ha insegnato a combinare musica scritta e improvvisazione a intere generazioni di musicisti, da Charles Mingus a Muhal Richard Abrams. La stessa nascita del bebop si nutre di intuizioni improvvisative e ragionamenti compositivi, in un processo di influenze circolari. Insomma, esiste uno sviluppo delle innovazioni compositive, che si intreccia alle varie diramazioni dell'arte improvvisativa, e che le storie ufficiali non hanno mai raccontato. L'articolato reticolo di influenze verrà evidenziato nel corso del testo, tuttavia abbiamo voluto offrire al lettore tali diagrammi per meglio illustrare la complessità delle relazioni in gioco. Per via di una scelta precisa, non sono stati aggiunti dei commenti alle immagini, perché ci piace immaginare che il lettore vi torni anche solo sfogliando il libro, alla ricerca di stimoli e provocazioni.

Rimangono da considerare due questioni, una di carattere cronologico e l'altra di carattere geografico. In questi anni, la storiografia jazz – tutta orientata verso gli approfondimenti di tipo culturale – ha trascurato le problematiche relative alla cronologia. Con l'eccezione delle origini del jazz, i modelli narrativi e cronologici tradizionali non sono stati quasi mai oggetto di verifiche. Meno ancora si è ragionato, se non occasionalmente, sulla narrazione per successione di stili: un modello in cui ogni innovazione conquista la scena facendo scomparire la precedente. Questo libro, senza esibirne i meccanismi, affronta la narrazione in un altro modo: è stata infatti bandita ogni coincidenza schematica tra decenni e stili. Con l'eccezione degli anni Venti, nessuna trasformazione stilistica del jazz coincide con una segmentazione del tempo per decenni, peraltro un'invenzione recente della storiografia (ZERUBAVEL, 2005). Anche la narrazione per successione di stili è stata volutamente evitata; si è preferito adottare una prospettiva di tipo sincronico, che esalta la ricchezza verticale degli eventi, la loro sovrapposizione e il loro intrecciarsi. Ci siamo rifatti alla teoria del tempo storico-artistico di George Kubler (1972), e in particolare al concetto di età sistematica (un termine che appare anche nel nostro libro). In altri termini, ci si concentra sulla posizione di un artista o di un'opera all'interno del suo sviluppo evolutivo, a prescindere dalla sua collocazione in un flusso di stili. Ad esempio lo stile musicale del Louis Armstrong degli All Stars nel 1947 può apparire meno aggiornato o evoluto rispetto allo stile di Charlie Parker dello stesso anno; ciò nonostante, nell'evoluzione dell'arte di Armstrong, si colloca in una posizione più avanzata delle sue opere giovanili e presenta caratteristiche diverse. Esse peraltro sono in linea con certe tendenze stilistiche generali dell'epoca, come l'emergere del piccolo gruppo o della forma tema-assolo-tema, che viene condivisa sia dai bopper sia dai revivalisti del dixieland. Collegamenti trasversali che si apprezzano meglio se per un momento si abbandona la narrazione lineare per rivolgersi agli strati sincronici di cui sono costituiti i momenti storici. Una prospettiva che consente anche di non cadere nella trappola del "progresso", secondo cui solo i nuovi stili portano qualcosa di nuovo: negli anni della Seconda guerra mondiale, l'impulso a cercare nuove forme di diffusione della musica, come il concerto a pagamento in un teatro, non nacque dai bopper ma dai revivalisti. E nei primi anni Sessanta, la partecipazione più massiccia alle iniziative politiche per i diritti civili giungeva dai musicisti mainstream più che dai nuovi alfieri del free.

L'ultimo aspetto che ci preme approfondire riguarda la geografia, a cui allude il sottotitolo del libro. In questi anni si è andata consolidando una nuova corrente di studi che considera la storia da una prospettiva globale (DI FIORE E MERIGGI, 2011); al suo interno, la storia attraverso le migrazioni occupa un rilievo peculiare. E quale musica moderna è radicata nella migrazione più del jazz? Si tratta di una musica che ha alle origini un'enorme migrazione coatta di schiavi da un continente all'altro; una musica che nasce in una città, New Orleans, ma poi emigra e si sviluppa altrove; una musica così radicata nel contesto socio-geografico da mutare il suo stesso carattere a seconda che, nella sola Manhattan, la si esegua in una sala di Harlem o in club di downtown; una musica che, oggi, viene suonata da musicisti di tutte le nazionalità e culture. Così è venuto naturale raccontare i percorsi musicali adottando una prospettiva geografica e i criteri della teoria delle migrazioni, intese a ogni livello: dall'esodo dei musicisti di New Orleans a Chicago all'autoesilio di Coleman Hawkins in Europa negli anni Trenta; dal trasferimento di Dizzy Gillespie nel 1943, dai localini informali di Harlem al più professionale Onyx della Cinquantaduesima Strada (un gesto che segna l'avvio ufficiale del bebop), alla diaspora dei musicisti sudafricani in Europa e Stati Uniti. Per aiutare il lettore nella comprensione delle dinamiche geografiche sono state inserite – altra novità rispetto alle storie correnti – numerose cartine e mappe, molte disegnate appositamente per questo libro.

L'enfasi sulla geografia ci consente di sottolineare un'ultima questione di metodo. Per gli storici americani, i più legittimati a raccontare la "loro" musica, il jazz è un fenomeno americano che conosce varie appendici nel mondo. Una visione riduttiva che oggi appare del tutto insostenibile: essa rappresenta un modo di pensare che si va indebolendo, anche se a fatica. Un segnale positivo in questo senso è che proprio dagli Stati Uniti giungono alcune delle riflessioni più significative su una visione più ampia del jazz. In effetti, il jazz è la musica globale per eccellenza. Osserva E. Taylor Atkins (2003, XIII): «Sebbene certamente nato sul suolo statunitense, il jazz è stato al tempo stesso il prodotto e la causa dei processi e delle tendenze di respiro globale del XX secolo: la produzione culturale di massa, l'urbanizzazione, la rivoluzione del tempo libero e il primitivismo». Una musica nazionale e postnazionale, che ha incarnato la nascita della modernità; o meglio ancora: l'accesso alla modernità nei quattro angoli del mondo. Ballare il jazz nel 1927 a Shangai, a Calcutta, a New York o a Berlino voleva dire essere parte della modernità globale.

Accogliere la prospettiva globale vuol dire mettere in discussione uno dei capisaldi della storiografia jazz, secondo cui la filiera delle influenze partono da un centro legittimo – gli Stati Uniti – per raggiungere una o più periferie – il resto del mondo – che imitano e adattano. E dunque più si è influenti e più si è sicuri di essere accolti nella narrazione del jazz. In effetti questo è uno dei criteri adottati da questo libro. Ma cosa succede se un musicista è innovativo e non influenza nessuno? Si chiede Atkins: «Se un musicista di jazz da qualche parte del mondo compie un passo musicale rivoluzionario e lì non ci sono americani ad ascoltarlo, conta come innovazione jazz? Θ chiaro che il sassofonista Joe Harriott (Regno Unito), il chitarrista Takayanagi Masayuki (Giappone) e il baritonista Christopher Ngcukana (Sud Africa), per esempio, hanno influenzato i loro colleghi in modo significativo; ma le asimmetrie nella distribuzione internazionale delle registrazioni hanno garantito che la loro scarna produzione non raggiungesse praticamente mai le coste statunitensi. Se la loro influenza è rimasta locale non conta come influenza? Se non hanno influenzato artisti americani la loro esclusione dalla cronaca del jazz è giustificata?» (2003, XXII-XXIII). Dunque è necessario ripensare il peso e la nozione stessa di "influenza".

Il primo passo non può che essere una critica delle genealogie stilistiche: anche nella storia del jazz bisognerebbe abbandonare lo pseudo-darwinismo dell'evoluzione lineare, che conduce da un solista all'altro, in una catena progressiva di influenze, e adottare la prospettiva, direbbero Stephen Jay Gould e Niles Eldredge, di un equilibrio punteggiato, in cui cespugli evolutivi conducono in direzioni diverse, peraltro non sempre convergenti o lineari. Alcune di queste direzioni, poi, si esauriscono e si estinguono (si pensi al blues da vaudeville). Θ la prospettiva qui adottata, sulla scorta delle indicazioni di Lawrence Gushee (2001), per raccontare le trasformazioni stilistiche dei grandi solisti a cavallo degli anni Venti e Trenta.

In una prospettiva globale, il concetto di influenza unidirezionale rivela tutta la sua inadeguatezza. Atkins suggerisce di smettere di pensare al jazz come a una musica che conserva le sue caratteristiche pur assorbendo influenze dall'esterno, che accoglie altre musiche senza perdere di identità. Rovesciando lo schema, scopriamo delle realtà locali che sono tanto adattive quanto resistenti all'assorbimento del jazz. Il caso del jazz sudafricano è in questo senso esemplare: una tradizione autonoma, che ha assimilato il jazz trasformandosi e al tempo stesso conservando un nocciolo della propria storia, anche in una condizione di diaspora. La storia del jazz in Brasile è un altro caso di tradizione nella quale il jazz è davvero solo un ingrediente di una realtà musicale complessa, che si tratti di Antτnio Carlos Jobim o di Egberto Gismonti.

Si può andare oltre lo schema suggerito da Atkins: una storia del jazz realmente globale non solo deve rendere conto delle realtà locali autonome, ma può connettere influenze e movimenti che si intrecciano e si sviluppano a prescindere dal jazz statunitense: si pensi ancora al jazz sudafricano e alla diaspora verso l'Inghilterra — che non passa dagli Stati Uniti —, alle scuole nazionali dell'improvvisazione radicale europea negli anni Settanta, al jazz sovietico a cavallo del 1989. Per non citare la realtà italiana, di cui conosciamo bene la policroma originalità.

Storia del jazz. Una prospettiva globale, pur riconoscendo l'impossibilità di scrivere una storia globale del jazz, raccoglie questa sfida e prova ad assumerne la prospettiva. Inserita nel contesto più ampio possibile, la vicenda della musica più originale del Novecento ci appare non solo incomparabilmente più ricca di capolavori, ma anche più aderente al mondo così come lo conosciamo.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 15

Capitolo I

BAMBOULA! SCHIAVI AFRICANI, MUSICHE AMERICANE


Storie di culture migranti

La specie umana è migrante per definizione. A distinguerci da altre specie animali è il nostro essere in costante movimento: «Le migrazioni», ci ricorda lo storico Patrick Manning (2004, 6), «che siano su distanze (o durate) brevi o lunghe, sono centrali per l'esperienza umana». Ci muoviamo individualmente, in piccoli gruppi o con intere popolazioni. Traslochiamo all'interno della nostra comunità; o ne usciamo e torniamo per stabilire contatti commerciali e culturali; ci spostiamo per appropriarci di terre e risorse; oppure siamo costretti a cercare rifugio altrove sotto la pressione di guerre, calamità, violenze. In ogni caso la migrazione comporta tra le comunità che si incontrano una condivisione di abitudini, costumi, lingue. Cosa ci guadagna l'umanità a muoversi tanto? «L'apprendimento è la caratteristica più specifica della migrazione umana ed è una delle principali fonti del cambiamento e dello sviluppo nella vita degli esseri umani» (4, il corsivo è di chi scrive).

La conoscenza sorge dalla migrazione: gli esseri umani, adattandosi a qualsiasi ecosistema, utilizzano gli spostamenti per accrescere il sapere. Così facendo trasferiamo culture, lingue, beni. E, mescolandoci ad abitanti di parti diverse del pianeta, produciamo nuovi stili di vita, sempre porosi e vitali finché sono alimentati da altre persone in movimento. E oggi più che mai, in un mondo rimpicciolito e sovraffollato, questo rimescolamento sta subendo una vertiginosa accelerazione.

Non tutte le migrazioni sono uguali e non tutte producono lo stesso effetto. Manning, studiando le specie animali, ha individuato quattro differenti tipologie:

1) le migrazioni intracomunitarie, in cui gli individui si muovono all'interno della comunità, con lo scopo di variare il pool genetico attraverso l'accoppiamento: è un comportamento comune a tutte le specie;

2) la colonizzazione, in cui gli individui si spostano per ampliare la propria diffusione geografica, e replicano altrove la stessa comunità di origine (mediante l'occupazione di spazi vuoti o espellendo altri individui): anch'essa è comune a tutte le specie;

3) la migrazione di un'intera comunità: un fatto raro nella specie umana (un esempio è la transumanza), ma non infrequente in altre specie animali;

4) la migrazione inter-comunitaria, in cui gruppi o individui selezionati si spostano — di propria volontà o forzatamente — per unirsi a un'altra comunità: questo comportamento è specificamente umano e raro in altre specie, è attraverso le migrazioni inter-comunitarie che si attivano i processi più influenti per lo sviluppo delle culture umane.

Nella sua storia, Homo Sapiens non è stato quasi mai stanziale. Θ apparso in Africa orientale circa 200.000-150.000 anni fa, e si è messo in moto circa 120.000 anni fa. Da allora non si è più fermato: è uscito dall'Africa e, attraverso ondate migratorie successive, ha prima popolato il continente asiatico, nel giro di 40.000 anni, e poi quello europeo. Infine, negli ultimi 20.000 anni (e forse prima ancora), sempre attraverso ondate successive, è sceso dall'Asia nordorientale fin giù nelle Americhe. Θ certo che queste comunità hanno sviluppato e trasportato lingue, culture materiali e stili espressivi, e tra questi la musica. Quella di Homo Sapiens è stata la prima vera colonizzazione, nel senso indicato da Manning (Fig. 1).

Le migrazioni producono conseguenze che sono riassumibili in tre processi. Il primo è la dispersione, che è quanto avvenuto con l'uscita dall'Africa circa 90.000 anni fa. Il secondo è la differenziazione: le comunità lontane e isolate tendono a distinguersi per lingua e culture. Questi due processi sono bilanciati dall'interazione, che come abbiamo visto è una costante di tutta la storia umana. «La dispersione, la differenziazione e l'interazione delle popolazioni umane», spiega Manning, «si sono combinate per creare innovazioni che hanno generato una notevole evoluzione sociale, la quale ha proceduto più rapidamente dell'evoluzione biologica. Lo sviluppo continuo della società umana determina la convergenza» (MANNING 2004, 12), ovvero il processo che stiamo vivendo nel mondo contemporaneo.

L'umanità ha vissuto poi varie fasi di differenziazione, la più traumatica e importante delle quali è conseguenza di un evento catastrofico: la gigantesca eruzione del vulcano Toba, a nord di Sumatra, che 74.000 anni fa ha interrotto la continuità culturale tra le comunità del Sudest asiatico e quelle del subcontinente indiano, che furono annientate dal disastro ambientale. Θ da questo "collo di bottiglia" che hanno avuto origine le popolazioni asiatiche.

Negli anni Sessanta, sulla base di prove statistiche relative ai tratti dei canti popolari, Alan Lomax (1968) aveva intuito che esiste un sorprendente complesso afro-indonesiano-sudamericano che condivide certi tratti musicali. Più di recente, sulla linea delle anticipatrici suggestioni di Marcello Piras (1997), il musicologo Victor Grauer, allievo di Lomax, ha svolto una sofisticata e rivoluzionaria ricerca che – incrociando archeologia, genetica, linguistica ed etno-musicologia – consente di identificare le sopravvivenze africane nelle musiche del globo (GRAUER 2011). Sono specifici stili polifonici (identificati attraverso vari aspetti: dal tipo di incastri all'emissione vocale, dai ritmi agli strumenti), riconducibili alla cultura musicale dei pigmei e dei khoisan: ovvero di quelle che la genetica ha riconosciuto come le popolazioni più arcaiche del pianeta. Questi tratti sono ancora rintracciabili in zone specifiche, di regola isolate, del Sudest asiatico e del continente subindiano, ma anche in Indonesia e nel Caucaso, nonché in zone isolate dell'Europa. Tratti che sono filtrati anche nella musica colta europea, e si possono avvertire con chiarezza in alcuni repertori, di epoca medievale, ad esempio.

Non è possibile affrontare qui una materia tanto vasta, e che ha avuto radicali conseguenze nella storia della musica. Ma queste poche osservazioni sono sufficienti a ricordarci che in ampie zone del mondo sopravvivono tracce di antiche culture musicali africane, su cui in seguito si sono stratificati altri stili espressivi, inclusi quelli provenienti dalle migrazioni asiatiche e da successive influenze africane. Tra queste, si annoverano quelle – di varia natura etnica, rituale e musicale – che hanno interessato il Mediterraneo nell'antichità.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 17

Patting Juba: la musica degli schiavi

La tratta transatlantica degli schiavi verso le Americhe va inquadrata in questo complesso fenomeno di convergenze globali e locali. La dispersione migratoria arcaica – risalente a 74.000 anni fa – e la differenziazione, avvenuta nei millenni a seguire, hanno condotto a un radicale allontanamento delle culture europee da quelle africane. Per cause che sono insieme geografiche, economiche e culturali. In realtà, le comunicazioni tra i due continenti, soprattutto attraverso il Mediterraneo, non si sono mai interrotte, e hanno favorito – fin dall'antichità – la diffusione di fenomeni rituali, stili di danza e pratiche musicali del tutto peculiari. Tuttavia, questi contatti inter-comunitari, per quanto fitti e continui, se analizzati nel lungo periodo, non mostrano alterazioni sostanziali nelle tendenze generali delle differenti aree linguistiche e culturali. Questo almeno fino al XV e XVI secolo, ovvero fino a quando l'esplorazione dell'Africa da parte dei portoghesi e l'avvio della tratta transatlantica di schiavi non hanno messo in moto un gigantesco processo di convergenza, avvenuto però su un continente terzo: il continente americano. In conseguenza del commercio degli schiavi (una migrazione inter-comunitaria forzata), mondi diversi ma con arcaici progenitori in comune si sono ritrovati al centro di uno dei più vasti processi di scambio culturale della storia (Fig. 2).

Come sappiamo, il commercio degli schiavi ha investito l'intera costa atlantica del continente africano, generando sulle corrispondenti sponde americane – tra il XVI e il XX secolo – forme culturali del tutto nuove, che oggi permeano numerosi aspetti della nostra vita globale. Il jazz è una di queste: è un prodotto della convergenza di culture africane ed europee nelle colonie nordamericane, in prima battuta, e in tutti gli Stati Uniti successivamente. Tuttavia, il commercio degli schiavi ha interessato l'America del Nord solo in minima parte. Si calcola che, tra il XVI e il XIX secolo, sono stati catturati circa venti milioni di schiavi africani: di questi, quasi undici milioni sopravvissero alla cattività in Africa o al terribile passaggio di mezzo, il viaggio nelle navi schiaviste. Di questa enorme quantità di esseri umani, il 44% fu deportato verso i Caraibi, il 43% verso il Brasile, il 7% nel resto dell'America del Sud, di lingua spagnola, e solo il 4% nell'America del Nord. Infine, un ultimo 2% è relativo alla tratta intra-africana (LINDSAY 2011, 14). Ovviamente il dato quantitativo conta, ma solo fino a un certo punto, dal momento che il jazz è nato in un continente dove c'erano meno schiavi rispetto al Brasile, ma dove vi era una variabilità culturale assai più ricca e stratificata. D'altra parte la forza di una cultura non si manifesta sempre nei numeri. Come osserva Peter Stearns (2005,4), l'Occidente ha non di rado subìto influenze profonde da culture minoritarie o più deboli, e i casi delle musiche nere nel Mediterraneo rinascimentale e del jazz negli Stati Uniti e in Europa sono tra i più clamorosi e pervasivi su larga scala.


Molto spesso le storie del jazz trattano la schiavitù in Nord America come un fenomeno unitario; essa va invece osservata da due diverse angolazioni geografiche. Da un lato troviamo le colonie inglesi – poi divenute indipendenti, nel 1776 –, quali Virginia, North e South Carolina, Georgia: esse appartengono a un complesso culturale anglo-europeo, sono protestanti e vi si coltivava tabacco, riso e indaco (Fig. 3). Dall'altro vi è New Orleans, e in generale la Louisiana, appartenente a un complesso culturale profondamente diverso: cattolico e caraibico. La variegata vicenda storica di New Orleans – colonia francese poi divenuta spagnola, e infine americana – riveste un ruolo cruciale se si vuole comprendere le caratteristiche musicali del jazz, nonché la sua unicità rispetto alle altre musiche nere dell'area caraibica e sudamericana. Bisogna considerare due fasi della schiavitù: quella dell'importazione di schiavi attraverso i mercanti portoghesi, spagnoli, olandesi, francesi, inglesi che si rifornivano dalle coste dell'Africa occidentale, e quella – successiva alla fine del XVIII secolo – di una tratta tutta interna agli Stati Uniti. Con l'eccezione, ancora una volta, di New Orleans, come vedremo.

I primi schiavi africani arrivarono in Virginia nel 1619, ma fino al 1800 le descrizioni di attività musicali rimangono rare: gli africani erano considerati mera forza lavoro e nessuno era interessato al loro modo di esprimersi. Occasionalmente qualcuno notava gli strumenti che gli schiavi avevano portato dall'Africa: la prima descrizione di un banjo in Virginia risale già al 1620-21. Non si tratta di un caso isolato: i capitani delle navi permettevano ai prigionieri di portare con sé qualche strumento per poi farli danzare e cantare forzatamente durante il terribile attraversamento dell'Atlantico. Ecco come fiorirono testimonianze di balafon, corni, flauti, banjo. Sono tutti strumenti melodici, poco ingombranti e facili da trasportare. I tamburi in effetti erano più rari. C'è una ragione di carattere etnico: i primi schiavi venivano da aree dell'Africa occidentale – come il Senegal, il Gambia e il Mali –, sostanzialmente estranee alla cultura del tamburo. Ma c'erano anche ragioni di sicurezza: i tamburi erano usati nelle piantagioni per inviare segnali in codice, ottenuti semplificando le curve melodiche delle lingue tonali bantu. Quando i padroni se ne accorsero, ne proibirono tassativamente l'uso, che rimase così confinato a circostanze episodiche e clandestine. In questo modo, nel corso delle numerose occasioni pubbliche in cui gli schiavi danzavano, il ruolo dell'accompagnamento ritmico fu assunto dal banjo, dal battito delle mani e dalla sua estensione più complessa, il patting juba. Questa forma di accompagnamento, di cui abbiamo testimonianze fin dagli anni Venti dell'Ottocento, «è stata descritta come battere le mani sulle ginocchia, quindi batterle insieme, quindi battersi la spalla destra con una mano e la sinistra con l'altra – il tutto mentre si canta e si porta il tempo con i piedi» (EPSTEIN 2005, 38). In un'altra variante, il patting juba veniva eseguito con due bacchette, percuotendo il pavimento, anche insieme ad altri strumenti. Conoscendo i ritmi della musica africana occidentale, possiamo facilmente immaginare quanto il patting juba fosse complesso, ricco di accenti contrametrici (cioè in contrasto con la pulsazione di base), e oggetto di incessanti variazioni estemporanee: nelle colonie inglesi, quella cultura ritmica, censurata sul tamburo, si è dovuta rifunzionalizzare su altri strumenti nonché sul corpo stesso, come del resto avveniva anche in Africa.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 31

Come abbiamo visto, il ballo era il passatempo preferito dei cittadini di New Orleans. Si ballava ovunque, nelle taverne, per le strade, nei mercati e nelle feste private: «Danzano in città, danzano in campagna, danzano ovunque», scrisse sconcertato nel 1803 un rifugiato da Saint-Domingue (cit. in CHARTERS 2008, 17). Nelle sale pubbliche, che nel 1805 erano quindici, si ballava dalle 19 alla mattina. La musica la fornivano i neri, anche e soprattutto ai balli per soli bianchi. Ed erano neri i percussionisti con tamburello che, durante i balli, «chiamavano» i passi con uno stile vocale enfatico e declamatorio. In queste circostanze non c'era posto per i tamburi: «Gli ensemble di schiavi che suonavano alle feste nei palazzi delle cittadine o nelle piantagioni vicino a New Orleans», ci ricorda Eileen Southern (1997, 142), «erano solitamente piccoli complessi, talvolta solo violino, flauto e piffero, o magari due violini, flauto, triangolo e tamburello. Non era insolito che la musica da ballo fosse offerta da un singolo violinista» (142). All'inizio questi luoghi erano aperti solo ai bianchi, ma presto la domenica fu riservata ai neri. Si diffusero anche i famosi «quadroon balls», dove l'ingresso era riservato a uomini bianchi e donne di colore libere (quadroon, cioè con un quarto di sangue nero). In questi raduni, la danza era solo il preludio a divertimenti sessuali; feste del genere erano in voga anche a Saint-Domingue e a Cuba. Lesaltazione per il ballo andò aumentando con gli anni: «Nel 1840 c'erano più di ottanta sale da ballo che offrivano la possibilità di danzare, anche solo occasionalmente» (CHARTERS 2008, 18); balli pubblici venivano organizzati ogni giorno della settimana, così gli organici musicali si fecero più ricchi. «Occasionalmente la sala da ballo faceva ricorso a bande militari locali per eseguire valzer per i ballerini, ma col maggiore afflusso di musicisti in città, una sala da ballo che voleva fregiarsi di un grande prestigio avrebbe dovuto esibire un'orchestra di almeno quindici elementi che suonava orchestrazioni standard». Le gente ballava valzer, polke, quadriglie, mazurke, ma anche danze con elementi neri, tra cui la chica o la danza cubana, nelle quali una certa, nuova eccitazione era prodotta dai passi e dai ritmi sincopati.

Non c'è dubbio però che i balli pubblici più straordinari fossero quelli degli schiavi, tra i quali spiccavano quelli che si tenevano la domenica a Place Congo. Balli del genere, spesso in cerchio, sono testimoniati a New Orleans da prima del 1786. Questi raduni non erano un'esclusiva della città: già nel Settecento, negli stati del Nord, era permesso agli schiavi di divertirsi in massa durante certe festività, come il Pinker Festival ad Albany (New York) o i giubilei di Philadelphia. Ma quanto accadeva a New Orleans, a Place Congo, riveste un particolare interesse. La descrizione più importante fu fatta dall'architetto Benjamin Latrobe nel 1819; secondo quanto racconta, nel corso di queste domeniche, si arrivavano a contare fino a cinque o seicento danzatori, disposti in gruppi circolari, e due o tremila persone che assistevano. Gli schiavi si raggruppavano per etnie: Kongo, Mandingo, Ibo, etc. «Ciascun gruppo aveva la sua orchestra, che di solito comprendeva tamburi di varie misure (fatti con ceppi di eucalipto che erano stati svuotati e ricoperti con pelli di pecora), banjo (fatti con zucche della Louisiana) e sonagli (ottenuti da ossa mandibolari)» (SOUTHERN 1997, 143). Oltre a una descrizione dettagliata delle danze, che duravano fino a sera sotto l'occhio di polizia e sorveglianti, Latrobe ci ha lasciato disegni degli strumenti, tamburi e cordofoni. Come a Saint-Domingue, «entrambe le estremità del dualismo musicale africano in Louisiana — il banjo del Senegambia e i tamburi del Kongo — facevano musica insieme quel giorno del 1819» (SUBLETTE 2008, 275). I canti erano di tipo bantu, con brevi frasi a botta e risposta tra solisti e coro su un tappeto percussivo. I balli si svolgevano in coppia: iniziavano lentamente e raggiungevano tempi velocissimi. In altri casi si eseguivano passi strascicati, con minimi movimenti del corpo e un fazzoletto in mano. Si trattava della ben nota bamboula, di calinda, di coujaille, di pilé chactas. Un altro testimone, H.C. Knight, scrisse nello stesso 1819 che gli schiavi africani di New Orleans «scuotono la città con le loro danze Congo». Il termine «scuotere» viene reso con il verbo «rock», e come nota Sublette (276) questa è forse la prima apparizione della parola rock associata alla musica.

Agli spettatori occidentali sfuggiva il significato profondo di quelle danze. Latrobe disegna tre tipi diversi di tamburi, i Conga e Ogororo degli Yoruba e il tamburo a fessura del Dahomey: «Questi tamburi erano usati in rituali voudu pubblici e privati nel XIX secolo a New Orleans da adepti di Haiti e della Crescent City» (TURNER 2009, 20). In altre parole, Place Congo era un luogo di culto pubblico di quel voudu portato dai profughi di Saint-Domigue, dove si vendevano anche amuleti chiamati gris-gris (un termine Mande). Religione solidale, basata sull'assistenza e la resistenza, il voudu venne praticato a New Orleans per tutto l'Ottocento. Ma nel 1817, il consiglio comunale ne proibì la pratica privata: di conseguenza i riti di Congo Square (come ormai era nota la piazza) divennero un gigantesco atto finalizzato al fare musica, svuotato dei significati religiosi. Espressione della natura caraibica di New Orleans nonché della resistenza fisica e culturale degli schiavi, le danze di Congo Square declinarono gradualmente quando la gestione della città iniziò a farsi più puritana, per cessare definitivamente intorno al 1835. Il voudu continuò a essere praticato clandestinamente a New Orleans, e rimase a lungo un tratto peculiare della cultura cittadina, legato a figure divenute leggendarie, come la sacerdotessa Marie Lavieau (1801 ca-1881).

Un'altra delle istituzioni fondamentali della città fu il teatro d'opera. La prima opera fu rappresentata nel 1796, e nel 1824 c'erano ben due teatri che rappresentavano lavori in francese, italiano e inglese, compresi Le nozze di Figaro di Mozart, Il Barbiere di Siviglia di Rossini, Der Freischόtz di Weber e Robert le Diable di Meyerbeer. La città – cosa allora rarissima – aveva una sua compagnia stabile, una delle migliori degli Stati Uniti, diretta dall'impresario John Davis presso il Théβtre d'Orléans; in essa lavoravano anche attori, strumentisti e ballerini francesi. Il teatro aveva annessa una sala da ballo, e a volte con lo stesso biglietto dell'opera si poteva partecipare a un ballo dopo lo spettacolo. «Oltre ad attrarre spettatori a teatro, il ballo pubblico forniva lavoro ai membri dell'orchestra, che così elevarono il livello generale del fare musica, abituarono le orecchie dei ballerini a una musica più elegante, e portarono il pubblico a familiarizzare con la musica da ballo di quelle stesse opere che vedeva sul palcoscenico» (CRAWFORD 2001, 192). Questo ed altri teatri, come il St. Charles, dove passavano le compagnie straniere che giravano da New York a Cuba, accoglievano il pubblico più diverso, dall'aristocratico al lavoratore portuale, compresi i neri – liberi, o schiavi che avevano il permesso dai padroni –, opportunamente disposti in settori separati. Il divertimento era una conseguenza indiretta dell'espansione economica della città, e del sopraggiungere di immigrati dall'Europa. Negli anni Quaranta e Cinquanta sbarcarono ondate di irlandesi che scappavano dalla fame; e poi tedeschi, che fuggivano dalle fallite rivoluzioni e perpetuavano in città una loro tradizione di musica da strada. Alla fine degli anni Ottanta giunsero infine moltissimi italiani, soprattutto siciliani che scappavano dalla povertà contadina: nel 1890 erano 30.000, su una popolazione di 242.000 persone. Per questi disperati la Crescent City non era il risultato di una scelta: la sola esistenza del piroscafo Montebello, che collegava Palermo a New Orleans, era motivo sufficiente per imbarcarsi verso una meta sconosciuta. Gli italiani, considerati appena al di sopra dei neri, vittime di una feroce discriminazione che scatenò violenze e linciaggi (come quello, terribile, del 1890), si trovarono nondimeno ad assumere un ruolo fondamentale nella nascita del jazz.

Nel mosaico etnico della città non va trascurata la minoranza dei neri liberi, che nell'Ottocento fu protagonista di importanti attività in campo classico, come la Negro Philharmonic Society, un'orchestra diretta negli anni Trenta da Jacques Constatin Deburque e Richard Lambert, che giunse ad avere fino a cento elementi, in qualche caso anche bianchi. Da essa emerse l'importante compositore e violinista creolo Edmond Dédé (1827-1901), protagonista di una significativa carriera a Parigi, la cui musica porta il profumo della ricchezza culturale di New Orleans.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 400

Capitolo XII

MILESTONES. IL CIRCOLO MODALE


Una nuova teoria della musica

Una delle più profonde trasformazioni del linguaggio avvenute nel corso degli anni Cinquanta ruota intorno a un personaggio a lungo ignorato dalle storie del jazz: George Russell (1923-2009), il maggiore teorico che il jazz abbia espresso e uno dei grandi intellettuali e compositori della musica americana. Scampato alla tubercolosi, che non risparmiò il suo coetaneo Fats Navarro, Russell elaborò, nel corso della lunga convalescenza, un sistema teorico influenzato dagli studi con Stefan Wolpe. Ne ricavò un volume, The Lydian Chromatic Concept of Tonal Organization, che all'inizio degli anni Cinquanta circolò tra i musicisti in edizione privata e più avanti conobbe varie edizioni. Quella del 1959, in periodi successivi, conobbe una certa diffusione. In realtà, prima della edizione ampliata del 2004, il libro — circondato da un alone leggendario — non è mai andato oltre una cerchia iniziatica. Pur da una posizione marginale, George Russell è riuscito a fondare una nuova teoria che, attraverso una serie di complessi passaggi storici, ha cambiato il corso della musica.

Nel jazz non esisteva una procedura formalizzata per studiare l'improvvisazione o la composizione. A parte il celebre metodo di Gene Krupa per i batteristi, in genere i libri a destinazione didattica, come quello stilato da Teddy Wilson per i pianisti, si basavano sull'esempio diretto, con trascrizioni da assimilare ed emulare. Tutti i jazzisti professionisti hanno studiato in modo formale la tecnica strumentale, ma il sapere, le regole e i trucchi dell'improvvisazione venivano appresi sul campo: si imitavano i musicisti scelti a modello, si improvvisava sui dischi e si affrontavano in jam session improvvisatori più esperti. Tutti conoscevano le regole dell'armonia, ma le peculiarità del jazz venivano apprese facendo pratica improvvisativa. Ovvio che compositori, così come pianisti o solisti che suonavano anche il pianoforte (Bix Beiderbecke, Coleman Hawkins o Dizzy Gillespie), ne avevano una consapevolezza superiore. Dalla metà degli anni Trenta si diffuse l'abitudine a siglare gli accordi con simboli di lettere e numeri, affini a quelle in uso nella musica barocca, da cui i solisti ricavavano le possibili note con cui improvvisare. Ma non esisteva un lessico teorico di riferimento e le uniche scale formalizzate erano la maggiore e la minore, modificate e arricchite nel corso della pratica improvvisativa. Di fatto i jazzisti lavoravano sulla base di una teoria implicita, le cui regole erano ben note ma non dette, se non occasionalmente e in modo non sistematico. Il lavoro di Russell trasformò questa prassi diffusa in teoria esplicita; fu in pratica una fondamentale sistematizzazione di lessico e regole, gettando così le basi di tutta la didattica jazz.

La complessa articolazione del Lydian Chromatic Concept può essere qui riassunta solo in poche parole. Russell riconosce che l'improvvisazione si fonda su una serie di scale che aderiscono agli accordi di base secondo varie gradazioni di consonanza; su tutte, la scala lidia, considerata la più consonante in virtù della quarta eccedente presente negli armonici naturali. Il sistema poi accoglie scale come l'esatonale e la ottatonica (o diminuita, come si dice nel jazz). Quest'ultima era da tempo in uso nella musica contemporanea (Stravinskij, Debussy, Messiaen), ma nel jazz se ne colgono tracce occasionali solo dal tardo Swing. Di queste scale, a cui Russell attribuisce una singolare nomenclatura, viene studiata la natura intervallare e la loro relazione con gli accordi, i quali a loro volta sono inseriti in un sistema che ne valuta la «gravità» armonica. In altre parole, si può analizzare un giro armonico in due modi: come una serie di centri tonali collegati da accordi secondari o come un assieme di accordi secondari che ruotano intorno a un unico, generale centro tonale. In questo modo Russell offre all'improvvisatore un metodo per approfondire armonicamente gli accordi di base o, viceversa, per liberarsene.

Nel corso del libro viene anche introdotta la distinzione, poi diventata d'uso comune, tra improvvisazione verticale e orizzontale: la prima è tipica dello stile di Coleman Hawkins e John Coltrane, che considerano ogni accordo un centro gravitazionale da esplorare; la seconda caratterizza lo stile di Lester Young e Ornette Coleman, che improvvisano melodie riferite a pochi centri tonali ignorando gli accordi intermedi. Fin dai primi anni Cinquanta, Russell invitava il musicista anche a scegliere questi centri tonali «secondo il proprio giudizio estetico», dunque ad agire in totale libertà, fino a ignorare le armonie e pensare in termini puramente cromatici (di qui il termine chromatic nel titolo del trattato). Un cromatismo però ragionato, perché attraverso lo schema delle gravità intervallari, evidentemente debitore di Hindemith, il compositore o l'improvvisatore possono graduare pesi, consonanze e dissonanze di ogni intervallo rispetto a una tonica immaginaria. Un modo di procedere che anticipa sulla carta quanto poi realizzerà, per via personale e naif, Ornette Coleman. La flessibilità del metodo consente a Russell di impegnarsi anche nella composizione, nel contrappunto e perfino nell'analisi di altri generi musicali (l'edizione del 1959 si concentra sulle prime battute del Concerto per violino di Alban Berg).

All'inizio Russell ebbe modo di applicare le sue idee solo occasionalmente. Ne troviamo traccia in Cubano Be Cubano Bop con Gillespie, A Bird in Igor's Yard di Buddy De Franco e nel meno noto Similau per Artie Shaw. Agli inizi degli anni Cinquanta Russell, che lavorava come commesso, viene invitato da amici musicisti a presentare dei suoi pezzi per le loro sedute di registrazione. Quella del 1951 a nome di Lee Konitz – con Miles Davis tra le fila degli strumentisti invitati – documenta il suo primo capolavoro, Ezz-Thetic, un sorprendente mascheramento di Love for Sale che procede a grande velocità tra linee bop, salti sghembi e singulti dissonanti. Θ un fraseggio anomalo, da cui poi discende lo stile improvvisativo di Eric Dolphy, che di Russell sarà anni dopo allievo e collaboratore. La pubblicazione, nel 1953, del Lydian Chromatic Concept sollecita l'attenzione del mondo del jazz: a leggerlo e studiarlo, oltre a Konitz e Davis, ci sono Art Farmer, il notevole e sottovalutato sax alto Hal McKusick, il batterista Paul Motian e poi Sonny Rollins (che registrò una versione di Ezz-Thetic con Max Roach) e ancor più John Coltrane, che nel 1957 fu chiamato da Russell per il concept album NEW YORK, NY.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 421

Capitolo XIII

THIS IS OUR MUSIC. I MOVIMENTI DEGLI ANNI SESSANTA


Una new thing: Ornette Coleman

Tra i grandi rivolgimenti stilistici della fine degli anni Cinquanta, l'irruzione di Ornette Coleman (1930) fu uno degli eventi più traumatici per la piccola comunità jazzistica: il segno che la musica stava prendendo una direzione del tutto incontrollata. Texano, un passato in gruppi di rhythm&blues e di bebop, Coleman crebbe in California. Tuttavia, fino al 1958 non abbiamo testimonianze del suo stile, il che rende la sua vicenda affine a quella di Lester Young. Fu la Contemporary a fargli incidere due dischi dai titoli roboanti, con la precisa intenzione di fare di quel sassofonista naif ed eccentrico un caso: SOMETHING ELSE!!! (1958), in quintetto parkeriano con sax alto e tromba, e TOMORROW IS THE QUESTION (1959), con quello che sarà il suo quartetto stabile, formato da musicisti tutti sconosciuti e poco più che ventenni: Don Cherry alla cornetta tascabile (pocket trumpet), Charlie Haden al contrabbasso, Billy Higgins alla batteria. I passi successivi sono noti. Il trasferimento di Coleman da Los Angeles a New York, nel 1959, oggi ci appare come uno dei sommovimenti più importanti della storia del jazz. L'ingaggio al Five Spot, un minuscolo club gestito dai fratelli Termini nell'East Village, mise a soqquadro la comunità jazzistica – stampa, musicisti, pubblico – scatenando polemiche tra chi riteneva Coleman un volgare bluff e chi vide in lui un innovatore che accendeva grandi speranze. Tra gli sponsor di Coleman c'erano George Russell, Gunther Schuller e John Lewis, il quale gli procurò un decisivo contratto con la Atlantic (e la pubblicazione a stampa di alcune composizioni). La casa discografica di Ertegun produrrà i suoi dischi più importanti, continuando sulla scia dei titoli sensazionalistici: THE SHAPE OF JAZZ TO COME, CHANGE OF THE CENTURY, THIS IS OUR MUSIC (in cui Higgins è definitivamente sostituito da Ed Blackwell), FREE JAZZ, ORNETTE ON TENOR (con Scott LaFaro al posto di Haden).

A un pubblico abituato all'hard bop o alla leggibile trasparenza di Stan Getz, la musica di Ornette Coleman dovette apparire sguaiata e sgangherata. In realtà Coleman stava riportando drammaticamente sulla scena del jazz la forza del blues del Sudovest, la libertà di intonazione e l'irregolarità del fraseggio vocale della grande tradizione del Texas. Ed è sorprendente osservare come vent'anni dopo l'arrivo a New York di Count Basie dal Missouri o di Charlie Christian dall'Oklahoma, il mondo del jazz avesse dimenticato cosa significasse quella tradizione, la sua autonomia dalle regole di quadratura e intonazione accademica. Com'è possibile che musicisti aperti come Miles Davis e Charles Mingus, o critici di vasta esperienza, non fossero in grado di apprezzare le novità di Coleman? Il problema è che il mondo del jazz, nonostante il successo del soul jazz, aveva perso il contatto con le sue vere radici nel blues rurale. Una perdita di memoria che può essere ricondotta alla mancata disponibilità di registrazione di quel blues più arcaico. In effetti nessuno conosceva i vecchi 78giri di blues rurale prodotti durante la Depressione. Il blues revival era di lì a venire, ed è solo dal 1961 che le prime ristampe su LP dei vecchi dischi di Robert Johnson e Charley Patton riportarono in circolo il blues delle origini, dall'intonazione non temperata, svincolato dal metro e dalle canoniche dodici misure. Ma il distacco da quella tradizione è anche l'effetto dell'estremo formalismo del jazz degli anni Cinquanta: nonostante il successo di sax tenori viscerali come Illinois Jacquet o Eddie "Lockjaw" Davis, il jazz post-bop aveva preso a modello l'enunciazione precisa di Clifford Brown e Oscar Peterson; portava in trionfo l'eleganza di Dave Brubeck e l'aerea aristocrazia di Stan Getz; esaltava la bellezza luminosa della front line di Horace Silver; ammirava la logica solida e esuberante di Sonny Rollins e la sobrietà calda e incisiva di Miles Davis. E la musica era sempre e comunque chiusa in strutture prefissate, non elastiche, anche se, in Duke Ellington o George Russell, di estrema complessità. La libertà di un Jimmy Giuffre era esperienza troppo appartata per fare scuola, e il metodo realmente liberatorio di Charles Mingus si esprimeva in un linguaggio troppo complesso per essere adottato su larga scala.

La musica di Coleman nasceva dalla convergenza di due correnti stilistiche: il blues più arcaicizzante e il bebop. Il quartetto seguiva il sound del quintetto di Parker ma svuotato dell'ingombro pianistico. L'assenza dello strumento armonico non serviva, come in Mulligan, a definire lo spazio contrappuntistico dei fiati, ma a liberare sax e tromba da qualsiasi vincolo di intonazione temperata. Nei primi dischi californiani di Coleman l'eredità del bebop si coglie nei temi all'unisono (o qui e lì armonizzati), nell'arco discorsivo, nell'irregolarità degli accenti di When Will the Blues Leave?; ma poi spuntano delle anomalie: le improvvise deviazioni di Tears Inside e Turnaround, le frasi che anticipano o eccedono la quadratura dei blues The Disguise e Giggin'. Ma tutto suona naturale, tenuto insieme da una forza lirica luminosa – diretta, cantabile, senza mediazioni – che ha le cadenze schiette di The Blessing. In un certo senso è come ascoltare il blues arcaico recuperato dopo l'esperienza parkeriana.

Per gli ascoltatori del Five Spot, la musica di Coleman suonava al limite dell'informale. Distratti dalla forza lirica di sax e tromba, ingannati dall'assenza del pianoforte e dalle linee melodiche di Haden, al pubblico sfuggiva che molti brani seguivano forme convenzionali, per la gran parte aaba. Ma è la prosodia a essere irregolare. Rejoicing segue i rhythm changes, ma poi la b sembra assurda, priva di logica melodica. Chronology e Bird Food sono anch'essi sui rhythm changes, ma in Chronology la a è di sette e la b di otto battute, mentre in Bird Food ogni sezione dell' aaba risulta di una lunghezza diversa (nove e mezzo, undici, otto, dieci). Certo, gli assoli si svolgono sul regolare chorus di trentadue misure, ma l'assenza del pianoforte e la svagata libertà melodica di Charlie Haden danno la sensazione che i musicisti suonino senza seguire alcuna forma.

La forma è plasmata dalla melodia, che in Lonely Woman scardina anche l'inossidabile aggancio tra sezione melodica e sezione ritmica: il tema di questa ballata – tragicamente melodrammatica, nel canto alto e straziante dei due fiati – galleggia non su un tempo lento ma su una ritmica velocissima (la batteria) e sospesa (il basso). L'involuzione della sezione b, cupa e cromatica, non fa che aumentare il contrasto con la luce lirica della melodia principale. Con Lonely Woman l'unità ritmica e metrica del jazz risulta definitivamente compromessa.

Con le radici ben salde nel folklore neroamericano, non sorprende che Coleman sia stato uno dei più grandi compositori di blues: dal pigro Turnaround ai più scattanti When Will the Blues Leave? e Tears Inside, il cui procedere classico è messo in crisi da piccole, spiazzanti deviazioni melodiche. Poiché ragiona in termini puramente melodici, Coleman non si cura della quadratura e chiude i giri quando finiscono le frasi: Giggin' e The Disguise sono di tredici misure, e giocano su un effetto di circolarità. Ma poco dopo ecco apparire blues totalmente squadrati, con temi ripetuti due volte, di cui la seconda più corta della prima: Music Always (nove e mezzo, e otto e mezzo), Blues Connotation (undici e mezzo, e dieci e mezzo), fino a The Legend of Bebop, con tre temi diversi (dodici, dieci, undici e tre quarti). Non mancano però pezzi più strutturati, come Ramblin', con il chorus in due parti: nel tema una è di ventuno battute e mezzo, e l'altra di quindici, mentre per gli assoli diventano di sedici battute, con basso schitarrato in stile country, e dodici battute, in stile Swing. Il libero fraseggio del blues vocale arcaico si estende anche alle altre composizioni: in Peace la forma aaba consta della a di undici e la b di dieci, in Eventually le due sezioni sono rispettivamente di nove e otto, e in Una Muy Bonita la a è di dieci e mezzo e la b di otto e mezzo.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 512

Capitolo XVII

SONIC GENOME. PERCORSI CONTEMPORANEI


Forme senza confini. Anthony Braxton

Non deve stupire che la Black Saint avesse puntato tanto su Muhal Richard Abrams (1930). Il fondatore dell'AACM ha infatti vissuto la sua stagione più feconda e felice proprio tra gli anni Ottanta e Novanta, scandita da una regolare produzione di album di alto profilo. Con gusto disinvolto, il pianista, dallo stile possente e asciutto, si è avventurato negli angoli più disparati della composizione orchestrale e per piccoli gruppi. Tra le pieghe di una scrittura atonale e sospesa e le dinamiche post-bop si colgono i cambi di tempo e la narrazione a pannelli di Mingus e l'eclettismo timbrico alla Ellington, con percussioni, elettronica e altri colori inusuali. La musica si fa ancora più accesa nelle punte di travolgente Great Black Music, dal chicagoano Blues Forever (dall'album omonimo) a Bloodline, vivace attualizzazione della lezione di Don Redman e Benny Carter, che sta al cuore di BLU BLU BLU, uno dei più bei dischi orchestrali degli anni Ottanta.

La figura che ha segnato in profondità tutto il jazz contemporaneo, recandovi l'enorme cultura musicale dell'AACM e un'immaginazione formale sconfinata, è Anthony Braxton (1945), uno dei maggiori protagonisti della musica d'oggi. Polistrumentista di superiore virtuosismo tecnico (suona tutti i sax, con la predilezione per il contralto e il sopranino e incursioni nel mostruoso sax contrabbasso, nonché i clarinetti di ogni taglia), dalla fine degli anni Sessanta Braxton ha accumulato passo dopo passo un imponente catalogo di composizioni innovative, che spaziano da strutture per strumento solo a messe in scena multimediali, da ensemble per cento bassi tuba a partiture per quattro orchestre sinfoniche. La sua opera è scandita dalla creazione di un ampio ventaglio di metodologie compositive. A Braxton interessa attraversare da direzioni sempre diverse il nodo dei processi compositivo/improvvisativi e gestire performance in cui si mescolano ambiente, socialità e azione musicale. Questa vastissima produzione è accompagnata da riflessioni filosofiche sulla natura della musica, stese in un linguaggio involuto e idiosincratico, raccolte nei Tri Axium Writings in tre volumi pubblicati nel 1985, e dalle illuminanti discussioni analitiche delle Composition Notes, riflessioni in cinque volumi pubblicati nel 1988 sulle opere composte fino a quella data.

Per il disco d'esordio FOR ALTO, inciso nel 1968 a soli ventitré anni, primo album mai realizzato per solo sassofono e generatore dell'intero filone dei dischi in solitudine di cui abbiamo già parlato, Braxton incardina l'improvvisazione su una serie di dodici gesti sonori che chiama language types. Ogni simbolo grafico si riferisce a una diversa operazione: un certo tipo di movimento melodico, il contrasto di registro, le note lunghe e brevi, diverse forme di emissione, lo staccato, vari gradi di attacco eccetera. Un procedimento che avrà un'enorme influenza sugli improvvisatori europei degli anni Settanta, poiché fa scaturire la creazione musicale non da altezze e ritmi organizzati, ma da concetti e principi operativi. Un sistema che contempla non scale e accordi ma procedure, lasciando al musicista il compito di dar loro corpo, di riempirle di contenuti. Sono idee che Braxton a sua volta traduce in enigmatiche immagini, diagrammi popolati di numeri e linee che connettono figure geometriche: i titoli delle composizioni, che più avanti verranno convertiti in un semplice catalogo numerico.

Dunque ogni composizione affronta e risolve un diverso problema formale. Il grande quartetto diretto nella metà degli anni Settanta, con Kenny Wheeler, Dave Holland e Barry Altschul, erede del brillante gruppo Circle che Braxton diresse per breve tempo con Chick Corea, suonava spesso un jazz ribattezzato freebop, per quei lunghissimi temi all'unisono su un accompagnamento swingante. Ma oltre quella musica di immediato apprezzamento c'era un intero universo di nuove idee, la cui summa è concentrata negli album NEW YORK FALL 1974, FIVE PIECES 1975 e THE MONTREUX/BERLIN CONCERTS. Nella Composition 23G il tema vola sui vuoti della ritmica, poiché basso e batteria non swingano sulla pulsazione continua, ma lasciano emergere solo gli accenti isolati separati da lunghe pause; nella 40M il tema freebop, angoloso come il fraseggio di Konitz, si sviluppa invece su un basso ostinato; nella 23C tutto il quartetto (con Braxton al flauto) assembla una monodia modulo dopo modulo, ripartendo da capo dopo ogni prolungamento, proprio come The Blues di Duke Ellington. Certe intuizioni cameristiche della Creative Construction Company ora assumono una compiuta pienezza formale: la 23A, con il clarinetto contrabbasso, esplora oscurità grottesche e misteriose; nella 23E i quattro musicisti accumulano un cerimoniale, lento e grandioso sviluppo dinamico; e non di rado, come nella 6C, affiora l'ossessione di Braxton per marce e marcette.

Braxton svetta ovunque come sassofonista dalla personalità unica: fraseggio angoloso, suono luminoso e una sconfinata abilità, pari solo a Roscoe Mitchell, nell'alterare ogni piega sonora dello strumento, di cui predilige grida tesissime, fischi e poi collane di note piene e staccate, in contrasti a volte parossistici sferzati di humour. Spigolosità che vengono temperate dalla presenza lunare del flicorno di Wheeler, con quel cromatismo elegante e melodico e le fermate mozzafiato sui sovracuti. Nel 1976 lo sostituisce il trombonista George Lewis, le cui agilità acrobatiche, l'umorismo e la profonda conoscenza dei meccanismi compositivi contemporanei orientano il gruppo verso improvvisazioni più aggressive e scoppiettanti.

In ogni nuova composizione Braxton ripensa il rapporto tra scrittura e improvvisazione, anche quando nei duetti con Muhal Richard Abrams deve confrontarsi con la scrittura di Scott Joplin e Eric Dolphy. Le due versioni di FOR TRIO, ovvero la Composition 76 (una con Henry Threadgill e Douglas Ewart, l'altra con Roscoe Mitchell e Joseph Jarman) disposte sulle due facciate dell'LP, ricompongono per strade diverse le variabili improvvisative di una scrittura minimale e aperta, sul tipo della partitura "diffusa" alla Maderna, tradotta in un capolavoro di costellazioni timbriche danzanti nel silenzio. Sono le stesse architetture segrete che sostengono anche i duetti con Roscoe Mitchell: due flauti, due sax bassi (Composition 40Q), oppure sopranino e clarinetto contrabbasso, accoppiamenti timbrici in bilico tra rigorose linee di scrittura e punti di fuga improvvisati, espressioni di un universo cameristico tutto interiorizzato, lucidamente inquieto e vagamente grottesco.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 522

CODA


Non è compito di una storia dell'arte o della musica fare un censimento del presente o indicare le direttrici del futuro. Testi come quello di Claudio Sessa (2009) hanno già tracciato utili mappe per orientarsi tra le molteplici tendenze della contemporaneità. Tuttavia la comprensione del passato prossimo, come lo abbiamo tracciato negli ultimi due capitoli, può aiutarci a chiarire come esso si sta riverberando sul presente. Qui non è possibile indicare quali sono gli artisti che entro i prossimi dieci o vent'anni verranno valutati come storicamente significativi, ma è indubbio che la lezione di Roscoe Mitchell, Steve Coleman, Tim Berne e Anthony Braxton – anche accolta in parte o solo per parziali suggestioni – stia emergendo come la più influente sui giovani musicisti più interessanti, da Jason Moran a Vijay Iyer, da Rudresh Mahanthappa a Steve Lehman. Troppo spesso la scarsa conoscenza della storia fa scambiare per ricerca musica invece ampiamente debitrice del Sun Ra della metà degli anni Sessanta o del jazz-rock ibridato con il free dei primi anni Settanta. Per non parlare del persistente revival della scuola Blue Note degli anni Sessanta e del modalismo di scuola ECM degli anni Settanta e Ottanta, che continuano a fare massa nella produzione contemporanea.

Negli anni Venti, il jazz si diffuse nei quattro angoli del mondo attraverso i canali del capitalismo, attivando esperienze locali di adattamento del jazz americano. Negli anni Sessanta e Settanta pressioni politiche ed economiche molto diverse, come le dittature comuniste nell'Europa dell'est o il sorgere dei movimenti terzomondisti in Sud America e in Asia, hanno favorito una straordinaria diversificazione globale del linguaggio. Oggi la tendenza emergente sembra molto diversa: la globalizzazione sta producendo una sostanziale uniformità di un nuovo jazz medio. La standardizzazione della didattica, che sta assumendo un ruolo sempre più centrale nella formazione dei musicisti, la scomparsa di occasioni d'incontro come la jam session (che durante la Seconda guerra mondiale e alla fine degli anni Sessanta ha favorito incontri e innovazioni), la concentrazione di grandi festival internazionali a scapito di piccole realtà, non favoriscono la diversificazione geografica di stili e linguaggi. Le stesse scuole nazionali che caratterizzavano l'Europa degli anni Settanta sono scomparse: oggi gli studenti del conservatorio di Rotterdam e Cosenza studiano sullo stesso curriculum, dettato da quel gigantesco processo di uniformazione della conoscenza dettato dall'Unione Europea attraverso il Processo di Bologna. Per non parlare del jazz sovietico, che fermentò nella contraddittoria stagione post-1989 e che oggi è totalmente scomparso; o del jazz mediterraneo degli anni Ottanta, affogato in una stucchevole retorica world.

Però sono anche in atto fenomeni di profonda trasformazione destinati a modificare la percezione del jazz. In un impressionante parallelismo con la metà degli anni Cinquanta, il jazz è divenuto una sorta di marchio internazionale che ha ampliato il suo già vasto campo semantico: in altre parole, è tornato a essere un cappello sotto il quale vengono proposti musicisti di cultura ed estrazione apparentemente distanti. Già negli anni Sessanta i festival di jazz proponevano artisti rock o pop, ma veniva riconosciuta una distinzione di generi, poiché la definizione di «cosa è jazz» era al centro della dialettica con la critica. Peraltro una definizione che, discussa da musicisti, critici, istituzioni, pubblico, si è rivelata impossibile: di fatto la parola jazz ha indicato nel tempo musiche diverse e in trasformazione. Oggi con l'indebolimento della figura del critico e la crisi delle riviste specializzate, le cui linee editoriali vanno disperdendosi nella granulosità di internet, il marchio jazz è sempre più gestito dalle grandi istituzioni festivaliere, che – non diversamente da quanto succedeva negli anni Venti – ne sfruttano lo spirito d'aggregazione, l'appeal spontaneistico e un tocco di intellettualismo.

I musicisti invece, con la solitaria eccezione di Wynton Marsalis, sembrano sempre meno preoccupati di definire un'appartenenza o, come facevano i boppers, di marcare un'esclusione. Si organizzano in cooperative, attraversano i confini, si ispirano a culture musicali diverse (dalla classica alle musiche etniche di mezzo mondo) producono in forme non centralizzate, occupano il vuoto che l'industria discografica sta rapidamente lasciando nel mercato. Come spesso accade, i prodotti artistici migliori sfuggono dalle maglie dell'istituzionalizzazione e non conoscono barriere etniche. Il mondo della musica classica contemporanea, un tempo percepito come alternativo, se non antagonista, al jazz, non di rado si sovrappone all'universo del jazz. Per più di un compositore le differenze stilistiche non sono più vissute come barriere ma come opportunità di allargamento del linguaggio musicale tout court: gli Studi per pianoforte di Gyφrgy Ligeti, ispirati alla musica dei pigmei Banda-Linda, a Bili Evans, Oscar Peterson e Thelonious Monk (oltre che, ovviamente, a Chopin e Liszt), ne sono il monumentale trionfo. E, come si è già osservato a proposito dell'improvvisazione radicale europea, gli interpreti stanno assimilando le più svariate tecniche improvvisative nel proprio bagaglio stilistico. Meno sorprendente è l'incontro con la world music, in cui jazzisti che si avvicinano alle tradizioni antiche (a volte più o meno inventate) e musicisti di altre culture che si assimilano al jazz – ad esempio il virtuoso tunisino di oud Anouar Brahem (1957) – trovano proprio nell'improvvisazione solistica una koinè condivisa, una sorta di stile mainstream declinato nelle diverse tradizioni etniche.

La definitiva perdita di centralità degli Stati Uniti ha reso chiaro a tutti che il jazz è una musica nata nell'ambiente culturale afroamericano ma che appartiene a tutti, e soprattutto è priva di connotazioni etniche e razziali. Krzysztof Komeda, Jan Johansson, Han Bennink, Franco D'Andrea, Vyacheslav Ganelin, Toshiko Akiyoshi, Chris McGregor, Gato Barbieri sono lì a dimostrarlo. La scena italiana, nelle sue evoluzioni più recenti, ne è forse l'esempio più avvincente. Il problema casomai continua a riguardare il politicamente corretto statunitense e la necessità delle élite nere a mantenere separate realtà che non lo sono mai state. Che senso ha ormai parlare di musica nera o, come fa Marsalis, del jazz come musica degli afroamericani? Come ricorda Randy Sandke (2010), la storia di bianchi e neri negli USA è, senza ipocrisie, una storia di continuo mescolamento razziale. Mentre la sentenza Plessy Vs. Ferguson del 1896 sanciva il criterio «una goccia» – se hai una goccia di sangue nero sei nero e vieni dunque trattato come tale –, il concubinato clandestino tra bianchi e neri era una pratica corrente e diffusa.

La discussione sul carattere della musica in base al colore della pelle genera solo assurdità. A prescindere dal colore della pelle, i creoli come Jelly Roll Morton, Sidney Bechet o Barney Bigard non avevano nulla di nero ma venivano da famiglie con una cultura caraibica o europea. Il bassista dalla pelle nera Pops Foster aveva una madre indiana della stessa etnia da cui proveniva il clarinettista bianco Pee Wee Russell. La Original Creole Band, il primo gruppo professionale di jazz, sfoggiava una composizione etnica mista: George Baquet era probabilmente bianco, la madre di Freddie Keppard era bianca, Bill Johnson sembrava bianco, Jimmy Palao era latinoamericano. Il padre del blues Charley Patton, lo si capisce bene guardando le foto, aveva i capelli rossi. Senza contare la lunga schiera di musicisti di origine latinoamericana che hanno forgiato il jazz nero: la famiglia Tio, Manuel Manetta, Lawrence Marrero, Alcide Nunez.

Come osserva giustamente Sandke, sono stati proprio i leader politici neri a utilizzare la regola «una goccia» per tenere insieme la classe lavoratrice e il ceto medio neri, uniti dalla classificazione razziale americana. Quegli stessi leader politici che si guardavano dal sottolineare l'origine mista di alcuni dei più grandi intellettuali e leader neri: il padre dell'ex schiavo Frederick Douglass era bianco; Walter White, a lungo segretario esecutivo della NAACP, aveva la pelle così chiara da apparire bianco; W.E.B. Du Bois discendeva dalla famiglia di un medico ugonotto; la madre di Adam Clayton Powell era tedesca e quella di Malcolm X era bianca. Queste origini tutt'altro che nere riguardano ovviamente anche i musicisti: il nonno materno di Fats Waller era irlandese; la nonna paterna di Charles Mingus era la nipote (bianca) dei proprietari terrieri per cui lavorava suo nonno; Jackie McLean aveva sette avi bianchi. E prima di parlare di qualità black della musica di Joshua Redman bisogna ricordarsi che sua madre era bianca di origini ebraiche.

Il problema è che il nazionalismo nero e le sue sacrosante rivendicazioni sociopolitiche hanno divulgato l'idea che i neri e i bianchi producono musica diversa: basterebbero i nomi di Lester Young e Stan Getz o di Johnny Coles e Wild Bill Davison come smentita. Una delle conseguenze della globalizzazione del jazz è l'evidenza finalmente indiscutibile che la natura afroamericana del jazz è un fatto squisitamente culturale, che gli afroamericani stessi sono meticci e che certi tratti caratteristici – lo swing, un certo trattamento della sonorità – sono stati rapidamente assimilati da individui di culture diverse. Che personalità potenti come Wynton Marsalis ostacolino queste idee dimostra che gli Stati Uniti, dove il jazz è nato, sono piuttosto indietro nella comprensione della loro stessa cultura.

Ogni cambiamento tecnologico ha fatto sentire gli effetti sulla forma e la distribuzione del jazz e la rivoluzione digitale non è destinata a fare eccezione. L'abbondanza di musica disponibile non solo richiede un rigoroso lavoro del critico, ma sollecita la capacità dello storico a selezionare, collegare, ri-valutare. E soprattutto a riconnettere la fruizione della musica con la conoscenza del passato: tanto per fare un esempio, il fatto che oggi la musica riprodotta circoli attraverso i canali digitali senza quelle informazioni ritenute a lungo indispensabili (musicisti, autori, date, formazioni), rappresenta una sfida sia per il critico sia per lo storico. Quei dati, raccolti e divulgati dalla metà degli anni Trenta e prima non disponibili a chi acquistava un 78giri, non solo hanno alimentato la mitologia del jazz («quel famoso disco in cui Armstrong suona con Bessie Smith!») ma sono andate a stimolare il dibattito critico e la coscienza storica (sapere chi è quel trombettista che prende un assolo con Cab Calloway, comprendere che è lo stesso Dizzy Gillespie che poi suonerà con Charlie Parker, confrontarne lo stile e quindi costruire una narrazione).

Oppure si pensi al contraddittorio processo in atto nel mondo dell'industria discografica. Da un lato continua l'onda lunga, iniziata negli anni Ottanta, delle ristampe a tappeto, di fronte alla quale lo storico deve far valere le armi di valutazione, selezione, comprensione. Dall'altro le politiche protezionistiche e di mera sopravvivenza delle grandi case discografiche a volte provocano buchi di documentazione sconcertanti. In questo senso gli anni Sessanta, e soprattutto Settanta, sono i più colpiti: si pensi al capolavoro INTENTS AND PURPOSES di BilL Dixon, apparso in CD solo nel 2011; agli irreperibili dischi del Tuba Trio di Sam Rivers; o al destino dei fondamentali album Arista di Anthony Braxton, mai ristampati per trent'anni né in CD né in LP, prima di tornare in blocco sul mercato nel 2008 in un'edizione limitata per collezionisti.

Sta dunque allo storico continuare a lavorare su quei dati e a mantenere alta la dialettica su quei valori, cercando nuove forme di comunicazione adeguate ai cambiamenti che stiamo vivendo. Questo libro non è altro che il tentativo di raccogliere le forze per poi fare il primo passo in una nuova direzione.

| << |  <  |