Copertina
Autore Annalisa Alberici
Titolo Cucina del Pavese, della Lomellina e dell'Oltrepo
EdizioneMuzzio, Roma, 2003 [1998], Cucine regionali 17 , pag. 504, cop.fle., dim. 140x210x30 mm , Isbn 978-88-7413-090-0
LettoreRiccardo Terzi, 2004
Classe alimentazione , regioni: Lombardia
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Indice

Prefazione 7
Ringraziamenti 10
Avvertenze generali 11

Tra pianura e montagna,
cucina di palazzo e cucina di sopravvivenza 13

La cucina pavese esiste? 13
PANE 20
Una ghiotta caccia al tesoro 24

Storia, gastronomica e non, di una provincia
uguale a se stessa dai tempi del Barbarossa 33

Rustica e raffinata, né plebea, né aristocratica 35

La risaia e l'epopea della monda 45

All'inizio era la palude 45
la coltivazione e i suoi protagonisti 46
L'oro delle paludi 53
    Non solo risotti 56
    Alla base: il riso 57
    Mescolare o non mescolare: questo è il dilemma 57
    I comprimari 60
    VARIETÀ DI RISO 62

Vie del sale, acciugai e trovatori... e altre vie 121


Pesci, crostacei e anfibi 139

Le tecniche di pesca 142
Caccia alla rana 144
In cucina 146

A caccia 163


Mandrie, bergamini e formaggi 179

Una storia da Far West 179
Latte e derivati 182
FORMAGGI D.O.P. 184
Carni 187
IL QUINTO QUARTO 188

Un popoloso cortile 219

IL SALAME D'OCA 225

Il porcello grasso 249

SALUMI 258

Orti, frutteti, boschi e sterpaglie 301


La vite, i vini: una saga millenaria
dalle botti di Strabone ai moderni D.O.C. 377

I VINI A OLTREPÒ PAVESE D.O.C. 379
Scene di collina 383
STUZZICHINI 387

Il desinare del giorno di festa e altri riti 393

QUANDO NASCEVA UN BAMBINO 411
CENA DELLE SETTE CENE 413
PRANZO DI LAUREA IN CASA BECCARIA 415

Bibliografia 495

Indice delle ricette 497

 

 

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Pagina 13

Tra pianura e montagna, cucina di palazzo e cucina di sopravvivenza


La cucina pavese esiste?

Prima di rispondere a questa non infrequente domanda, spesso devo frenare il disappunto, che mi condurrebbe a reazioni eccessivamente vivaci. Passi quando a porgerla sono persone autenticamente interessate, provenienti da altre contrade e ansiose di colmare una più che giustificata lacuna; ma non quando essa mi viene posta da signore pavesi di varia età, costrette quasi sempre e, paradossalmente, per scelta personale, a un triste spignattamento di sopravvivenza; o addirittura da ristoratori autoctoni, spesso privi di fantasia e preparazione, al servizio di un pubblico troppo poco esigente. Il quesito posto da queste due ultime categorie rispecchia infatti una realtà inquietante: la scarsa valorizzazione delle tradizioni della nostra amata terra, comprese quelle enogastronomiche.

Devo ammetterlo: nei secoli la cucina pavese non fu mai scritta. O lo fu per caso.

Grave colpa, quella di essersi affidata unicamente alla tradizione orale: così è solamente per caso, consultando palinsesti e incunaboli, che se ne trovano tracce.

Soggiorno tra i preferiti dell'imperatore Augusto, capitale d'Italia per più tempo della Roma di oggi (dal VII all'XI secolo), Pavia non ha conservato memoria dei manicaretti approntati nelle cucine del Palazzo, per i sovrani più potenti del mondo: i Re Longobardi o Carlo Magno o per le incoronazioni degli Ottoni e nemmeno per quella di Federico Barbarossa, tutte avvenute in San Michele Maggiore.

E in che cosa consisteva quel "mangiare prima de grasso e poi del magro" con il quale Bianca Maria Visconti rassicurava il Duca suo marito di avere degnamente accolto Re Renato?

Misteriosa rimane la dieta di Francesco Petrarca, ospite illustre del Castello Visconteo e amante di cibo "leggiero" e "bere temperato".

Le notazioni di Opicino de Canistris, contenute nelle Lodi di Pavia (1330), ci tramandano di ricchi mercati, orti rigogliosi, acqua del Ticino ottima per cuocere i cibi.

Già allora noti per la loro tradizionale ospitalità, i Pavesi offrivano le minestre in coda al menu, acciocché i convitati non si precludessero la degustazione di cibi più ricchi e prelibati. Come il bollito, servito con la salsa peverata, o la selvaggina.

Di ricette, nemmeno l'ombra. D'altro canto il resto della Penisola non ne è, fino alla seconda metà dell'800, molto più prodigo e i pochi procedimenti descritti denunciano negli autori più letterati, che cuochi o praticanti di cucina.

Eppure già nei tempi antichi i cuochi pavesi dovevano avere una certa rinomanza, se il 23 agosto 1495 Gian Galeazzo Sforza ne richiese quattro, perché lavorassero a Milano, alla festa di investitura del Ducato. Antesignani, rimasti ignoti, dei moderni ambasciatori del nostro sapere culinario: Aldo Sacchi, Alfredo Valli, Gualtiero Marchesi, i Sozzani, solo per citarne alcuni. Molti, ma non tutti, provenivano e provengono da un quadrilatero benedetto, con vertici a Belgioioso, Corteolona, Villanterio e San Zenone.

Spesso a stento sopravvivono, nell'intimità di non molte famiglie, anche le tradizioni popolari, le cui artefici sono state, nei secoli, geniali e solide arzadoure, reggitrici della casa, abituate a utilizzare tutte le risorse di una terra che più generosa è difficile immaginare. Del resto proprio da loro, pragmatiche massaie sparse ovunque, nasce l'autentica cucina italiana (o forse sarebbe più appropriato il plurale: cucine italiane), con la varietà di piatti che suscitano l'invidia dei Francesi, abituati a una gastronomia uniforme, radicatasi nelle cucine dei ristoranti.

Per quanto tempo ancora le antiche consuetudini resisteranno, nessuno può dirlo. Certo è che il grande benessere di cui si è avvantaggiata l'Italia dalla fine della guerra a oggi, provocando il massiccio esodo dalle campagne, ha modificato con irruenza il modo di vita e disperso, in una sola generazione, il patrimonio culturale di millenni.

Fin dalla notte dei tempi i problemi dei nostri antenati non erano certo le sovrapproduzioni agricole e anche la dieta dimagrante costituiva un assillo assai remoto.

Per cavass la fam, ovvero sfamarsi, ci si ingegnava anzi a sfruttare tutto al meglio, anche quello che oggi normalmente scartiamo. La fattoressa mai si sarebbe sognata, ad esempio, di buttare il sangue degli animali uccisi: lo trasformava piuttosto in gustose fritture e dolci; le zampe (i pé, letteralmente i piedi) dei polli erano rese ghiotte semplicemente abbrustolendole sul fuoco; a primavera si ripiantavano le cipolle germogliate, baveèr o sigulén arbutà, per moltiplicarle e mutarle da cibo indigesto in autentica leccornia, ottima cruda con deliziose salsine agrodolci; il pane era sacro e, se a un bambino ne cadeva di mano un pezzetto, anche minuscolo, era uso antico che la madre gli ingiungesse di raccoglierlo, come si tramanda facesse Gesù; quando riso e tagliolini erano da soli insufficienti si univano in un piatto unico, ris e tajarei non disdicevole specialmente se la lottura avveniva in buon brodo di gallina. I fasti del quinto quarto bovino (si veda pago 188) meriterebbero un volume a sé stante, con trippe, nervetti, rognoncini e parti meno nobili trasfigurati in autentici capolavori; anche gli avanzi erano esaltati in splendide apoteosi da donne non frettolose né rassegnate, ma saggiamente impegnate, anche nelle angustie economiche, a rendersi e rendere il meno spiacevole possibile la vita.

Era l'esaltazione dell'italica arte di arrangiarsi, localmente sintetizzabile nel detto: la miseria agussa 'l talént (la miseria aguzza l'ingegno).

Nei periodi più difficili le ristrettezze mettevano ancor più a dura prova la perizia delle antiche cuoche, specialmente quelle appartenenti ai ceti meno fortunati.

Non vigeva allora il concetto del buono e del meno buono, ma del cumpensa o cumpensa no. "Compatire il pane mangiandolo col companatico" è il significato del verbo cumpensà descritto dal Gambini. Somma preoccupazione della gente che faticava a mettere insieme il desinare con la cena era che il companatico, la part, compensasse quanto più possibile, ovvero che un pezzettino anche il più piccolo, rendesse appetibile la maggior quantità possibile di pane, di polenta o... di acqua. Æl ga da fa bev, deve fare bere!, era una condizione imprescindibile.

Erano richiesti perciò sapori forti e aromi intensi. Ad esempio compensavano bene le "ciocche" di peperone conservate sotto aceto, le salacche, il gorgonzola, che allora era solo quello vecchio e stagionato; alla più disperata, anche l'aglio da spalmare sul pane e l'aceto stesso, da versare nell'acqua fredda, in cui intingere una crosta di pane raffermo (panposs), duro come un sasso (s,ciaplèi) o un pezzo di legno (Taplèi).

Il pane poteva essere la mica bianca cosiddetta di Stradella, però comune in tutto l'Oltrepo, ma soprattutto pane meno raffinato: crostoni di ferrigno pan neghaer o scur (pane nero o scuro), di pan ad segla (pane di segale), di pan mangì (lomellino, di farina mista di grano e mais) o dei sinonimi pan malga e pan mastüra o mistüra di cui si cibavano anche i Pavesi di città. L'espressione urdinari me 'l pan giald (ordinario come il pane giallo) la dice lunga sulla grossolanità di quegli impasti, pure così indispensabili alla sopravvivenza. Ma torniamo alle raffinatezze di cui anche genti modeste seppero dare prova, come ampiamente dimostrato da molte ricette riportate in queste pagine: ad esempio le polpette, i risotti recuperati arrostendoli, gli involtini farciti in vario modo, i gnoc cascà, ovvero la messa in pratica più palese della filosofia dell'uso degli ingredienti di cui si dispone: la cuisine du jour, volendo adoperare un termine, purtroppo di importazione, ma molto calzante e moderno.

Altro concetto pervicacemente radicato in molti Pavesi è poi quello che la nostra cucina non abbia piatti autoctoni, ma piuttosto presi a prestito da terre limitrofe. Il che, inspiegabilmente, esclude a priori la possibilità che il flusso sia stato all'incontrario, ovvero da noi a loro.

Fortunatamente non ci sono mura e barriere di filo spinato verso Milano, Lodi, Novara e neppure verso Piacenza e Genova: passano idee, prodotti, piatti che, non di rado, si assomigliano, pur con varianti localmente interessanti e, spesso, con nomi differenti. Esattamente come il dialetto.

Pietanze semplici o elaborate, che le nonne contadine approntavano con utensili divenuti ormai da museo, producendosi in gesti rituali e segreti un po' magici, adoperando i prodotti dell'orto e del pollaio; il burro conservato nelle ghiacciaie o nella pentola calata in fondo al pozzo, ma anche l'olio della Riviera Ligure e dei laghi lombardi o lo strutto; arricchendole con conserve fatte in casa o profumate con le erbe raccolte nei prati a primavera o con oculati acquisti fatti al mercato. Ovviamente il mito dell'antica avvedutezza non va neppure smodatamente enfatizzato. La mia bisnonna, ad esempio, recatasi un giorno al mercato per acquistare un mestolo di legno (casù, autentico simbolo dell'autorità della reggitrice) e constatato che, grandi o piccoli, questi attrezzi avevano tutti lo stesso prezzo, per "risparmiare" ne portò a casa uno così gigantesco, che non entrava nella pentola! Le toccò sicuramente tornare a cambiarlo, se volle estrarre la minestra saporita, confortante gli animi oppressi dalle nebbie d'autunno e dai cieli bassi.

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Pagina 17

Salsa peverada o peverata
    tempo di esecuzione: 15 minuti

    * 25 g di peperoncini freschi piccanti
    * 25 g di farina bianca
    * 1 cucchiaio di burro
    * 3 tuorli d'uovo sodi
    * 30 g di sedano mondato e lavato
    * 2 spicchi di aglio
    * 1 cipollina mondata e lavata
    * 1 pizzico di noce moscata
    * 15 g di capperi dissalati
    * 3 cucchiai di olio di oliva
    * 3 acciughe sotto sale diliscate,
        sfilettate, mondate e lavate (pag. 124)
    * 1 pezzetto di scorza di limone (solo il giallo)
    * Aceto
    * Sale

Lavate i peperoncini e mondateli . Scaldate il burro in un tegamino e fatevi tostare leggermente la farina, mescolando con il cucchiaio di legno. Pestate tutti gli ingredienti (peperoncini, farina, tuorli, sedano, aglio, cipollina, capperi, acciughe, noce moscata, scorza di limone, sale) nel mortaio (o passateli nel frullatore). Unite olio e aceto, sbattendo il tutto fino a ottenere una crema.

Ovviamente ai tempi di Opicino De Canistris non si cucinava certo con i peperoni questa salsa, molto indicata con i bolliti! Una salsa simile venne però riproposta nella "Settimana Gastronomica Pavese", svoltasi dall'l1 al 19 maggio 1940.

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Gnocchi cascati (Gnoc cascà)
    tempo di esecuzione: 40 minuti per 4 porzioni

    * 3 rosette di pane rafferme
    * 1 cucchiaio di zucchero
    * 100 g di uvetta sultanina
    * 100 g di amaretti sbriciolati
    * 2 uova
    * 3 cucchiai di grana grattugiato
    * 5 cucchiai di farina bianca
    * 100 g di burro
    * 4 foglie di salvia
    * Sale
    * Pepe e grana grattugiato in tavola

Mettete a bagno l'uvetta in una scodella con acqua tiepida. Spezzettate il pane e mettetelo a mollo in acqua fredda in una terrina, lasciandolo non meno di 20 minuti. Levatelo, strizzatelo bene con le mani e passatelo al passaverdura, disco fine, lasciandolo cadere in un'altra terrina. Sciacquate l'uvetta sotto acqua corrente, strizzatela e aggiungetela al pane. Unite uova, zucchero, amaretti e un po' di farina (quel tanto che basta per ottenere una pasta morbida, ma che stia insieme). In un tegamino mettete burro e salvia e scaldate finché il burro diventa nocciola. Togliete dal fuoco. In una pentola portate a ebollizione 3 l di acqua. Salate con 3 cucchiaini da tè di sale grosso, lasciate sciogliere e lasciatevi cadere l'impasto a cucchiaiate oppure da un sac à poche con bocchettone da 1.5 centimetri, in cilindretti della lunghezza di 2 centimetri. Man mano che gli gnocchi vengono a galla estraeteli con la schiumarola e distribuiteli nei piatti singoli. Spolverizzateli con il formaggio e irrorateli con il burro. Servite caldissimi. Mettete pepe e grana in tavola perché i commensali possano servirsene.

Invece che con burro nocciola, potete condire con burro bianco. Per verificare che l'impasto sia della giusta consistenza, cuocete uno gnocco di prova. Se questo si spacca, unite altra farina all'impasto. Così mi ha suggerito Giuseppina R., da Borgarello, affidandomi la ricetta.

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Pagina 24

Una ghiotta caccia al tesoro

Variegata e composita, la Provincia è costituita da tre zone distinte: il Pavese, la Lomellina, l'Oltrepo.

I 2965 chilometri quadrati di superficie si estendono per il 10% in montagna, per il 16% in collina e per il restante 74% in pianura.

Il territorio, suddiviso attualmente in 190 comuni, comprende quindi la pianura del Pavese e della Lomellina, digradante verso Po, Ticino, Sesia e Lambro, e l'unica propaggine appenninica situata in Lombardia, che occupa la gran parte dell'Oltrepo. Un altro piccolo gruppo di colline, quelle di Miradolo, eleva le sue dolci cime interrompendo la piana pavese, ai confini con la provincia di Lodi: "Io non conosco altro luogo tanto poco elevato dal quale si possa vedere un così vasto spettacolo di nobili città" scriveva incantato Francesco Petrarea a Guido Sette, arcidiacono di Genova, nell'ottobre del 1353. A metà strada tra il Polo Nord e l'equatore, subiamo inverni freddi e nebbiosi, estati torride e umide, autunni e primavere piovosi. Se state per compatirci, non illudetevi di poterlo fare: su questo favoloso 45° parallelo, che ospita la massima concentrazione dei più grandi vini del mondo e che è l'ultimo sopra il quale si può coltivare il riso, ci troviamo infatti benone.

Dal punto di vista agricolo la provincia "a forma di grappolo d'uva" come la definiva uno dei suoi figli più illustri, Gianni Brera, è ed era addirittura opulenta: escludendo agrumi e pesce fresco di mare, è difficile dire che cosa vi manchi o vi mancasse.

Chi appena poteva, la sua preziosa pianta di limone la allevava nel vaso enorme di cotto, che, in vista dei primi freddi, era un'impresa mettere al riparo, calandolo lungo l'impervia scala della cantina insieme ai più maneggevoli gerani. Le famiglie abbienti si facevano spedire i mandarini da Sanremo: arrivavano in ceste di bambù, insieme ai fiori per addobbare la casa per Natale. Né mancavano su alcune tavole privilegiate le arance, i profumati portagalli, denominazione forse causata da una conoscenza della geografia alquanto approssimativa. Le bucce, sulle stufe roventi, profumavano le stanze. A volte qualcuno meno fortunato le avrebbe gustate avidamente. Un amico, figlio di grandi proprietari terrieri, mi raccontava il disagio provato nel sorprendere un compagno di scuola che rovistava nella spazzatura della sua casa, alla ricerea di questa prelibatezza: egli la aveva appena scartata nel suo pranzo serale.

Sui nostri mercati arrivavano poi, da Genova e da Venezia, aragoste e branzini, per i quali abbiamo perfino un nome dialettale: branzei o branzin. E il tonno, sia fresco che conservato, dalla Sardegna e dal Napoletano. E l'ananas dai tropici. Si tramanda anzi che un casteggiano danaroso, cui il fruttivendolo burlone aveva consigliato di mangiarne la scorza, scartando la polpa, così commentasse l'incauto acquisto: gustous, ma stràca i dent, appetitoso, ma affatica i denti. Digressioni esotiche a parte, i piatti della tradizione ci narrano di quando nei torrenti era un brulicare di gamberi; nelle lanche dei fiumi, che le piene inondavano e le magre scoprivano, si dava la caccia alle anguille; nelle risaie si allevavano carpe, tinche, pesci gatto; selvaggina da pelo e da penna popolava boschi e foreste; mandrie copiose erano allineate nelle stalle e variegati ortaggi negli orti; una fauna composita animava i pollai e pingui maiali grufolavano nelle porcilaie; il frutteto dispensava a ogni stagione i suoi tesori.

La realtà attuale non è molto distante, se si esclude qualche eccezione, come il fatto che i gamberi siano spariti e protetti da draconiane proibizioni di pesca.

Le oltre 500 aziende operanti nel settore agroalimentare si collocano per la maggior parte su livelli di produzione qualitativamente molto elevati. Riso e vini ne sono i punti di forza: per quanto concerne il primo, la provincia di Pavia è la prima produttrice in Europa, per i secondi la prima in Lombardia.

Sono queste le nostre credenziali culinarie.

Una caccia al tesoro tra le nostre prelibatezze riserva in ogni stagione interessanti scoperte e piacevoli sorprese.

"Cultura del maiale" significa da sempre salami di prim'ordine, da consumarsi crudi o cotti: stagionati alla salubre brezza delle valli in Oltrepo (i più noti sono quelli di Varzi, documentati fin dal XII secolo e presenti sulle tavole dei Marchesi Malaspina, i primi in Italia e gli unici in Lombardia ad avere ottenuto la denominazione di origine controllata), conservati sotto grasso in Lomellina, a causa della penetrante umidità: salamin 'd l'ula o 'd la duja, da olla, il recipiente di coccio dove li si ripone. Da non tralasciare coppe e pancette.

La Lomellina è anche la patria dello strepitoso salame d'oca e di molte golosità affini, come prosciuttini, petti affumicati, fegati grassi, quartini sotto grasso, compressata di ciccioli, tutti derivati dal simpatico palmipede. Per gustare appieno i salumi, bisogna metterli tra due fette di pane casereccio, la mica.

I cereali meritano un discorso a parte.

Sono essenzialmente riso e mais in Lomellina e nel Pavese; grano, sia duro che tenero, e orzo in Oltrepo.

Oltre un terzo della produzione nazionale di riso, cioè più di 3 milioni di quintali di prodotto di pregio, si deve alla Provincia di Pavia.

A parte il riso, la cui collocazione non potrebbe evidentemente essere differente (ma ci fu un tempo in cui anche piccole porzioni del vogherese furono allagate dalle risaie), questa distinzione per aree geografiche nasce semplicemente dalla tradizione: per secoli i contadini a nord del Po hanno prevalentemente coltivato granturco e quelli a sud grano.

L'orzo è stato invece reintrodotto solo di recente, perché di moda e quindi remunerativo. Curiosamente, la nostra cucina tradizionale non prevede neppure un piatto a base di questo delizioso cereale, se si esclude qualche pane, l'orzata e... il caffè! Anche se i terreni sassosi e poveri dell'Appennino ne producevano, insieme a segale e avena. Se ne trova traccia in vetusti documenti, come per esempio un lascito del 1663 dell'arciprete Giovanni Zammarati, che destina alla confraternita di San Sebastiano, in Casteggio, 7 sacchi di fave, 7 di orzo, 7 di frumento, a costituzione di un monte di pietà granatico. A chi ne aveva bisogno, il che accadeva specialmente in inverno, si davano una o due mine (pari a 0,5 kg) di granaglie "a misura rada": le avrebbe restituite "a misura colma" nella buona stagione, lasciando nel frattempo un pegno, ad esempio piatti di peltro, che al tempo erano di uso molto comune. Stessa sorte di oblio è occorsa alle minestre di farro, che pure sono contemplate in numerosi menu della fine del XVI secolo dell'Almo Collegio Borromeo di Pavia; colà l'orzo era impiegato "per far acqua cotta", non meglio precisata, per ammalati.

Molti grani moderni sono stati, anche di recente, selezionati in un centro specializzato d'Oltrepo, lavorando sul miglioramento genetico, complici terreno e ambiente particolarmente idonei alla ricerca. Ogni grano serve a un prodotto molto specifico: quello per lo spaghetto è differente da quello per la fettuccina. Il panettone ha esigenze diverse dalla rosetta di pane. Particolare attenzione è attualmente convogliata sul grano per la cialda del cono dei gelati, che non deve inumidirsi al contatto con la sua ghiotta farcitura!

Anche le farine da noi sono speciali. Esistono ancora, soprattutto nelle valli dell'Oltrepo, segnatamente in Valle Versa, piccoli mulini che adoperano talora perfino macine di pietra. Lì le farine gialle sono eccezionali, specialmente se si riesce a trovare la leggendaria Marano, superata nella polenta solo dalla ormai introvabile "Otto File Vogherese".

Formaggi da fare illividire i Francesi, più di un Coppi o di un Pantani, si trovano dappertutto: grassi e opulenti nella pianura, non meno interessanti sull'Appennino: formaggette come la molana del Brallo (ottime sia fresche che stagionate), stracchini, ricotte, burro, niis, il formaggio che... cammina. Perfino rigorosi caprini (da gustare al naturale o con una cucchiaiata di miele, magari di castagnol.

Lo stracchino dolcissimo è ineguagliabile con la mostarda di Voghera: prugne, fichi, mandarini e altri frutti conservano il loro sapore sotto quello pungente della senape. Deliziosa invenzione di un monaco che, volendosi punire della sua ghiottoneria, pensò di mangiare la frutta dopo averla trattata nel modo più disgustosamente abominevole che gli venne in mente e la fece bollire con mosto e senape. Ma fu sfortunato e inventò prelibatezza. Tempo addietro, mentre facevo provvista di torrone in una delle più rinomate pasticcerie di Cremona, notai sugli scaffali storici, tra le meraviglie alla mandorla e alla nocciola, pregevoli barattoli di mostarda, con l'etichetta della maison. Tentata di acquistarne uno, lo confidai alla commessa, specificando altresì il motivo della mia perplessità: sono di Voghera e, a oggi, non ho mai assaggiato una mostarda più buona di quella della mia città natale. E lei: "Se è per quello, le nostre mostarde sono confezionate da ..." e cita il nome dell'artigiano vogherese presso il quale mi servo da secoli!

Anche ai bolliti bene si addice la mostarda.

Il mercato di Casteggio, in stagione, è prodigo di ovoli ancora chiusi da mangiare crudi, tagliati a fettine sottili, con olio, pepe e limone; porcini freschi e secchi; rarissime le spugnole; insuperabili i tartufi, anche se meno famosi di altri, che nascono, o vengono dichiarati nascere, qualche fila di colline più in là.

In Oltrepo i tartufi si sviluppano non nelle marne, ma nell'argilla, che, impermeabile, è uno scrigno per odori e sapori.

Il sublime tartufo bianco, magnatum pico, ma anche non disdicevoli bianchetti (tuber borchii) si trovano al di sotto dei 400 metri di altitudine; tartufi neri (tuber aestivum Vittadini e melanosporum), il tartufo di Norcia e del Périgord, al di sopra di tale quota. La linea di demarcazione non è, ben inteso, precisa. La terra rivela i suoi tesori quando il clima si fa più inclemente, da ottobre a dicembre. Allora, dall'imbrunire all'alba, ogni bosco è perlustrato da molti visitatori, ultimi officianti di un rituale magico, che prevede levatacce nel cuore della notte e passeggiate all'umido. Le tenebre proteggono il segreto di piste tramandate da generazioni e gli animali al seguito non sono disturbati da odori e rumori. Una volta si usava la scrofa, che però, crescendo, diventava ingovernabile e, trovato il prezioso tubero, se lo divorava! Più ubbidiente e meno buongustaio, diciamo pure un po' sciocco e patetico, il cane si limita invece a scovarlo per la gioia del padrone.

Un tempo i tartufai giravano casa per casa a proporre le loro meraviglie, pudicamente occultate nel fazzolettone sgualcito. Oggi frequentano i mercati e, una volta all'anno, verso la fine di novembre, si radunano a Casteggio in una spettacolare fiera.

Bisogna stare all'erta, perché il mestiere ha i suoi trucchi e un tartufo buono ne può profumare altri dieci di valore mediocre. Si deve andare dal tartufaio con la fiducia con la quale ci si reca dal gioielliere. Con la differenza che potremmo anche non scoprire mai che abbiamo al dito un fondo di bottiglia qualsiasi invece che uno smeraldo colombiano, mentre un falso tartufo a tavola si tradisce sempre! Che fare una volta messe le mani sulla preziosa merce?

Godercela quanto prima: anzitutto in ottemperanza alla saggia massima: chi vansa par duman, vansa pr'æl can (chi avanza per dimane, avanza per il cane); poi perché è meglio non correre rischi, con una conservazione casalinga non del tutto adeguata. Avanti dunque con un bel risottino o anche con due uova al burro, euv in ciarghìn, morbide dentro e leggermente ambrate fuori. Una fetta di polenta e quattro scaglie di tartufo ne fanno un piatto che più squisito non si può!

Prodigiose scorte di frutta e verdura sono possibili in Valle Staffora: molte le mele classiche, poche le superstiti di antica schiatta, tra le quali la Pomella, piacentina o genovese, piccola, gialla e rossa. Spesso bacata, quindi ecologica. E mele cotogne da mangiare cotte. Anche le pere sono sublimi, sia crude che cotte. Specialmente le vecchie martén e giaseu, pere martine e ghiacciole. Queste ultime, stufate, conservano consistenza particolare e offrono all'impatto dei denti come dei cristalli di ghiaccio, donde il loro nome.

Angurie e meloni prosperano nei terreni sabbiosi lungo il Po.

Anche i peperoni amano la sabbia, soprattutto quella di Corana.

Terreni asciutti anche per le zucche: le migliori sono le bartagnéne, verde intenso e con una specie di berretto (il barteu, appunto) sotto il picciolo.

A Voghera si produce il 6% delle cipolle italiane: le famose bionde di Voghera. Le rosse vengono invece da Breme, in Lomellina.

Le patate sono eccellenti in montagna, come il miele. L'aglio ovunque.

Cilavegna e Sommo si dicono patria di saporosi asparagi violetti, ma asparagiaie pullulano dappertutto dove esiste sabbia. E non meno interessanti sono i sottilissimi asparagi selvatici e i vërtiss o ourtiss, le cime di luppolo, preziose per risotti e frittate, come i teneri germogli di ortica. E tante altre erbe selvatiche.

Vigevano mena vanto dei suoi borlotti. Ma la vera capitale del borlotto è Gambolò, dove Agostino Pastore e soci dello storico Caffè Commercio hanno addirittura creato una torta, rielaborando una vecchia ricetta, e dei deliziosi biscotti, i bolottini, dalla forma di fagiolo. Saporosissimi sono anche i fagiolini dell'occhio, che si pensa fossero l'unica specie di fagiolo nota in Europa prima della importazione delle ricche specie americane.

Miradolo è famoso per i piselli.

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Pagina 205

Gran bollito
    tempo di esecuzione: 3 ore per 6-8 porzioni

    * 2 kg di carne composti da pezzi delle seguenti parti,
      tutti più o meno dello stesso peso:
            * garretto di vitellone,
            * punta di petto,
            * bianco costato,
            * spalla,
            * reale,
            * pancia di vitello,
            * altri tagli di seconda e terza categoria
    * 1 pezzo di testina di vitello
    * 1 o più dei seguenti pezzi:
            * 1 coda di vitello o vitellone,
            * 1 piedino di vitello,
            * 1 lingua salmistrata,
            * 1 lingua di vitello fresca,
            * 1 osso con midollo,
            * 1 gallina o 1 cappone,
            * 1 cotechino,
            * 1 salamella

    per aromatizzare
    * 3 carote raschiate, mondate e lavate
    * 1 cipolla mondata e lavata
    * 1 porro mondato e lavato
    * 3 gambi di sedano mondati e lavati
    * 1 rapa sbucciata, mondata e lavata
    * 3 foglie di alloro
    * 2 chiodi di garofano
    * Pepe nero in grani
    * Sale

Lavate tutte le carni sotto acqua corrente. Cuocete a parte i salumi secondo la ricetta "Salumi cotti" (pag. 259). Cuocete a parte la lingua secondo la ricetta "Lingua bollita" (pag. 204). Cuocete i piedini secondo la ricetta "Piedini di vitello" (pag. 268), ma lasciando i piedini interi. Cuocete a parte la testina secondo la ricetta "Testina bollita" (pag. 291). Preparate la gallina o il cappone secondo la ricetta "Cappone ripieno" (pag. 238). Avvolgete l'osso con il midollo in una garza e legatelo con il filo bianco: in questo modo il midollo, durante la cottura, resterà nella sua sede. Il midollo è proibito? Spero che queste pagine rimangano in futuro fino a superare questa immane iattura. Mettete le verdure in una pentola capace con alloro e spezie (i chiodi di garofano conficcati in una cipolla). Unite 3 l di acqua ogni kg di carne e portate a ebollizione. Salate mettendo 5 g di sale grosso per ogni l di acqua e aggiungete le carni. Regola fondamentale per un buon bollito è quella di immergere i pezzi di carne nell'acqua bollente per far sì che le proteine si coagulino velocemente formando all'esterno una membrana che impedisce la fuoriuscita dei succhi nutritivi: così facendo le carni mantengono intatte le loro sostanze e sapori. L'immersione dei pezzi di carne nella pentola deve essere fatta "a scalare", mettendo per primo in pentola il pezzo che richiede un periodo più lungo. Infatti quando si cuociono carni di peso differente e appartenenti a bestie e tagli diversi è indispensabile differenziare i tempi di cottura. La cosa migliore è chiedere il tempo del singolo pezzo al macellaio. In alternativa immergete contemporaneamente tutti i pezzi di carne nell'acqua e toglieteli man mano che sono cotti, conservandoli al caldo (ad esempio nel forno riscaldato a 100-120°C, in una pirofila coperta da un foglio di alluminio, mettendo in un angolo una piccola pirofila piena di acqua, perché mantenga l'ambiente umido), oppure reimmergeteli tutti insieme nella pentola quando anche l'ultimo pezzo è cotto e scaldate, lasciando sobbollire per alcuni minuti. La cottura deve avvenire a fuoco lento. Un kg di vitellone deve sobbollire per circa 1-2 ore. La carne è cotta quando una forchetta vi penetra facilmente. Non bisogna però stracuocerla, altrimenti diventa stopposa. Per questa ragione sono da evitarsi i tagli troppo magri, come ad esempio il filetto. Schiumate il brodo man mano con la schiumarola. Alla fine assaggiate e regolate il sale. Togliete i pezzi di carne e teneteli in caldo e filtrate il brodo in un colino a maglie fini, se lo volete servire per preparare lo stomaco al bollito. Pulite bene il bollito dai residui di cottura delle verdure prima di portarlo in tavola, ben caldo. Servite tagliandolo sopra i taglieri di fronte ai commensali e disponendo le fette sui piatti caldi. Cospargete con poco sale grosso e 1 cucchiaiata di brodo. Se non adoperate subito il brodo, sgrassatelo: fatelo raffreddare (anche per una notte), in modo che il grasso solidifichi in superficie, ed eliminatelo con la schiumarola. Per rendere limpido il brodo aggiungetevi, una volta raffreddato e sgrassato, dell'albume d'uovo leggermente sbattuto. Riportate a ebollizione: l'albume coagula e cattura ogni impurità residua. Filtrate il tutto al colino a maglie fini o, meglio ancora attraverso una garza, per ottenere una preparazione perfettamente trasparente.

Se fate precedere il bollito da una tazza del suo brodo di cottura, spolverizzatelo con grana grattugiato e prezzemolo tritato.

Si può anche adoperare la pentola a pressione, con la quale si abbreviano i tempi, ma con la quale, specialmente se i pezzi sono svariati, è più difficoltoso il controllo e anche la differenziazione dei tempi.

Festa per gli occhi e l'olfatto, prima ancora che per il palato, il bollito entusiasma, oltre che di per se stesso, per la varietà di contorni che lo possono accompagnare: sottaceti, mostarda, senape, salse, verdure bollite nello stesso brodo, comprese le patate che non figurano tra le verdure di base, ma che possono essere aggiunte circa 40 minuti prima della fine della cottura delle carni, in modo che non si disfacciano.

Non lasciate raffreddare il brodo con dentro la cipolla, perché questa potrebbe fermentare cedendo cattivi sapori.

Se avanzate della carne bollita, oltre che in polpette, potete elegantemente riciclarla nel seguente modo:

Tagliate a velo una grossa cipolla. Mettetela in un tegame con un cucchiaio di olio e 1 pizzico di sale fino. Incoperchiate e fatela stufare a fuoco lento finché è trasparente. Tagliate la carne a fettine sottili. Aggiungetela alle cipolle e irroratela con 1 cucchiaio di passata di pomodoro. Cuocete per 10 minuti.

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Il porcello grasso


Certamente nessuno gli aveva mai parlato di metempsicosi: sulle prime la parola gli sarebbe parsa un improperio o una bestemmia; quando però gli avessero spiegato che, secondo questa teoria, poteva rinascere musulmano, con tutte le implicazioni del caso, non dubito che sarebbe piombato nella più tetra disperazione. Nutriva infatti tra le più elevate aspirazioni mangerecce ed edonistiche la fetta di salame, una bela fäta 'd salàm cun la guta..., ovviamente accompagnata da una bella fetta di mica; nei momenti di sconforto rivolgeva il più tenero dei pensieri alle consolanti mezzene di lardo ben custodite nella cantina e basava molte delle sue convinzioni di vita sull'adagio: quand's gà fam, 'l pän par salàm.

Sto parlando del contadino pavese o oltrepadano o lomellino, non allevatore in grande stile, ma proprietario di un piccolo appezzamento sulla collina o fittabile nelle cascine della pianura, che un vincolo di tradizione, dipendenza, orgoglio, entusiasmo legava al suo animale preferito, anzi all'animale per antonomasia: 'l nimal. Non tutti potevano ovviamente permettersi di possedere un maiale, il che rendeva il suino ancora più ambito.

Nel rapporto tra l'uomo e il maiale c'è tutta la filosofia e lo stile di vita della campagna pavese dei tempi che furono, un mondo e un'epoca che si sono chiusi da non molto, nei primi anni del dopoguerra, dopo essere durati inalterati per secoli.

In questo piccolo mondo antico il maiale è ben più di un pilastro culinario: è la sopravvivenza.

Tutto da godere, gode a sua volta tutti i pochi avanzi di una parca mensa.

La sua resa in carne, e soprattutto in grasso, in rapporto al cibo consumato, e la rapidità di crescita sono le massime alle nostre latitudini.

Per secoli l'unico apporto di grassi alla dieta pervenne dal maiale: il lardo dell'unica bestia si centellinava, in modo che durasse tutto l'anno. I salami erano pochi e destinati ai regali importanti, più che all'uso della famiglia.

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Fricandò
    tempo di esecuzione: 40 minuti
    + il tempo di cottura per 4 porzioni

    * 600 g di carni di maiale: musetto, costine, orecchie
    * 2 piedini di maiale tagliati a metà
        per il senso della lunghezza
    * 100 g di cotenne
    * 200 g di fagioli borlotti sgusciati
    * 2 gambi di sedano mondati e lavati
    * 1 spicchio di aglio vestito
    * 2 carote raschiate, mondate e lavate
    * 1 cipolla piccola mondata e lavata
    * 2 rametti di rosmarino
    * 4 foglie di salvia
    * 2 cucchiai di olio di oliva
    * Sale
    * Pepe

Passate sulla fiamma cotenne, musetto, orecchie e piedini per bruciare la peluria e lavateli, eventualmente raschiando con la lama di un coltellino. In una pentola portate a ebollizione 3 l di acqua; salatela con 2 cucchiaini da tè di sale grosso e immergetevi il tutto, incoperchiate e fate cuocere. Dopo 30 minuti dalla ripresa del bollore estraete con la schiumarola cotenne, musetto, orecchie. Dopo altri 20 minuti scolate i piedini e metteteli per cinque minuti in acqua fredda, cercando di staccare gli ossicini. Quindi tagliateli a tronchetti. Nel frattempo immergete i fagioli in 2 l di acqua fredda, portate a ebollizione e continuate la cottura a fuoco dolce, per 40 minuti o finché sono morbidi. Tritate grossolanamente le verdure. Scaldate il forno a 220°C. Sistemate in un tegame le carni, i fagioli con il loro liquido di cottura, le verdure, l'olio, l'aglio, salvia e rosmarino, sale e pepe. Ricoprite con 1 l di acqua, incoperchiate e infornate in forno già caldo per 2 ore. Servite caldissimo, nello stesso recipiente di cottura.

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Pagina 291

Testina di maiale bollita
    tempo di esecuzione: 30 minuti
    + il tempo di cottura per 8 porzioni

    * 1 testina di maiale disossata da 1 kg
    * 2 gambi di sedano mondati e lavati
    * 2 carote raschiate, mondate e lavate
    * 3 foglie di alloro
    * 1 cipolla media mondata e lavata
    * 2 rametti di timo
    * 2 chiodi di garofano
    * 1/2 bicchiere di aceto
    * Sale
    * Pepe

In una pentola portate a ebollizione 3 l di acqua e immergetevi la testina, scottandola per 10 minuti dalla ripresa del bollore. Scolatela, raschiatela con uno spazzolino rigido e con un coltellino fino a eliminare ogni residuo di peluria. Con metà delle verdure e 1 rametto di timo farcite la testina e legatela con spago da cucina. Portate a ebollizione in una pentola 3 l di acqua con le verdure restanti, gli aromi e l'aceto. Salate con 2 cucchiaini da tè di sale grosso e immergetevi la testina: cuocete a fuoco lento per 1 ora circa. Servite fumante, cosparsa di pepe.

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Pagina 377

La vite, i vini: una saga millenaria dalle botti di Strabone ai moderni D.O.C.


Il "Bollettino del Comizio Agrario Vogherese" del 1876 riferiva del rinvenimento, nei pressi di Casteggio, di un tronco di vite fossile del diametro di 6 centimetri e della lunghezza di 25, prova tangibile che la presenza della vite nell'Oltrepo data di millenni.

Viti autoctone deliziavano evidentemente i nostri progenitori, cui in seguito Etruschi e Greci avrebbero insegnato nuove tecniche di produzione e regalato nuovi vitigni importati dall'Oriente.

Di botti di legno per il vino grosse come case, tipiche delle popolazioni liguri, narra Strabone (vissuto tra il 60 a.c. e il 20 d.C.) nella sua descrizione della zona che si estende a lato della via Postumia, l'unica strada consolare a non passare per Roma, nel tratto compreso tra Tortona e Piacenza, cioè l'Oltrepo Pavese.

Il torrente Staffora, uno dei maggiori corsi d'acqua locali, secondo alcuni deriverebbe il nome dal greco Stafulis, che significa "grappolo d'uva".

Cesare Cantù sostiene che i Gallo-liguri della collina oltrepadana smerciavano vino non solo in Lomellina, ma addirittura al di là delle Alpi, trasportandolo in grandi botti cerchiate.

I Romani assaggiavano il vino dell'ultima vendemmia alla fine di aprile, nel corso di feste speciali denominate Vinalia: noi lo imbottigliamo la settimana di Pasqua.

Con la caduta dell'Impero e la fine dei commerci anche la produzione del vino, sostituito dalla birra, preferita dalle popolazioni germaniche, subì una profonda recessione. Come avevano salvato la cultura, trascrivendo antichi codici, così i monaci di San Benedetto e di San Colombano salvarono la coltura della vite, ufficialmente con la scusa che il vino prodotto era loro indispensabile per celebrare la Santa Messa.

Nei documenti di archivio non è raro imbattersi in fondi rustici coltivati a vigna, di cui è investita una chiesa o un ospedale.

Fin dal Basso Medioevo si ha notizia di come la qualità del prodotto fosse salvaguardata nella nostra Provincia, con pene severe per gli adulteratori, ma anche per coloro che vendemmiavano prima della data stabilita dal Consiglio Comunale. Organizzati in paratici erano i brentadori, intesi come i commercianti di vino, il cui patrono è Sant'Alberto di Butrio, il monaco eremita che, chiamato a Roma dall'Alta Valle Staffora, aveva tramutato l'acqua in vino davanti al Papa. Questi si era allora convinto che era meglio lasciarlo tornare al suo eremo.

Attorno al 1550 Andrea Bacci, nella sua opera De naturali vinorum historia de vinis Italiae, elogia grandemente la viticoltura oltrepadana.

L'uva migliore era allora la Pignola, di ottimo sapore tra il dolce e l'amaro, da cui si ricavavano eccellenti vini colorati e con spuma persistente.

Ma l'0ltrepo, pur producendo i vini più ricercati non era l'unica zona di produzione della Provincia. Anche escludendo le colline di Miradolo rimanevano sempre i dossi sabbiosi della Lomellina, in seguito spianati per far posto alle colture di pianura, sui quali cresceva rigogliosa la vite.

Vigne dappertutto, dalla Lomellina, al Pavese, all'Oltrepo: così descrive la situazione Opicino de Canistris, nelle già citate Lodi di Pavia. "E di vino tale era l'abbondanza, che veniva versato talora nelle strade, dal momento che i ricchi non potevano darlo ai poveri, che ne avevano già troppo!".

Certo, nel tempo sono variati i sistemi di coltivazione della vite, i tipi di vitigni, le modalità di lavorazione dei preziosi grappoli.

Bianchi, rossi, rosati, fermi, frizzanti: davvero completa è la gamma di vini prodotti in Oltrepo Pavese.

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Pagina 388

Buccia di patata fritta
    tempo di esecuzione: 10 minuti per 4 porzioni

    . 4 patate medie novelle (serve solo la buccia)
    . 2 cucchiai di farina bianca
    . 1 bicchiere di olio

Lavate le patate, strigliandole con uno spazzolino sotto acqua corrente, e asciugatele perfettamente. Sbucciatele con un coltellino, lasciando un poco di polpa attaccata alla buccia. Fate scaldare l'olio in una padella da fritti. Infarinate le bucce e gettatele man mano in padella. Quando sono dorate levatele con la schiumarola e deponetele su un foglio di carta assorbente. Servitele caldissime.

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Pagina 426

Zuppa di ceci (sisarada)
    tempo di esecuzione: 30 minuti + il tempo di ammollo
    e di cottura dei ceci per 4 porzioni

    * 200 g di ceci secchi
    * 4 foglie di verza mondate e lavate
    * 2 gambi di sedano mondato e lavato
    * 1 grosso porro mondato e lavato
    * 1 carota media raschiata, mondata e lavata
    * 1 patata media sbucciata, mondata e lavata
    * 1 cucchiaio di prezzemolo tritato finemente
    * 1 cucchiaio di farina bianca
    * 1 cucchiaio di bicarbonato di sodio
    * 2 spicchi di aglio sbucciati
    * 1 rametto di rosmarino
    * 2 foglie di salvia
    * 2 cucchiai di olio
    * 4 fette di pane casereccio
    * Sale
    * Grana grattugiato
    * Pepe e olio in tavola

Mettete a bagno i ceci 2 giorni prima di cucinarli in acqua fredda con 1 cucchiaio di sale grosso, farina, bicarbonato e 1 spicchio di aglio. Al momento della preparazione eliminate l'aglio e metteteli in un colapasta: sciacquateli perfettamente e a lungo sotto l'acqua corrente, sfregandoli delicatamente con le mani. Metteteli in una pentola e ricopriteli con 3 l di acqua fredda. Lavate salvia e rosmarino e avvolgeteli in una compressa di garza sterile, fermandola con un filo bianco; unite il tutto ai ceci. Tagliate a tocchetti carota e patata, a listarella la verza e a rondelle il porro e il sedano; unite le verdure ai ceci. Fate cuocere con il coperchio, a fiamma bassissima, per 2 ore circa o finché i ceci sono morbidi, senza mai mescolarli. A cottura ultimata aggiustate il sale, togliete la garza con salvia e rosmarino e aggiungete l'olio. Scaldate il forno a 180°C . Sfregate il pane con l'aglio restante e passatelo in forno caldo per 10 minuti. Disponete le fette nelle fondine e versatevi sopra il brodo con i ceci, spolverizzandolo con il prezzemolo. Servite sia calda che tiepida. Mettete grana grattugiato, olio e pepe in tavola perché i commensali possano servirsene.

Estratti dalla pentola con la schiumarola, i ceci possono essere serviti da gustoso contorno, ad esempio per i salumi cotti.

Potete abbreviare il tempo di cottura utilizzando la pentola a pressione per la cottura dei ceci.

Il brodo avanzato può essere utilizzato per cuocere il riso o la pasta.

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