Autore Marco Aime
Titolo Classificare, separare, escludere
SottotitoloRazzismi e identità
EdizioneEinaudi, Torino, 2020, Piccola Biblioteca 729 , pag. 234, cop.fle., dim. 13,5x20,8x2 cm , Isbn 978-88-06-23127-9
LettoreRiccardo Terzi, 2020
Classe antropologia , paesi: Italia: 2020 , storia sociale , storia contemporanea , storia: Europa , storia criminale , razzismo , noi-loro












 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice


Indice
 VII   Prefazione
XIII   Ringraziamenti


       Classificare, separare, escludere

   3   Europa in campo


       I. L'invenzione delle razze

   7   Punti di vista
  14   Classificare per comprendere
  19   Classificare per esistere
  27   La linea del colore
  41   Razze, nazioni e razzismo
  48   La demonizzazione dell'ebreo
  60   Dallo schiavo al "negro"
  67   Gli zingari
  73   Le razze viste dagli altri
  87   L'equivoco
  91   Un'idea troppo forte
  96   I molti volti del razzismo


       II. Dalla razza all'identità

 107   Oltre la razza
 112   Globalizzazione
 117   Immigrazione
 120   Goodbye, Novecento
 125   Nuovi linguaggi
 130   Un rituale "contro"
 138   Ritorno alle origini
 142   Lo specchio dell'Altro
 151   Identità "naturali"
 157   Un passato antico (ma falso)
 163   La pelle e la maglietta
 168   Quel plurale che manca
 173   Nuovi tribalismi


       III. I volti nuovi del razzismo

 181   Dall'identità all'identitarismo
 184   Le nuove destre all'attacco
 194   Pericolo e purezza: l'invasione
 197   Le parole per dirlo
 203   Semplificare, spersonalizzare
 205   Una mutazione antropologica?
 212   Allarme siam razzisti?

 223   Noi non siamo razzisti...


 227   Bibliografia


 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina VII

Prefazione


È triste, in un terzo millennio già avanzato, doversi ancora occupare di razzismo. Purtroppo la storia non è maestra di vita, e noi comunque siamo dei pessimi allievi. Infatti, abbiamo assistito troppe volte al ripetersi degli stessi tragici errori del passato. Ciò non significa che si debba gettare la spugna e ci si debba arrendere allo spirito dei tempi. Ce lo insegna la favola del colibrí, che tentò di spegnere l'incendio della foresta, portando una goccia d'acqua per volta nel suo piccolo becco e lasciandola cadere sulle fiamme. Vedendolo, il leone lo chiamò e gli disse: «Non ci riuscirai mai!» «Forse», rispose il colibrí, «ma intanto faccio la mia parte».

Uno dei modi per fare la nostra parte è cercare di comprendere, di analizzare perché in epoche diverse e in luoghi differenti sorgano spesso sentimenti di repulsione verso certi gruppi e come mai, in alcuni casi, tali pulsioni possano trasformarsi in eventi tragici di esclusione, reclusione e anche di morte.

Il razzismo è una questione complessa, enorme, che tocca diversi aspetti della natura umana e della sua storia ed è difficilmente incasellabile in un solo specifico ambito di studi. Per questo ho cercato un percorso a zig-zag, che superasse ogni tanto i classici confini disciplinari, attingendo in altri pozzi nozioni utili a definire tale atteggiamento, che peraltro ha assunto e assume varie forme nei diversi contesti storici, sociali e culturali. Proprio per la sua natura proteiforme e ambigua, nel testo che segue ho cercato di affrontare, con tutti i limiti di cui sono conscio, questo aspetto del comportamento umano da prospettive diverse, cercando nella prima parte di delineare un percorso delle diverse forme di espressione del razzismo nel contesto europeo; nella seconda parte ho adottato una prospettiva piú antropologica, per comprendere il confine, incerto e mobile, che spesso separa quelle che possono essere considerate forme autentiche di razzismo da altri tipi di avversione verso l'altro. Infine, nella terza parte ho intrecciato le due prospettive con quella della politica, cercando di spiegare le nuove declinazioni del razzismo contemporaneo, figlio, in qualche modo, di quello passato, ma con caratteristiche diverse e adattate ai tempi attuali. Ne risulta un libro non strettamente disciplinare, ma che tenta di restituire proprio quella dimensione poliedrica che caratterizza questo fenomeno, purtroppo cosí diffuso.

Bestia strana il razzismo, facilmente identificabile, ma altrettanto sfuggente nel suo essere multiforme. Pur basandosi su un comune concetto, piú o meno esplicitato, di purezza, si presenta con volti e modalità di azione assai diversi. Soprattutto si muove su quel labile confine che lo separa dall'etnocentrismo, malattia diffusa che colpisce ogni gruppo umano, facendolo sentire superiore agli altri. Escludendo la sua variante istituzionale, basata su leggi esplicitamente discriminatorie, e gli eccidi commessi in suo nome, molto spesso il razzismo si presenta come un atteggiamento strisciante, fatto di piccoli gesti, troppo spesso sottovalutati, e di sentimenti diffusi che finiscono talvolta per gettare le basi di un vero e proprio sistema.

Anche nelle pieghe piú recondite e meno evidenti, quelle del linguaggio quotidiano, quelle autoassolutorie dell'«Io non sono razzista, ma...» si cela sempre la paura di una qualche violazione della propria integrità, considerata "pura". Questa è la chiave di lettura fondamentale di ogni forma di separazione e di esclusione.

Per separare ed eventualmente escludere, occorre prima classificare. Il primo passo è tracciare quella linea che separa "Noi" dagli "Altri", e questo non comporta necessariamente un'azione contro questi ultimi: a volte può addirittura far nascere un sentimento di ammirazione verso lo straniero, visto come portatore di novità, ma nella maggior parte dei casi si traduce in una valutazione più o meno negativa. Fino a quando questo stacco si pone sul piano culturale, può essere superato con negoziazioni, traduzioni, adeguamenti, lasciando aperte delle possibilità. Quando invece lo si sposta nel campo della natura, ogni mutamento, ogni mediazione diventa difficile se non impossibile. È qui che entra in gioco il razzismo, inteso come un meccanismo di rappresentazione fondato su determinati aspetti culturali a cui viene attribuito, arbitrariamente, un significato biologico.

Molte sono state e continuano a essere le vittime di questa ideologia, ma di certo tre sono stati i gruppi piú colpiti dalla follia razzista: gli ebrei, i neri (soprattutto africani) e gli zingari. Sul tema dell'antisemitismo la letteratura è vastissima, così come lo è quella sulle discriminazioni nei confronti dei neri. Meno ampia quella sull'antiziganismo, ma non per questo meno ricca. Ho cercato di riassumere in poche pagine i tratti principali dei tragici eventi storici che hanno coinvolto tali gruppi, ma ciò che mi preme è cercare di mettere in luce le analogie e le differenze tra le varie forme di razzismo e le loro diverse applicazioni nello spazio e nel tempo.

Ho cercato poi di ricostruire attraverso un percorso storico-antropologico quali siano state le diverse strade percorse dalle idee razziali dal loro nascere al loro svilupparsi fino al loro essere tradotte in azioni e politiche razziste. Il plurale qui è d'obbligo, perché sono molti e diversi i volti e le sfumature assunti dai fenomeni legati all'idea di razza. Un'idea sbagliata, se applicata agli umani, come sappiamo ora grazie agli studi di genetica, ma cosí forte ed efficace, in virtú della sua capacità semplificatoria, da risultare tetragona a ogni attacco.

Infatti, ci ritroviamo ancora oggi a fare i conti con alcune delle mille sfaccettature del razzismo, declinato in chiave identitaria. Le generazioni come la mia, nate nel dopoguerra, si erano forse illuse che dopo la tragedia della Shoah il razzismo fosse destinato a finire sugli scaffali della storia, argomento di studio come l'Inquisizione o le guerre di religione. Sull'onda dei movimenti pacifisti degli anni Sessanta, sembrava impossibile che si potesse ritornare a quei deliri. Sono invece bastati pochi decenni per assistere a un rifiorire di idee di stampo razzista, espresse in forme diverse, ma sempre basate sullo stesso principio: la difesa ossessiva di una presunta purezza del Noi.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 5

C'è una scena nel film Gran Torino in cui Clint Eastwood, che nel film interpreta Walt Kowalski, un reazionario conservatore ultrapatriottico che odia gli stranieri, finisce per familiarizzare con i vicini asiatici e a un certo punto escama: «Cristo Santo, ho piú cose in comune con questi musi gialli che con quei depravati della mia famiglia». C'è molto in quelle parole, perché anche lo scontroso protagonista del film, una volta superata la barriera del corpo, dell'apparenza su cui costruiamo i nostri principi di identità e diversità, scopre che a essere diversi sono i suoi familiari piú stretti.

Ecco da cosa nasce il razzismo: dalla non volontà di conoscere e dall'ansia di classificare, di incasellare, ma nel modo piú semplice e rassicurante, cosí come classifichiamo piante, animali, rocce. Un apartheid preventivo, che ci allontana senza conoscerci e allo stesso tempo ci fa sentire vicini e simili, altrettanto senza conoscerci.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 7

Capitolo primo

L'invenzione delle razze


Punti di vista.

                                        Chi si colloca al centro del mondo cade
                                        sulla propria frontiera.
                                                                    ALDA MERINI



«Se si proponesse a tutti gli uomini di fare una scelta fra le varie tradizioni e li si invitasse a scegliersi le piú belle, ciascuno, dopo opportuna riflessione, preferirebbe quelle del suo paese: tanto a ciascuno sembrano di gran lunga migliori le proprie costumanze». Cosí scriveva Erodoto , riconoscendo già ai suoi tempi la tendenza a classificare come "altri" gli stranieri, i diversi, ponendo se stessi come punto di riferimento. Un atteggiamento che oggi chiamiamo "etnocentrismo". A coniare questa definizione fu il sociologo americano William Graham Sumner, che nel 1906 scriveva: «Etnocentrismo è il termine tecnico che designa una concezione per la quale il proprio gruppo è considerato il centro di ogni cosa, e tutti gli altri sono classificati e valutati in rapporto a esso». Si tratta dunque di un atteggiamento valutativo, che può esprimersi sia in giudizi sia in azioni, secondo il quale i criteri, i principi, i valori, le norme della cultura di un determinato gruppo sociale, etnicamente connotato, sono considerati dai suoi membri come qualitativamente piú appropriati e umanamente piú autentici rispetto a quelli di altri gruppi.

L'etnocentrismo è un atteggiamento antico, basti pensare alla divisione tra greci e barbari. Non è neppure una "malattia" esclusiva dell'Occidente: la maggior parte degli etnonimi, i nomi che ogni popolazione si attribuisce, esprime una superiorità intrinseca, per esempio inuit significa "gli uomini", cosí come bantu o apache. In Mesoamerica gli huicholes chiamano se stessi wirrarika, ovvero "persone", che ha lo stesso significato di ndee, il vero nome di quelli che noi chiamiamo apache. Come a dire che gli altri sono meno uomini o non uomini. Peraltro, proprio gli inuit vengono chiamati eschimesi, "mangiatori di carne cruda", in senso spregiativo dagli algonchini; tuareg è l'appellativo dato dagli arabi agli uomini del deserto e significa "miscredenti", mentre loro si definiscono imohag, "uomini liberi", e la lista degli esempi sarebbe molto lunga. Pensiamo anche al proliferare di stereotipi che ogni gruppo umano ha costruito rispetto agli altri. Senza allontanarci molto da casa, è quanto mai condivisa l'idea che i tedeschi siano ferrei nell'organizzazione, gli svizzeri precisi, i francesi romantici, ma anche presuntuosi, gli inglesi snob. Peraltro i francesi ridicolizzano i belgi, gli spagnoli i portoghesi e gli italiani sono bersaglio prediletto di molti europei. La frammentazione storica e la varietà di pratiche culinarie e di dialetti del nostro paese ha fatto sí che gli stereotipi siano fioriti anche al nostro interno: i genovesi avari, i napoletani allegri e furbi, i romani sbruffoni, i piemontesi falsi e cortesi e cosí via. In fondo lo stereotipo è l'equivalente culturale della caricatura: il caricaturista individua un dettaglio curioso e caratterizzante del soggetto e ne riduce la figura a quel particolare. Lo stesso procedimento fa nascere lo stereotipo, che riduce un gruppo, una nazione a un dettaglio, accomunandone tutti i membri e schiacciandoli su quel particolare.

In molti casi l'idea di straniero, di Altro, suppone l'esclusione o la marginalizzazione dalla categoria dell'essere umano di tutti gli altri gruppi. L'elenco è lungo e ci porta a concludere che il pregiudizio snobistico e autoreferenziale di ogni gruppo sembra davvero essere una debolezza umana pressoché universale. Ognuno guarda il mondo, convinto di esserne al centro. Come Montesquieu faceva dire a uno dei suoi "persiani": «Mi pare, Usbek, che noi giudichiamo le cose sempre in base a un riferimento segreto a noi stessi. Non mi sorprende che i negri dipingano il diavolo di un candore abbagliante e i loro dèi neri come il carbone [...]. È stato detto molto bene che, se i triangoli si facessero un dio, gli darebbero tre lati».

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 10

Ci sono molti modi di declinare l'etnocentrismo: dallo scherzo alla xenofobia. Nel mondo greco e romano il pregiudizio era soprattutto legato al lignaggio e alla discendenza. Si è detto della distinzione che gli antichi greci facevano nei confronti dei barbari, letteralmente "balbuzienti", gli stranieri che non conoscevano bene la lingua. Si trattava però di un confine essenzialmente culturale e come tale superabile: un barbaro che avesse imparato bene il greco non veniva piú considerato tale e analogamente il figlio di un barbaro, quello che adesso chiameremmo di seconda generazione, non si portava dietro il marchio del padre: purché sapesse parlare correttamente era greco a tutti gli effetti.

Gli antichi greci e romani credevano che le diverse caratteristiche dei popoli, espresse attraverso il modo di parlare e di vestirsi, fossero determinate da fattori esterni come il clima e il territorio. Sarà con la piena affermazione del cristianesimo che verrà introdotto il concetto di conversione universale, che comprometterà significativamente la precedente identificazione dei popoli con il loro territorio. Infatti, la Chiesa cristiana sviluppa sul piano teorico un atteggiamento universalistico, presentandosi come responsabile di tutti i popoli davanti a Dio, pur contraddicendosi però nella pratica. Le crociate, mettendo di fronte l'uno all'altro i seguaci di Maometto e quelli di Cristo, crearono le condizioni per il recupero dei preconcetti etnici in un contesto di guerra. Infatti, nei territori della Chiesa, la segregazione dei non cristiani continua: nella Sicilia del XII secolo i musulmani sono discriminati e sotto l'Impero bizantino anche gli ebrei subiscono lo stesso trattamento, costretti a indossare un distintivo giallo (simbolo che verrà tristemente ripreso in futuro dal nazismo). Il conflitto religioso fra le tre religioni del libro si era impregnato di pregiudizi relativi alla discendenza etnica.

Già perseguitati dai politeisti per il loro attaccamento al monoteismo, gli ebrei incarnano da oltre due millenni, agli occhi del mondo cristiano, la figura simbolica del deicida e per questo incombe su di loro lo stigma di essere portatori di una sorta di peccato originale di cui si sarebbero macchiati. Di qui le diverse politiche di emarginazione e di esclusione, il nascere di stereotipi negativi e di pregiudizi che vanno sotto il nome di antigiudaismo. Essendo però ebrei i fondatori del cristianesimo, i seguaci di Cristo non potevano pensare che ci fosse qualche tara nel sangue o negli antenati degli ebrei. Non era una questione legata alla natura, ma alla religione. La stessa Chiesa cristiana fino al XII secolo prevedeva che gli ebrei potessero emanciparsi da quel peccato originale, attraverso la conversione. Poi qualcosa cambiò e iniziarono i pogrom: l'antigiudaismo, inteso come pregiudizio religioso, si trasforma in una forma di discriminazione basata sulla razza che prende il nome di antisemitismo. Spostando la questione dal piano della cultura, che è fatto di possibili scelte, a quello della natura, che non ne consente, ovvero con il radicarsi della convinzione che gli ebrei fossero intrinsecamente malvagi e non preda di false credenze e cattive inclinazioni, ogni tentativo di conversione diventa inutile e l'unica soluzione rimane l'eliminazione. L'antisemitismo si trasformò cosí in razzismo.

In questo caso non siamo piú sul terreno dell'etnocentrismo, che pone il proprio gruppo al centro e lo considera il metro su cui valutare l'umanità degli altri, e neppure possiamo parlare di xenofobia, che prevede un sentimento di ostilità nei confronti degli stranieri, ma non li condanna alla loro condizione originaria. Etnocentrismo e xenofobia sono certamente dei punti di partenza, delle fondamenta su cui si può costruire un'idea di razzismo. Come fa notare George Fredrickson, neppure l'intolleranza religiosa può essere definita come espressione razzista, perché «il bigotto condanna e perseguita gli altri per ciò che essi credono, non per ciò che intrinsecamente sono». Possiamo parlare di razzismo in senso lato, quando le differenze di carattere culturale vengono considerate innate, un prodotto della natura, indelebili e immutabili.

Non a caso piú di uno studioso individua i primi sintomi del razzismo moderno nella tristemente celebre istituzione spagnola del XV-XVI secolo nota come limpieza de sangre. L'avanzata islamica aveva nuovamente rimodellato la lettura del panorama etnico europeo. Tale espansione fu accompagnata dal recupero di molti degli antichi testi greci e romani, grazie ai quali fu costruita una nuova visione geografica ed etnica, corrispondente a una nuova civiltà che avesse al centro il Medio Oriente. Occorreva dunque proporre una nuova narrazione, che riportasse nella penisola iberica il fulcro della civiltà, e infatti la regola della limpieza de sangre prevedeva che solo chi era "spagnolo" e cristiano da generazioni potesse accedere alle cariche pubbliche. In questo modo venivano esclusi gli ebrei (conversos o marranos), i musulmani (moriscos) convertiti al cristianesimo e gli zingari. Si stabiliva cosí un rapporto deterministico tra la biologia, rappresentata dalla metafora del sangue, e la cultura, in virtú della quale le qualità morali venivano trasmesse con il sangue: con l'inevitabile conclusione che ebrei, musulmani e zingari non erano in alcun modo assimilabili. Ed è certo singolare che in Occidente la prima forma di razzismo, cioè di discriminazione sulla base di un dato ascritto, sia nata proprio in un contesto culturale come quello cristiano, che si fonda sull'uguaglianza tra gli esseri umani.

Le narrazioni sulla razza tentano di radicare la cultura nella natura e di equiparare i gruppi sociali con le unità biologiche. Essenzializzando sul piano somatico-biologico il diverso, l'Altro, si arrivava cosi a definire nettamente chi erano i puri (Noi) e chi gli impuri (Loro). Una sorta di protorazzismo fondato sulla purezza del sangue. Cosí si gettarono le basi di una discriminazione che oggi definiremmo razziale. Nel momento in cui differenze che potevano essere considerate culturali, religiose, etniche vengono percepite come innate e immutabili, inizia il razzismo vero e proprio. Viene meno ogni eventualità che gli individui possano cancellare le differenze mutando la loro identità. Il virus di quello che possiamo già chiamare razzismo inizia a infettare l'Europa.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 15

Una delle prime operazioni di "riordino del mondo" è stata la divisione netta tra natura e cultura. Tema che peraltro ha fatto discutere per secoli scienziati e filosofi. Un antichissimo dibattito che ha sempre peccato di eccessiva rigidità, in quanto le due cose non sono separate, ma intimamente connesse. Lévi-Strauss , che della classificazione ha fatto la base della sua opera, nella prima edizione de Le strutture elementari della parentela (1949) sosteneva una netta linea di demarcazione tra natura e cultura, mentre nella seconda edizione (1969) rivedeva la sua posizione, affermando che quella linea c'era sí, ma era molto incerta e frastagliata. Ma soprattutto, molti studi di carattere antropologico ci dimostrano che tale confine non è uguale per tutti.

[...]

Gli esempi sarebbero numerosi, ma ciò che conta è che non tutte le società umane hanno isolato quella che noi chiamiamo "natura" come un dominio a parte: gli umani e i non umani non sono visti come esseri che occupano mondi diversi e separati e l'ambiente non è percepito come una sfera oggettiva e autonoma. Come scrive Marshall Sahlins: «Per quanto incantato il nostro universo [quello degli occidentali] possa apparire, è altrettanto ordinato da una distinzione tra natura e cultura che non è ovvia per quasi nessun altro che per noi». E soprattutto occorre riflettere sul fatto che gli stessi concetti di natura e cultura sono i prodotti di una classificazione e non dati oggettivi e condivisi da tutti.

«Che cosa osserviamo?» si chiede Francesco Remotti. «Osserviamo varietà, specie, generi, famiglie, ordini, classi. Ma, a differenza dell'ordine immaginato dai sistematici, i collegamenti osservabili variano di grado e di intensità: certi gruppi sono piú strettamente collegati, altri meno; in certi punti si osserva un affollamento di gruppi, in altri un diradamento. In questi collegamenti non c'è un ordine gerarchico perfetto e simmetrico». La riflessione di Remotti si sposta poi sul piano della biologia, mostrando come nel nostro stesso organismo conviva una molteplicità indefinita di batteri, di virus, di protozoi, per cui ben difficilmente ci si può ancora concepire come "individui" isolati.

[...]

        Vidi che non c'è Natura,
        che Natura non esiste,
        che ci sono monti, valli, pianure,
        che ci sono alberi, fiori, erbe,
        che ci sono fiumi e pietre,
        ma che non c'è un tutto a cui questo appartenga,
        che un insieme reale e vero
        è una malattia delle nostre idee.

        La Natura è parti senza un tutto.
        Questo è forse quel tale mistero di cui parlano.

Sono versi del grande poeta Fernando Pessoa , uno degli intellettuali che meglio hanno compreso il Novecento e il suo pensiero. Un pensiero in cui da oltre un secolo e mezzo i campi di studio della natura (le scienze) e quelli della cultura (la sfera umanistica) si erano separati. In questo modo la natura, come dice Pessoa, è stata sempre di piú rappresentata come un meccanismo di cui va studiato ogni componente e non come un insieme inscindibile, di cui farebbe parte anche l'uomo. Uomo che diventa invece padrone e possessore della natura e che la studia e la scompone anche e soprattutto per sfruttarla.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 19

Classificare per esistere.
                                        Il razzismo è l'espressione piú evidente
                                        delle paure degli uomini... Sapere che
                                        non siamo soli, né siamo i migliori.

                                                                         ANONIMO



Cosí, presi da questa ossessione illuminista per la tassonomia, tracciata la linea di demarcazione tra noi e la natura, l'abbiamo piano piano "messa a posto", collocandone le varie parti in appositi scaffali: qui i vegetali, lí i minerali, lassú gli animali. Grazie all'attività di ricerca, a partire dalla seconda metà del XVIII secolo, nel pieno dell'Illuminismo, molti di quelli che prima erano solo pregiudizi assumeranno uno statuto "scientifico" e quindi un'autorevolezza ben diversa da prima: il pregiudizio diventa "verità".

Insieme con la fede nella scienza e quella vocazione alla catalogazione che caratterizzerà in modo specifico il paradigma scientifico occidentale, si consolida anche la critica alla religione. Nella Bibbia c'era un'unità del genere umano: essendo l'uomo, nella sua accezione piú ampia, creato a immagine di Dio, non c'erano differenze tra gli abitanti del pianeta. Le teorie della razza, però, nascono da una triade: pensare, classificare, gerarchizzare gli esseri umani. Pertanto, sottraggono l'uomo al suo statuto biblico di imago Dei e mettono in discussione l'idea che gli esseri umani appartengano allo stesso gruppo. Cosí, a partire dalla fine del Settecento, la ricerca della distinzione tra le "razze umane" diventerà l'argomento primario contro l'unità della nostra specie. Si tratta soprattutto di una ricerca ossessiva di confini per determinare dove finiscono gli uni e dove iniziano gli altri. O meglio dove finiamo "Noi" e dove iniziano gli "Altri".

Il termine identità a quei tempi non era ancora entrato nel lessico pubblico, almeno non nei termini in cui lo è oggi. Di fatto, però, ogni forma di etnocentrismo esprime una volontà, quasi un bisogno, di autodefinirsi. È su questo principio che si innesta l'idea scientifica di razza, con tutte le conseguenze storiche che si porterà dietro.

Che all'interno della specie umana esistano vistose differenze percepibili anche a occhio nudo è un fatto scontato. Non occorre essere degli scienziati per intuire che un individuo viene dall'Africa. Molto probabilmente non sapremmo dire se è senegalese o zambiano, ma nessun dubbio che egli proviene da quel continente. Lo stesso si può dire per un andino o un abitante del Sudest asiatico, tanto da suscitare in molti e per molto tempo la perplessità sul fatto che apparteniamo alla stessa specie. Gli scienziati ci spiegano che due individui appartengono alla stessa specie se dal loro incrocio nasce un terzo individuo in grado di riprodursi. Anche i piú scettici, quindi, dovrebbero arrendersi riflettendo sul fatto che, come spiega Guido Barbujani , «La prima nave carica di schiavi africani è arrivata in America del Nord nel 1619, e la produzione di figli di sangue misto fra schiave e padroni (un po' meno fra schiavi e padrone) non deve essere cominciata molto tempo dopo, se all'epoca della Rivoluzione americana, nel 1776, già si discuteva su quali diritti accordare alle parecchie persone che non potevano essere messe con sicurezza né fra i bianchi né fra i neri».

Certo, ambiente e storia hanno modificato il nostro aspetto esteriore (e non solo): per esempio, il colore della pelle è determinato da una maggiore o minore necessità di difendersi dai raggi solari e la perdita di melanina tra i "bianchi" è il frutto di un processo evolutivo basato sulla selezione; cosí come la forma del corpo è il risultato di un adattamento al clima: gli inuit che vivono in climi freddi hanno corpi tozzi e tondeggianti, in quanto la sfera è la forma che presenta il massimo di massa corporea e il minimo di superficie, cosa che implica la massima produzione di calore e la minima dispersione. Al contrario, nelle foreste tropicali conviene essere di piccole dimensioni, per aumentare la superficie rispetto al volume, in quanto è la prima che permette la sudorazione, provocando a sua volta un raffreddamento del corpo. Tuareg e nilotici, che vivono in regioni molto calde e aride, hanno corpi lunghi e sottili, che favoriscono la dispersione di calore... Ma tutto questo non è sufficiente a legittimare una classificazione "razziale", dal punto di vista biologico. Si tratta piuttosto di processi adattivi dettati dall'ambiente e in particolare dal clima.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 22

Ad aprire la strada alla prima vera e propria classificazione di carattere scientifico fu Carl Nilsson Linnaeus, divenuto Carl von Linné in seguito all'acquisizione di un titolo nobiliare e conosciuto in italiano come Carlo Linneo (1707-1778), medico, botanico e naturalista svedese, considerato il padre della moderna classificazione scientifica degli organismi viventi. Nel suo monumentale Systema naturae, dopo avere classificato piante e minerali, Linneo passa al genere umano e lo divide in "uomo diurno" (Homo sapiens) e "uomo notturno" (Homo troglodytus o Homo silvestris) cioè l'orangutan, l'uomo delle foreste. Rilevando poi le tipologie regionali, Linneo individua quattro varietà a cui attribuisce caratteristiche particolari:

1) Europeus albus. Gli individui di quest'area geografica sarebbero «sanguigni, acutissimi, ricchi di inventiva e governati dalle leggi».

2) Americanus rubescens. I nativi americani sono «collerici, ilari, liberi e governati dalle tradizioni».

3) Asiaticus fuscus (luridus). Gli abitanti dell'Asia appaiono agli occhi di Linneo «giallastri, malinconici, rigidi. Pelo nereggiante. Occhi foschi. Severi, fastosi, avari. Si coprono con indumenti larghi. Sono governati dalle opinioni».

4) Africanus niger. «Flemmatici, negligenti, privi di pudore e governati dall'arbitrio».


Come si può notare, la classificazione di Linneo si fonda essenzialmente sul colore della pelle e su una divisione geografica per continenti, con l'eccezione dell'Oceania. A queste tipizzazioni, però, aggiunge due nuove categorie. Infatti Homo sapiens viene diviso in Homo ferus o selvaggio, definito «muto, quadrupede, villoso», e Homo monstruosus, che comprende tutte le forme devianti (persone deformi, malati mentali, ecc.). Inoltre, come si può vedere, nel definire le razze umane, Linneo mescola caratteri fisici, mentali, culturali e sociali, la maggior parte dei quali basati su pregiudizi. Alle quattro varietà di Linneo, un altro studioso dell'epoca, Georges-Louis Leclerc, conte di Buffon, qualche decennio dopo ne aggiungerà due: i Lapponi e i Tartari. I criteri di Buffon erano piú flessibili e le descrizioni piú raffinate. Inoltre, a differenza di Linneo, che teorizzava un'origine separata delle razze umane (poligenesi), egli era un sostenitore dell'origine comune dell'umanità (monogenesi).

Nemmeno una mente raffinata come Immanuel Kant sfuggirà alla tentazione di dire la sua sulla questione razziale, se nel 1775 il grande filosofo sosterrà che l'umanità si divide in quattro razze:

    1) Bianchi;
    2) Neri;
    3) Calmucchi;
    4) Industani.

Facendo poi alcune precisazioni: «Gli indiani hanno scarso talento. I neri stanno molto al di sotto di loro, e nel punto piú basso quelli che vivono in America». Il tempo passa e la corsa a catalogare la specie umana continua: nel 1810 Christoph Meiners semplificherà di molto, indicando due varietà umane: Brutti (Neri) e Belli (Bianchi). Criterio non propriamente scientifico, secondo il quale la bellezza è intesa come segno di elezione, a significare che i bianchi sono i piú civilizzati. Georges Cuvier porta il numero di razze a tre: Bianchi, Neri e Gialli, tra le quali predomina «la razza bianca, con il volto ovale, i capelli e il naso diritti, a cui appartengono i popoli civili d'Europa e che ci sembra essere la piú bella di tutte; essa è anche superiore a tutte le altre grazie alla propria genialità, coraggio e capacità di applicarsi in un'attività». AI contrario, «La razza dei negri è contrassegnata da carnagione nera, capelli screziati o lanosi, cranio compresso e naso piatto. La proiezione delle parti inferiori del viso e le labbra spesse, evidentemente, la fanno avvicinare alla tribú delle scimmie: le orde di cui è costituita sono sempre rimaste nello stato della piú completa barbarie».

Anche la suddivisione di Cuvier parte da un piano cromatico-estetico, lo stesso che indurrà nel 1839 Johann Friedrich Blumenbach a operare un'ulteriore suddivisione. Per lui le razze sono:

    1) caucasica, o razza bianca;
    2) americana, o razza rossa;
    3) malese, o razza olivastra;
    4) mongola, o razza gialla;
    5) africana, o razza negra.



Quante volte nei film o telefilm polizieschi statunitensi abbiamo sentito l'anatomopatologo dire, a proposito del cadavere di un bianco: «maschio caucasico di circa quarant'anni...» Bene, quell'aggettivo deriva proprio dagli studi di Blumenbach, il quale aveva ritenuto che alcuni crani, ritrovati in una grotta della Georgia, fossero l'ideale di bellezza e perfezione e perciò attribuibili alla razza bianca o caucasica. La sua idea di fondo era che la razza bianca fosse quella "originaria", da cui sarebbero derivate le altre: «I bianchi (caucasici) si conformano a un ideale assoluto di bellezza, rappresentato dalle statue dell'antichità classica. Le altre razze derivano dalla degenerazione della razza bianca». Anche Petrus Camper (1722-1789), inventore della teoria dell'angolo facciale, aveva definito i bianchi il piú bel prodotto della razza umana.

Difficile individuare qualcosa di meno scientifico della "bellezza" come criterio di classificazione. Come se il senso del bello fosse universale... mentre è proprio sul modello di quelle statue greche e romane tanto care a Blumenbach che si è progressivamente costruito l'ideale occidentale di bellezza.

Tanto Cuvier quanto Blumenbach credevano alla monogenesi, teoria secondo la quale tutte le razze avrebbero un'origine unica, cosí come condividevano quella in base alla quale alcuni gruppi sarebbero degenerati a causa di fattori ambientali, come il sole o una dieta alimentare povera. La maggior parte delle ipotesi, peraltro, si basava su un tipo ideale di essere umano al quale l'intera specie dovrebbe tendere. E quel tipo assomigliava molto a un europeo del Nord.

Come possiamo vedere, tutti questi sistemi di classificazione erano costruiti su stereotipi, ma l'idea che tali sistemi fossero basati su una rigorosa tipizzazione della natura incise in modo determinante sulla definizione dei gruppi umani. A rafforzare questa lettura contribuirono significativamente le misurazioni (o meglio le falsificazioni delle misurazioni, per dirla con Stephen Jay Gould ), sempre piú diffuse, di crani, ossa, corpi che fornivano una sorta di statuto scientifico ai risultati ottenuti.

Nel classificare le piante, nessuno si è mai sognato di affermare la superiorità delle cucurbitacee sui legumi, cosí come in campo minerale nessuno ha mai discusso se l'ardesia sia superiore al quarzo. Le differenze, semmai, si registrano sul costo e sull'utilizzo, ma nessuno afferma che l'oro sia intrinsecamente superiore al ferro: ha qualità diverse ed è piú raro. Nemmeno gli animali sono stati classificati con criteri qualitativi, semmai di utilità e di possibilità di sfruttamento. Lo sguardo in questi casi è stato piuttosto oggettivo, in quanto noi umani non ci sentivamo parte in causa. Quando però siamo passati ai nostri "simili", suddividendoli in gruppi definiti "razze", qualcosa è cambiato rispetto alle classificazioni naturalistiche: lo studioso, colui che ha il potere di classificare, in questo caso appartiene alla stessa specie degli esemplari da classificare e, come ci ha insegnato Michel Foucault , sappiamo qual è il rapporto di forza che intercorre tra chi può definire l'altro e quest'ultimo. Ecco allora che tale classificazione, "scientifica" o meno, si fonda sempre su uno sguardo non piú dall'alto di un empireo distaccato dall'oggetto osservato, non piú neutrale, ma quanto mai condizionato dal punto di vista dell'osservatore. Infatti, come vedremo, risulta difficile per i primi studiosi abbandonare quell'etnocentrismo che fa sí che il punto di osservazione non sia solo un centro, ma un vertice, collocato in un punto superiore rispetto agli altri, con la conseguenza che lo sguardo risulta sempre rivolto dall'alto in basso.

Non stiamo qui a elencare i numerosi tentativi di classificazione delle razze, che verranno ipotizzati ancora per tutto l'Ottocento e il Novecento e che vedranno l'elaborazione di schemi che vanno da due a sessantatre varietà, il che fa riflettere su quanto arbitrario fosse ogni catalogo ipotizzato. Cosa che fece scrivere, ironicamente, a Darwin:

L'uomo è stato studiato piú attentamente di qualsiasi altro animale, eppure c'è la piú grande varietà di giudizi tra persone competenti, riguardo a se possa essere classificato come una singola razza, oppure due (Virey), tre (Jacquinot), quattro (Kant), cinque (Blumenbach), sei (Buffon), sette (Hunter), otto (Agassiz), undici (Pickering), quindici (Bory de Saint-Vincent), sedici (Desmoulins), ventidue (Morton), sessanta (Crawfurd) o sessantatre secondo Burke.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 30

In Occidente il nero è il colore del lutto, da bambini ci spaventano con l'uomo nero; inoltre, aggiunto come aggettivo, "nero" rende il concetto negativo, illegale: lavoro nero, mercato nero, cambio nero, pagamento in nero... Persino il tentativo del politically correct finisce per peggiorare la situazione: diciamo "afroamericano", ma nessuno si sognerebbe di definire Robert De Niro "euro-americano" o Bruce Lee "asio-americano". Anche l'espressione "uomo di colore" nasconde solo la percezione che i bianchi hanno di se stessi, cioè di persone che non hanno colore. Non usiamo la stessa espressione per definire i cinesi o gli indiani: è un eufemismo ipocrita per non dire "nero" o africano. Scrive Amin Maalouf: «Negli Usa avere antenati yoruba o hausa è indifferente: sei nero. Per i bianchi avere origini italiane, irlandesi o inglesi è diverso». Si, perché i neri-africani sono tutti uguali, appiattiti e sovrastati nelle loro specificità dal colore della pelle. Siamo ancora lontani dalle speranze di Martin Luther King: «Io sogno che i miei quattro figli piccoli un giorno vivranno in una nazione dove non saranno giudicati per il colore della pelle, ma per il contenuto della loro personalità».

[...]


I nativi americani, oltre a essere definiti solitamente con l'ossimoro "indiani d'America", solo perché Colombo credeva di essere arrivato nelle Indie, vengono spesso chiamati anche "pellerossa" (redskins) secondo una colorazione attribuita loro dai primi europei arrivati nelle loro terre, dovuta al fatto che alcuni usavano talvolta dipingersi o decorarsi il volto con pigmenti rossi ricavati da terre o bacche colorate. Alcuni documenti sembrerebbero dimostrare che certe nazioni indiane della Louisiana e della Carolina del Sud, come i cherokee, utilizzassero il termine "rosso" per definire se stessi. Tale "colorazione" era però diffusa nel Sudest degli Stati Uniti, mentre raramente l'adottavano le tribù del Nord. Un'eccezione furono, forse, i beothuk di Terranova, la cui pratica di dipingersi il corpo con ocra rossa portò gli europei a chiamarli Red Indians. Si trattava comunque di una definizione benevola, che non portava con sé nessun giudizio di inferiorità.

Per un lungo periodo, infatti, gli europei hanno pensato che i nativi americani avessero il loro stesso colore della pelle, scuritosi a causa dell'uso di unguenti. È stato solo con il trascorrere del tempo che gli europei hanno gradualmente identificato gli indiani come se avessero un colore diverso. Ciò si verificò nel momento in cui i nativi americani vennero visti come una razza, vale a dire un popolo che possedeva una certa qualità immutabile.

Nelle prime classificazioni scientifiche, il colore della pelle diventa un parametro fondamentale e i nativi diventano prima color "oliva" secondo François Bernier (1684), "rossiccio, rubicondo" (rufus) per Linneo (1740), "rosso-rame" (kupferroth) in Blumenbach (1779) e infine semplicemente "rosso" con René Lesson (1847). Come questi studiosi fossero giunti a tali conclusioni non è chiaro, ma è molto probabile che fondassero le loro convinzioni sui resoconti dei primi esploratori.

[...]


Una cosa simile è accaduta agli asiatici. Anche se in Cina il colore giallo ha un'importanza storica notevole, come fa notare Michael Keewak, autore di un interessante libro su come cinesi e giapponesi siano diventati "gialli" agli occhi degli occidentali, prima del XIX secolo non si trova nessun riferimento al giallo come colore della pelle. Gli autori europei premoderni, in realtà, non davano troppo peso al fattore cromatico, né tantomeno lo utilizzavano quale indice di classificazione: lingua, religione, abbigliamento e costumi sociali erano molto più importanti nel definire l'altro. L'unico elemento cromatico che da sempre gli europei hanno utilizzato come marcatore di inferiorità è il nero, colore da sempre associato al male o a qualcosa di negativo e, in senso piú ampio, modo sovrano di indicare chi stava al di fuori della comunità cristiana.

Per quanto riguarda l'Oriente, Marco Polo descrive cinesi e giapponesi come bianchi, e come lui molti viaggiatori che ne seguiranno le orme. Matteo Ricci , il gesuita del XVI secolo che trascorse lunghi anni in Cina, ne descrive gli abitanti come bianchi, con una leggera differenza in quelli del Sud, un po' piú scuri. La "bianchezza" era però dovuta non tanto al colore della pelle, quanto al loro potere e alla raffinatezza della loro cultura. Il bianco era un dato piú qualitativo che descrittivo. Bianco significava essenzialmente civilizzato, cosa in special modo rilevante per quanto riguardava i giapponesi, considerati particolarmente propensi a convertirsi al cristianesimo. Non a caso diventeranno gialli nel momento in cui si constaterà che non erano poi cosí disposti alla conversione.

A "cambiare colore" ai cinesi contribuirono alcuni resoconti di viaggio e in particolare l' Historia del gran reyno de la China scritta nel 1582 dal monaco agostiniano Juan González de Mendoza, in cui si legge che la vastità della Cina fa sí che i suoi abitanti coprano un ampio spettro di colori e che alcuni di loro siano addirittura simili ai tedeschi chiari (rubios) e rossi (colorados). Il termine rubio in realtà può essere tradotto con "chiaro", ma anche con "biondo" e cosí nella traduzione inglese divenne yellow. Da allora l'aggettivo si diffuse e gli orientali non furono piú pensati come bianchi, dopodiché tale pregiudizio venne ripreso nel XVIII secolo dai primi scienziati, animati dallo spirito classificatorio del discorso scientifico.

Già nel 1684 il fisico e viaggiatore francese François Bernier pubblica un saggio sulle razze umane, di cui una sarebbe gialla: quella delle genti che abitano l'India. Valutazione cromatica su cui si troverà d'accordo anche Kant. Linneo all'inizio attribuisce all'uomo asiatico il colore fuscus (scuro), poi rivede la sua lettura e lo classifica come luridus (giallo pallido, ma anche orribile, lurido). Anche per Blumenbach gli asiatici, che lui classifica come mongoli, sono gialli e si distinguono dai bianchi caucasici. Infatti, nella sua personale graduatoria, mette i crani dei mongoli insieme con quelli etiopi all'opposto estremo di quelli caucasici, mentre americani e malesi starebbero in mezzo. Alla fine del XVIII secolo tutti i cinesi, anche se di colore diverso, vennero accomunati nella categoria razziale dei "mongoli".

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 48

La demonizzazione dell'ebreo.
                                        Si dice che la cosa piú tremenda del
                                        nazismo sia il suo lato disumano. Sí. Ma
                                        ci si deve arrendere all'evidenza:
                                        questo lato disumano fa parte
                                        dell'umano. Fintantoché non si
                                        riconoscerà che la disumanità è cosa
                                        umana, si resterà in una pietosa bugia.

                                                     ROMAIN GARY, Gli aquiloni.



Moni Ovadia racconta una storiella tipica dell'umorismo ebraico: un anziano ebreo di New York siede in metropolitana, quando a un tratto nota un uomo alto, dalla pelle nera, in piedi, che legge la Torah con grande attenzione. Dietro gli occhialini tondi, lo sguardo concentrato nella lettura, l'uomo muove il capo avanti e indietro nella tipica maniera degli ebrei. L'anziano è stupito e dopo un po' non riesce piú a resistere alla curiosità, si alza, avvicina l'uomo e gli chiede: «Mi scusi, se non la importuno troppo, posso farle una domanda?» L'altro abbassa il libro, si sfila gli occhiali e risponde: «Certamente, dica pure», e l'anziano: «Ma a lei, non bastava essere nero?» Con amara ironia, questo witz sottolinea come i due gruppi che piú hanno subito la violenza del razzismo sono stati gli ebrei e i neri, ai quali vanno aggiunti i sempre dimenticati rom.

[...]


A differenza dell'antiebraismo, dell'antigiudaismo o ancora della giudeofobia, che indicavano l'avversione verso gli ebrei sulla base della loro fede e della loro tradizione culturale, l'antisemitismo esprime un sentimento di ostilità nei confronti degli ebrei in quanto gruppo (razza) o di un individuo ebreo in ragione della sua appartenenza a quel gruppo o razza. È proprio Marr a scrivere: «Non si tratta qui di far mostra di pregiudizi religiosi, ma di una questione di razza e del fatto che la distinzione tra noi e gli ebrei risiede nel sangue». L'antisemitismo è quindi la variante razzista dell'antica giudeofobia, e proclamarsi antisemiti significa essere "antiebraici" e "giudeofobici" secondo una modalità razzista, quindi propriamente moderna.

A partire da quel XIX secolo in cui da un lato trionfano l'idea di scienza e il paradigma classificatorio e parallelamente si realizzano i principi nazionalistici, che prevedono un'omogeneità dei membri di uno Stato, si inserisce un altro principio: quello della razza e della fissità naturale. Se tale razza è determinata dall'origine e non è modificabile in alcun modo, allora per gli ebrei, semiti, orientali, asiatici non c'è posto.

[...]


Come ha amaramente riassunto Raul Hilberg: «I missionari del cristianesimo, in sostanza, avevano finito con il dire: "Se rimanete ebrei, non avete il diritto di vivere tra noi". Dopo di loro, i capi secolari della Chiesa avevano sentenziato: "Voi non avete il diritto di vivere tra noi". Infine, i nazisti tedeschi decretarono: "Voi non avete il diritto di vivere"». Il seguito lo conosciamo.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 57

Il 5 agosto 1938 esce il primo numero de «La Difesa della razza», in cui compare un articolo non firmato, già uscito il mese precedente con il titolo Il Fascismo e i problemi della razza, dove si legge che: «la razza italiana è prettamente ariana, e va difesa da contaminazioni [...] Gli ebrei sono estranei e pericolosi per il popolo italiano».

Nello stesso articolo è riportato il «Manifesto della razza», firmato da dieci scienziati italiani, che getta la maschera e mostra il vero volto che il fascismo aveva a quel punto assunto, piuttosto in linea con la visione hitleriana. Di fatto, se in Germania si era cercato di elaborare una teoria scientifica della razza, fondata anche sull'eugenetica, e il mito della purezza ariana aveva assunto un'aura quasi religiosa, in Italia si professava un antisemitismo un po' abborracciato, basato su una propaganda da poco prezzo, in cui il concetto stesso di razza non veniva neppure ben definito. Basta leggere con un minimo di attenzione i punti del «Manifesto»:


    1) Le razze umane esistono.
    2) Esistono grandi e piccole razze.
    3) Il concetto di razza è un concetto puramente biologico.
    4) La popolazione dell'Italia attuale è di origine ariana
       e la sua civiltà è ariana.
    5) È una leggenda l'apporto di masse ingenti di uomini
       in tempi storici.
    6) Esiste ormai una pura razza italiana.
    7) È tempo che gli italiani si proclamino francamente razzisti.
    8) È necessario fare una distinzione fra i mediterranei
       d'Europa occidentale da una parte, gli orientali e gli
       africani dall'altra.
    9) Gli ebrei non appartengono alla razza italiana.
   10) I caratteri fisici e psicologici puramente europei degli
       italiani non devono essere alterati in nessun modo.



Il punto 1 è un'affermazione dogmatica, che ben poco ha di scientifico, cosí come il punto 2: cosa significa piccole o grandi? in senso qualitativo o quantitativo? Sul punto 3 si può essere d'accordo, ma al 4 troviamo un'affermazione (siamo ariani) che viene smentita al punto 6, secondo il quale saremmo puri italici, tuttavia al punto 8 diventiamo mediterranei occidentali, mentre al 10 diventiamo europei. Il punto 5, poi, è la negazione assoluta di ogni resoconto storico riguardante non solo l'Italia, ma qualunque regione del mondo. In ogni caso, poco dopo la pubblicazione del «Manifesto», vennero cambiati nome e funzione all'ufficio demografico del ministero dell'Interno, che divenne Direzione generale per la Demografia e la Razza. Nel settembre dello stesso anno vennero promulgate le leggi razziali.

Secondo le ricostruzioni di diversi storici, il fascismo, durante il periodo immediatamente successivo all'emanazione delle leggi razziali, cercò comunque di distinguersi dal nazismo. Lo stesso Mussolini elaborò lo slogan «Discriminare e non perseguitare» per indicare la prevista filosofia che sarebbe stata adottata nell'applicazione delle leggi razziali. A differenza del nazismo, il fascismo non aveva fatto dell'antisemitismo uno dei pilastri portanti della sua ideologia, ma con il passare del tempo l'applicazione delle leggi e la diffusa propaganda antiebraica causarono la perdita di diritti da parte dei cittadini italiani di origine e/o religione ebraica. Gli episodi di violenza si moltiplicarono, anche se non ci fu una sistematica pianificazione finalizzata allo sterminio come in Germania, e sempre nel 1938 venne vietato «agli stranieri ebrei di fissare stabile dimora nel Regno, in Libia e nei Possedimenti dell'Egeo». Nonostante fossero cittadini italiani, erano di colpo diventati "stranieri". Due anni dopo Mussolini ordinò che venisse organizzata l'espulsione degli ebrei italiani nei successivi dieci anni.

Le leggi razziali vennero abrogate dopo l'8 settembre 1943, con un decreto di Badoglio che riportava: «Tutte le leggi italiane che implicano discriminazioni di razza, colore, fede od opinioni politiche saranno, se questo non sia già stato fatto, abrogate». Ma paradossalmente è proprio da quel momento che iniziarono le persecuzioni piú violente. Infatti, con la nascita della Repubblica Sociale, alleata dei tedeschi, gli ebrei italiani vennero sottoposti alle stesse norme naziste. Iniziarono quindi le deportazioni e le uccisioni.

In realtà l'antisemitismo non attecchí granché fra la popolazione italiana, in particolare tra i ceti piú bassi. Furono infatti moltissimi i casi di ebrei tenuti nascosti durante i rastrellamenti da famiglie non ebree. In ogni caso furono oltre settemila gli ebrei italiani deportati, di cui quasi seimila perirono nei campi di concentramento.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 62

La razza non è un elemento della biologia umana, come per esempio il fatto di respirare, e neppure un concetto scientifico astratto come la velocità della luce o il valore di π. L'ideologia della razza in America risale ai tempi dei padri fondatori, manifestandosi fin dall'inizio all'interno di una contraddizione. Infatti, sebbene nella Dichiarazione d'Indipendenza fosse scritto: «We hold these truths to be self-evident, that all men are created equal», molti di loro possedevano schiavi neri. Già all'epoca della Rivoluzione (1776) tanto coloro che sostenevano la schiavitù, quanto quelli che vi si opponevano finivano per confermare l'inferiorità razziale degli afroamericani, quale spiegazione per la loro messa in catene. L'ideologia razziale è pertanto un'invenzione originaria e costitutiva degli Stati Uniti.

[...]


Gli Stati Uniti sono fondati sull'assunto implicito della dominazione anglo-protestante sugli americani. L'immaginario razzista crea negli Stati Uniti una macchia indelebile: la linea del colore che trasforma il nero in negro. In un'interessante conversazione sulla razza con la celebre antropologa Margaret Mead , lo scrittore e saggista James Baldwin afferma: «Non ci sono negri al di fuori dell'America». Il negro, termine che assunse nel tempo una valenza profondamente spregiativa, è uno dei frutti amari del razzismo, che trasforma un dato di fatto epidermico, un colore, in una macchia di inferiorità, che legittima ogni forma di sfruttamento e di esclusione. È ciò che sta alla base dello schiavismo, fondato sul principio di inferiorità, che ha condotto a una sorta di sottoproletarizzazione degli africani deportati nel Nuovo mondo. Una visione che non venne cancellata neppure in seguito all'abolizione della schiavitú, dopo la guerra civile. Di fatto la disumanizzazione venne sostituita dalla segregazione e i neri continuarono a essere oggetto di disprezzo.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 70

L'avversione verso questo popolo ha portato a mettere in atto forme di sterminio attraverso la sottrazione dei figli, che nell'Austria e nella Svizzera del XVIII secolo venivano strappati alle famiglie, per essere affidati a contadini bisognosi di manodopera o ai preti, affinché dessero loro un'educazione cristiana.

Via via si vennero sovrapponendo immagini sempre piú negative, ma il razzismo di cui caddero vittime nel tempo gli zingari per certi versi è sempre stato piú complesso e articolato rispetto alle forme che hanno colpito neri ed ebrei, perché mescolava elementi che potremmo definire "razziali" con tratti di pura e semplice avversione. L'odio o la diffidenza si basavano su argomenti diversi. Nonostante le differenze interne, gli zingari vennero quasi sempre accomunati in un'immagine negativa e classificati come gruppo con certe caratteristiche predefinite (nomadi, ladri, refrattari a ogni forma di integrazione, parassiti che vivono alle spalle di chi li ospita...)

La discriminazione razziale in senso stretto si affermò però nel XX secolo, allorché le loro caratteristiche vennero definite "innate", sotto l'influsso delle idee di Gobineau e di Lombroso , che teorizzò la criminalità ereditaria e definí gli zingari «l'immagine viva di una razza intera di delinquenti». Idee che vennero riprese nella Germania nazista, dove i bambini zingari vennero spesso usati come cavie dagli scienziati dell'eugenetica, per lo studio delle presunte basi genetiche della criminalità.

All'inizio i pochi zingari residenti in Germania non preoccupavano piú di tanto Hitler , ma con il trascorrere del tempo e con la sempre piú ossessiva propaganda basata sulla purezza razziale divennero ingombranti e le pressioni su di loro aumentarono. A partire dal 1937, dopo l'emanazione di provvedimenti contro il crimine, gli zingari iniziano a essere arrestati "preventivamente" e inviati nei campi di concentramento. Nel 1938 inizia la guerra personale di Himmler, che per la prima volta chiama in causa dei criteri razziali. Gli eugenisti tedeschi ritenevano che il carattere individuale di ogni zingaro fosse ereditario e distinguevano gli zingari ritenuti razzialmente puri (Reinrassige), i quali all'inizio goderono di uno status quasi "romantico" legato alle loro antiche origini ariane, da quelli di origine mista (Mischlinge), che erano stigmatizzati e ritenuti pericolosi portatori di contaminazione razziale. Dopo il 1938, in ogni caso, sebbene la distinzione tra zingari puri e Mischlinge permanesse, entrambi i gruppi vennero rinchiusi.

Dopo l'invasione dell'Unione Sovietica, gli zingari divennero una categoria da eliminare al pari di ebrei e comunisti. Nel dicembre 1942, Himmler ordina la deportazione di un numero enorme di zingari in un campo speciale ad Auschwitz. Gli obiettivi sono due: espellere tutti gli zingari dal Reich e recluderli in campi di lavoro oppure sterilizzarne il maggior numero possibile e lasciarli nel Reich, a quel punto senza alcun pericolo di contaminazione. In molti casi si scelse la seconda strada, anche se alla fine furono, come abbiamo detto, oltre mezzo milione le vittime della ferocia razzista nei lager.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 87

L'equivoco.
                                        La razza è la classificazione di una
                                        specie, e noi siamo la razza umana,
                                        punto. Allora che cos'è quest'altra cosa
                                        - l'ostilità, il razzismo sociale,
                                        l'Alterizzazione?

                                           TONI MORRISON, L'origine degli altri.



Il termine "razza" deriva dal francese antico haraz, che indicava un allevamento di cavalli. Quale sia stato lo slittamento semantico che ha portato questo termine a diventare sinonimo di gruppo biologicamente connotato è difficile da ricostruire, ma sta di fatto che il vocabolo è a poco a poco entrato a far parte del lessico comune, quasi sempre in un'accezione approssimativa. Espressioni come «Che razza di discorsi fai!» indicano una tipologia negativa: invece dire «È un attaccante di razza» esprime l'idea di un talento ricevuto dalla natura.

Ma cosa intendiamo oggi quando parliamo di razza? Luigi Luca Cavalli-Sforza è piuttosto chiaro su questo punto: «Una razza è un gruppo di individui che si possono riconoscere come biologicamente diversi dagli altri», e ribadisce che la differenza deve essere significativa, e non fondata su lievi sfumature. Il biologo evoluzionista Ernst Mayr distingueva tra le specie al cui interno le caratteristiche degli individui variano gradualmente nello spazio geografico e quelle in cui esistono confini riconoscibili che separano gruppi diversi. Tali gruppi sono chiamati sottospecie o razze. Mayr ribadisce dunque che, in ciascuna specie, le razze possono esserci o non esserci, e affinché esistano occorrono dei confini che le separino nello spazio. Occorre che due gruppi siano vissuti nell'isolamento reciproco, senza mai incontrarsi e meticciarsi. Per realizzare una classificazione razziale è pertanto necessario individuare i criteri che segnano le frontiere della razza. Affinché queste frontiere esistano, occorre presupporre una stanzialità dei gruppi originari. Forse aveva ragione Pascal , quando diceva che tutti i problemi dell'uomo nascono dalla sua incapacità di stare nella sua stanza, ma è andata cosí. Nel suo libro piú celebre, Il gesto e la parola, il grande studioso dell'evoluzione André Leroi-Gourhan scrive: «Eravamo disposti ad ammettere qualsiasi cosa, ma non di essere cominciati dai piedi», e prosegue affermando che la storia dell'umanità inizia con i piedi. Con buona pace di coloro che insistono a parlare di radici, la nostra è sempre stata una specie in cammino, siamo stati migranti fin dall'inizio e da quando abbiamo abbandonato l'Africa circa sessantamila anni fa la nostra è tutta una storia in movimento.

Qualcuno dei nostri lontani antenati sapiens lasciò l'Etiopia per dirigersi a sud, verso il Capo di Buona Speranza, altri si diressero a nordest entrando nel Medio Oriente e di qui ci fu chi puntò a nord verso l'Europa, mentre altri si orientarono a levante percorrendo tutta l'Asia, per poi raggiungere le Americhe attraverso lo Stretto di Bering. Di questo lungo cammino le mappe genetiche ci danno prove certe. Un po' meno chiaro è il modo in cui si sia riusciti a colonizzare le isole oceaniche, ma anche quanto a questo ci sono ipotesi piuttosto attendibili. Dopo avere "colonizzato" l'intero pianeta, abbiamo continuato a muoverci: invasioni (fatte o subite), migliori condizioni di vita o opportunità economiche, fughe da guerre o da catastrofi ambientali, semplice curiosità sono alla base delle migrazioni di oggi come lo furono nel passato piú lontano. È stato ed è a causa di questa irrequietezza fondamentale che nei millenni ci siamo incontrati e scontrati, scambiandoci sempre e incessantemente idee e spermatozoi. Cosí come ogni cultura umana è di per sé multiculturale, in quanto contiene al proprio interno elementi presi da altre culture, anche il nostro patrimonio genetico è il prodotto di una lunga sequenza di scambi, che hanno dato vita a una condizione di meticciato tale da non rendere piú chiaramente distinguibili i confini tra i gruppi.

Solo se avessimo dato retta a Pascal, avremmo forse avuto delle razze umane distinte; ma abbiamo dovuto attendere il 1953, per avere delle prove scientifiche della nostra situazione. Fu in quell'anno, infatti, che sull'autorevole rivista scientifica «Nature» comparve un articolo firmato da Jamen Watson e Francis Crick , in cui i due scienziati mostravano per la prima volta la struttura a doppia elica del Dna, la carta di identità biologica che fa di ciascuno di noi un individuo unico. Dopo anni di ricerche che cosa ci hanno mostrato le analisi del Dna di individui di provenienza diversa? Una prima risposta ce l'ha data Richard Lewontin , che nel 1972 decise di studiare le variazioni dei diciassette geni meglio conosciuti all'epoca. Per farlo prese un campione di individui appartenenti a sette di quelle che allora venivano ancora pensate come razze: i caucasici, i subsahariani, i mongoloidi, gli aborigeni del Sudest asiatico di pelle scura, gli amerindi, gli abitanti dell'Oceania e gli aborigeni australiani. Il risultato fu sorprendente: complessivamente ogni popolazione presenta l'85 per cento della variabilità genetica umana. Il fatto di appartenere a popolazioni diverse della stessa "razza" comporta un'aggiunta dell'8% per cento a questa variabilità, mentre l'appartenenza a "razze" diverse genera il rimanente 7 per cento.

La conclusione appare evidente: la variazione tra presunte razze diverse è di gran lunga inferiore alla variazione generale. Siamo molto piú diversi al nostro interno di quanto lo siamo rispetto a quelli che consideriamo diversi da noi, estranei. Per dirla con lo stesso Lewontin:

La nostra percezione che ci siano grandi differenze fra gruppi e sottogruppi umani, rispetto alle differenze interne a questi gruppi, è chiaramente una percezione deformata. Sulla base delle loro differenze genetiche, le razze e le popolazioni umane sono notevolmente simili le une alle altre, mentre la parte di gran lunga maggiore della diversità umana è rappresentata da differenze fra individui. La classificazione razziale umana non ha alcun valore sociale e ha un chiaro effetto distruttivo sulle relazioni sociali e umane. Dato che adesso è dimostrato che questa classificazione non ha alcun significato genetico o tassonomico, non c'è nessuna giustificazione per mantenerla.


I successivi studi di Cavalli-Sforza e di altri genetisti hanno confermato le affermazioni di Lewontin, e l'idea che non sia possibile classificare l'umanità sulla base di differenze biologiche significative è ormai pienamente accettata in ambito scientifico. Un grande equivoco, quindi, quello della razza, sorto grazie a un'interpretazione errata della teoria darwiniana, sulla base della quale si ipotizzarono differenze biologiche e culturali tra i gruppi umani. Tali differenze culturali vennero poi percepite come naturali, e in molti casi ancora oggi è cosí. Lo dice in modo esplicito Ta-Nehisi Coates quando scrive: «Gli americani credono nella realtà della "razza" come a una caratteristica che appartiene in modo definito e indubitabile al mondo naturale».

Lo stesso Darwin era invece molto cauto su questo piano, tanto da scrivere:

Ogni naturalista che abbia avuto la sfortuna di intraprendere la descrizione di un gruppo di organismi altamente variabili ha incontrato casi (parlo per esperienza) precisamente simili a quello dell'uomo; e, se dotato di cautela, finirà per riunire tutte le forme che sfumano l'una nell'altra in una stessa specie, perché dirà a se stesso che non ha alcun diritto di dare nomi a oggetti che egli stesso non può definire.


Un altro equivoco nato dall'ossessione della razza è stato il fatto di pensare che la biologia determinasse le attitudini culturali dei gruppi umani. Cavalli-Sforza insieme alla sua équipe ha prestato particolare attenzione alla correlazione tra la diffusione genetica e quella linguistica e culturale. Infatti, sono piuttosto le circostanze della nascita, il luogo dove si è venuti al mondo a determinare le lingue alle quali l'individuo è esposto, e le differenze linguistiche possono generare o rafforzare le barriere genetiche tra popolazioni. Anche se è improbabile che siano la causa principale della correlazione, i fattori culturali possono influenzare la circolazione genetica: si tende, in genere, a sposare e quindi a far figli con individui del proprio gruppo culturale e linguistico, come dimostrano alcune specificità genetiche dei baschi i quali, non a caso, parlano una lingua che non appartiene alla famiglia delle lingue indoeuropee.

Questa correlazione tra geni e cultura può essere spiegata attraverso due meccanismi di trasmissione: orizzontale e verticale. I geni vengono sempre trasmessi in via verticale, dai genitori alla prole. La cultura può a sua volta essere trasmessa di generazione in generazione ma, diversamente dai geni, può esserlo anche orizzontalmente, tra individui che non hanno rapporti di parentela (amici, compagni di scuola, libri, web...) Oggi, nell'era della rete, la trasmissione orizzontale sta diventando sempre piú importante. In ogni caso gli studi di genetica ci hanno dimostrato che non solo non possiamo essere classificati in razze nel senso stretto del termine, e che la biologia non ha alcun effetto sulla cultura di un gruppo, perché questa si forma sulla base di cause ambientali e storiche nonché sul continuo scambio di idee, ma anche che in qualche caso la narrazione si capovolge e, semmai, possono essere la cultura e la storia a condizionare la biologia.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 91

Un'idea troppo forte.
                                        La razza è un'idea, non un fatto.

                               NELL PAINTER, The History of White People.



Come abbiamo visto, la stessa scienza, che nel passato aveva teorizzato le razze umane, grazie alla genetica ha poi rimediato, decostruendo totalmente quel concetto. Ricordiamo a questo proposito le parole del Premio Nobel per la Medicina del 1965, François Jacob: «Il concetto di razza non solo ha perso ogni valore operativo, ma ormai non serve altro che a paralizzare la nostra visione di una realtà in continuo movimento; il meccanismo della trasmissione della vita è tale che ogni individuo è unico, che gli individui non possono essere classificati secondo un ordine gerarchico, che l'unica ricchezza possibile è collettiva: è fatta di diversità. Tutto il resto è ideologia». Però, come sosteneva, a ragione, Albert Einstein: «È piú facile spezzare un atomo che un pregiudizio», e il fatto che il dato scientifico non sia sufficiente a sconfiggere i pregiudizi ci dà la misura di quanto il nostro pensiero sia modellato piú dalle percezioni che non da evidenze razionali. È infatti inutile tentare di smontare idee razziste adducendo prove scientifiche: il razzista crede nella sua narrazione e ha bisogno dell'Altro per sentirsi migliore.

«L'uomo è un animale impigliato nelle reti di significati che egli stesso ha tessuto», scrive Clifford Geertz. Cosí, una volta creato un ricco, per quanto fondato su piedi d'argilla, apparato simbolico funzionale alla classificazione dell'umanità in razze, il passo a utilizzarlo per fini di potere fu breve e condusse a tragedie immani come la Shoah. Gli esseri umani, infatti, tracciano spesso confini su basi arbitrarie, ma quei confini diventano poi reali e su di essi si costruiscono discriminazioni, si scatenano guerre e si perpetrano massacri.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 120

Goodbye, Novecento.
                                        Le nuove ideologie, caratterizzate da
                                        diffuso individualismo, egocentrismo e
                                        consumismo materialistico, indeboliscono
                                        i legami sociali, alimentando quella
                                        mentalità dello "scarto", che induce al
                                        disprezzo e all'abbandono dei piú
                                        deboli, di coloro che vengono
                                        considerati "inutili".
                                                                  PAPA FRANCESCO



Ideologia: «Il complesso di credenze, opinioni, rappresentazioni, valori che orientano un determinato gruppo sociale». Cosí l'Enciclopedia Treccani. Ideologia, parola che è stata bandita dal lessico politico contemporaneo. Spesso addirittura demonizzata, quando - raramente - viene usata finisce per assumere un significato negativo. Se in un dibattito l'avversario esclama: «Questo è un discorso ideologico!», l'affermazione equivale a una bocciatura. "Ideologia" e il suo aggettivo "ideologico" sono diventati sinonimo di irragionevole, irreale, fasullo. Bollare una posizione come "ideologica" significa spingerla in una sorta di passato remoto, relegarla in un'epoca in cui si era prigionieri delle ideologie "vetero". Quel tempo "lontano" risale a qualche decina di anni fa, ma in questa liquidità postmoderna e frammentata qualunque accenno a una forma strutturata deve per forza apparire vetusta. Per dirla con Emmanuel Lévinas , dalla caduta del Muro l'idea di emancipazione è priva di punti di riferimento messianici.

È senza dubbio vero che ci sono stati casi in cui le ideologie, elaborate da sistemi autoritari e totalitari, si sono trasformate in gabbie soffocanti e addirittura mortifere, basti pensare ai lager nazisti e ai gulag staliniani. Tuttavia, se innestate in un sistema pluralista, esse diventano lo strumento fondamentale grazie al quale i cittadini possono scegliere in che società vivere.

Peraltro, basta seguire il dibattito politico contemporaneo, per vedere come quasi nessun partito o movimento presenti piú alcun programma o tenti di costruire una piattaforma o delle linee guida che caratterizzino la sua azione politica. L'ideologia è quel complesso di idee e principi condivisi da un gruppo sul quale basare la propria azione politica. In altri termini, è il tentativo di rispondere alla domanda: che tipo di società vogliamo costruire? Egualitaria, meritocratica, classista, razziale...? Partendo dalla risposta si darà vita a una serie di azioni che conducano, o almeno tentino di condurre al traguardo auspicato. Peraltro, il termine "partito" indica appunto una parte, identificata dalla scelta del percorso che intende intraprendere. Un partito non può essere di tutti, deve per forza escludere una parte, se vuole comprendere quella a cui fa riferimento.

[...]

Gettate alle ortiche le ideologie, la politica si trova ad avere il fiato corto, e non a caso i partiti tradizionali sono sempre piú deboli, mentre i "populisti digitali" o "2.0", come li definiscono rispettivamente Alessandro Dal Lago e Marco Revelli , riscuotono nel mondo e anche in Italia sempre più consensi. Consensi, ma non adesioni: dato che il virtuale ha sostituito il reale, sempre meno persone partecipano attivamente e autenticamente alla politica e i partiti sono sempre piú avulsi dal territorio. Quella che una volta veniva definita la "base", fatta di persone in carne e ossa che discutevano faccia a faccia e lavoravano per il partito, si è oggi trasformata in un bacino di consensi espressi al momento del voto. La comunità è diventata community, oppure "la gente".

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 217

L'avversione verso lo straniero dei giorni nostri è un misto di risentimento sociale, paura, rabbia, sentimenti che hanno portato a un progressivo indebolimento dello spirito civico e democratico del paese e all'incapacità «di elaborare un lessico emozionale che permette di accettare il passato e di rispondere al cambiamento del presente». Sono queste le cause che spesso portano al razzismo che, nella definizione di Hans Magnus Enzensberger , sarebbe una forma di "socializzazione del rancore". Ciò che porta tale risentimento a tradursi in forme che possiamo definire di razzismo è l'attitudine a ragionare in maniera totalizzante, che significa non vedere negli altri persone, individui come noi, ma solo portatori di caratteristiche che pensiamo essere tipiche di una determinata categoria. Il razzismo veicola l'etnocentrismo fino a farlo sfociare nella natura, talvolta grazie all'aiuto della scienza, altre volte no.

In un'epoca postrazziale come questa, l'esclusione assume forme diverse da quelle del passato, pur rivelando tratti di continuità. È chiaro che non siamo di fronte a una teorizzazione della diversità fondata su base biologica; semmai la discriminante, come abbiamo visto, è di carattere etnico-culturale. Tale variante teorica è rilevabile però nei discorsi di alcuni intellettuali della nuova destra identitaria, che propone un etnodifferenzialismo nel quale si riconosce la differenza piú che l'inferiorità dell'altro. La traduzione politica di tale visione opera un primo scarto: gli Altri, i "diversi", vanno allontanati, espulsi, deve essere loro impedito l'accesso a ogni costo, costruendo muri materiali e non. La distinzione, il differenzialismo diventano allora negazione dei diritti.

Se l'Altro viene accomunato in una massa informe da tenere alla larga, senza distinzioni particolari, neppure l'elaborazione del Noi sembra conoscere un destino migliore. Noi chi? Noi quali? La generazione identitaria sostiene di voler difendere la cultura e la tradizione europee, senza peraltro mai definirle. Le sue proposte vanno nella direzione opposta e di fatto distruggerebbero una tradizione di democrazia e di difesa dei diritti umani tipica dell'Europa postbellica. Allo stesso modo i populisti italiani dicono di voler difendere le "nostre" tradizioni e la "nostra" cultura, ma non dicono quali. Per esempio, rispetto al tema del razzismo, quale tradizione si vuole difendere: quella delle leggi razziali del governo fascista o quella dei molti italiani che aiutarono gli ebrei a salvarsi dalle razzie dei nazifascisti?

Quello che emerge è un Noi più che mai vago, forse riconoscibile solo sulla base della ricchezza e della volontà di difenderla, come un diritto acquisito per natura. Ecco allora che lo slogan «Padroni a casa nostra» assume un significato tribale, piú rivolto al mantenere fuori gli altri che a definire Noi. In una retorica dove l'egoismo è dominante e la chiusura verso l'esterno la cifra principale, l'aggettivo "nostro" la fa da padrone. E lo slogan leghista che all'inizio era portato come vessillo dagli amministratori locali nei confronti del governo centrale è oggi diventato il mantra da recitare contro gli immigrati. Venuto meno ogni richiamo alla solidarietà, al venire in aiuto verso chi ha bisogno, l'unico valore che sopravvive è quello del possesso. L'immagine dell'"invasione", paventata regolarmente dai fautori della purezza, rafforza il senso della perdita di controllo sul "nostro" spazio, che rischia di diventare "vitale", con esiti funesti, come la storia recente ci insegna. Si moltiplicano allora i richiami alla terra e a una sorta di diritto naturale che ce ne conferirebbe il titolo di proprietà.

Tale concezione tribal-privatistica della terra e della cosa pubblica ribadisce il diritto di possesso e di comando su una terra per il fatto di esserci nato e di discendere da generazioni nate e vissute lí. Essere rimasti lí, nella terra dove si è ora da sempre senza discontinuità, senza essersi mai mossi e senza che nemmeno nessuno sia arrivato da fuori a mescolarsi con noi: letto in questi termini, il mito dell'autoctonia richiama quello della purezza. E il passaggio dalla proclamazione dell'autoctonia al razzismo non è cosí complicato. Laddove l'uguaglianza vive sul piano etnico e non su quello sociale, l'egualitarismo diventa razzismo. Si erigono muri e frontiere simboliche che rievocano l'esistenza di un Noi omogeneo e una naturale e assoluta differenza tra Noi e Loro.

Non si tratta nemmeno di un razzismo di sfruttamento, come quello conosciuto dagli Stati Uniti: i neorazzisti si oppongono per principio alla compresenza degli stranieri. Di fatto però in molti casi gli stranieri vengono sfruttati grazie alla loro posizione di debolezza, causata da leggi che non ne tutelano i diritti, come ha messo chiaramente in luce Clelia Bartoli nel suo interessantissimo Razzisti per legge.

Non c'è una vera e propria classificazione dell'Altro in termini biologici, ma neppure una distinzione tra le diverse provenienze. Però, come scrive Eco: «L'intolleranza piú pericolosa è proprio quella che sorge in assenza di qualsiasi dottrina, a opera di pulsioni elementari. [...] Un razzismo non scientifico come quello della Lega italiana non ha le stesse radici culturali del razzismo pseudoscientifico (in realtà non ha alcuna radice culturale), eppure è razzismo». Proprio perché "ignorante", in quanto privo di ogni fondamento scientifico o razionale, è ancora piú difficile da sconfiggere, ci ricorda ancora Eco: «Gli intellettuali non possono battersi contro l'intolleranza selvaggia, perché di fronte alla pura animalità senza pensiero il pensiero si trova disarmato. [...] Dunque l'intolleranza selvaggia si batte alle radici, attraverso una educazione costante che inizi dalla piú tenera infanzia, prima che sia scritta in un libro, e prima che diventi crosta comportamentale troppo spessa e dura».

Non è solo l'ignoranza a causare il razzismo, ma spesso, come abbiamo visto, sono il rancore e la frustrazione. È innegabile per esempio che negli ultimi due decenni i musulmani hanno assunto agli occhi di molti occidentali un'immagine negativa, che li associa automaticamente al terrorismo. Il mondo islamico non viene certamente definito in termini di razza, ma l'accomunare a prescindere ogni musulmano al terrorismo è una gravissima forma di razzializzazione in chiave religiosa. L'equazione "islamico uguale terrorista" porta a una metafora naturalistica, e la razza è una metafora naturalista.

L'odio, dettato dal rancore, non si limita all'islam, ma viene scagliato contro ogni diversità di qualsiasi genere. Non a caso le violenze verbali non colpiscono solo gli stranieri, ma gli omosessuali e persino i disabili. "Ebreo" diventa un insulto, senza che chi lo lancia sappia per quale motivo dovrebbe avercela con gli ebrei: semplicemente li pensa diversi, cioè peggiori. Anche l'avversario politico diventa un nemico da ignorare o eliminare, non una controparte con cui discutere.

In un'epoca di crisi - sia economica sia di quei valori di cui l'Occidente menava vanto e su cui fondava la propria esistenza - dominata solo dal principio del profitto e dell'utilitarismo, priva di alternative ideologiche, in cui la governance ha sostituito il pensiero politico, la difesa delle "radici", dell'autoctonia finisce per presentarsi come l'unica alternativa capace di assumere un ruolo messianico. Laddove la politica ha perso ogni dimensione trascendentale, fioriscono i fondamentalismi di ogni genere, religioso o razziale, ma sempre fondati sull'idea di un Noi unico, perché come dice sarcasticamente Amos Oz: «Il fanatico riesce a contare fino a uno, perché due è un'entità troppo grande per lui».

| << |  <  |