Autore Marco Aime
Titolo all'avogadro si cominciava a ottobre
Sottotitoloautobiografia di un quinquennio
EdizioneAgenzia X, Milano, 2014 , pag. 246, ill., cop.fle., dim. 14x20,8x1,6 cm , Isbn 978-88-95029-80-1
PrefazioneAndrea Bajani
LettoreLuca Vita, 2015
Classe biografie , paesi: Italia: 1960 , citta': Torino , scuola









 

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Indice


Lo scanzonato museo delle cose              5
di Andrea Bajaní

Introduzione                                9

Avo                                        13
Sul controviale                            17
From Borgaretto                            20
Avo II                                     26
Which side are you on?                     30
Avo III                                    32
Quello con il disco                        36
Scozza                                     40
Il batterista                              45
Aggiustaggio                               47

Il foro                                    50
I giovani                                  55
La schiena sudata di Richie Havens         58
Bar Impera                                 62
Led II                                     67
L'interrogazione                           72
Non che quello dopo...                     76
Guccini I                                  78
Avo IV                                     85
Torino                                     89

Cosa portare in viaggio                    94
Le belle domeniche                         97
Quelli dei Monkees                        102
Gite scolastiche                          104
J.C.S.                                    107
Giorgio e il gesso                        112
II 45 giri più bello                      115
Il bello della massa                      116
Lucio                                     120
Estati                                    126

Avo V                                     129
Ancora quello con il disco                132
C90                                       134
Laboratorio                               136
Donatella mi disse                        141
Un fascista                               147
Birreria Frejus                           150
Un'aula lunga e stretta                   152
Cohen                                     159
Il vicepreside                            162

Sotterranei                               168
C'è solo la strada                        174
Radio                                     176
Dylan                                     178
Inverni                                   181
Na                                        184
Il migliore                               187
Bacheca                                   189
Sempre lui con il disco                   192
Una gita a Venezia                        194

Avo VI                                    198
Un concerto                               200
Torneria                                  202
Poveri miti                               206
Guccini forever                           209
A Parigi, a Parigi                        218
Poi andavi a sentire Gaber                221
Maturità                                  224
Questo racconto avrebbe dovuto finire qui 234


 

 

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Pagina 13

Avo

"Dove hai studiato?"

"All'Avogadro."

"Aaaahh!" L'esclamazione era solitamente accompagnata da un'espressione soddisfatta di compiacimento. Il labbro inferiore iniziava a spingere verso l'alto, fino a sporgere un po' in fuori per rimarcare il valore dell'affermazione; gli angoli della bocca piegavano in basso e da quella smorfia di ammirazione usciva di solito un: "Complimenti. Dev'essere dura!".

Già, perché fino alla fine degli anni sessanta la fama dell'Avogadro era unanimemente riconosciuta, almeno a Torino. La sua aura di scuola severa, rigorosa, selettiva, capace di preparare ottimi tecnici la precedeva in tutta la città. C'era persino chi si azzardava a dire, che i periti dell'Avogadro ne sapevano quanto, se non di più di un ingegnere.

Insomma, diciamo che quel nome, "Itis Amedeo Avogadro", suscitava un certo rispetto e non poca stima. Tanto è vero che una delle prime cose che incontravi entrando nella scuola (a raccontarla adesso sembra fantascienza), era una enorme lavagna, che occupava mezza parete dell'atrio. Ogni settimana, su quella lavagna venivano aggiornate le offerte di lavoro di varie ditte, che cercavano giovani neodiplomati.

Non ho mai saputo chi scrivesse quelle offerte sulla lavagna, ci sarà stato un bidello incaricato, uno che aveva una bella calligrafia, di quelle di una volta. Non l'ho mai saputo, ma nemmeno me lo sono mai chiesto, un po' perché in quegli anni lavoro e posto fisso erano una cosa scontata e poi perché, finché sei dentro la scuola, al lavoro non ci pensi. Quando poi venne l'ora di uscirne, nel 1975, quella lavagna era sempre meno piena. Di offerte non ce n'erano più molte. Cinque anni dopo Torino sarebbe stata scossa dal terremoto della Fiat, ventimila licenziamenti, un Berlinguer più triste del solito si immolava davanti ai cancelli di Mirafiori, l'ancora più triste marcia di quarantamila servi (è incredibile quanti siano i servi!) e, una volta rimosse le macerie, si sarebbe scoperto che quella non era più la città dell'auto, la company town che era stata per ottanta e più anni, la Detroit d'Italia, e di non essere ancora qualcosa di diverso.

Però fino ai primi anni settanta, la lavagna dell'Avo era bella zeppa di: cercasi periti meccanici, elettrotecnici o aeronautici... aeronautici meno, perché a chi serviva un perito aeronautico? C'è da dire però, che nessuno come loro sapeva costruire gli aerei di carta. Erano dei maestri.

Ricordo benissimo la strana sensazione con cui ripercorsi per l'ennesima volta la strada da Porta Nuova all'Avo in quel luglio 1975. Grazie alla nuova legge, da marzo eravamo diventati maggiorenni. Il giorno che era entrata in vigore, tre quarti di noi non erano andati a scuola, solo per il gusto di firmare il giorno dopo il libretto delle assenze davanti al prof., assumere un'aria un po' pensosa e poi scriverci un bel: "motivi personali". Sono piccole soddisfazione, ma che volete, ci si accontentava di poco.

Quel giorno di luglio però era come se non avessi voglia di arrivarci a scuola. Non che nei cinque anni precedenti ne avessi avuta da vendere, sia chiaro, ma era diverso. Non c'era lezione, né la paura di essere interrogati, iniziavano le vacanze, era estate, dovevo solo andare a vedere il voto dell'esame di maturità, ma sapevo che era andata abbastanza bene e allora? Si era rotto qualcosa. Non riuscivo a comprendere bene cosa non andava, ma sentivo che era finita un'epoca. Facevo di tutto per non pensarci, ma era così. Anche una volta lì, dopo aver letto i risultati su quegli enormi tabelloni scritti a mano – cinquantacinque sessantesimi, neanche male per i miei standard – con i compagni mi sentivo strano. Qualcuno esultava: "È finita! Fi-ni-ta!", ma non mi riusciva di gioire, avevo la sensazione che dopo sarebbe stato peggio e che quel giorno del 1975 – l'anno in cui il Pci era arrivato al 33%, in cui Gustavo Thoeni aveva vinto la quarta coppa del mondo, il Vietnam si era liberato dagli americani e il Mozambico dal colonialismo portoghese – per me ciò che si chiudeva era una parentesi che, pensavo, non si sarebbe più riaperta, un mondo che mi era entrato dentro.

Hai voglia i "tanto ci sentiamo" con i compagni, figurati, si dice per rendere meno duro il distacco. Sì, per carità, ci si vede ogni tanto. Con alcuni anche adesso, ma è diverso che stare tutti i giorni nella stessa aula, condividere le stesse stupidaggini, le stesse ansie, le stesse malinconie, le stesse musiche. Non ci sarebbe più stata la necessità di difendersi dalle difficoltà della scuola e nemmeno quell'impeto che l'età, la massa e quegli anni ti trasmettevano. Ecco, forse quello che sentivo quel giorno, era che a partire dall'indomani, sarei stato un po' più solo.

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Pagina 26

AVO II

Tremila maschi. Tremila tutti insieme, ecco cos'era l'Avogadro, e tremila maschi tutti insieme negli anni in cui le braci del sessantotto bruciavano ancora, erano una macchina da casino. Max che è uno preciso però mi dice: "Anch'io ho sempre parlato di tremila ragazzi, però facendo un calcolo mi ricordo venti prime, dieci seconde e tre sezioni per specializzazione, quindi nove. Fanno trentanove, consideriamone quaranta per trentacinque allievi fanno millequattrocento. Ammettendo che ci fossero anche i serali, mi sembra che forse tremila è esagerato". Vabbé, forse sarà un po' esagerato, ma il casino c'era comunque.

Casino in tutti i sensi, dalla protesta politica al casino puro e semplice, quello che non ha bisogno di ideologie: basta essere adolescenti, maschi e tutti insieme. Una macchina che sembrava muoversi all'unisono, compatta.

A pensarci ora eravamo davvero la concretizzazione visibile e udibile di quel concetto sociopolitico tanto di moda allora: "massa". Sì, eravamo massa e anche energia, pronta a scendere in piazza per gli operai, per il Vietnam, per Allende, come per fare scherzi e giochi idioti. Idioti... insomma, a noi piacevano.

Essere dell'Avo voleva dire far parte di un gruppo ben connotato, appartenere a un mondo, nel vestire, nel modo di presentarsi, di essere. La nostra (parlo di quelli dell'Avo ovviamente) era una generazione che non conosceva la griffe. Anzi, per quel poco che la conosceva, la detestava. A dire il vero, non era una generazione, eravamo noi, quelli di sinistra a odiare la griffe. Gli altri, i cremini, la cercavano. Si chiamavano cremini perché uno dei loro luoghi di ritrovo era la cremeria Doria che giustamente era in via Doria, oppure il Piatti che è molto vicino al liceo classico D'Azeglio, quello della Torino bene.

I cremini erano di destra ma non proprio fascisti. Erano fighetti e basta. I fasci, quelli veri, non vestivano come loro: loden lungo, Ray-Ban a goccia, piegati in giù, che davano l'aria da cane mogio che ha appena preso un paio di calci, jeans a vita alta, altissima. Più alta era, più faceva figo (secondo loro ovviamente). Scarpe Barrows da sanbabilino gialle, appuntitissime che potevi schiacciare una cicca in un angolo. Il cremino tipo aveva poi il vespino, un 125 rigorosamente bianco. Ancora oggi mi chiedo come potevi a 17 anni, nell'epoca del rock e delle rivolte giovanili, comprare un vespino bianco.

Il look non era ancora stato inventato, ma c'era, senza che nessuno se ne accorgesse. Essere dell'Avo, però voleva dire soprattutto non essere liceali. Quelli no, dai! Non li sopportavamo. Ne facevamo quasi un vanto del nostro essere diversi, la si metteva giù dura sul divario di classe, figli di operai e figli della borghesia, sinistra e destra, ma in realtà era invidia. Un'invidia che non volevamo ammettere: loro avevano le ragazze. Era per questo che loro erano più fighetti, meno scalmanati. Loro dovevano piacere alle compagne di classe, le incontravano tutti i giorni, era un lavoro sottile, di cesello. Noi dovevamo fare colpo al primo incontro più o meno occasionale. Non dovevamo indossare la maschera per farci apprezzare. Non è vero. Sto facendo come la volpe e l'uva. Semplicemente, non avendo ragazze da compiacere, indossavamo una maschera diversa, quella dei casinisti e degli impegnati.

Quando c'era un corteo, per andare in piazza Castello non si prendeva via Rossini che sarebbe stata la strada più breve. No, si prendeva a sinistra per corso San Maurizio, poi su per via Sant'Ottavio dove c'era il Gioberti, un liceo scientifico. Lì qualche ragazza c'era sempre. Non troppe a dire il vero: i liceali scioperavano meno di noi e le liceali ancora meno, ma quella era una delle poche occasioni...


    Da: Max
    Oggetto: Avo
    A: Marco

Anche passare davanti all'Artistico non era male...

A proposito di differenze con i liceali, se ricordi, l'uscita alla fine delle lezioni era come l'apertura di una diga. Bisognava scendere una scalinata abbastanza ripida che si faceva correndo e spingendosi. Qualsiasi persona che aspettava sul marciapiede veniva travolta. Quando capitava di andare ad aspettare delle amiche davanti al D'Azeglio rimanevo sempre impressionato da quanto tempo passava tra suono del campanello e i primi a uscire e poi la lentezza con cui lo facevano.

Max

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Pagina 30

Which side are you on?

Erano anni generosi, intensi e ricchi, ma erano anche anni in cui non potevi non stare da nessuna parte. Dovevi scegliere, non esisteva terra di nessuno; solo confini netti tra i tanti e diversi "noi" e gli altrettanti e altrettanto diversi "altri". Non c'era bisogno di aggiungere, come si fa oggi, "senza se e senza ma". Era implicito.

Ho sempre detestato i vecchi che dicevano che i giovani di adesso non sono più come quelli di una volta. Ora che siamo noi a essere vecchi, li detesto ancora di più. Non sopporto quei miei coetanei che si vantano: "Noi facevamo politica, eravamo impegnati, volevamo cambiare il mondo... oggi invece...". È vero, oggi il conflitto generazionale è meno forte e quello sociale debole, ma non perché noi, giovani di allora, fossimo migliori: era l'epoca che ti spingeva a scegliere da che parte stare e lo faceva allettandoti con simboli forti, chiari. Questo sì, questo è il problema generazionale, ma non dei giovani di adesso, di noi anziani di adesso, della generazione dei padri: quali simboli di cui nutrirsi abbiamo saputo dare ai nostri figli?

Potevi piangere per Berlinguer e in tanti abbiamo pianto alla sua morte, potevi scendere in piazza per Allende, urlare slogan per Ho Chi Minh; per D'Alema o Veltroni nemmeno ti saresti alzato dal letto. Dai! Persino a Borgaretto c'era una divisione netta, pulita, chiara: di qui i democristiani (non troppi) e di là c'era Giovanni Ferrero, il sindaco. Ex partigiano, comunista, iniziava i comizi in italiano, ma mano mano che si infervorava, passava senza accorgersene al piemontese che meglio si confaceva a esprimere la passione che lo animava.

Le percentuali di voti del Pci in quegli anni erano bulgare. Un anno in cui il partito prese poco di più del 50% dei voti, alla sezione di Borgaretto si aprì subito il dibattito per parlare della crisi. Percentuali bulgare soprattutto alle elezioni comunali, dove prendeva molti più voti che alle politiche. Perché molti non comunisti votavano comunque Ferrero. Perché Ferrero, come Berlinguer, "era una brava persona" avrebbe detto Gaber.

Ti schieravi perché il mondo era schierato, le parti erano chiare, i ruoli definiti. Non potevi fare finta di niente e non volevi far finta di niente. Non si aveva paura di essere classificati, essere identificato era proprio quello che volevi. Era un mondo che parlava a tutti e tu ne eri parte.

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Pagina 58

La schiena sudata di Richie Havens

Poi lui si alza, nel suo imponente boubou color zafferano, curvo sulla chitarra, si gira di spalle, continuando a dannarsi su quel ritmo sincopato e si allontana. La schiena enorme e scura di sudore, inzuppata di sforzo. Continua a suonare, camminando verso il fondo del palco. Gli spiriti sono con lui. Gli spiriti dell'Africa, le urla degli oppressi, il male dello schiavo, la rabbia del deportato "maledizioni incatenate, i singulti dei moribondi, il rumore di uno che viene buttato in mare. I lamenti di una donna che partorisce, il raschiare di unghie che cercano la gola, i ghigni della frusta, il rimestare dei parassiti fra la gente sfinita...". Parole come frustate, quelle di Aimé Césaire, parole che quella chitarra sapeva dire.

In quell'immagine di Richie Havens a Woodstock non solo c'è una storia, non solo quell'immagine è entrata nella storia, quell'immagine è una storia. Era il sudore di una stirpe, versato nell'urlo di una canzone. Quel "Freedom!" ripetuto ossessivamente, con una voce roca e graffiante, spezzata nel ritmo del canto come un schiena spezzata dalla fatica. E quella chitarra scrostata dai colpi di plettro come una pelle strappata dalle frustate?

Era la musica nera, era la musica. La musica e basta.

E tu stavi lì a guardarlo, con il collo ripiegato in su, verso lo schermo del cinema, come se in quel momento fosse successo qualcosa di mai visto prima. E in effetti non lo avevamo mai visto prima. Mai visto Richie Havens, mai visto suonare il blues dal vivo, ma se è per questo quasi non avevamo mai visto nemmeno De André o Guccini.

De André per anni è stato un volto in una foto rotonda, virata in colori diversi a seconda dell'ellepi. Un volto un po' spigoloso, con la frangia al contrario a coprire quell'occhio semichiuso. Guccini era uno spilungone magro e barbuto, capelli lunghi e in bianco e nero come sulla copertina di Due anni dopo.

La musica la si ascoltava, non si vedeva, tranne che ai concerti, ma De André allora di concerti non ne faceva e nemmeno Lucio Battisti, se non all'inizio. Di lui rimangono le poche apparizioni degli inizi in televisione, con quella testa a cespuglio e il fazzoletto al collo, mentre canta Balla Linda. Per il resto era suono. Era musica.

Ve lo immaginate adesso uno che fa un videoclip con la schiena sudata?

Lo so, sulla musica sono vergognosamente di parte, ma è possibile che oggi non esista una cantante che non sia, non dico brutta, ma anche solo normale: tutte strafighe e i cantanti, tutti con la faccia plasticata e insignificante da fotoromanzo. Una come Janis Joplin oggi non la farebbero nemmeno salire sul palco della Fiera del Bue grasso di Carrù. Vestita da zingara (allora si sarebbe detto da hippy, ma oggi si direbbe da zingara) con quel viso sfatto, gli occhi da miope, arrossati, con l'aria di una che non dorme da tre notti, ma in compenso ha bevuto tre bottiglie di Jack Daniel's. E che non faceva nulla per abbellirsi un po'.

Le star del videoclip sfoggiano corpi da paura, ballano bene, hanno registi e operatori video ottimi. Il suono è perfetto, pulito, mai una sbavatura. Esce dal nulla, i musicisti sono spariti, la manovalanza dello strumentista dev'essere nascosta. Solo cantanti e ballerini, al massimo qualcuno che finge di suonare, poco convinto e per nulla convincente. Nessuno ha la schiena sudata come Richie Havens, nessuno scartavetra la chitarra come lui. La fatica senza lustrini di soffrire e farti sentire la sofferenza. Questo è il blues. Quel blues che ha venduto l'anima al diavolo, ma l'ha regalata al rock. Perché il rock è stato tale fino a che ha succhiato latte dal seno del blues. Dopo, solo rumore.

Il rock è rabbia dove il blues è il dolore che la genera. Il rock raccontava a noi giovani cittadini del ricco mondo occidentale quello che sentivamo dentro, quella voglia di rompere gli schemi, quell'insoddisfazione per le troppe ingiustizie nel mondo che non erano sparite, avevano solo cambiato nome e volto. Ed era solo l'inizio della loro mutazione. Il rock era rabbia frantumata di I Can't Explain, il grido balbuziente di My Generation, l'ossessione acida di Satisfaction. La consapevolezza indefinita che c'era male e dolore nel mondo e che anche noi eravamo parte di quel mondo. Non erano più i tempi di Brecht, quando tutti i posti erano occupati e non ti rimaneva che sederti dalla parte del torto. No, noi volevamo stare dalla parte della ragione ed eravamo così sicuri di esserlo da credere che la ragione stesse sempre dalla parte dei deboli. Avevamo ragione, ora ne sono sicuro e ce l'ha ancora chi non è slittato nella comoda poltrona dei distinguo e dei sofismi rassicuranti. Di quelli che ti dicono: "Non è così semplice, c'è ben altro, la questione è più complessa...". Veltroniani di seconda mano che hanno persino paura di ricordare che avevano creduto in un'idea.

Quelle ingiustizie ci sono ancora, solo non ci sono più il rock e non c'è più un Richie Havens con la schiena sudata a raccontarle.

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Pagina 64

Poi c'era il Centrale. Era un cinema d'essai. Non sapevamo assolutamente cosa volesse dire "d'essai", ma era l'unico ad aprire di mattina, alle 10. E poi il francese nobilita ogni cosa: se dici boiserie fa subito figo, prova a parlare di "perlinato" e ti viene già un po' di tristezza. Il Centrale era un cinema lungo e stretto, dove davano film un po' strani, d'essai, appunto, adesso lo so cosa significa. Ma davano anche i film dei concerti. Nel 1971 era uscito Pictures at an Exhibition di Emerson, Lake & Palmer. Ci sembrava davvero una cosa memorabile: mettere insieme Mussorgsky e il pop più progressivo. Anche perché era la dimostrazione che i musicisti pop erano "colti" e non dei grezzoni, come invece volevano far credere quelli che "vuoi mettere la musica classica, quella sì che è arte". Oh, lo vedete adesso che questi ne capiscono di musica? E mica sono gli unici, sapete? Jethro Tull avevano fatto Bourée di Bach e i Vanilla Fudge avevano rifatto Per Elisa in chiave psichedelica. Insomma, arrangiare pezzi classici, in qualche modo nobilitava il pop e ci dava il modo di ribaltare quel disprezzo con cui spesso gli adulti guardavano alla nostra musica.

Il concerto di E L & P era diventato un film e quando arrivò in Italia, fu il Centrale ad accaparrarselo. Quella mattina, quando proiettarono la prima di Pictures at an Exhibition, in via Carlo Alberto c'era una fila che non finiva più. Tutti studenti che avevano tagliato. Il prezzo era seicento lire, ma se eri in un gruppetto ti mettevi in un po' a contrattare, si entrava con cinquecento. Alla fine, dentro, si era forse il triplo di quanto era consentito. Tutti pigiati, per vedere Emerson che saltava l'organo, lo inclinava, lo sbatteva di qua e di là e poi lo accoltellava, facendo uscire suoni lancinanti che a dire il vero belli non erano, ma guai a dirlo e comunque un po' ci piacevano. Palmer che troneggiava dietro alla sua enorme batteria, con su dipinte scene di caccia alla volpe (i musicisti pop talvolta erano proprio kitch, lo ammetto) e il placido Lake, con la sua voce celestiale da menestrello, che a dire il vero, lì in mezzo c'entrava poco, ma un bassista ci vuole sempre e con il basso ci sapeva fare.

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Pagina 120

Lucio

Ci sono due Battisti importanti nella storia nazionale. Il primo lo studiamo a scuola, irredentista trentino, ucciso dagli austroungarici nel 1916. Aveva 41 anni. Il secondo è stato un tumore a ucciderlo quando ne aveva 55, era di Poggio Bustone, non lo si studia a scuola, ma ha stravolto (in meglio) la canzone italiana.

In un paese dove la melodia era "la tradizione", la bella voce un requisito essenziale, dove la finale di Canzonissima se la contendevano Claudio Villa e Gianni Morandi (e Morandi era quello "moderno") lui arriva con una testa alla Angela Davis, una voce rasposa, non particolarmente bella, ma molto "nera", soul e dei ritmi tutti nuovi, almeno per la canzone italiana. E poi, quanti di noi hanno imparato a suonare la chitarra con La canzone del sole? Una generazione intera ha iniziato la carriera da chitarrista con quei tre semplici accordi, senza barré, sempre con lo stesso numero di battute. La canzone più semplice del mondo eppure così coinvolgente. Trovatemi uno che non conosca quell'attacco: re-la-mi e vai con "le bionde trecce, gli occhi azzurri e poi, le tue calzette rosse...".

Frasi che sono entrate a far parte di un patrimonio collettivo: "signore chiedo scusa anche a lei", "il carretto passava e quell'uomo gridava gelati", "le discese ardite e le risalite". Ogni sacrosanto venerdì accendevo la radio all'una, per sentire Hit Parade (si diceva "it paré" e quasi nessuno sapeva come si scrivesse, né cosa volesse dire), dove venivano presentate, in ordine decrescente, le dieci canzoni più vendute della settimana. Bene, per una caterva di settimane, non mi ricordo quante (bisogna che vada a vedere su internet, tanto lì c'è tutto), la voce di Lelio Luttazzi annunciava: "e al primo posto..." e partiva "che ne sai tu di un campo di grano", senza musica, solo quella voce disperata che andava a intrecciarsi con un'altra voce di Battisti, più acuta, per poi ricadere insieme su quel verso finale "si tu lo sai". Bellissima.

E il blues tirato de Il tempo di morire? Vogliamo parlarne? Quel basso ossessivo, quel tamburo allentato quasi fuori sincrono di Confusione, i disegni della chitarra distorta di Sognando e risognando?

Quello che mi stupisce ascoltando i cantautori e i gruppi italiani di oggi, e lí ascolto perché spero sempre che ci sia qualcuno che sappia emozionarmi, è che musicalmente nemmeno si sognano di fare quello che Battisti faceva quaranta e passa anni fa. E non datemi del vecchio conservatore. Quei quarantaquattro colpi di batteria di Anna e quell'urlo strozzato, roba da Otis Redding. Un testo da schifo, diciamolo, ma la musica da urlo. Era stata censurata dalla radio perché quel crescendo di ansimare avrebbe potuto indurre a pensare proprio a quello che bisognava pensare. Anna era un orgasmo musicale che evocava quello vero, forse meglio.

Dicevo che mi sarebbe piaciuto esserci quando era uscito il 45 giri con Penny Lane e Strawberrry field, però ero al primo anno di Avo, quando uscì quello con Emozioni e Anna. Millenovecentosettanta. Quell'attacco svisato di chitarra acustica, un must, chi non ha provato a farlo? E quante volte abbiamo citato, anche per scherzare "e guidare a fari spenti nella notte per vedere, se è poi così difficile morire".

Non si sa perché, a un certo punto, verso il 1972, iniziò a diffondersi la voce che Battisti era di destra e "di destra" allora voleva dire fascista. Si disse persino che finanziava organizzazioni come Ordine Nuovo. Non c'era stato nessun evento che potesse presupporlo, ma le leggende metropolitane non hanno bisogno di prove, anzi, le rifuggono. Solo così possono realizzarsi, sembrare vere. Qualcuno iniziò a scavare tra le sua parole ed ecco che quel "mare nero" della Canzone del sole fu letto come un omaggio al fascismo e il verso de La collina dei ciliegi, "planando sopra boschi di braccia tese", diventava un richiamo al saluto romano.

Erano tempi ricchi, ma anche cupi per certi versi. Bastava un niente, per prenderti del "borghese" (aggettivo che per qualche regola sintattica epocale, quasi automaticamente si trascinava dietro la specificazione "di merda"). Io in quegli anni facevo atletica agonistica e più di una volta mi è capitato di non andare a un'assemblea.

"Perché?"

"Devo allenarmi."

"Sei un borghese. Lo sport è borghese." Strana visione maoista rivisitata in un'ottica di pigrizia mediterranea, visto che nei paesi comunisti, lo sport era importantissimo.

Persino De Gregori venne contestato al Palalido di Milano e Venditti subì la stessa sorte. Entrambi accusati di non essere abbastanza di sinistra, di non suonare gratis, di farsi pagare. De Gregori venne addirittura invitato a suicidarsi, come Majakovskij. Non potevi andare a vedere un film che non fosse d'impegno (e spesso palloso) a cui seguiva inevitabilmente il dibattito. Non era ancora arrivato Paolo Villaggio con la sua corazzata Potëmkin a liberarci da quella tortura dell'impegno forzato.

Io credo che a un certo punto Battisti cominciò a essere considerato di destra solo perché non era esplicitamente di sinistra e faceva canzoni d'amore non "impegnate", nel senso in cui si intendeva l'impegno in quel tempo. Bastava poco a essere bollato e, purtroppo o per fortuna, le parti erano chiare e sostanzialmente due. Stare al centro o essere moderati non era contemplato, se non da quelli di Comunione e Liberazione, ma nemmeno li si prendeva in considerazione (allora). È vero, nelle sue canzoni l'uomo era sempre la vittima, le ragazze tutte un po' zoccole o insensibili. In Mi ritorni in mente il protagonista viene cornificato in diretta, durante un festa, un'altra volta lui va casa sua e lei è con un altro a cui chiede anche scusa, "ma io ero proprio fuori di me...", che ci creda o meno, Francesca lo tradisce e anche in Pensieri e parole, lui è puro e innocente ma lei non lo capisce. Sì, fa un po' il furbo in Innocenti evasioni, "non aspettavo ti giuro nessuno", ma per il resto sono mazzate. In più, in anni di femminismo dilagante versi come "la mattina c'è chi mi prepara il caffè, questo io lo so e la sera c'è chi non sa dirmi no" rischiavi la pelle, figuriamoci se non ti appiccicavano un bel "fascista".

Peraltro i testi mica li scriveva lui, ma Mogol, quindi... Anche Dylan si prese del reazionario quando fece Nashville Skyline, un disco di ballate country. Non era diventato reazionario: aveva solo fatto un disco da schifo. Tutto qui.

Il mito del Battisti di destra subì un duro colpo nell'ottobre del 1978, quando la polizia scoprì nel covo delle Brigate Rosse di via Monte Nevoso, dove venne tenuto imprigionato e poi ucciso Aldo Moro, la raccolta completa dei suoi ellepi.

Si chiamava Lucio, come Dalla.


    Da: Vincenzo
    Oggetto: Itis Avogadro
    A: Marco

Caro Marco

A volte, improvvisamente, un odore, una luce o una sequenza di note, riaprono porte appoggiate e mai chiuse, in attesa nel tempo.
Qualche volta anche il poeta, il pittore o il narratore.
Se vuoi usare altre chiavi, danneggi la porta.
E sto sentendo il rumoreggiare del corridoio nell'intervallo, il silenzio prima della domanda, il brivido del corteo che urla.
Da una radiolina, Battisti parte con Il mio canto libero.
Il tuo libro mi ha restituito un pezzo della mia vita, che vorrei raccontare per intero ai miei figli.
Grazie

Vincenzo

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Pagina 129

Avo V

In quegli anni si metteva in discussione tutto: íl sistema economico, il modo di produzione della fabbrica, l'autoritarismo scolastico, la repressione dello Stato di polizia, il maschilismo imperante (il "delitto d'onore" venne abolito solo nel 1981), la famiglia. Nulla poteva rimanere immune da un ripensamento. C'era chi "il sistema si abbatte e non si cambia" e c'era chi metteva in atto strategie più morbide, ma l'idea di fondo era che così come era non andava.

Cortei, manifestazioni, pestaggi con la polizia, lacrimogeni. La protesta era fisica, ci mettevi il corpo, non solo la testa. Che voleva dire anche rischiare di prendere botte. Dalla polizia o dai fasci.

Stavo andando a prendere il pullman per tornare a casa, quel giorno ed ero perso in chissà quali pensieri, quando sentii qualcuno urlare. Ci misi un po' per capire che quel "compagno di merda!", "comunista del cazzo!" ero io. Mi conoscevano? No, ma con quell'eskimo e quel tascapane militare ero facilmente identificabile. Mi mancavano solo i capelli lunghi, ma non li ho mai portati perché ho dei capelli da schifo che diventano un cespuglio.

Quattro o cinque fasci si erano alzati dal tavolino e si facevano sempre più vicini con il loro giubbotti di pelle e i Ray-Ban scuri. A quell'epoca ero ancora un buon mezzofondista e quel giorno diedi una delle migliori prove della mia velocità e soprattutto della resistenza. Mi corsero dietro per due-trecento metri, poi si arresero. Io però, non mi fermai fino alla fermata del pullman.

C'erano modi di vestire che erano dichiarazioni politiche, che distinguevano e separavano noi dagli altri. Gli indifferenti li lascio perdere. Li ha già odiati Gramsci e prima di lui Dante che nemmeno li mette nell'inferno, ma fuori, nel girone degli ignavi. E c'erano anche linguaggi differenti.

Non so bene come si parlasse in una assemblea di destra. Di sicuro ho imparato a conoscere lo stile retorico delle nostre. "Cazzo compagni" era il più classico degli incipit. C'erano poi espressioni che non potevano essere omesse: "a monte", "nella misura in cui", "al limite", che davano un tono piuttosto autorevole alla concione e poi una marea di "cioè" per ripetere il concetto appena detto con altre parole. Già di lì capivi che uno non parla perché è un leader, è un leader perché parla.

Altra parole chiave erano "sistema", "borghesia", "padroni", "lotta di classe". Oggi se provi a pronunciarle, ti dicono che sei "ideologico", ma se non lo sei, cosa pensi a fare? Quale società vorresti intorno a te? Questo è l'ideologia, come fai senza? Prova a parlare di conflitto di classe: "ma sono schemi sorpassati, vetero-marxisti" tutti in coro. Balle. Semplicemente la borghesia è diventata oligarchia, i padroni sono di meno, magari camuffati da "mercati", ma sempre padroni restano e il proletariato sono i giovani precari. Cambiano i termini, ma lo schema rimane. A proposito, mi sono sempre chiesto se uno diventa marxista leggendo Marx oppure legge Marx, perché è marxista?

Noi eravamo tutti (quasi tutti) di sinistra. Lo eravamo al punto che a me riesce ancora oggi difficile pensare che un giovane possa essere di destra o leghísta o peggio ancora berlusconiano. Eppure ce ne sono tanti anche perché dei valori della sinistra chi ne parla più?

Perché eravamo di sinistra? Perché credevamo nell'uguaglianza, perché venivamo da famiglie non abbienti, perché pensavamo che solo insieme era possibile farcela, perché..., lo lascio dire a Gaber, che lo fa meglio di me: "Perché con accanto questo slancio, ognuno era come più di se stesso. Era come due persone in una. Da una parte la personale fatica quotidiana e dall'altra il senso di appartenenza a una razza che voleva spiccare il volo per cambiare veramente la vita.

No. Niente rimpianti. Forse anche allora molti avevano aperto le ali senza essere capaci di volare, come dei gabbiani ipotetici.

E ora? Anche ora ci si sente come in due. Da una parte l'uomo inserito che attraversa ossequiosamente lo squallore della propria sopravvivenza quotidiana e dall'altra il gabbiano senza più neanche l'intenzione del volo perché ormai il sogno si è rattrappito".

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