Copertina
Autore Pietro Adami
Titolo La cucina carnica
SottotitoloLa regione naturale, la storia, 260 ricette
EdizioneMuzzio, Roma, 2009, Cucine regionali , pag. 300, ill., cop.fle., dim. 14,2x21x1,8 cm , Isbn 978-88-96159-14-9
LettoreLuca Vita, 2009
Classe alimentazione , regioni: Friuli-Venezia Giulia
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su BOL.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice


Prefazione di Giuseppe Maffioli all'edizione del 1985 7
Prefazione                                            9
Avvertenze                                           11
Premessa                                             15

Polenta                                              23

Minestre                                             47

Primi piatti asciutti                                81

Cjalzòns o cjalsòns o cjarsòns                       99

Latte e latticini                                   125

Maiale                                              163

Selvaggina                                          189

Pesce, chiocciole, rane                             203

Apporti gastronomici dall'Oltralpe                  217

Dolci                                               235

Bevande e distillati                                251

Cucina e suppellettili                              273

Indice delle ricette (nomi in friulano)             289
Indice delle ricette (nomi in italiano)             295


 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 15

Premessa


Il quadro gastronomico generale appare oggi segnato da idee e tendenze piuttosto confuse, a volte anche contraddittorie, forse viziato da culture piuttosto fragili sia degli operatori in cucina, sia di un'utenza sempre più esposta, ma anche sempre più incline ad ascoltare, a seguire i suggerimenti commerciali, della moda. Basti pensare alle cucine postmoderne, a quella destrutturata, a quella molecolare, a quella tecnologica. Per anni, poi, un malinteso culto della creatività ha sostenuto un'alimentazione a dir poco stravagante, generatrice di uno stile uniforme, del tutto distaccato da quel prezioso patrimonio di esperienza, sapienza, buon senso accumulato nel tempo dalle comunità locali.

Fortunatamente negli ambienti più avveduti, nei circoli dove non si teme di apparire provinciali, si fa avanti — in Carnia a ben vedere si consolida — la consapevolezza che in definitiva sono ancora le realizzazioni maggiormente legate al territorio quelle che appartengono con pieno merito all'alta cucina, ove — per dirla con lo storico Jean François Revel — l'associazione sapiente ed equilibrata di prodotti spesso comunissimi è capace di sviluppare sapori egregi, decisi, altrimenti ed altrove irripetibili.

Si nota, in realtà, una propensione per una cucina preparata con maggiore semplicità, più misurata nei condimenti e nelle droghe, che bandisce tutto quanto dà connotazioni diverse, strane, esotiche agli ingredienti di base, che tende in definitiva a trarre conveniente profitto della natura, senza mai contrariarla.

Così, la Carnia vanta oggi piatti talora semplicissimi per ingredienti e fattura, ma sempre carichi di personalità (come il frico ), talaltra ricchissimi per nobiltà di componenti, con accostamenti spesso indimenticabili di spezie, aromi, erbe spontanee (come i cjalzòns ). Piatti, tutti questi, sostenuti da gusti storicamente educati, abituati a sapori forti, decisi, penetranti con accentuazioni aromatiche, capaci di dare un forte senso di sazietà a lungo, legati strettamente allo stile di vita condizionato da intenso movimento fisico, da elevata manualità, esercitati prevalentemente in clima ed ambienti piuttosto freddi.

Delizie gastronomiche meritevoli comunque di essere gustate da quanti amano le preziosità, che fanno parte a buon diritto di una cucina che in ambito regionale presenta per colori, sapori, aromi, qualità tattili le più sicure e marcate peculiarità.


Le caratteristiche più evidenti della cucina carnica riguardano per un verso un forte radicamento temporale (con epoche di riferimento a volte addirittura imprecisabili) di un insieme di usanze e costumi alimentari che – unitamente al folclore, al linguaggio, ad altri usi di vita quotidiana – è gelosamente custodito dalla comunità locale. Testimonianza concreta, quanto preziosa della viva propensione della gente carnica a salvaguardare le proprie tradizioni, la propria identità culturale è senza dubbio il mirabile "Museo delle Arti e delle Tradizioni Popolari M. Gortani" di Tolmezzo, istituzione tra le più reputate in Europa, ove, per quanto attiene alle costumanze alimentari, due sezioni dedicate alla cucina – quella settecentesca "Marchi" di Paularo e quella della "Società Filologica Friulana", da un lato fanno splendidamente rivivere le tecniche di preparazione degli alimenti, l'organizzazione del lavoro in cucina, i rituali nel consumo dei pasti, dall'altro lato evocano in forma suggestiva l'antica abitudine carnica del ritrovarsi intorno alla taule dal fogolâr per celebrare l'intimo rito della unità familiare. Per altro verso è evidente un palese radicamento territoriale, cioè quello stretto legame con la realtà, con la vita quotidiana locale; ne è buon esempio il frico, che è ben poco noto oltre il crinale di lingua tedesca verso la Bassa Carinzia e pressoché sconosciuto oltre il confine orientale italo–sloveno, ma è cibo legato da secoli ad una categoria molto importante di lavoratori carnici – quelli del bosco, i boscadôs – che lo preferivano, oltre che per la facilità di asporto, proprio per quel senso di appagamento che comportava, un grande pregio per gente che non poteva certo disporre a volontà di risorse alimentari. Per altro verso ancora v'è in Carnia un rigoroso utilizzo dei prodotti naturali locali e un altrettanto puntuale loro impiego secondo precisi calendari e scadenze stagionali.

Altra peculiarità di rilievo si riferisce, poi, ai procedimenti di cottura, pazientemente sperimentati ed associati a specifici recipienti di cucina ben fissati nella tradizione. In Carnia erano un tempo privilegiate le cotture lente, dolci, la lessatura, quella sotto la cenere, tali comunque da non richiedere una sorveglianza continua del fuoco vivo e degli inconvenienti ad esso eventualmente connessi. La donna, infatti, prima di essere cuoca a tempo pieno era operaia nei campi, nei prati, nelle stalle, ed aveva ben poco tempo da dedicare alla casa. Cotture tradizionali sono quella del frico nell' antiàn, tipicissimo recipiente in cotto, di forma rotondeggiante, con i bordi sbalzati e il manico piuttosto lungo, quella della jota nel bronzìn, pesante paiolo di bronzo, prodotto un tempo prevalentemente nel Canale di S. Canciano. Se si interpellano, poi, i più anziani ed esperti di Alesso, si apprende che la vera punta di squisitezza della cucina rivierasca carnica è il bisàt del lago di Cavazzo, cucinato sul stec, specie di spiedo rudimentale di legno aromatico, capace di cedere aromi e sapori alla delicatissima e bianchissima polpa dell'anguilla, depurata al fuoco della brace del grasso eccessivo, con l'aggiunta di sole poche foglie di alloro.

Da ultimo – ma non certo per importanza – la cucina di lassù si distingue per la sua inventiva, da non confondere con l'arbitrio, perché frutto di spontaneità, di intuizione, anche di un certo ingegno nell'accostamento degli ingredienti naturali locali, secondo disponibilità contingenti. Abilità, tutte queste, trasmesse in Carnia inconsciamente con l'abitudine e l'imitazione, nello stretto ambito familiare, al massimo paesano; abilità tese ad ottenere preparazioni ad un tempo buone da gustare, belle da vedere, sane che fanno bene alla salute. Basti ricordare che uno dei piatti classici carnici, fra i più semplici, la minestra di orzo e fagioli, costituisce, meglio se accompagnata con polenta, un matrimonio alimentare ideale, conveniente e naturale, nel quale ogni componente fornisce i principi nutritivi che integrano ed arricchiscono quelli degli altri, presentandosi quale cibo dall'equilibrio quasi perfetto. Espressione altrettanto significativa della cucina inventiva carnica è il già citato frico, a base di formaggio locale stagionato, la cui identità è strettamente correlata con sistemi assolutamente autoctoni sia di elaborazione dell'ingrediente di base (fritto nel grasso del formaggio stesso, senza aggiunta quindi di burro, olio di semi, strutto), sia di cottura rigorosamente nell' antiàn (come già rilevato in precedenza).


A ben vedere, la cucina tradizionale carnica, così rigidamente definita, potrebbe sembrare qualcosa di immutabile nel tempo, ancorata a consuetudini ed epoche lontane, qualcosa di buono soltanto per il museo. Ma non è proprio così: perché tutte le cucine popolari, in realtà, mutano, più o meno radicalmente, più o meno celermente, subendo nel tempo una sorta di processo di logoramento, per l'influenza, spesso combinata, di una serie di fattori di varia natura e origine.

In primo luogo va rilevato che ogni cucina popolare – quindi anche quella carnica – è per eccellenza genere orale, affidato all'esperienza femminile, tradotto di generazione in generazione da madre in figlia, ben raramente correlato con la scrittura, anche semplice, che un ambiente scarsamente alfabetizzato non ha potuto invero codificare, se non sporadicamente e a costo di grandi fatiche. Ne consegue – come rilevato dalla prof. Piera Rizzolatti – una concreta difficoltà di ricostruire puntualmente e con sufficiente completezza il panorama gastronomico originale, proprio per la mancanza di molti anelli certi della catena storica, che non può ragionevolmente risalire oltre alle pur preziosissime testimonianze offerte dalla memoria degli informatori più anziani ovvero dalle raccolte, peraltro poco sistematiche, effettuate a cavallo tra fine Ottocento e inizio Novecento, quando sono sorti un certo interesse e qualche curiosità per il mondo popolare. Queste lacune tendono, poi, ad aumentare risalendo a ritroso nel tempo, per il fatto che i testimoni si fanno sempre più rari, oltre che per l'accennata fragilità del supporto cartaceo.

Così, la proiezione attuale della cucina carnica non può non risultare inevitabilmente viziata, rispetto al quadro d'origine, da una progressiva azione di erosione, connessa a naturali omissioni, trascuratezza, interpolazione, intervenute nel corso dei secoli.

In secondo luogo va detto che incide molto sulle cucine popolari quel fenomeno che attiene allo strisciante, inarrestabile sovrapporsi di usi alimentari estranei agli usi locali, tendente a modificare preferenze alimentari e gusti, addirittura a creare irreversibilmente nuove realtà. Del resto il sociologo Ulderico Bernardi ha sottolineato che "finché c'è un uomo sulla terra, la gastronomia, come tutte le conquiste della cultura, continuerà ad evolvere".

Sotto il profilo prettamente strutturale, cioè dell'offerta alimentare disponibile, è certo che un po' dappertutto con la spinta della tecnica, del migliorato benessere, del minor tempo che la donna dedica ai lavori domestici, in specie alla cucina, le consuetudini alimentari, gli stessi modelli di vita sono soggetti a mutare sostanzialmente. La spesa giornaliera, per esempio, dispendiosa ed onerosa, è stata man mano sostituita dalla spesa una tantum, quindicinale o mensile, nei grandi centri di approvvigionamento, con vastissima gamma di prodotti, tutti igienicamente sicuri, etichettati a norma di legge, preconfezionati, precotti, prodotti di cui le multinazionali promuovono un diffuso interesse all'acquisto con incisive, onerose campagne mediatiche.

Anche la Carnia ha risentito e risente di questa tendenza; solo in parte, però. Lassù c'è ancora chi fa la scorta di uova dal solito abituale agricoltore; chi conosce personalmente il fornaio che ogni giorno fa il pane in prima persona, da mettere in tavola fresco ( "un pane che sa di pane", per dirla semplicemente con lo storico von Rumhor); chi conosce personalmente il purcitâr che macella da solo il maiale e confeziona le carni per le famiglie; chi conosce bene il casaro che fa il formaggio con il latte di una determinata malga. Ci sono ancora negozi di alimentari con offerte merceologiche molto ridotte, ma con referenze prevalentemente locali. C'è ancora chi – questo è molto importante – non lasciandosi fuorviare del tutto dai suggerimenti pubblicitari, procede alla scelta dei generi alimentari da acquistare con cognizione di causa, cioè dopo attento esame organolettico, gustando, sentendo, annusando, tastando il prodotto.

D'altra parte, non si può sottacere che l'offerta alimentare ha perso progressivamente in Carnia importantissimi giacimenti gastronomici e il gusto per essi è andato completamente disperso. Basti ricordare il celebrato patrimonio ittico del lago di Cavazzo (gamberi, tinche, anguille, carpe a specchi di Galizia), richiestissimo dalle mense patriarcali di Aquileia, enfatizzato da Maestro Martino nel famoso De Arte Coquinaria del 1440, i prelibati cais che Vinàio di Lauco spacciava un tempo in grande copia, i cros, ingrediente di base per una zuppa di prammatica nei giorni di magro, la frutticoltura che, nonostante meritevoli sforzi di ripresa, non riesce più a dare quelle susine e quelle ciliegie, reputatissime un tempo in ambito regionale.

Quanto al profilo psicologico, non sembra fortunatamente potersi accertare in Carnia un particolare entusiasmo per quella voglia di diverso, quell'ansia di perfezione, quella spinta verso il nuovo ad ogni costo, che – in linea generale – possano risultare, a volte, anche invitanti e, non certo di rado, di assuefazione abbastanza rapida. A fronte di tale perplessità – dovuta un po' alla scarsa reattività nei confronti dell'azione pubblicitaria, un po' alla diffidenza verso le mode, un po' ad una mentalità segnata dal lungo isolamento – v'è una palese quanto meritevole riflessione e apertura per un certo tipo di innovazione gastronomica, che non tradisce mai, peraltro, la cucina dal sapore empirico, per rincorrere magari una cucina di precisione, che si ritiene un primo, pericoloso passo verso la cucina tecnologica. Si tende, da un lato a salvaguardare la struttura delle vivande e i relativi sapori originali, dall'altro a guardare con grande attenzione alla fase di preparazione per render i cibi più accattivanti, più gradevoli alla vista, anche più gustosi, senz'altro più adatti ai palati di oggi. Basti ricordare i tempi più moderati di cottura, in specie di esposizione dei grassi al calore, al fine di rendere i cibi stessi meno pesanti. Basti pensare alle temperature, tali da agevolare al meglio la percezione dei sapori. Basti pensare ai più moderati dosaggi di condimenti e soprattutto di spezie: quelli d'altra epoca, molto pesanti, a volte eccessivi, risentivano notoriamente della scarsa precisione, della mancanza di strumenti di misura men che rudimentali e della pratica diffusa del dosaggio a vôli, cioè a occhio.

Ci si difende in Carnia ancora abbastanza bene, anzi con una certa ostinazione anche dal rischio pericoloso dell'abitudine all'uniformità alimentare e all'appiattimento dei gusti, correlato al fenomeno pressante della internazionalizzazione della cucina. C'è poco spazio, infatti, per prodotti standardizzati o di paninoteca, che vengono considerati – prevalentemente dalle fasce medio-alte di età – cibi privi di gusto, di identità culturale. In proposito, sono da freno antichissime tradizioni, ancora ben vive, quali quella della mattanza del maiale e della preparazione delle sue carni per usi domestici che si celebra il giorno di S. Andrea, appuntamento tanto atteso anche perché occasione per gustare alcune prelibatissime specialità (la martundele, i sanganei, in specie la mula, quella con zucchero, pinoli, uva passa, cannella, brocche di garofano), considerati veri peccati di gola, con sapori originalissimi, per stomaci robusti, ben lontani dal pericolo della standardizzazione, della omologazione.

Pure il fenomeno, spesso ingannevole, attinente alle cucine etniche stenta a radicarsi in Carnia, nella piena consapevolezza che la valenza gastronomica del cibo non stia nella ricetta in sé, che può essere preparata invero con la dovuta accortezza comunque e dovunque, ma nella natura degli ingredienti utilizzati, nella loro freschezza, nella loro fragranza, nella loro genuinità, nella loro provenienza. Si è convinti, per esempio, che i cjalzòns – nel mancato rispetto dell'utilizzo degli ingredienti canonici, secondo rigorosi codici territoriali e precisi calendari stagionali – perdano tutta la loro identità, diventando preparazione anonima, a volte sofisticata, spesso insipida, comunque diversa da quella originale.


Si può ben dire, in definitiva, che il rapporto tra la comunità carnica e il cibo è ancora compatibile, sostenibile. Perché lo sostiene una preziosa propensione di associazioni, di privati avveduti, di volontariato intelligente a trasmettere, a raccontare ai giovani la storia minore, quelle del paese, degli alimenti, delle ricorrenze gastronomiche. Questa disponibilità è tanto più meritevole, in quanto – oltre a cercare di fissare in una storia comune, finché c'è tempo, quel tanto di originale, di naturale, che l'ambiente locale è ancora in grado di proporre – per un verso è di freno al dilagare dell'omologazione dell'offerta alimentare, per altro verso è di efficace stimolo per un maggior apprezzamento dei sapori elementari, della diversità alimentare, nonché per un imprescindibile rafforzamento della coscienza del gusto, a dispetto dei cibi senz'anima, di un alimentazione solo e soltanto tecnologica, di una cucina qualunque, che in Carnia non ha goduto in passato e non gode certo oggi di attenzioni particolari.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 23

Polenta


1. Come in tutte le zone montane, anche in Carnia è da sempre molto popolare e diffusa la polente, un tempo consumata da sola, preparata prima con farine di cereali minori ovvero anche con verdure, zucca gialla o patate, e solo a partire dalla seconda metà del Seicento con la farina di sòrc cioè di granoturco, spesso senza il costosissimo sale, a volte con un caratteristico leggero sapore dolciastro dovuto alla insufficiente maturazione dei cereali.

Il tipo caratteristico è sempre molto consistente, tanto che sul taulęr, rotondo tagliere di legno di faggio (a volte anche di pioppo), conserva la forma quasi sferica del paiolo e le fette tagliate a cròus con il tradizionale filo, restano bene accostate l'una all'altra. In tal modo si poteva portare più facilmente nelle malghe e in altri luoghi impervi di lavoro oltre che conservare più a lungo.

La grana è generalmente medio-grossa e, una volta, poco uniforme per i primitivi sistemi familiari di macinazione e successivamente per le rudimentali lavorazioni presso i mulini locali, fra cui quelli di Trasaghis, Tolmezzo, Villa Santina, Cavazzo, Cercivento, Paularo.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 28

4. In Carnia la polenta di farina di sòrc si prepara tradizionalmente in una cjaldèrie, cioè in un paiolo di rame non stagnato, a fondo convesso profondo, lucidissimo all'interno e sempre abbastanza scuro all'esterno. Nel paiolo, che si pone sul fogolâr o sul spolert che dà un'impareggiabile odore di fumo, si versano novecento grammi di farina in tre litri di acqua con circa 20 grammi di sale grosso.

Appena l'acqua bolle, anzi un po' prima, si butta la farina a pioggia, a poco a poco, per non abbassare la temperatura e soprattutto per non causare grops, cioè grumi. Buttata tutta la farina, o un po' di meno, si raggiunge il giusto amalgama mescolando con la mazze de polente, cioè con un mescolo di legno di faggio per circa un'ora, smuovendo bene il fondo. Solo dopo cinquanta minuti circa, infatti, le cellule del granoturco si disintegrano, liberando l'amido, rendendo la polenta perfettamente digeribile. Segue l' ultime sflamade, cioè l'ultima fiammata perché si stacchi bene dal fondo del paiolo nel scodellarla sul tagliere.

[...]

Persiste tuttora in Carnia la sterile disputa se la polenta di farina gialla sia migliore di quella di farina bianca ovvero se la prima sia da considerarsi grossolana, volgarmente aggressiva, addirittura buona per il pastone dei maiali oppure la seconda debba essere bandita perché senza nerbo.

Ancorché l'iconografia la proponga "soavemente bionda" ovvero dal "consolante color dell'oro", questi pregiudizi, che nemmeno le ricorrenti carestie sono riuscite in passato ad annullare, si basano esclusivamente su elementi emotivi o su quel desiderio di poter fare comunque delle scelte, in quanto nessuno può ragionevolmente sostenere che una farina sia più nutriente, più saporita dell'altra.


5. Dal limite minimo e irrinunciabile (polente e piz) che rappresentava negli anni bui, come ad esempio nel 1816, anno di carestia mai cancellata dalla memoria popolare, o nel 1917, anno dell'invasione, la polenta è andata accompagnandosi a tutta una serie di elementi integrativi o di arricchimento, pur sempre caratterizzati da grande semplicità.

Č da sottolineare che, in campo dietetico, il senso di sazietà – dovuto alla presenza di carboidrati – che la polenta provoca in misura maggiore di altri cibi farinacei, è in realtà difficilmente definibile e quantificabile; certo è che ha rappresentato una valenza che la gente carnica ha ben conosciuto e sfruttato negli anni più difficili.

Si è creduto a lungo che tale senso di appagamento volesse significare alimentazione completa. Ma, si è accertato in seguito che la polenta per avere un sufficiente valore nutritivo doveva essere utilizzata in associazione con altri cibi, non essendo dotata di tutti gli elementi necessari. Dagli inizi del Settecento, infatti, la polenta era guardata con forte sospetto perché accusata di dare la pellagra, nome che le deriva dalla ruvidezza della pelle – pelle agra, pelle arsa – ma che si manifestava con tutta una serie di altri gravi sintomi quali convulsioni, paralisi, demenza. Era dovuta alla carenza di vitamina PP, così chiamata proprio da Pellagra Preventing.

In Europa si è dovuti arrivare al XX secolo per capire che la polenta in sé è cibo sano e la causa della pellagra stava nella mancanza di elementi integrativi.


6. Qui di seguito si riportano alcune preparazioni a base di polenta di farina di granoturco, fra le più correnti.


Polente e lat – Polenta e latte

Cibo semplicissimo, ancora oggi comunissimo anche nelle campagne della pianura, che presupponeva naturalmente la disponibilità di una mucca (di una capra, di una pecora). Destinato prevalentemente ai bambini consiste tanto in polenta arrostita, quanto in polenta appena levata dal paiolo, posta in una scodella piena di latte freddo.


Polente tal lat – Polenta nel latte

Qui si tratta, invece, di polenta fredda (anche avanzo del giorno prima) ritagliata minutamente e quindi bollita nel latte, anche scremato, acido oppure recuperato dal fondo della zangola dopo aver preparato il burro. Si mangia al mattino per colazione.

In certe zone è conosciuta come bobolènt, come rilevato da Giovanna Squecco in La cucina carnica, Tolmezzo, 1997.


Crostis di polente tal lat – Croste di polenta nel latte

Venivano considerate un tempo molto comunemente come delle vere e proprie golosità, per colazione appena staccate dal paiolo, ammorbidite nel latte. Di sera si mangiavano quando non c'era la jota.

Sono molto popolari nella riviera del Lago di Cavazzo e in Val Tagliamento.


Pistùm e pęrs – Pistùm e pere

Si tratta semplicemente di granoturco arrostito, ridotto in farina, mescolato con latte, caffè e pere secche.

Č in uso ai Forni Savorgnani.


Picòtz

Si tratta di farina di granoturco impastata con sic, messa in forno a cuocere, talora anche con uvetta.

Č una preparazione conosciuta soprattutto a Forni Avoltri, Collina e Rigolato.


Polente, ont e gratùm – Polenta, burro cotto fuso e ricotta grattugiata

Polenta prelevata direttamente dal taulèr con la forchetta, secondo una usanza medioevale, intinta nell' ont e poi nel gratùm, cioè nella ricotta affumicata grattugiata.

Č un cibo tipico di Forni Avoltri.


Polente cul ont – Polenta con il burro cotto fuso

Č un cibo corrente in tutta la Carnia. Si spalma un tegame di strutto e vi si mettono fette di polenta; si cosparge di formaggio grattugiato mescolato con la cannella; si ricopre con l' ont. Si passa nel forno ben caldo e si ritira il tegame quando le fette sono ben gratinate.


Polente rustide – Polenta arrostita

Semplicemente fette di polenta fredda che si arrostiscono lentamente sulla brace.

A Ovaro, invece, si fa indorare il burro e poi vi si versa la polenta; quindi, aiutandosi con la forchetta, la si schiaccia. Si cuoce finché diventa rossiccia. Infine, se si vuole, la si spolvera con dello zucchero.


[...]

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 99

Cjalzòns o cjalsòns o cjarsòns


Piatto caratteristico della Carnia – da considerarsi vero e proprio simbolo in relazione tanto alla qualità quanto alla provenienza degli ingredienti e al modo come questi vengono sapientemente elaborati, nonché alle caratteristiche sensoriali – è costituito da una sorta di agnolotti con ripieno di ricotta e molti altri componenti, detti cjalzòns o cjalsòns o cjarsòns.


1. Questo caratteristico cibo rientra, a ben vedere, nell'ambito di una delle innovazioni gastronomiche medioevali di maggior rilievo: quella attinente alla pasta ripiena, che nel tempo ha richiamato indistintamente tanto elaborazioni più o meno raffinate, di prammatica nei banchetti, nei matrimoni, nelle ricorrenze particolari, quanto – con maggior frequenza – l'inventiva popolare, l'arte del riciclaggio alimentare.

Anche in Carnia, come dappertutto, uno degli elementi costitutivi di questo tipo di pasta – l'involucro – ha mostrato nei secoli sostanziali, quanto curiose modificazioni; inizialmente non sembrava affatto destinato ad essere mangiato (troppo robusta e resistente sembrava la pasta, fatta di soli farina di grano, acqua e sale). Successivamente, in epoca rinascimentale si è notato un significativo cambiamento, con tale involucro reso completamente commestibile; col tempo, poi, si è andata consolidando la singolare convinzione – peraltro meno diffusa in Carnia – che la pasta dovesse avere, un po' come per i ravioli di oggi, esclusivamente la funzione di contenere il ripieno ed essere quindi molto sottile, quasi impalpabile.

Quanto al ripieno, è sicuramente connesso con quella consuetudine tutta medioevale, secondo cui i vari componenti alimentari venivano messi in contatto il più intimo possibile per contemperarne al meglio le peculiarità. Non a caso il mortâr simile esteriormente alla pigne, cioè alla zangola, ma ricavato da un unico pezzo di legno robusto, la mezzaluna, il tamęs, cioè il setaccio, sono ricordati tra gli utensili di cucina più importanti e maggiormente utilizzati in quell'epoca.

A ben vedere, viene abbandonata in questo caso quella linea così severa, tradizionale tendente ad esaltare i sapori elementari, a rispettare le verità naturali degli alimenti, seguendo un orientamento più complesso verso la valorizzazione dei componenti attraverso la loro elaborazione (appunto tritandoli, filtrandoli, pestandoli, setacciandoli), la loro sovrapposizione, mirando in tal modo all'ottenimento di un sapore originale, nuovo.


2. Secondo le più radicate tradizioni locali, i cjalzòns vengono preparati prevalentemente come piatto unico, rigorosamente di magro, per la vigilia di Natale prima di andare a madjìns ovvero, in alcune zone del Canale Incarojo, anche per l'ultimo giorno di gennaio ovvero, in quei luoghi dove durante l'inverno l'assenza di sole è particolarmente prolungata, per festeggiare sui poggioli posti sotto i tetti il tanto atteso ritorno del tepore primaverile.


Sulla loro confezione permangono, invero, alcuni profili di incertezza. Bisogna ammettere, infatti, che è molto difficile, anzi quasi impossibile richiamarsi ad una ricetta che corrisponda con precisione al piatto da considerarsi più tipico. Si può solo avanzare ragionevolmente l'ipotesi che i primi cjarsons fossero frutto di pura inventiva, di intuizione nell'accostamento degli ingredienti naturali del luogo, sempre utilizzati secondo il proprio specifico calendario stagionale.

Č, invece, certo e ampiamente documentato che hanno acquisito nel tempo spiccata personalità, nobilitandosi, differenziandosi sostanzialmente da altre analoghe preparazioni di aree contermini, soprattutto in coincidenza con la singolare dimestichezza dei carsici con le spezie.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 105

Cjalsòns di agne Clorinde — Agnolotti di zia Clorinda

    Occorrono

•   Mezzo chilo di patate
•   1 caraboro
•   1 cipolla
•   1 bella presa di prezzemolo
•   3/4 foglie di melissa, nete, menta Luisa, maggiorana, pevarùt, bietola
•   2 fichi secchi
•   2 carrube
•   1 mela
•   Uva passa (secondo il gusto)
•   2 cucchiai di zucchero
•   100 grammi di ricotta

"Per fare il ripieno si mettono insieme patate lessate, caraboro cotto, cipolla, una bella presa di prezzemolo, alcune foglie di erbe aromatiche, bietola, fichi secchi, carrube grattugiate, uva passa, zucchero, pane grattugiato e ricotta. Si pesta tutto e gli si da una passata nell' ont. Si passano al setaccio le patate e il caraboro. Si mette tutto insieme e si fa il pistùm meglio se lo si prepara il giorno prima.

Per fare la sfoglia si mette sulla tavola la farina, si butta sopra dell'acqua bollente con del sale, si mescola, si tira la sfoglia, si tagliano i dischi con una piccola scodella.

Nel mezzo si mette una bella noce di pistùm; poi si chiude. Al bollore dell'acqua si buttano dentro uno alla volta e si fanno cuocere pian piano. Quando salgono, si levano con la cjace forade. Si spolverano con la ricotta affumicata di malga e si cospargono di ont."

Ricetta raccolta sul territorio.


Cjalsòns di Adami — Agnolotti di Adami

    Occorrono (per sei persone):

•   100 grammi di ricotta fresca (non affumicata)
•   100 grammi di biscotti grattugiati
•   100 grammi di marmellata (di prugne, se disponibile)
•   100 grammi di uvetta
•   50 grammi di formaggio stagionato grattugiato
•   2 cucchiai di zucchero
•   1 mela grattugiata
•   2 patate lesse
•   1 cipolla
•   un mazzetto di prezzemolo
•   un pizzico di erbe aromatiche (menta piperita, melissa, maggiorana)
•   sale e pepe (quanto basta)

"Fare un soffritto di due cucchiai di olio e cipolla, passare le patate, fare rosolare un po'. Mettere tutti gli ingredienti (ricotta fresca, biscotti grattugiati, uvetta, formaggio grattugiato stagionato, zucchero, mela grattugiata, patate lesse, prezzemolo, menta piperita, melissa, maggiorana, sale e pepe) e fare in modo che si amalgami tutto. Intanto far cuocere un chilo di patate, passarle e fare una pasta con la farina, piuttosto consistente, poi tagliare tanti gnocchi e con il mattarello, formare dei dischetti, mettere il ripieno e chiudere la forma a piacere, facendo bollire in abbondante acqua salata finchè vengono a galla lasciandoveli ancora per due minuti; poi con il mestolo si scolano, si cospargono di ricotta affumicata grattugiata, si condiscono con ont."

| << |  <  |