Copertina
Autore Slavoj Žižek
Titolo Contro i diritti umani
Edizioneil Saggiatore, Milano, 2005 , pag. 78, cop.fle., dim. 122x190x7 mm , Isbn 978-88-428-1341-5
OriginaleAgainst Human Rights [2005]
TraduttoreDamiano Cantone
LettoreRiccardo Terzi, 2006
Classe politica , storia contemporanea
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Indice


Tre presupposti                      9
Scelta non libera                   19
La politica della jouissance        27
Difesa contro il potere?            35
Purezza umanitaria                  53
Il ritorno dell'universalità        65


Note                                75

 

 

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Pagina 11

Oggi, nelle nostre società liberal-capitalistiche, gli appelli ai diritti umani si fondano generalmente su tre presupposti. Primo, essi si oppongono ai metodi adottati dal fondamentalismo, che ha la pretesa di rendere naturali o essenziali caratteristiche contingenti, storicamente condizionate. Secondo, i due diritti più importanti sono la libertà di scelta e il diritto di dedicare la propria vita alla ricerca del piacere (anziché sacrificarla a una qualche causa ideologica). E terzo, un appello ai diritti umani può costituire la base per una difesa contro l'"eccesso di potere".

Cominciamo con il fondamentalismo. In questo caso, il male (per parafrasare Hegel) spesso risiede nello sguardo che lo percepisce. Prendiamo a esempio il caso dei Balcani durante gli anni novanta, teatro di diffuse violazioni dei diritti umani. In quale momento i Balcani, da regione sudorientale dell'Europa, sono diventati "i Balcani", con tutto ciò che significa oggi per l'immaginario ideologico europeo? La risposta è: a metà del XIX secolo, proprio quando i Balcani furono investiti dagli effetti della modernizzazione europea. Lo scarto fra le prime percezioni dell'Europa occidentale e l'immagine "moderna" è impressionante. Già nel XVI secolo il naturalista francese Pierre Belon notava che «i turchi non costringono nessuno a vivere come turchi». Non c'è da sorprendersi, quindi, che tanti ebrei abbiano trovato asilo e libertà religiosa in Turchia e in altri paesi musulmani, dopo che Ferdinando d'Aragona e Isabella di Castiglia li avevano espulsi dalla Spagna nel 1492; con il risultato che, per un sublime ribaltamento ironico, i viaggiatori occidentali erano infastiditi dalla presenza degli ebrei nelle grandi città turche. Scegliamo, tra i molti esempi possibili, un racconto di N. Bisani, un italiano che visitò Istanbul nel 1788:

Uno straniero che abbia visto l'intolleranza di Londra e Parigi, sarebbe senz'altro molto sorpreso nel trovare qui una chiesa situata tra una moschea e una sinagoga, e un derviscio a fianco di un frate cappuccino. Non so come questo governo possa aver accolto nel suo seno religioni tanto diverse dalla propria. Dev'essere a causa della degenerazione della religione di Maometto che può prodursi questo felice contrasto. Ancora più sorprendente è riscontrare che questo spirito di tolleranza è molto diffuso tra la gente comune; si possono vedere turchi, ebrei, cattolici, armeni, greci e protestanti trattare insieme di affari o conversare con molta più armonia e benevolenza che se fossero della stessa nazione e religione.

La caratteristica che oggi l'Occidente celebra come segno della sua superiorità culturale – lo spirito e la pratica della tolleranza multiculturale – viene dunque condannata come un effetto della "degenerazione" islamica. Lo strano destino dei frati trappisti di Étoile Marie è altrettanto significativo. Espulsi dalla Francia sotto il regime napoleonico, si stabilirono in Germania, ma furono cacciati nel 1868. Poiché nessun altro stato cristiano era disposto ad accoglierli, chiesero al sultano il permesso di comprare del terreno vicino a Banja Luka, nella parte serba dell'odierna Bosnia, dove vissero felicemente, almeno finché non furono coinvolti nei conflitti fra cristiani nei Balcani.


Da dove hanno avuto origine, dunque, i tratti fondamentalisti – l'intolleranza religiosa, la violenza etnica, la fissazione su un trauma storico – che ora l'Occidente associa a "i Balcani"? Evidentemente dall'Occidente stesso. In un chiaro esempio di "determinazione riflessiva" hegeliana, gli europei occidentali nei Balcani osservano e deplorano ciò che essi stessi vi hanno introdotto; ciò che combattono è la loro stessa eredità storica finita fuori controllo. Non dimentichiamoci che i due grandi crimini etnici imputati ai turchi nel XX secolo, il genocidio armeno e la persecuzione dei curdi, non sono stati compiuti da forze politiche musulmane tradizionaliste, ma dai modernizzatori militari che tentavano di liberare la Turchia dalla zavorra del suo vecchio mondo e di trasformarla in uno stato-nazione europeo. La vecchia battuta di Mladen Dolar, «l'inconscio europeo è strutturato come i Balcani», che si basa su una puntuale lettura dei riferimenti di Freud a questa regione, è dunque letteralmente vera: attraverso l'Alterità dei "Balcani", l'Europa prende coscienza dello "straniero dentro di sé", del proprio rimosso.


Possiamo verificare inoltre come l'essenzializzazione "fondamentalista" di caratteristiche contingenti sia essa stessa una peculiarità della democrazia liberal-capitalista. Va di moda lamentarsi che la vita privata è minacciata, o che addirittura sta sparendo di fronte all'abilità dei media nell'esporne in pubblico i dettagli più intimi. Č vero, a condizione che si ribaltino i termini della questione: ciò che sta effettivamente sparendo è la vita pubblica, la sfera pubblica in senso proprio, nella quale ciascuno opera come agente simbolico che non può venir ridotto a individuo privato, a un fascio di attributi, desideri, traumi e idiosincrasie personali. Il luogo comune della "società del rischio" secondo il quale l'individuo contemporaneo si sente completamente "denaturalizzato", considerando anche i tratti più "naturali" quali l'identità etnica e le preferenze sessuali come oggetti di scelta storicamente determinati, è profondamente fuorviante. Oggi stiamo assistendo al processo opposto: un'inaspettata naturalizzazione. Tutte le grandi questioni pubbliche vengono tradotte in misure per la regolazione di idiosincrasie "naturali" o "personali".


Questo spiega perché, a un livello più generale, i conflitti etnico-religiosi pseudonaturalizzati sono la forma di lotta che meglio si adatta al capitalismo globale. Nell'epoca della post-politica, in cui la politica vera e propria viene progressivamente sostituita da un'amministrazione sociale specializzata, le tensioni culturali (religiose) o naturali (etniche) sono l'unica fonte legittima di conflitto rimasta. E la "valutazione" è la regola di promozione sociale che più si adatta a questa rinaturalizzazione. Forse è giunto il momento di riaffermare, come verità della valutazione, la logica perversa cui Marx si riferisce ironicamente nella sua descrizione del feticismo della merce, citando l'ammonimento di Dogberry a Seacol, alla fine del primo capitolo del Capitale: «Essere un uomo di bell'aspetto è un dono delle circostanze, ma saper leggere e scrivere è cosa che ci viene dalla natura!». Oggi, essere un esperto di computer o un manager di successo è un dono di natura, ma avere belle labbra o begli occhi è un fatto di cultura.

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Pagina 23

La concreta efficacia del concetto ideologico di scelta libera all'interno della democrazia capitalista è stata ben illustrata dalla sorte del programma di riforma sanitaria, assai moderato, varato dall'amministrazione Clinton. La lobbv della sanità (due volte più potente della famigerata lobby della difesa) è riuscita a convincere l'opinione pubblica che un sistema sanitario per tutti avrebbe minacciato la libertà di scelta in questo campo. Contro questa convinzione, ogni enumerazione di fatti inconfutabili si è dimostrata inefficace. Ci troviamo proprio nel centro nevralgico dell'ideologia liberale: la libertà di scelta, fondata sul concetto di soggetto "psicologico" dotato di inclinazioni che si sforza di realizzare. E questo vale in modo particolare oggi, nell'era della "società del rischio", nella quale l'ideologia dominante spaccia l'insicurezza causata dallo smantellamento dello stato sociale come un'opportunità per nuove libertà. Se la flessibilizzazione del lavoro significa che devi cambiare lavoro ogni anno, perché non considerarla una liberazione dalle catene di una occupazione fissa, come una possibilità di reinventare te stesso e realizzare il potenziale nascosto della tua personalità? Se si verifica un taglio dell'assistenza sanitaria e delle pensioni che comporta la necessità di una copertura integrativa, perché non considerarla un'opportunità in più di scegliere: una migliore qualità della vita adesso, o la sicurezza a lungo termine? Se questo ragionamento ti spaventa, gli ideologi della "seconda modernità" concluderanno che desideri "sfuggire alla libertà", che sei attaccato in modo immaturo a vecchie forme di stabilità. Ancor meglio, se questo discorso viene ricondotto all'ideologia del soggetto come individuo "psicologico" che trabocca di capacità naturali, tenderai automaticamente a interpretare tutti questi cambiamenti come un effetto della tua personalità, anziché delle forze di mercato che ti travolgono.

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Pagina 55

Proprio in questo contesto possiamo collocare l'aspetto cruciale della questione dei diritti umani: i diritti di coloro che muoiono di fame o sono esposti a violenza omicida. Rony Brauman, che coordinava gli aiuti a Sarajevo, ha dimostrato che presentare la crisi come "umanitaria", ovvero rileggere un conflitto politico-militare in termini umanitari, è stato il frutto di una scelta eminentemente politica: in sostanza, prendere le parti della Serbia nel conflitto. La celebrazione dell' "intervento umanitario" in Jugoslavia ha preso il posto del discorso politico, sostiene Brauman, squalifi- cando in tal modo ogni confronto dialettico.


Da questo punto di vista specifico possiamo riconsiderare, più in generale, la politica apparentemente depoliticizzata dei diritti umani come l'ideologia dell'interventismo militare al servizio di precisi scopi economico-politici. Come ha affermato Wendy Brown a proposito di Michael Ignatieff, tale umanitarismo

si presenta come qualcosa di antipolitico, una semplice difesa degli innocenti e dei deboli contro il potere, una difesa dell'individuo contro le macchine immense e potenzialmente dispotiche della cultura, dello stato, della guerra, dei conflitti etnici, del tribalismo, del patriarcato, e di altri movimenti o istanze di potere collettivo che si oppongono agli individui.

Tuttavia, la domanda è: che genere di politicizzazione mettono in atto coloro che intervengono in nome dei diritti umani contro il potere a cui si oppongono? Propongono un'idea diversa della giustizia, o si oppongono ai progetti di giustizia collettiva? Per esempio, è chiaro che la cacciata di Saddam Hussein da parte degli Stati Uniti, legittimata dall'obiettivo di porre fine alla sofferenza del popolo iracheno, non solo era motivata da spietati interessi politico-economici, ma si basava anche su un'idea precisa delle condizioni politiche ed economiche all'interno delle quali si sarebbe potuta sviluppare la "libertà" per gli iracheni: il capitalismo liberal-democratico, l'inserimento nell'economia di mercato globale ecc. La politica puramente umanitaria, anti-politica volta semplicemente a evitare la sofferenza, equivale a un implicito divieto di elaborare un progetto collettivo concreto di trasformazione sociopolitica.

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