Copertina
Autore Mauro Silvio Ainardi
CoautorePaolo Brunati
Titolo Le fabbriche da cioccolata
SottotitoloNascita e sviluppo di un'industria lungo i canali di Torino
EdizioneAllemandi, Torino, 2008, Archivi di scienza e tecnica , pag. 128, ill., cop.ril.sov., dim. 21,5x31x1,5 cm , Isbn 978-88-422-1563-9
LettoreSara Allodi, 2008
Classe storia sociale , citta': Torino , alimentazione , storia della tecnica
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Indice


    PARTE PRIMA

    La nascita e lo sviluppo dell'industria del cioccolato
    nell'Ottocento a Torino
    DI MAURO SILVIO AINARDI

 13 Introduzione

 15 La città e i suoi canali

 18 Dalla «Conceria di Pelli» alla «Fabbrica di cioccolato Watzembourn»

 45 «Giovanni Martino Bianchini, fabbricante di cioccolato in questa città

 50 Cioccolatieri e fabbricanti di cioccolata torinesi nel XIX secolo

 73 Le più importanti fabbriche di cioccolato a Torino

 90 I fabbricanti di cioccolato alle esposizioni torinesi del XIX secolo

 94 Dalla «bottega della cioccolatta» al negozio


    PARTE SECONDA

    Cronache del cacao. Storie di cioccolato e cioccolatieri
    a Torino e in Piemonte
    DI PAOLO BRUNATI

 99 Theobroma, cibo degli dei: storie e miti del cioccolato
    PAOLO BRUNATI

125 Il cioccolato al cinema
    MELINA BRACCO


 

 

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Pagina 13

Introduzione


L'obiettivo di questa breve indagine storica è di ricostruire alcuni degli aspetti più significativi di un processo che vede come teatro la Torino della prima metà dell'Ottocento. Qui, intorno agli anni venti del secolo, all'avanguardia in Italia e in Europa, nasce il procedimento industriale di produzione del cioccolato, che si perfeziona nei decenni successivi a fianco della sempre prospera attività artigianale. Una delle condizioni essenziali perché tale processo abbia luogo, insieme alla secolare tradizione dei «cioccolatieri» torinesi e all'intraprendenza e lungimiranza di imprenditori locali o di altri paesi richiamati dalla capitale del regno sabaudo, è l'esistenza di una efficiente rete cittadina di canali idraulici che può garantire l'energia necessaria per meccanizzare le operazioni di preparazione del cioccolato.

L'impulso decisivo viene dato dall'invenzione di Giovanni Martino Bianchini che nel 1819, concepisce e realizza una «macchina pel trittolamento del caccao, zuccaro e droghe, e per tutte le operazioni a un tempo della fabbricazione del cioccolato e con un solo operaio». Bianchini, originario di Campo, nel Canton Ticino, installa il primo esemplare della sua invenzione presso la ex conceria Watzembourn, nel cuore di Borgo San Donato, sfruttando gli impianti già esistenti, alimentati dalle acque del «canale di Torino», per dare movimento ai suoi meccanismi.


Sull'esempio di Bianchini, vari imprenditori, a partire dagli anni trenta e quaranta, convertono le loro attività proto industriali di conceria o di filatura, alla produzione del cioccolato.

Nel 1832, Paolo Caffarel, fondatore della Casa Caffarel, acquista dagli eredi Watzembourn la «fabbrica da cioccolato» e subentra nell'attività del Bianchini. Alcuni dei «lavoranti» passati dal suo stabilimento, a loro volta, danno avvio a nuove imprese. Fra questi Michele Talmone, la cui fabbrica è attiva a pochi metri da quella di Caffarel e della ditta Prochet, Gay e Compagnia, in Borgo San Donato, che diventa così il polo cittadino della produzione cioccolatiera.

A questi nomi si aggiungono negli anni molti altri: fra questi Risso, Beata e Perrone, Peyrano, Streglio, Baratti e Milano, Leone, alcuni dei quali proseguono la loro attività sino ai giorni nostri.

Nel raccontare questo processo e le sue fasi, vengono privilegiate le parole dei suoi stessi protagonisti. I saggi raccolti nel volume, oltre a dati tecnici e note quantitative estratte da documenti n i vario genere conservati presso l'Archivio Storico della Città (Asct) e presso l'Archivio di Stato di Torino (Asto), riportano stralci di lettere e corrispondenza autografa con la Municipalità.

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Pagina 45

«Giovanni Martino Bianchini, fabbricante di cioccolato in questa città»


Giovanni Martino Bianchini, «nativo di Campo, Cantone Ticino nella Svizzera Italiana, Fabbricante di Cioccolato», può essere considerato il pioniere della preparazione industriale del cioccolato a Torino. Il 17 luglio 1819 Bianchini, infatti, presenta una supplica a re Carlo Felice «per ottenere sua vita natural durante, o per quel numero d'anni a Vostra Maestà più benviso, l'uso privativo d'una macchina da esso inventata pel tritolamento del cacao, zuccheri e droghe, e per tutte le operazioni ad un tempo della fabbricazione del ciocollato, e quindi una salvaguardia al locale, dove farà per stabilirla, ed in vista delle occorenti spese per la gratuita spedizione da ogni diritto delle Regie Patenti che faranno far emanare».

I progetti e il modello della macchina non sono purtroppo reperibili, perduti forse nell'incendio della Camera di Commercio o in quello dello stabilimento Caffarel di Borgo San Donato seguito ai bombardamenti alleati sulla città. Non si può neppure attribuire l'intera paternità dell'invenzione a Bianchini, che nel 1819, come emerge dai documenti, si avvale della consulenza dell'ingegnere meccanico Capello. Dobbiamo quindi affidarci unicamente a descrizioni più o meno approfondite.


I membri del Consiglio di Commercio della città, Serra, Ferraris e Giusione, nella relazione illustrativa allegata alla richiesta, elencano tutte le operazioni che il congegno può svolgere: «Di questa macchina il Ricorrente ne ha presentata al Consiglio il modello, ed il Ricorrente ne ha già in parte intrapresa l'esecuzione in grande. Il meccanismo di questa macchina è degno di ammirazione, e lode per la diversa, e complicata riunione in un sol punto di tutte le diverse operazioni dell'intera, e compita fabbricazione del ciocollato. Col moto d'una sol ruota girante ad acqua e coll'opera d'un sol uomo, che sia del mestiere, questa macchina tritola, e pulisce il cacaos bruto da ogni materia estranea, se gli da la arima cotta colla legna, se ne separa la corteccia, si separa parimenti il cacaos in quattro qualità in ragione della maggiore, o minore grossezza de' pezzi risultanti dal trittolamento, si passa a darle l'ultima cotta col carbone, si macina, e si mescola col zucchero, droghe, vaniglia, macis, canella, e simili, si raffina e perfeziona la mescolanza sudetta, e per fine si battono sulla tavola i bolli, o siano le stampe di lata. Il complesso di queste operazioni diminuendo il tempo della fabbricazione, e segnatamente il dispendio d'una numerosa, e continuata mano d'opera portano il Ricorrente a sperare con qualche plausibilità la diminuzione d'un terzo sull'odierno prezzo corrente del cioccolato».


Come era già avvenuto in precedenza in alcuni settori produttivi, e di lì a pochi decenni diventerà un fenomeno generalizzato e pervasivo della società, il processo di industrializzazione s'allarga e si estende anche alla fabbricazione del cioccolato. L'invenzione di Bianchini integra le capacità dell'uomo e sostituisce l'energia idraulica alla fatica, permettendo di meccanizzare le varie fasi della produzione, ossia di unificare tutte quelle operazioni che prima venivano svolte una per una, a mano o con l'eventuale ausilio di macchine meno complesse e concepite specificamente per una unica funzione.

La relazione del Consiglio di Commercio prosegue specificando che «se l'esito corrisponderà a quanto si attende il Ricorrente da questa sua invenzione ne avrebbe egli fuor di dubbio da per sé l'uso privativo di fatto, tuttavia il Consiglio crede che Vostra Maestà possa aderire alle supplicazioni del Ricorrente per la concessione dell'uso privativo di questa macchina pel corso d'anni dieci, con concordargli altresì una salvaguardia al locale dove sarà questa macchina stabilita».

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Pagina 99

Theobroma, cibo degli dei: storie e miti del cioccolato

PAOLO BRUNATI


In principio il cioccolato era liquido, era cioccolata. Una sorta di brodo primordiale. Come ogni brodo primordiale che si rispetti era fecondo e, prima o poi, in quel grembo si sarebbe coagulato qualche cosa, qualche grumo cremoso, qualche blocchetto solido. Nel mare della cioccolata sarebbe nato il cioccolatino. Ma non sarebbe nato spontaneamente, o per caso, bensì con grande fatica da parte dell'uomo e con grande industria e studio e dispiego di ingegno da parte sua.

La nuova creatura non avrebbe però mai potuto vedere la luce delle vetrine e delle confetterie senza l'abbondanza e la comodità d'accesso a un altro elemento liquido primordiale, l'acqua, indispensabile alle fabbriche da cui sarebbe uscito il cioccolatino, venuto al mondo nudo, come qualsiasi neonato, ma destinato poi a vestire ricchissimi panni multicolori e regali corazze di stagnola.

Le condizioni ideali per l'avvento del cioccolatino, e cioè abbondanza e vicinanza di acque, industriosità degli abitanti, propensione all'eleganza si trovano tutte riunite nella città di Torino, tant'è che il capoluogo piemontese assurse ben presto a capitale dei dolci a base di cacao.

Le immagini di Torino come città ricca d'acque sono ormai molto sbiadite nella memoria comune, perciò è interessante ripercorrere la storia dei canali che attraversavano la città, dato che proprio grazie a questi sorsero le più importanti «fabbriche da cioccolata».

Prima di parlare dei canali di Torino, un sistema venoso, occorre dire brevemente del sistema arterioso, cioè dei grandi fiumi che l'attraversano. E, primo fra tutti, il Po: «Mi condussero fuori dalla città, sopra una collina molto alta, ai piedi della quale passava il Po, il cui corso freme attraverso le fertili rive che bagna». Jean-Jacques Rousseau nell' Èmile così descrive il panorama di Torino visto dalla collina nel 1762. Sono passati duecentocinquant'anni, e non è più necessario arrampicarsi su una collina per guardare il Po. Basta passeggiare tranquillamente lungo le rive, dal Valentino al parco delle Vallere, al parco del Meisino, al parco Michelotti dove Emilio Salgari, creatore di Sandokan e del Corsaro Nero, ravvisava le giungle malesi delle sue avventure.


Torino urbana è una pietra incastonata nell'anello dei suoi fiumi: il Po, la Stura, il Sangone, la Dora Riparia. Non soltanto palazzi, fortificazioni, chiese e giardini, ma anche fabbriche, botteghe, industrie e opifici. Diceva bene Le Corbusier, ammirando la città dall'alto di Superga, rivolgendosi a Marziano Bernardi che l'accompagnava: «In tutto il mondo la città che ha la più bella posizione naturale è Torino». La città fu per secoli nemica o ignorante dei suoi fiumi, a meno che lungo le loro sponde non sorgessero castelli sabaudi o giardini di delizie. Li voleva nascondere.

La Dora, nell'ultimo dopoguerra, venne «tombata» per fare posto alle ferriere tra via Livorno e corso Mortara. Fu l'ultimo dei soprusi, ma da tempo immemorabile i fiumi venivano ridotti in schiavitù dentro condotte forzate dove perdevano ogni dignità fluviale. Ne nascevano, però, grandi opere di ingegneria idraulica, al servizio delle attività artigianali e industriali e, prima ancora, con il compito di «portar via nella corrente» ogni sorta di rifiuti. Il rovescio della medaglia fu che i fiumi, relegati a ruoli di servizio, vennero cancellati da quella sensibilità culturale urbana che a metà Ottocento, forse proprio in contrasto con la nascente mentalità industriale, faceva sostenere, da un'élite, che Torino, trovandosi «alla confluenza» di quattro importanti corsi d'acqua, dovesse essere considerata come predestinata alla grandezza. Un concetto subito cavalcato da paesaggisti e incisori che non perdevano l'occasione di mettere in risalto questa caratteristica nelle loro vedute.

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Pagina 101

La storia del cacao, almeno per quanto riguarda l'Italia, incominciò nel tardo Cinquecento, quando sembra che un tal Carletti, mercante e scrittore fiorentino, ne importò i semi di ritorno da un viaggio in Messico, Colombia, Panama.

Scrive Carletti: «Il suo [del cacao] principale consumo è una bevanda che gli indiani chiamano cioccolata, la quale si fa mescolando dette frutte, che sono grosse come ghiande, con acqua calda e zucchero. Ma prima abbrostolite sul fuoco molto bene si disfano sopra certe pietre e così si vede ridurre in una pasta...» Il cacao è anche una droga, e al Carletti «quasi parea di non poter stare giorno senza pigliarne». Tant'è che in Italia non venne bene accolto dalla Chiesa e fu al centro di diatribe fin da subito quando si discuteva se la cioccolata fosse o no lecita in tempo di digiuno, una questione annosa che la Sacra Penitenzieria infine risolse con una pronuncia analoga alle leggi che oggi regolano il possesso e il consumo delle cosiddette droghe leggere: «Non si debbono inquietare coloro che al mattino prendono una piccola quantità (due once) di cioccolato con un frustolo di pane».

La cioccolata, del resto, era già stata assolta nel Nuovo Mondo dove il reverendo padre Escobar, la cui metafisica era sottile quanto la sua morale accomodante, dichiarò anche lui formalmente che il cioccolato sciolto nell'acqua non rompeva il digiuno, rispolverando così a favore dei suoi penitenti l'antico adagio: liquidum non frangit jejunum. Forse in queste dichiarazioni di innocenza bisogna cercare la ragione per cui proprio ai monasteri e ai cuochi del clero andasse il merito di aver fatto progredire l'arte di preparare e ammannire questa e altre ghiottonerie.

Il cioccolato, che all'epoca era ancora cioccolata, era cosa riservata alle élite : golosità, lusso, elisir e afrodisiaco insieme. Cagliostro lo considerava addirittura una fonte di giovinezza ed è certo che il cacao fu usato a lungo (benché sia impossibile stabilire esattamente il periodo) per scopi terapeutici o di stregoneria. Di sicuro nel Settecento il cioccolato veniva prescritto come nutrimento e corroborante nella cura della tubercolosi e consigliato ai depressi e ai malati ossessivi. Soltanto verso la metà del XIX secolo incominciò a diffondersi tra le classi popolari.

Jean-Anthelme Brillat-Savarin consigliava: «Chiunque, essendo intelligente, si sente momentaneamente svanito; chiunque sia tormentato da una fissazione che lo priva della libertà di pensare, tutti costoro si prendano un mezzo litro di cioccolata ambrata mettendovi da 60 a 72 chicchi di ambra ogni mezzo chilo di cioccolato, e vedranno miracoloso ristabilimento».

Invece Madame de Sévigné esorta alla massima prudenza, perché, sostiene, «una ragazza, per aver mangiato troppo cioccolato, partorì un figlio di pelle nera che le morì subito».

Un'eternità dopo, in Italia, la cioccolata venne eletta compagna (anzi, camerata) ideale di libro e moschetto. In un opuscolo pubblicato a Torino nel 1933 a cura della Federazione Nazionale Fascista dell'Industria Dolciaria, si può leggere: «In qualunque maniera sia presa è un buon ristorante proprio per rimettere le forze abbattute e per ridare vigore; resiste alla malignità degli umori, fortifica lo stomaco, il cervello e le parti vitali, raddolcisce le sierosità troppo acri che calano dal cervello sul petto, eccita la digestione, abbassa i fumi del vino».

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Pagina 106

Lentamente, in modo quasi impercettibile ma anche irreversibile, le abitudini quotidiane dei torinesi dell'Ottocento intanto cambiavano e, con loro, anche il modo di occupare quello spazio che oggi va sotto il nome di «tempo libero».

Se una volta, come scrive Pietro Baricco nel 1869, «nei giorni festivi gran folla di popolo esce dalla città per ire a sollazzevoli diporti o nei borghi vicini, o fra i vigneti della collina, o per fare baldoria nelle osterie campestri di cui è ben fornito il suburbio», il rito del caffè, inteso non come bevanda ma come luogo di ritrovo e di conversazione, incomincia a sostituire, almeno per la classe più abbiente e per la borghesia, la gita fuori porta.

Galeotta, in questo incontro di caffè e tempo libero, fu una bevanda tipicamente torinese a base di cioccolata, il famoso bicerin, destinato anche lui a fare la sua parte nel cambiamento dei costumi.

Intorno al bicerin si è sviluppata quasi una scienza che, come ogni scienza che si rispetti, aveva anche i suoi gerghi e la sua particolare terminologia.

A partire dal 1840 questo miscuglio di cioccolata, latte e caffè secondo le regole e le dosi che vedremo, diventa la consumazione di prammatica al mattino, occupando il posto che oggi è del cappuccino e del croissant. Il bicerin nasce dalla reinterpretazione dei caffettieri torinesi di un'antica bevanda che, malgrado il nome, era nata anch'essa a Torino nel XVII secolo, la cosiddetta bavarèisa, lanciata come prima colazione dal caffè Fiorio, di via Po, nel 1704.

Se nella bavarèisa gli ingredienti venivano serviti già mescolati e bisognava berla all'istante per evitare che il cacao si depositasse, nel bicerin vengono presentati separatamente e, invece che in una tazza, in bicchieri di vetro, probabilmente per rendere visibili le piacevoli variegature di quei liquidi eterogenei che stanno miscelandosi.


Il bicerin svolge un ruolo sociale perché consente alle signore per bene, che non potevano assolutamente metter piede in un caffè, di fare uno strappo alla regola. Le botteghe del caffè si rasformano così in salotto mondano, un ritrovo per la conversazione pomeridiana delle dame, e perdono la caratteristica di luoghi esclusivi per uomini dove si parla di politica e dove, a Torino, Cavour, in una sala di Fiorio (intitolata a lui come si può ancor oggi leggere su un cartiglio affisso) faceva l'Italia.

Dai caffè più eleganti della città, come appunto il Fiorio e il San Carlo, fino ai più frequentati delle province piemontesi, i signori (e le signore) si fermano a bere la nuovissima pozione. La possono richiedere in tre versioni, a scelta: pur e fior, e cioè caffè e latte miscelati (antenato del nostro cappuccino); pur e barba, caffe e cioccolato; un po'd tut, i tre diversi ingredienti insieme.

La versione pur e barba conosce un succedaneo, o copia, o rivisitazione, la si chiami come si vuole, nella milanese barbagliata, che prese il nome dall'impresario Barbagliati, direttore artistico della Scala, uno dei principali artefici della fama di Rossini, che ne era goloso.

Per tornare al bicerin, quali che fossero le versioni scelte, tutte venivano accompagnate, in un bicchierino a parte, dalla stissa, che in piemontese significa goccia, un supplemento di latte o caffè o cioccolata. Ogni bicerin era poi corredato da un biscotto da intingere, compreso nel prezzo.

Alexandre Dumas, di passaggio a Torino nel 1852, rimase a tal punto sedotto dal bicerin che proclamò: «Fra tutte le belle cose di Torino non dimenticherò mai l'eccellente bevanda al cioccolato servita in tutti i caffè». E chissà che il gran francese non sentisse ancora in bocca il suo profumo mentre compilava, per il suo monumentale Grande dizionario di cucina (uscito postumo nel 1873), le voci «Cacao» e «Cioccolato» che occupano pagine e pagine di citazioni, aneddoti, ricette, amenità. Chi ne avesse voglia potrebbe leggervi con grande godimento del Cioccolato alla vaniglia alla maniera di Parigi, o Alla maniera di Bayonne e della Spagna, o ancora Secondo l'uso di Milano e dell'Italia senza trascurare la Vacaca Chinorum, né il capitoletto sulla Falsificazione del cioccolato.

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