Copertina
Autore Slavoj Žižek
CoautoreGlyn Daly
Titolo Psicoanalisi e mondo contemporaneo
SottotitoloConversazioni con Žižek
EdizioneDedalo, Bari, 2006, Strumenti/Scenari 63 , pag. 232, cop.fle., dim. 14x21x1,5 cm , Isbn 978-88-220-5363-3
OriginaleConversations with Žižek [2004]
CuratoreSergio Benvenuto
PrefazioneSergio Benvenuto
TraduttoreGianmaria Senia
LettoreRiccardo Terzi, 2006
Classe filosofia , psicanalisi , politica
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su BOL.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice


L'Europa oggi
Prefazione all'edizione italiana
di Slavoj Žižek                              5


Introduzione
di Sergio Benvenuto                         19

Un pop «sublime»                            19
Gli alberi e la foresta                     22
Lo spettro di Hegel                         24
Una denuncia romantica                      28
Parlare di ciò di cui bisogna tacere        30
Dal Simbolico al Reale                      34
Il Reale etico                              38
Etica «inutilitarista»                      42
Marxismo delle anime belle                  45


Conversazione 1
Aprire lo spazio della filosofia            51


Conversazione 2
Follia della ragione Incontri del Real tipo 79


Conversazione 3
Soggetti della modernità:
    il virtuale e la fragilità del Reale   107


Conversazione 4
La tolleranza e l'intollerabile:
    godimento, etica, evento               139


Conversazione 5
I miracoli accadono:
    globalizzazioni e politica             169



Postfazione
Rischiare l'impossibile
di Glyn Daly                               199

La follia costitutiva dell'essere          200
Dimensioni del Reale                       204
L'ideologia e lo statuto dell'impossibile  208
La politica e la scorrettezza radicale     211
Rischiare l'impossibile                    215


Bigliografia                               219
Glossario                                  223
Indice dei nomi e dei concetti             227

 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 5

L'Europa oggi

Prefazione all'edizione italiana di Slavoj Žižek


Siccome non considero la mia persona di alcun interesse per i lettori di questo libro, mi rivolgerò al pubblico italiano con un paio di osservazioni sulla nostra situazione attuale. Nei mesi precedenti l'entrata della Slovenia nell'Unione Europea, un giornalista straniero mi chiese quale nuova dimensione la Slovenia avrebbe portato all'Europa; la mia risposta fu immediata e chiarissima: nessuna.

La cultura slovena è ossessionata da questa idea: che noi, pur essendo una piccola nazione, saremmo una superpotenza culturale; che possederemmo qualche agalma, un intimo tesoro nascosto di capolavori culturali che aspettano solo di essere riconosciuti dal vasto mondo. Forse questo tesoro è troppo fragile per sopravvivere intatto una volta esposto all'aria fresca della competizione internazionale, come gli antichi affreschi romani in una magnifica scena del film di Fellini, Roma: questi cominciano a scomparire nel momento stesso in cui vengono raggiunti dalla luce del giorno. Questo narcisismo non è una specialità slovena, ne esistono altre versioni nell'Europa dell'Est: apprezziamo di più la democrazia per aver dovuto batterci per essa di recente, per non averne potuto godere come qualcosa di garantito; e ancora, sappiamo cos'è la vera cultura: non venir corrotti dalla cultura americana di massa a buon mercato.

Il mio rifiuto di questa fisima su un tesoro nazionale nascosto non implica però affatto un mio etnico odio-di-sé. Sottolineo solo un dato crudele: tutti gli artisti sloveni di un certo livello hanno dovuto a un certo punto «tradire» le loro radici etniche, o isolandosi dalla cultura dominante in Slovenia, o lasciando il paese per un tempo più o meno lungo, vivendo a Vienna o a Parigi. Come accadde per l'Irlanda: non solo James Joyce sentì il bisogno di abbandonarla per scrivere Ulysses, suo capolavoro su Dublino, ma lo stesso Yeats, il poeta del revival nazionale irlandese, passò molti anni a Londra. La peggiore minaccia alla tradizione nazionale sono i guardiani locali che denunciano le pericolose influenze straniere.

Il senso di superiorità culturale sloveno trova la sua controparte nel cliché paternalistico occidentale secondo il quale i paesi dell'Europa dell'Est post-comunisti sono poveri cugini ritardati che verranno riammessi nella famiglia se si comporteranno come si deve. Dopo le elezioni del 2004 in Serbia, quando i nazionalisti guadagnarono molti voti, la stampa occidentale lesse questo come un segno del fatto che la Serbia «non è ancora pronta per l'Europa». Un processo simile è in corso oggi in Slovenia: il fatto che i nazionalisti abbiano raccolto abbastanza firme per ottenere un referendum contro la costruzione di una moschea a Ljubljana è alquanto triste; il fatto che la maggioranza della popolazione pensi che non si dovrebbe permettere la costruzione di una moschea è ancora più triste; e gli argomenti evocati («dovremmo noi permettere che il nostro splendido paesaggio venga rovinato da un minareto simbolo della barbarie fondamentalista?», ecc.) ci fa vergognare di essere sloveni. In simili casi, le minacce occasionali provenienti da Bruxelles sono allora le benvenute: «ragazzi, mostrate un po' di tolleranza multiculturale, altrimenti...».

E tuttavia, questo ritratto semplificato non dice tutta la verità. Prima strana complicazione: i paesi ex-comunisti – i sostenitori più ardenti della «guerra contro il terrore» degli americani – sono molto preoccupati per la loro identità culturale, per la loro stessa sopravvivenza come nazioni, si sentono minacciati dalla valanga dell'«americanizzazione» culturale come prezzo da pagare per la nostra immersione nel capitalismo globale. Insomma, abbiamo un anti-americanismo pro-bushista. In Polonia, il più entusiasta sostenitore della politica USA è l'ex-presidente Kwasniewski, un ex-comunista, mentre la principale opposizione alla partecipazione polacca alla coalizione anti-irakena viene dai partiti di destra. Verso la fine del 2003, i vescovi polacchi hanno anche chiesto al governo di aggiungere al contratto che regola la partecipazione della Polonia all'UE un paragrafo speciale che garantisse alla Polonia il suo «diritto di mantenere i suoi valori fondamentali quali sono formulati nella Costituzione» – intendendo con questo, ovviamente, la proibizione dell'aborto, dell'eutanasia e dei matrimoni tra persone dello stesso sesso. Nella mia Slovenia abbiamo un'incoerenza analoga: i nazionalisti di destra dicono che i liberali di centro-sinistra che oggi governano, pur essendo entrati nella NATO e pur sostenendo la guerra americana contro il terrorismo, la stanno segretamente sabotando, vi partecipano per ragioni opportunistiche, non per vera convinzione. Allo stesso tempo, tuttavia, costoro rimproverano ai liberali di minare alla base l'identità nazionale slovena promuovendo la completa integrazione slovena nel capitalismo globale occidentalizzato e affogando così gli sloveni nella cultura pop e americanizzata di oggi. Dicono che il centro-sinistra sostiene la cultura pop, gli insulsi divertimenti televisivi, il consumismo, ecc., per convertire gli sloveni in una folla facilmente manipolabile, incapace di qualsiasi seria riflessione e di condotte etiche ferme, ecc., ecc. Insomma, il motivo in filigrana è il «complotto liberal-comunista»: l'immersione inesorabile e non intralciata nel capitalismo globale è percepita come l'ultimo oscuro complotto degli ex-comunisti per mantenere la loro segreta longa manus sul potere.

È un malinteso quasi tragico: i nazionalisti, da una parte, sostengono incondizionatamente la NATO (sotto comando americano), rimproverano alla coalizione oggi al potere di appoggiare segretamente gli anti-global e i pacifisti anti-americani, dall'altra, si preoccupano del destino dell'identità slovena nel processo di globalizzazione e denunciano la coalizione al governo perché vorrebbe gettare la Slovenia nella voragine globale senza preoccuparsi della nostra identità nazionale. Per ironia, il nuovo ordine socio-ideologico emergente di cui questi conservatori nazionalisti si lamentano è del tutto simile alla descrizione data dalla vecchia Nuova Sinistra quando denunciava la «tolleranza repressiva» e la libertà capitalista come modi in cui si rivela la mancanza di libertà.

Questa ambiguità dell'Europa Orientale trova la sua perfetta controparte nell'ambiguo messaggio che l'Occidente manda ai paesi post-comunisti. Ricordiamo la pressione a doppia faccia esercitata dagli USA sulla Serbia nell'estate del 2003: i rappresentanti statunitensi chiedevano simultaneamente al governo serbo di consegnare i sospetti criminali di guerra alla Corte dell'Aja (in accordo con la logica dell'Impero globale che richiede un'istituzione giudiziaria globale trans-statale), e allo stesso tempo di firmare il trattato bilaterale con gli USA che obbliga la Serbia a non consegnare a qualsiasi istituzione internazionale (quindi, nemmeno alla stessa Corte dell'Aja) i cittadini americani sospetti di crimini di guerra o di altri crimini contro l'umanità (in accordo con la logica dello Stato-Nazione). Non c'è da stupirsi se la reazione serba sia stata di rabbiosa perplessità. E qualcosa di simile accade a livello economico: l'Europa Occidentale da una parte preme sulla Polonia perché apra la sua agricoltura alla competizione mercantile, dall'altra sta invadendo il mercato polacco con prodotti agricoli pesantemente finanziati da Bruxelles.

In conclusione: sebbene oggi il tema del populismo stia emergendo come cruciale nello scenario politico, non può essere usato come base per rinnovare la politica emancipativa. Da notare che il populismo attuale è diverso dalla sua versione tradizionale, perché è diverso l'oppositore contro cui esso mobilita il popolo: il sorgere della «post-politica», la riduzione crescente della politica all'amministrazione razionale degli interessi in conflitto. Almeno nei paesi altamente sviluppati, come USA ed Europa Occidentale, il «populismo» sta emergendo come il doppio chimerico intrinseco alla post-politica istituzionalizzata, si è quasi tentati di dire: come il suo supplemento nel senso di Derrida, come l'arena in cui le domande politiche che non si adeguano allo spazio istituzionalizzato possano articolarsi. In questo senso, il populismo è intrinsecamente mistificatorio: il suo gesto basilare consiste nel rifiuto di confrontarsi con la complessità della situazione, nel ridurla a una lotta chiara contro una figura di «nemico» pseudo-concreta (dalla «burocrazia di Bruxelles» fino agli immigranti illegali). Il «populismo» è, quindi, per definizione un fenomeno negativo, fondato su un rifiuto, anzi su un'implicita ammissione di impotenza. Tutti conosciamo la vecchia storiella sul tipo che, sotto un lampione acceso, cerca la chiave che ha perso, e quando gli si chiede dove l'abbia perduta, ammette che l'ha persa in un angolo buio più in là; ma allora perché la sta cercando là, sotto il lampione? Perché qui c'è una visibilità migliore... c'è sempre un imbroglio di questo tipo nel populismo. Per questo motivo, il populismo non è l'area in cui dovremmo inscrivere i progetti emancipativi: oggi dovremmo andare oltre, e dire che il compito principale della politica emancipativa odierna, il suo problema di vita-o-morte, è trovare una forma di mobilitazione politica che sia a un tempo critica (come il populismo) della politica istituzionalizzata, ma eviti la tentazione populista.

Certo il campo politico odierno è polarizzato tra l'amministrazione post-politica e la politicizzazione populista; fenomeni come quello di Berlusconi dimostrano come i due opposti possano anche coesistere nella stessa forza politica: non è Forza Italia un caso di populismo post-politico? E cioè, non è un governo mediatico-amministrativo che legittima se stesso in termini populistici? (e la stessa cosa non accade, per certi versi, con il governo Blair in Gran Bretagna?). Allora a qual punto stiamo con l' imbroglio europeo?

[...]

Allora, qual è il guaio dell'Europa oggi? L'Europa è presa in un'immane tenaglia tra l'America da una parte e la Cina dall'altra. America e Cina, viste metafisicamente, sono la stessa cosa: la stessa disperata smania per la tecnologia scatenata e per l'organizzazione sradicata dell'uomo medio. Quando il più remoto angolo della terra sarà stato conquistato tecnicamente e potrà essere sfruttato economicamente; quando qualsiasi evento ci piaccia, in ogni posto che ci piaccia, in ogni momento che ci piaccia, diventa accessibile a qualsiasi velocità ci piaccia; quando, attraverso la Tv live coverage possiamo assistere simultaneamente a una battaglia nel deserto irakeno e a una rappresentazione operistica a Pechino; quando, in una rete digitale globale, il tempo non è altro che velocità, istantaneità e simultaneità; quando il vincitore di un Reality Show televisivo diventa un grand'uomo per un intero popolo; allora ancora si profilerà come uno spettro, al di sopra di tutto questo bailamme, la domanda: per che cosa? per dove? e che cosa allora?

Noi europei abbiamo bisogno di quel che Heidegger chiamava Auseinandersetzung (confronto interpretativo) con gli altri così come con il passato europeo in tutta la sua portata, dalle sue radici antiche e giudaico-cristiane fino all'idea, da poco deceduta, del Welfare State. L'Europa oggi è scissa tra il cosiddetto modello anglo-sassone – accettare la «modernizzazione» (adattarsi alle regole del nuovo ordine globale) – e il modello franco-tedesco – salvare quanto più possibile il Welfare State vetero-europeo. Queste due opzioni, per quanto opposte, sono i due lati della stessa moneta, mentre il nostro compito non è di tornare a una forma idealizzata del passato – questi modelli si sono chiaramente esauriti –, né di convincere gli europei che, se dobbiamo sopravvivere come potenza mondiale, dovremmo adattarci al più presto possibile alle recenti tendenze della globalizzazione. E l'opzione secondo me peggiore è avere come compito la ricerca di una «sintesi creativa» tra le tradizioni occidentali di globalizzazione, con lo scopo di raggiungere una «globalizzazione dal volto europeo».

Ogni crisi in sé istiga a un nuovo inizio; ogni crollo di misure strategiche e pragmatiche a breve termine (per la riorganizzazione finanziaria dell'Unione, ecc.) è una benedizione mascherata, un'opportunità per ripensare i fondamenti stessi. Abbiamo bisogno di un recupero-attraverso-la-ripetizione (Wieder-Holung): attraverso un confronto critico con l'intera tradizione europea, dovremmo ripetere la domanda «Che cos'è l'Europa?», o piuttosto «Che cosa significa per noi essere europei?», e formulare così un nuovo principio. Il compito è difficile, ci costringe ad assumere il rischio di camminare nell'ignoto, tuttavia, la sola alternativa è una lenta decadenza, la graduale trasformazione dell'Europa in quel che la Grecia fu per l'impero romano maturo, una destinazione per il turismo culturale nostalgico senza alcuna vera rilevanza.

Ecco un altro punto sul quale Heidegger aveva ragione, anche se non nel senso da lui inteso: e se la democrazia non fosse la risposta al guaio in cui ci troviamo? Nelle sue Note verso una definizione della cultura, il grande conservatore Thomas S. Eliot notava che in certi frangenti l'unica scelta è tra il settarismo e la miscredenza, quando il solo modo di mantenere viva una religione è di effettuare un taglio settario sul suo cadavere. Questa è la nostra sola possibilità oggi: solo per mezzo di un «taglio settario» dall'eredità europea standard, tagliandoci via dal cadavere decadente della vecchia Europa, potremo mantenere viva l'eredità europea rinnovata. Questo taglio dovrebbe rendere problematiche anche le premesse che tendiamo ad accettare come se fossero il nostro destino, come dati non-negoziabili del nostro guaio – il fenomeno solitamente chiamato Nuovo Ordine Mondiale e la necessità, attraverso la «modernizzazione», di adattarci ad Esso. Per dirla schietta, se l'emergente Nuovo Ordine Mondiale è il quadro non-negoziabile per tutti noi, allora l'Europa è perduta; allora l'unica soluzione per l'Europa sarà di assumersi questo rischio e di spezzare l'incantesimo del nostro destino. Nulla dovrebbe essere accettato come inviolabile in questa rifondazione, neppure il bisogno di una «modernizzazione» economica e nemmeno i sacri feticci liberali e democratici.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 51

Conversazione 1

Aprire lo spazio della filosofia


GLYN DALY. Sei nato nel 1949, sei cresciuto a Ljubljana, capitale della Slovenia, nella Jugoslavia del dopoguerra. Prima ancora di compiere vent'anni, avevi già deciso di diventare un filosofo. Che cosa ti ha spinto verso questa decisione?

ŽIŽEK. La filosofia non è stata la mia prima scelta. Claude Lévi-Strauss tempo fa affermò che ogni teorico ha fallito un'altra professione, e questo fallimento marchierebbe interamente il suo essere. La prima scelta di Lévi-Strauss era essere musicista. Questa è stata la patina malinconica costitutiva del suo essere. Per me, come è chiaro da quello che scrivo, la prima scelta fu il cinema. Cominciai quando avevo già 13 o 14 anni; ricordo i film che mi affascinarono tanto quando ero ragazzo. Due in particolare lasciarono un segno in me: Psycho di Hitchcock e L'anno scorso a Marienbad di Alain Resnais. Vidi entrambi almeno una quindicina di volte. Di fatto, stavo in uno spazio tra teoria del cinema e pratica cinematografica, avevo una cinepresa Super-8. Quindi, la mia decisione originaria non fu la filosofia; questa fu la seconda scelta migliore.

[...]

Così lo sforzo della filosofia contemporanea consiste non tanto in domande totali o specifiche, ma in ciò che sta dietro di esse, in ciò che consente loro di essere formulate in primo luogo?

Sì, anzi penso qualcosa di così orribile che alcuni, specialmente gli storici della filosofia pre-contemporanea, potrebbero anche linciarmi: e cioè che, nella prospettiva attuale, Kant è stato il primo filosofo. In questo sono ancora imperturbabilmente moderno. Penso che la svolta trascendentale di Kant abbia aperto uno spazio a partire dal quale possiamo leggere retrospettivamente l'intero canone della filosofia precedente. La filosofia pre-kantiana non poteva pensare questo aspetto trascendentale. Pensava la stessa cosa anche il primo Heidegger, se lo si legge accuratamente. Heidegger pensava che Kant avesse aperto la grande breccia indagando sulle condizioni di possibilità. Pensava però che Kant non fosse stato abbastanza radicale, che fosse rimasto ancora debitore di un'ontologia sostanzialista alquanto ingenua. Ma, essenzialmente, Heidegger si sforza di riprendere la scoperta kantiana delle condizioni di possibilità – o quel che lui chiama orizzonti di minuto – e quindi di tornare indietro leggendo Cartesio e Aristotele in questa retroazione. Per inciso, per questo penso che Heidegger stesse sulla buona pista prima di rovesciare la sua posizione, passando alla seconda fase nei primi anni '30. In seguito Heidegger ha abbandonato il suo orientamento basilare nel solco di Kant. A quel punto la svolta trascendentale di Kant era, per Heidegger, semplicemente un'altra regressione nel nichilismo metafisico e soggettivista. Ma credo che sia stata una grande perdita. Forse la scoperta-chiave del primo Heidegger è che si debba rileggere l'intera storia della metafisica precedente attraverso quella svolta trascendentale.

È attraverso questa svolta che tutti i filosofi precedenti andrebbero letti. Prendiamo Aristotele. Qui concordo con Heidegger e Lacan, quando dicono che i cosiddetti scritti biologici di Aristotele sono quelli chiave. Quando Aristotele descrive la struttura di un essere vivente, come ciò che si muove fuori di sé, articola non tanto una teoria del mondo quanto una teoria di ciò che intendiamo quando diciamo che qualcosa è vivo: e cioè, si impegna nella pre-comprensione che abbiamo quando, per esempio, identifichiamo qualcosa come un essere vivente. Qui si tratta veramente di un procedimento ermeneutico, non ontologico. Non si tratta di sapere che cosa oggettivamente e scientificamente significhi essere vivi. Piuttosto si tratta di sapere come nella nostra vita quotidiana, quando abbiamo esperienza di qualcosa di vivente (un animale è vivente, una pietra no), applichiamo certi criteri che abbiamo già in noi: questo è l'approccio ermeneutico. In questo senso, ancora una volta forse, dietro tutti questi nomi appena citati Kant è cruciale.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 79

Conversazione 2

Follia della ragione. Incontri del Real tipo


GLYN DALY. Ora parliamo della filosofia in generale. La filosofia dovrebbe svolgere un ruolo specifico?

ŽIŽEK. Spesso altre discipline svolgono almeno parte del ruolo «normale» della filosofia. In alcune nazioni dell'Ottocento, come l'Ungheria o la Polonia, fu la letteratura a svolgere il ruolo della filosofia: delineare l'orizzonte ultimo del significato della nazione nel processo della sua piena costituzione. Oggi negli Stati Uniti, dove nei dipartimenti di filosofia predominano cognitivismo e studi sul cervello, la maggior parte della «filosofia continentale» viene fatta nei dipartimenti di letteratura comparata, studi culturali, inglese, francese e tedesco. Dicono gli americani: se analizzi le vertebre di un topo fai filosofia; se analizzi Hegel, allora appartieni al dipartimento di CompLit! In Slovenia negli anni '70 la filosofia «dissidente» veniva fatta nei dipartimenti e istituti di sociologia. All'altro estremo, la filosofia si assume i compiti di altre pratiche e discipline accademiche (o non-accademiche): nell'ex-Jugoslavia e in altri paesi socialisti la filosofia fu una delle aree dove i progetti politici «dissidenti» si articolarono in un primo momento – fu effettivamente «politica proseguita con altri mezzi» (come disse Althusser a proposito di Lenin).

Allora, dove la filosofia ha svolto il suo «ruolo normale»? Di solito si cita la Germania è ormai luogo comune dire che colà il ruolo straordinario della filosofia si fondava nella realizzazione tardiva del progetto politico nazionale tedesco. Come disse Marx (imbeccato da Heine), i tedeschi ebbero la loro rivoluzione filosofica (l'idealismo tedesco) perché avevano mancato la rivoluzione politica (che ebbe luogo in Francia). Allora c'è una regola? Ci andiamo molto vicini se consideriamo le anemiche filosofie ufficiali, come un centinaio d'anni fa in Germania il neo-kantismo o l'epistemologia cartesiana francese (Léon Brunschvicg, ecc.) della prima metà del Novecento: erano appunto filosofie accademiche stantie, morte, irrilevanti. Allora, che cosa succede se la filosofia non ha un «ruolo normale» da svolgere? E se fossero proprio le eccezioni soltanto a creare retroattivamente l'illusione di una «norma» che si presume che esse violino? E se non solo l'eccezione fosse la regola in filosofia, ma se anche il bisogno di un pensiero autenticamente filosofico sorgesse proprio quando (altre) parti costituenti l'edificio sociale non possono svolgere il «proprio ruolo»? E se lo spazio «proprio» della filosofia consistesse appunto in questi scarti e interstizi aperti dagli spostamenti «patologici» nell'edificio sociale?


In qual misura i parametri della filosofia sono slittati nell'èra contemporanea?

La filosofia non può più svolgere uno dei suoi ruoli tradizionali, come stabilire i fondamenti della scienza, costruire un'ontologia generale e così via. Piuttosto, la filosofia dovrebbe svolgere il compito dell'interrogazione trascendentale. Questo ruolo oggi è più che mai necessario. Perché? In effetti, oggi viviamo in tempi estremamente interessanti, perché una delle principali conseguenze degli sviluppi di tecniche come la biogenetica, la clonazione, l'intelligenza artificiale e così via, è che – forse per la prima volta nella storia – quelli che una volta erano problemi filosofici sono oggi problemi che riguardano ciascuno, vengono discussi ampiamente dal pubblico. Gli interventi bio-genetici, per esempio, ci mettono di fronte a questioni riguardanti la libertà del volere, l'idea di natura e di essere naturale, di identità personale, ecc. Nel nostro tempo dobbiamo confrontarci sempre più con problemi di natura filosofica. Prendiamo i dibattiti sulla biogenetica: il solo modo di adottare una posizione coerente è di porre (almeno implicitamente) certe domande – che cosa è mai la dignità umana? su cosa poggia la responsabilità morale? e così via – domande tradizionalmente filosofiche. Ora, gli atteggiamenti illuministici tradizionali alla Habermas, per esempio, risultano oggi del tutto insufficienti. Quindi non credo affatto che il tempo della filosofia sia passato, anzi, penso che la filosofia abbia da svolgere un ruolo maggiore che nel passato.


Allora, l'età della biogenetica e del ciberspazio è l'età della filosofia?

Sì, perché non ci ritiriamo dalla vita quotidiana in un mondo di contemplazione filosofica. Al contrario, non possiamo trovare la nostra strada nella vita di ogni giorno senza rispondere a certe domande filosofiche. Oggi ciascuno è costretto a essere un po' filosofo nel quotidiano.


La tua prospettiva filosofica attinge estesamente dalla tradizione psicoanalitica. Tuttavia, alcuni dicono che la psicoanalisi è stata del tutto soppiantata dagli sviluppi tecnologici del cognitivismo, delle neuroscienze, ecc. Cosa ne pensi?

Intanto, il cognitivismo e le neuroscienze devono esser presi più che mai sul serio. Non possono essere frettolosamente liquidati in termini trascendentali come semplici scienze ontiche prive di riflessione filosofica. Considero invece le scienze cognitive come un tipo di versione empirica del decostruzionismo. Di solito si associa il decostruzionismo all'idea secondo cui non c'è un soggetto unico, che c'è una moltitudine di processi dispersi in competizione tra loro, che non c'è auto-presenza, che c'è la struttura della différance nel senso di Derrida, ecc., ecc. E se prendiamo questa struttura di différance, che sottolinea il differimento, una delle conclusioni interessanti della scienza cognitiva è che, letteralmente, non viviamo nel presente; che c'è un certo ritardo dal momento in cui i nostri organi di senso captano un segnale dall'esterno fino a quando non viene elaborato come si deve in ciò che percepiamo come realtà, e poi proiettiamo questo all'indietro nel passato. Così la nostra esperienza del presente è fondamentalmente esperienza passata, ma proiettata all'indietro nel passato.

Il secondo bel risultato del cognitivismo è che in un certo senso sovra-conferma Kant: dice che non solo quel che esperiamo come realtà è strutturato attraverso la nostra percezione, e che gli impulsi empirici sono coordinati attraverso alcune categorie universali, ma dice qualcosa anche di più radicale: che anche quel che percepiamo come realtà immediata è direttamente un giudizio. Prendiamo un esempio standard da un libro cognitivista: entri in una stanza e vedi che tutte le sedie sono rosse, e poi subito dopo entri in una seconda stanza simile, allora pensi di vedere esattamente la stessa cosa. Ma è stato dimostrato ripetutamente che la nostra percezione è molto più frammentaria di quanto non appaia – molte sedie nella seconda stanza hanno forme, colori, ecc. diversi. Di fatto hai visto solo un paio di frammenti e quindi, basandoti sulla tua esperienza precedente (tutto questo accade nel momento immediato in cui percepisci, prima di ogni giudizio propriamente conscio), costruisci un giudizio – «tutte le sedie devono essere rosse». Ma quel che vedi è il risultato del tuo giudizio – letteralmente, tu vedi giudizi. Non c'è nessun livello-zero di percezione sensoriale della realtà la quale solo successivamente verrebbe coordinata in giudizi. Vedi sempre già giudizi.

Allora abbiamo la teoria estremista della mente pandemonio, la quale afferma che ci sono solo agenzie in competizione, che non c'è nessuna mente unica, che non c'è alcun centro cartesiano, e così via. Così tutti questi sviluppi delle scienze cognitive sono in una certa risonanza con certe prospettive filosofiche e persino decostruzioniste.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 176

E poi c'è il discorso «ufficiale» della sinistra contemporanea, quello della Terza Via.

Naturalmente sono radicalmente opposto a questa linea, eppure sarei tentato di dire che tra le quattro posizioni qui esposte, è la più onesta. Almeno gli ideologi della Terza Via hanno giocato onestamente il gioco. Dicono apertamente che il capitalismo è il solo gioco oggi possibile, e l'intera idea consiste nel come impegnarsi nel capitalismo globale mantenendo allo stesso tempo un certo livello di eguaglianza, di diritti sociali e così via. Temo che anche la Terza Via non riuscirà a mantenere le sue promesse, tuttavia oggi sta emergendo – attraverso figure come Berlusconi in Italia e Haider in Austria – qualcosa di simile alla Terza Via in politica, e non necessariamente combinata al neo-fascismo, combinata piuttosto con nozioni nazionaliste più organiche. Così oggi abbiamo questa situazione: che il capitalismo liberale globale può essere supplementato da una parte da una politica multiculturalista leggermente più orientata verso il welfare e, dall altra, da nuovi tipi di «maggioranza morale» e di arroccamento etnico. Entrambe queste linee possono coesistere con il capitalismo globale. Oggi sia la destra che la sinistra si stanno ristrutturando.

Comunque, almeno i sostenitori della Terza Via mostrano apertamente le loro carte. Non bluffano nel senso che non si richiamano a qualche nozione feticista della sinistra, e non si richiamano, come fanno alcuni multiculturalisti, a una vuota retorica anti-capitalista. Comunque, queste quattro posizioni hanno in comune questo: che o si schierano con il capitalismo oppure lo ignorano come problema centrale.


Hai sostenuto che la politica di sinistra dovrebbe tornare a occuparsi di economia; ma che cosa intendi esattamente per economia?

Non intendo economia nel senso volgare di «sì, dobbiamo fare qualcosa per il bene dei lavoratori». Intendo qualcosa di più radicale. A dispetto di tutte le mie critiche alla tradizione marxista occidentale, trovo un'idea centrale sviluppata da Georg Lukàcs e dalla Scuola di Francoforte oggi più attuale che mai. L'idea è che l'economia non sia semplicemente una tra le sfere sociali. Quel che la critica marxista dell'economia politica – del feticismo della merce, ecc. – ha colto è che l'economia ha un certo status sociale proto-trascendentale. L'economia fornisce una matrice generativa per fenomeni che a prima vista non hanno nulla a che fare con l'economia come tale. Per esempio, possiamo parlare di reificazione, di mercificazione della cultura e della politica e così via. A livello della forma, l'economia capitalista ha una portata universale. Così, mi interessa la dimensione strutturante globale di ciò che procede a livello dell'economia capitalista. Non è solo un campo tra gli altri. Su questo, ancora una volta, sono in disaccordo con il mantra postmoderno: gender, lotte etniche, gender ancora, qualsiasi cosa, e poi le classi. La classe non è un elemento della serie. Per «classe» intendo la lotta economica anti-capitalista.


Insisti sull'importanza della classe e tuttavia l'idea di classe come agente unificato è stata pesantemente criticata da varie prospettive. Consideri ancora la classe operaia un agente rivoluzionario nel senso marxista?

Sì e no. Il problema è questo: che cosa è oggi la classe lavoratrice? Dovremmo certamente abbandonare ogni feticcio di centralità della classe operaia. Ma allo stesso tempo dovremmo abbandonare il feticcio opposto (postmoderno): che la classe lavoratrice sta scomparendo; che non ha senso parlare di classe lavoratrice. Ambedue le tesi sono sbagliate.

Abbiamo un paio di tendenze oggi. Una è il crescente ruolo strutturale dei disoccupati. Chiaramente con la nuova logica del capitalismo contemporaneo, sempre più ti verrà meno un lavoro permanente a vita, cambierai lavoro ogni due o tre anni. Alcuni ideologi postmoderni celebrano questo come una nuova liberazione nel senso che tu non hai più un'identità fissa: per usare il termine alla moda, hai una «soggettività portafoglio». Questa è una tipica operazione ideologica postmoderna, dove l'orrore di non essere mai certi se avrai lavoro o no ti viene rivenduto come nuova libertà. Non sei fissato a una identità; devi reinventarti ogni due o tre anni.

Così lo strato dei disoccupati non è più semplicemente un eccesso ma qualcosa di inscritto nella struttura. La classe lavoratrice è scissa tra quelli che hanno un lavoro e quelli che non ce l'hanno. La seconda scissione che rende problematica la nozione tradizionale di classe lavoratrice è la divisione tra lavoro intellettuale e manuale. Ci sono qui due posizioni. Una dice semplicemente «sì, il lavoro manuale sta scomparendo, ma è ancora presente se pensiamo ai milioni che lavorano nei servizi, ai lavoratori immigrati che fanno i lavori sporchi, alle "fabbriche del sudore" globali in Indonesia, e così via».

Così le nostre società devono poggiare sul lavoro manuale di una classe lavoratrice vera e propria.

Dal lato opposto abbiamo il gioco delle tre carte di chi dichiara che il lavoro intellettuale è anche parte del proletariato oggi, che tutti quei programmatori di computer sono anche sfruttati e così via. Credo che in qualche modo entrambe le posizioni siano false e che dovremmo accettare semplicemente questa scissione come definitiva.

La terza opposizione, alla quale abbiamo prima accennato, è la relazione tra il primo e il terzo mondo. Secondo il marxismo tradizionale, il vero capitale dovrebbe essere prima di tutto un capitale mondiale. Naturalmente, la posizione maoista è in contrasto con esso, in quanto per essa la lotta di classe sta diventando oggi la lotta di interi paesi, nel senso che certi paesi, come Stati Uniti e Gran Bretagna, sono già in se stessi nazioni borghesi. E ci sono nazioni proletarie proprio in quanto nazioni. Non sono affatto d'accordo, eppure vedo in questo il segnale di un problema.


Allora, sebbene tu respingi la classe come feticcio, ciò nonostante ascrivi una certa priorità politica alla lotta di classe, almeno nei termini del suo anti-capitalismo?

La mia posizione è quasi quella marxista classica, nel senso che secondo me la lotta anti-capitalista non è semplicemente una tra le altre lotte politiche per una maggiore eguaglianza, per il riconoscimento culturale, l'anti-sessismo, ecc., ecc. Credo nel ruolo strutturante centrale della lotta anti-capitalista. Credo che la mia posizione non sia pazza o idiosincratica come forse appariva fino al 2001. Non si tratta solo del cosiddetto movimento dei no global; molti altri segnali mostrano che il capitalismo sta diventando di nuovo un problema; che la luna di miele della globalizzazione, durata per tutti gli anni '90, sta arrivando alla fine. In questo contesto possiamo anche capire il successo incredibile del libro Impero di Negri e Hardt: esso segnala che la gente sta di nuovo percependo il capitalismo come un problema. La vecchia storia, secondo cui le battaglie ideologiche sono finite e il capitalismo ha vinto, non tiene più.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 188

Questa questione del potenziale democratico dell'Altro ci porta alle crisi attuali sorte in seguito all'11 settembre, e alla politica di confronto tra democrazie liberali occidentali da una parte e forze cosiddette fondamentaliste (l'«asse del male» di Bush).

Innanzi tutto, quando ascoltiamo la solita frase «nulla sarà più come prima», la prima reazione di una persona che sappia pensare è semplicemente quella di dubitarne. Questo può suonare paradossale, ma a proposito di quegli eventi sconvolgenti uno dovrebbe avere il coraggio di chiedere «ma è davvero una rottura così fatale?». Direi di no. Dovremmo focalizzarci qui sul come questa esperienza sconvolgente è stata appropriata ideologicamente. Si trova il tipico atteggiamento conservatore nella stampa americana e in una serie di commenti dopo l'11 settembre che dichiaravano la fine dell'«età dell'ironia». Il messaggio generale è: «fino a oggi ci sentivamo sicuri nella nostra sfera del mondo, dove potevamo giocare a tutti quei giochi decostruzionisti/ironici e così via, ma ora siamo tornati alla realtà. Oggi la situazione è chiara, i giochetti sono finiti. Siamo noi contro il nostro nemico, e ognuno deve scegliere da che parte stare». Bisogna resistere a questa tentazione. Oggi più che mai la mistificazione è giunta al colmo. E proprio in questi momenti, quando la situazione stessa pare imporre una trasparenza radicale – «basta con tutte le vostre analisi di merda... ora siamo noi contro di loro» – che l'ideologia è al suo zenith.

Per prima cosa, occorre mettere in questione le coordinate stesse della problematica. La rappresentazione dominante del conflitto è nei termini dell'atteggiamento aperto e liberale dell'Occidente opposto alle forze fondamentaliste musulmane. Ma è questa la vera opposizione? Già a un livello immediato vediamo che due paesi – Pakistan e Arabia Saudita – erano i maggiori sostenitori dei talebani, ed erano allo stesso tempo importanti alleati dell'America. Malgrado tutte le chiacchiere sulla democrazia, di fatto è nell'interesse degli USA che l'Arabia Saudita non diventi una democrazia, perché questo comporterebbe il rischio di un intervento populista e gli USA potrebbero perdere l'accesso al petrolio. E, come parte del gioco, l'Arabia Saudita a sua volta gioca in modo spericolato con la politica fondamentalista per legittimarsi agli occhi del proprio stesso popolo.

Invece di credere alla semplice opposizione tra «noi liberali aperti, tolleranti e illuministi» contro «fondamentalisti», dovremmo usare un altro quadro generale di riferimento a cui già Badiou aveva accennato. Badiou sostiene in modo convincente che sebbene il tratto-chiave del Novecento sia stato la Guerra Fredda (antagonismo tra capitalismo e socialismo), c'era simultaneamente una «guerra calda» tra l'eccesso di capitalismo stesso e tutte le altre formazioni sociali. In altre parole, il capitalismo, per combattere il comunismo, lasciò che il genietto uscisse dalla bottiglia – il fascismo – e quindi dovette congiungere le sue forze al suo vero nemico per schiacciarlo. Questo è cruciale. E su questo concordo condizionatamente con Fukuyama quando applica ai talebani il termine islamo-fascismo. Ma dovremmo dare a questo termine un significato strettamente marxista. Islamo-fascismo significa fascismo come strategia disperata in difesa del capitalismo. Così come per ogni fascismo, l'islamo-fascismo/fondamentalismo è parte della strategia spontanea della difesa capitalista.

Ovviamente non sono d'accordo con Fukuyama, ma mi sono imbattuto in un'ironia rivelatrice in una copia dell'«Year Review» di «Newsweek» (uno di quegli stupidi numeri che specula sul futuro) dove erano pubblicati articoli sia di Huntington che di Fukuyama. Messi a confronto, sono chiaramente in contrapposizione: Huntington sostiene la sua tesi dello «scontro di civiltà», mentre Fukuyama afferma la fine della storia e la dimissione di tutti gli scontri basilari e dei reliquati ideologici. Nessuno dei due è un serio pensatore, e tuttavia giungiamo a un risultato interessante: la loro verità consiste nel leggerli assieme, come identici. E cioè, lo scontro di civiltà è la politica della fine della storia. Quando non hai piu veramente lotte ideologico-politiche, ogni lotta può solo apparire in maniera totalmente mistificata come uno scontro etnico o religioso di civiltà. Questa è la verità di fondo delle loro posizioni.

| << |  <  |