Copertina
Autore Joseph Zoderer
Titolo Il dolore di cambiare pelle
EdizioneBompiani, Milano, 2005, Narratori stranieri , pag. 272, cop.fle.sov., dim. 150x210x20 mm , Isbn 978-88-452-3388-3
OriginaleDer Schmerz der Gewöhnung [2002]
TraduttoreGiovanna Agabio
LettoreGiovanna Bacci, 2006
Classe narrativa tedesca , narrativa italiana
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Subito dopo la morte di Natalie era cominciato quel mal di testa, esattamente nel momento in cui il cancello del cimitero si era chiuso con un cigolìo. Molti anni fa, comunque. Una pressione sorda, che cominciava all'improvviso quando tutto gli passava di nuovo davanti agli occhi. Anche in piena notte. Nonostante non fosse stato presente, una settimana prima del suo nono compleanno. Ma vedeva tutto come se fosse stato a guardare, vedeva anche l'acqua d'un azzurrino trasparente, leggermente dorata.

Dalla finestra aperta entrava nella stanza l'aria fresca della notte, ma non c'era ancora luce a sufficienza per poter vedere il viso di Mara sul cuscino accanto a lui. Per un momento ascoltò il suo respiro lieve, poi allungò la schiena e appoggiò le mani piatte sul ventre, immaginando di essere un embrione avvolto nel proprio ventre. Il mal di testa non diminuiva, doveva essere iniziato mentre dormiva ed era diventato sempre più forte finché l'aveva svegliato. Un dolore sordo che premeva dall'interno contro la sua scatola cranica. Spinse le gambe fuori dal letto senza accendere la luce e cercò tastoni la porta. In bagno accese la luce e consultò l'orologio da polso: le tre e mezzo. Dallo specchio il suo viso lo scrutava, non aveva bevuto, non aveva più bevuto da settimane, da mesi. Adesso, davanti allo specchio, il mal di testa diminuì e lui uscì sul terrazzo: attraverso un velo di nebbia alta filtrava una mezza luna. Sarebbe stato un giorno di sole, un giorno caldo della tarda estate. A poco a poco i suoi occhi si abituarono alla penombra dell'alba, e respirò a fondo. I dolori alla testa erano cessati – l'aria fresca, si disse –, ma non appena fu di nuovo a letto, disteso sulla schiena, la pressione riprese.

Quel mattino, cumuli di nebbia erano ancora sospesi sui prati, Mara lo accompagnò su fino alla cima del bosco. Per i primi metri il cane saltò abbaiando attorno a loro e si lasciò dare qualche pacca affettuosa, poi corse avanti distanziandoli. Il ciliegio selvatico al margine del bosco perdeva già le prime foglie che si erano colorate di giallo e di rosso. Il sentiero era troppo stretto per due, e Mara camminava davanti a lui. Quando uscirono dal primo tratto di bosco, lui indicò due o tre corvi sul campo mietuto: li vedo lì ogni mattina, poi disse: io parto. Le loro scarpe tracciavano solchi nell'erba umida di rugiada che copriva il sentiero fino all'altezza delle caviglie. Mara non si fermò, non sembrava sorpresa, continuò a camminare e chiese: per dove?

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Il padre di Mara, che lui non aveva mai visto vivo, solo in fotografia, era morto d'infarto un primo di gennaio. Perseguitato a morte, come pensò in seguito Jul quando Mara gli aveva raccontato la fine del padre, che lei amava anche se era stato un fascista. Jul aveva visto Mara per la prima volta a un dibattito di un gruppo di sinistra. Trovava assolutamente naturale che amasse il padre anche se era stato un fascista. Mara, che aveva diciotto anni quando il padre era morto, di lui conservava solo immagini e ricordi teneri, e a questi ritornava sempre. Ad esempio, il suo ingresso nella stanza da lavoro del padre, che, immerso nello studio degli atti, alzava gli occhi solo dopo un po' e le diceva di avvicinarsi, cercava persino di aiutarla a risolvere i compiti d'aritmetica ma perdeva subito la pazienza. Non era mai stato forte nei calcoli, raccontava Mara, anni dopo, quando studiava alle superiori, lei aveva dovuto persino fare lavori di calcolo in sua vece. Mara parlava di suo padre quasi con reverenza, e a Jul sembrava di vederla entrare a passetti in punta di piedi nello studio, la stanza da lavoro di un avvocato. Per papà lei era stata la piccola ballerina, a volte papà l'aveva tenuta sulle ginocchia, mentre suo fratello minore, Carmine, ogni volta che gli era possibile, voleva sempre portare la borsa degli atti del padre. Dopo il pranzo, che spesso si svolgeva a voce molto alta – papà si arrabbiava facilmente e in fretta, gridava furioso ma poi si calmava altrettanto in fretta –, lui spariva nel suo studio e là, sul divano, si abbandonava a un sonno breve e profondo; così profondo che lei, quando la mamma glielo chiedeva, poteva avvicinarsi senza pericolo alla giacca del padre buttata sulla spalliera di una sedia per sfilarne il portafoglio. La madre prendeva qualche banconota, e lei, Mara, rimetteva il borsellino nella tasca del padre, e questo fatto era avvenuto ben più di una volta, lo ricordava fin troppo bene, ma il padre non se n'era mai accorto.


Durante le vacanze estive e invernali, raccontava Mara, tornava sempre dalla città con la sua Fiat 600 verde pisello il giovedì sera. In precedenza aveva avuto una Fiat E 1100 blu scuro di seconda mano, perché l'aveva acquistata dal cognato. Un vecchio modello, ricordava Mara scoppiando in una risata: in genere dovevamo spingerla, io, mia madre e i miei fratelli, puntavamo le mani dietro, sulla volta del cofano, premevamo e spingevamo, e papà imprecava, mi sembra ancora di sentirlo inveire contro lo zio Stefan, da cui aveva acquistato la Fiat, perché il motore non partiva; la macchina rotolava senza rumore per cento metri e più lungo quel tratto di strada piuttosto in discesa, e in genere si udivano i primi rombi di motore solo poco prima della curva che portava nella piazza del paese.

Tuttavia, quando il padre era a casa, ogni giorno diventava un giorno di festa. Il giovedì sera, quando tornava dalla città, papà puzzava sempre terribilmente di pesce, perché ogni volta portava parecchi chili di animali marini morti, ed era fiero della sua scelta. Spiegava alla madre fin nei minimi dettagli come doveva preparare i diversi pesci, naturalmente lui, che era cresciuto al mare, si atteggiava a conoscitore di pesci, mentre la madre per lui era una montanara che faceva degli ottimi canederli. Quando il padre era a casa, riempiva per così dire tutta la casa, tutto si regolava su di lui. Non so, ma quando c'era lui in effetti la casa era sempre piena, il venerdì arrivavano i suoi ospiti per mangiare il pesce, a volte o per lo più a tavola eravamo una ventina, ricordava Mara. In seguito una volta il figlio del contadino raccontò a lui, Jul, che quel "comandare da Walsche, da straniero" dell'avvocato nei confronti della moglie spesso si sentiva fin dentro le case vicine, come pure le urla dei suoi ospiti.

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Quando il padre di Mara era arrivato nel Sud Tirolo con quell'elegante divisa nera, il padre di Jul era disoccupato già da tempo e quel paradiso per le cure e per le vacanze che erano Merano e Bolzano aveva perso molto rapidamente il suo splendore, anche per gl'inglesi e gli americani, da quando degli squadristi fascisti erano stati trasportati lì su camion aperti ed erano saltati giù dalle rampe di caricamento a Bolzano, città dell'Italia settentrionale (per loro), per mettersi in marcia sbraitando. Come gigantesche cavallette avevano infranto la quiete mattutina delle strade senza conoscere niente dell'antica città austriaca, senz'avere la minima idea di dov'erano, se in una via commerciale o in un'antichissima piazza del mercato (piazza delle Erbe, frequentata già anche da Goethe e Heine, che comperavano le pere e forse assaggiavano anche i fichi verde-violetto di Bolzano), di questo posto i fascisti non sapevano niente tranne: qui siamo in Italia – cacciamo via i tedeschi! Alcuni di loro sparavano non solo per aria, una pallottola colpì un insegnante tedesco che cercava di rifugiarsi nell'ingresso di una casa con un bambino, e lo uccise.

Quando al padre di Mara fu ordinato di recarsi qui, la prima guerra mondiale era finita già da vent'anni, e tuttavia per molti, se non per la maggior parte, continuava ancora. Il padre di Mara veniva dalla guerra d'Albania, dove probabilmente si era reso conto che i suoi soldati continuavano a combattere senza nessuna speranza su pendii coperti di macchia contro i cannoni e i fucili albanesi postati in alto. Jul ascoltava i racconti di Mara, ma non era mai riuscito a capire se suo padre qualche volta, da qualche parte in quella guerra d'Albania era stato vicino alla morte, da Mara sentiva dire solo che il padre ricordava quei pochi mesi di servizio al fronte, l'ultimo periodo, come "molto brutti". Gaetano de Pasqua era arrivato dall'Albania in un paese quasi idilliaco, come federale era rimasto a Gorizia, l'ex Görz imperialregia, solo per pochi mesi, e da un giorno all'altro si era visto trasferire in Alto Adige, no, non per ragioni disciplinari, come dicevano altri, niente affatto, perché adesso, dopo Gorizia, confine slavo nordorientale, si trattava di tenere lontano da Roma il confine tedesco. Per l'appunto ancora territorio nemico, questo territorio delle Alpi prettamente contadino con un dialetto caparbiamente tedesco-tirolese per più di mille anni. E allora adesso bisognava fare il lavoro per il duce, a cominciare dai bambini: la manina destra alzata, il braccio teso e la mano piatta per il saluto romano.

Quando il padre di Mara attraversava le sale del palazzo prefettizio a Bolzano con i suoi stivali neri lucidi o saliva impettito i pochi gradini che portavano al municipio, il padre di Jul a Merano si metteva in coda per cercare ogni lavoro possibile, allineato in colonna. Una volta aveva lavorato come factotum in un albergo, dalle cinque del mattino aveva pulito, spalmato di crema e lucidato le scarpe nere, marroni, bianche e blu degli stranieri, poi in autunno aveva raccolto mele e uva per diversi proprietari, aveva fatto domanda per il posto di giardiniere comunale, non solo avrebbe rastrellato e scopato i sentieri del parco, avrebbe anche potato con piacere le rose e pulito le aiuole di fiori, ma la sua domanda d'impiego era senza speranza, perché non aveva voluto modificare, italianizzare il suo cognome, come richiedeva il regime. Restava la speranza di trovare lavoro come manovale nei cantieri pubblici. Mussolini era un costruttore di strade, non solo di monumenti, e in effetti in quel settore c'era lavoro, anche se solo a condizione di diventare italiano, il che allora significava diventare fascista, cioè perlomeno un fascista con la tessera del partito, un membro iscritto, altrimenti addio, altrimenti non c'era nessun lavoro da parte dello stato. E questo divenne anche il padre di Jul, che negli anni venti, come molti giovani sudtirolesi, si era opposto all'italianizzazione, al divieto di parlare tedesco per strada, in treno o al ristorante, anche al divieto di vestire alla tirolese, giacca di loden con risvolti rossi o verdi o pantaloni di pelle e calzettoni bianchi, e ai nomi tutt'a un tratto italianizzati: Jacopo anziché Joggl, Giuseppe anziché Josef o Sepp, Giovanni anziché Johann, Guglielmo anziché Willi, addirittura anche sulle lapidi. Il padre di Jul si era ribellato a tutto questo gridando e non solo, a casa al tavolo della cucina, picchiando o non picchiando pugni tra i piatti, balzando in piedi di scatto e correndo qua e là tra i fornelli, il tavolo e le sedie, eppure proprio lui...

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Così finirono per decidere di vivere completamente indipendenti: loro due con e per Natalie. E per Natalie volevano avere soprattutto del verde, degli animali e un bosco, una casa molto lontana dalla città. Le discussioni nel garage erano finite, anziché attività di volantinaggio o manifestazioni a metà degli anni settanta c'erano le "serate del centro culturale", che si svolgevano in sale cittadine ufficialmente autorizzate. Quindi un sabato mattina lessero un annuncio sul giornale con una buona notizia. Comperarono un maso in montagna semirovinato, tentarono persino di abitare sotto quel tetto pieno di buchi per quattro mesi (tarda primavera, estate e inizio autunno), finché una raffica di vento strappò via la parete ovest di legno. Ma già la primavera successiva lasciarono l'appartamento soleggiato della città e si sistemarono nel fieno del granaio, dieci metri a est del maso in rovina. Un armadio per i vestiti e tre materassi (perché il fieno era vecchio e polveroso). E i vicini li aiutarono a demolire la casa d'abitazione, prima il tetto di scandole, poi le travi, le pareti di assi – solo il pianoterra con la cucina e due "Stuben" erano in muratura. Mara disegnava, fantasticava con lui. Da una mattina all'altra le loro idee sulla casa cambiavano, ma alla fine la costruirono come la volevano, con l'aiuto di un muratore che però era alcolizzato e spesso spariva per giorni. Ma talvolta lui stesso, Jul, spingeva il carretto con la malta davanti ai piedi di Mara, e lei tirava su la parete di una stanza, un mattone dopo l'altro. Era primavera, i ciliegi erano bianchi, i prati gialli di tarassaco. Natalie con i suoi tre anni voleva partecipare alla costruzione, portava alla mamma un mattone o un pezzo di legno. Di notte o quando all'improvviso scrosciava un acquazzone si rannicchiavano nel granaio in una nicchia del fieno. Anche se questo non li proteggeva dai fulmini che precipitavano giù guizzando – alle pareti di legno che lasciavano filtrare la luce e l'aria erano appoggiati tutti gli attrezzi di metallo – cunei, forconi, scuri, pale e altri. Per Jul fu il periodo più bello con Mara. Spingeva su con forza per il pendìo del prato il carretto con la malta fino alla costruzione, spesso insieme a lei, che lo trascinava su con un gancio di ferro attaccato ai tiranti del carretto. La sera, solo quando il muratore aveva riposto il secchio della malta e la cazzuola, grattati e lavati, accanto al suo frattazzo e lui e Mara erano rimasti a guardare l'impalcatura nell'erba alta fino al polpaccio, solo allora udivano il frinire dei grilli e il richiamo del cuculo. Natalie dormiva tra loro, ma loro due cambiavano spesso di posto, dimodoché lui non era mai veramente separato da Mara.

All'inizio dell'estate poi venne ad aiutarli anche Luca. Aveva cominciato a lavorare in uno studio dentistico a Venezia, naturalmente nella città lagunare si sentiva a casa, in quanto la famiglia di sua madre viveva ancora a Mestre non lontano dal porto. Ma suo padre era un geometra di Bolzano, un italiano pazzo per la montagna, che aveva preso o trascinato con sé Luca fin da piccolo in escursioni alle malghe e a croci sulle vette. E così Luca anche da loro si muoveva come a casa, quel rinnovamento o quel caos gli piacevano: quando Jul era occupato a Bolzano con le sue notizie radiofoniche, lui lo sostituiva almeno temporaneamente, portando con Mara la malta là dove il muratore ne aveva bisogno. All'inizio era venuto solo per qualche giorno, come disse, ma alla fine aveva trascorso da loro tutte le vacanze estive, e Jul l'aveva ringraziato, perché ogni giorno feriale, già alle quattro del mattino, doveva scendere dalla montagna per trasmettere le prime notizie, e tornava solo nel primo pomeriggio. Certo, anche i vicini si offrivano sempre di aiutare per qualche ora, ma era importante che qualcuno non solo desse una mano al muratore amante del vino con la malta e i mattoni, ma gli facesse anche sentire qualcosa come il piacere di veder crescere i muri. E Luca sapeva farlo, riferiva sempre Mara, e Jul stesso aveva avuto modo di osservare più volte che Luca cercava di persuadere quel testardo di Albin in un dialetto sudtirolese inframmezzato all'italiano, lo tranquillizzava con poche parole tirolesi dall'accento straniero e riusciva a convincerlo a prendere più di una decisione importante sul lavoro.

Quando Jul tornando dal lavoro prendeva l'autostrada, sotto un temporale o con un sole splendente, e passava davanti a Chiusa e a Bressanone per tornare su in montagna, si sentiva felice come se avesse contribuito a costruire persino il mondo con pietre, malta e mattoni. Natalie l'aspettava sotto l'impalcatura con le sue piccole braccia aperte. E insieme a chiodi, viti, fogli di lamiera e cemento speciale Jul portava sempre anche provviste – vino, salami, formaggi e qualcosa di dolce per Mara e Natalie. Di sera, quando c'era calma di vento, con Luca raccoglieva i resti del legno da costruzione e accendeva un fuoco, e poi si sedevano attorno e bevevano del vino rosso dalla bottiglia. Non aveva mai notato che Luca e Mara si guardassero in modo particolare, diverso. Dormivano tutti e quattro nel granaio, nella nicchia del fieno.

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In cima al dorso della collina c'è ancora un po' di neve. Ma attraverso lo strato sottile di fiocchi si sente ancora l'odore del concime rappreso.

Puzza, sbuffa Mara. Tutti hanno troppe bestie, comprano del fieno in più dei prati confinanti con l'autostrada, erba al piombo gassificata per latte genuino delle Alpi.

Dobbiamo irritarci ogni giorno per questo?

Perché fa schifo, perché mi disgusta quest'ipocrisia dei bravi tirolesi difensori della patria, dice Mara, mezzo in italiano, mezzo in tedesco corrente.

E tutt'a un tratto questo fa arrabbiare Jul. Anche se condivide l'opinione di Mara, di colpo deve difendere qualcosa.

Perché in italiano? Non sono ipocriti, ribatte, comunque non meno ipocriti dei tuoi patetici conterranei, con la loro cordialità che è solo finta.

Di colpo se la prende con gl'italiani, anche se lì non rovesciano il concime, non sradicano i cespugli e non tagliano né pioppi né salici né frassini né betulle. Tuttavia: perché Mara tutt'a un tratto sul limitare del bosco deve inveire in italiano contro i locali, contro i contadini tirolesi? Anche lui ne avrebbe motivo, ma fa parte di loro e li capisce meglio, pensa, e sa che sono vissuti poveramente fino a non molto tempo fa, in ogni caso fino a parecchio dopo la guerra: zuppa di farina soffritta a colazione, quindi al posto del caffè zuppa soffritta con dentro pezzi di patata e pane nero duro come un sasso, fatto seccare in soffitta. Carne solo nei giorni di festa e magari un bicchiere di vino per il padrone del maso, ma solo per lui, non per i braccianti, i servitori, che spesso erano anche i suoi fratelli e le sue sorelle. Adesso naturalmente davanti a ogni maso c'è una macchina per ogni figlio cresciuto, e ogni porta d'ingresso dà su una strada asfaltata, ma dopo la guerra in casa non c'era neppure il dentifricio, spesso bisognava fare ore di marcia per raggiungere il negozio di alimentari in paese e il medico stava sul lato opposto della valle: di scarlattina si poteva morire facilmente. Oggi le donne comperano pane, spaghetti, carne in scatola e surgelati (patatine fritte, spinaci, pesce, piselli, pollo) al supermercato; naturalmente sono molto amati gli scaffali con i dolci, cinque o sei scaffali, tutta una parete di scaffali pieni di dolci: scatole di biscotti, di dolciumi, cioccolato, caramelle di tutti i colori. Prima non c'erano quasi mai leccornie, torte o crafen solo nelle feste più importanti, ma adesso ogni giorno, sempre: caramelle al cioccolato, tortine. Perché Jul si è irritato? A causa degl'italiani? E perché ha preso le difese delle contadine giovani e vecchie che mangiano cioccolato contro gl'italiani, dei montanari tirolesi che tracannano vino, birra e grappa contro gl'italiani che sorseggiano il loro espresso? Solo perché Mara ha detto una frase in italiano? Jul si ferma, chiede anche a lei di fermarsi, la tira per la manica ma si limita a indicarle i prati coperti di ghiaccio grigio in forte pendenza, che scendono quasi in verticale dal limite del bosco, delle alture sassose coperte da una macchia di noccioli e di ontani spogli dal luccicore argenteo, molto più sotto ancora bosco con sopra quel cielo striato di un azzurro freddo. E Mara lo capisce, dice: sì, è anche casa mia, eppure in me c'è ancora qualcos'altro che tu non hai e che forse per questo non capirai mai veramente. In me ho mia madre tedesca, ma anche mio padre siciliano. Non posso essere per i tedeschi e contro gl'italiani, ma non posso neanche essere per gl'italiani e contro i tedeschi.

Forse è un vantaggio, dice Mara, eppure mi manca qualcosa che gli altri hanno – la sicurezza, è senz'altro più facile appartenere con sicurezza a un luogo.

E noi, dice lui, eravamo una famiglia sicura, tu, io e Natalie, questa era senz'altro un'appartenenza sicura, un essere fatti per stare insieme.

Una casa della memoria, dice lei, se vuoi, ma allora non inveire più contro la mia italianità.

Ha ragione, pensa Jul e non risponde, sente attraverso le suole delle scarpe le ondulazioni e i rilievi ghiacciati del campo, deve scendere di lato con cautela o cominciare a correre, ma non corre, avvolto nel suo vecchio mantello nero di Valentino si allontana in diagonale da Mara e poi, sempre in diagonale, si riavvicina a lei, la raggiunge ogni volta mentre scende tranquilla con passo veloce. Non ha niente contro gl'italiani, per amor del cielo, niente contro Roma o Venezia. E meno che mai contro Enrico, il suo barbiere, che con lui parla tedesco, anche se Jul entrando nel negozio saluta sempre con un "Buon giorno" o "Buona sera", e il barbiere gli risponde sempre in tedesco "Giorno" o "Buon pomeriggio". Quando va via stringe persino la mano al suo barbiere, l'allunga spontaneamente, sorprendendo per lo più il maestro, e ogni volta dà una mancia, anche se il maestro è maestro di se stesso.

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