Copertina
Autore Günther Anders
Titolo Kafka. Pro e contro
SottotitoloI documenti del processo
EdizioneQuodlibet, Macerata, 2006 , pag. 210, cop.fle., dim. 120x182x17 mm , Isbn 978-88-7462-148-4
OriginaleKafka, pro und contra. Die Prozeß-Unterlagen [1951]
CuratoreBarnaba Maj
TraduttorePaola Gnani
LettoreLuca Vita, 2006
Classe critica letteraria
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Indice

  9 Introduzione
 25 Premessa

    I.   Aldiqua come aldilà

 29 Kafka deforma per constatare
 30 Kafka cambia i nomi
 34 Ciò che sbalordisce in Kafka:
    lo sbalorditivo non sbalordisce nessuno
 37 Kafka dà immagini potenziate.
    Apologia di questa irrealizzazione
 39 L'uomo è estraneo e deve dar prova di se stesso
 43 L'aldilà di Kafka è questo mondo.
    La sua vita è un arrivare per tutta la vita
 45 Conseguenze dell'arrivo perpetuato
 46 Excursus sull'eroe negativo. «K.» è un Don Chisciotte
 49 Chi non abita nel mondo non ha abitudini ed
    intende i costumi come decreti
 53 La vita è un processo di autoaccumulazione della colpa.
    La coscienza gira in tondo
 55 Kafka lascia delle brecce nel mondo murato. Donna e caso
 59 Chi vuole arrivare non vuole andare in giro «liberamente».
    Perciò la libertà di Kafka è un incubo
 60 La vita si compie come ripetizione.
    Il vivente è un prigioniero negativo: non chiuso dentro,
    ma chiuso fuori. La colpa sussegue la pena
 64 L'inversione di colpa e pena è testimonianza di ambiguità

    II.   Non simboli ma metafore

 67 Kafka non è né allegorista, né simbolista
 71 Il mondo di Kafka diviene indistinto
    perché le sue metafore collidono
 73 Le figure di Kafka non sono più astratte di uomini reali:
    esse sono uomini che vivono solo per la professione
 77 L'agnosticismo di Kafka è figlio dell'impotenza,
    perché l'impotente è disinformato

    III.   La Medusa

 83 Nel terrore il tempo resta sospeso.
    Perciò Kafka dà immagini
 87 In Kafka la bellezza è gorgonica
 92 Kafka non si «esprime» più
 96 Il linguaggio di Kafka è «elevato>, perché più sobrio
    del linguaggio quotidiano
102 Eppure la lingua di Kafka è graziosa

    IV.   Ateismo che si vergogna

105 Kafka fa parte della storia dell'ateismo che si vergogna
109 Kafka permette l'irreligiosità e si assicura
    una positività minima
110 Kafka rappresenta un ritualismo privo di rituale
117 Apologia dello stato incompleto
118 La chiamata senza colui che chiama. Per Kafka Dio è morto.
    La morte di Dio è per Kafka un fatto religioso
125 Kafka è un marcionita. Crede in un Dio malvagio, non in
    nessun Dio. Trasforma l'immorale nel sovra-morale
130 Kafka non vuole costruire il paradiso, ma entrarvi.
    Non è un teologo dell'ebraismo, ma un teologo
    dell'esistenza ebraica
138 Bilancio finale

    Appendice

145 Max Brod
    Assassinio di un fantoccio chiamato Franz Kafka
165 Günther Anders
    Replica a "Assassinio di un fantoccio chiamato Franz Kafka",
    critica di Max Brod al mio scritto "Kafka. Pro e contro"
171 Max Brod
    Controreplica

175 Note
195 Postfazione, di Barnaba Maj

 

 

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Pagina 29

I. Aldiqua come aldilà


Kafka deforma per constatare

Il monaco Massimo Planude, che pubblicò nel XIV secolo le favole circolanti con il nome di Esopo, racconta che il volto di Esopo fosse mostruosamente brutto, anzi deformato fino all'irriconoscibilità. Esopo stesso non avrebbe potuto inventare una migliore favola sulla favola: poiché le verità della favola scaturiscono dalla deformazione.

E con questo siamo a Kafka. Il volto del mondo kafkiano sembra s-postato (ver-rückt). Ma Kafka «s-posta» l'aspetto apparentemente normale del nostro mondo spostato per renderne visibile la follia. Ma al tempo stesso egli tratta questo aspetto spostato come qualcosa di completamente normale; e in tal modo descrive addirittura proprio il fatto folle che il mondo folle passi per normale.

Invece di riconoscere che questo metodo non è così impenetrabile, si è visto soltanto ciò che è fuori dal comune, nel volto del suo mondo. E lo si è esaltato come soprannaturale; o come onirico; o come mitico; o come simbolico. Ma Kafka non è né un esteta, né un santo, né un sognatore; e neppure un artefice di miti o un simbolista; in ogni caso, niente di tutto ciò in primo luogo. È invece uno scrittore di favole realista. La deformazione come metodo dovrebbe essere familiare a tutti noi: la scienza moderna, per saggiare la realtà, pone il suo oggetto in una situazione artificiale, la situazione sperimentale. Stabilisce un ordine in cui inserire l'oggetto, e in tal modo deforma l'oggetto: ma il risultato è una verifica. Considerati da questo punto di vista, i romanzi d'oggi, salvo eccezioni, non sono moderni. Nel migliore dei casi essi descrivono ciò che vedono. Kafka, invece, e più tardi Brecht, costruiscono situazioni deformanti in cui inseriscono il loro oggetto sperimentale: l'uomo d'oggi. A scopo di verifica. Un esperimento biologico in un istituto di psicologia animale non sembra certo «realistico» come il giardino zoologico di Hagenbeck. Un ordine sperimentale kafkiano invero non sembra certamente realistico come un «giardino antropologico» di Galsworthy. Ma il suo risultato è realistico.


Kafka cambia i nomi

Una parte considerevole dell'opera kafkiana tratta dell'ebreo. Così il romanzo Il castello, così la storia di topi Giuseppina. Ma la parola «ebreo» compare di rado. Anzi, nel racconto intitolato Durante la costruzione della muraglia cinese la parola «ebreo» è addirittura regolarmente sostituita dalla parola «cinese». Perché Kafka attua questo scambio di nome, che crea evidentemente un mascheramento?

Di nuovo: per un principio di conoscenza. Vale a dire, per recidere fin dall'inizio i pregiudizi automaticamente legati ai nomi; per costringere il lettore e se stesso a guardare in faccia senza pregiudizi ciò che egli desidera dire; dunque, in un atteggiamento che è il meno pregiudizievole possibile per il raggiungimento, la rappresentazione, la mediazione e l'accettazione della verità. Se il realismo ha un senso filosofico, è questo.

Certamente non ci si può rappresentare questo «cambiamento di nome» kafkiano come un atto, ogni volta nuovo, di traduzione consapevole; i cambiamenti di nome kafkiani hanno ben poco in comune con quelli delle Lettere persiane o dei Viaggi di Gulliver: l'attribuzione «estraniante» è quella, per così dire, a lui naturale. In Kafka l'oggetto A si chiamerà B già al primo intervento e l'oggetto B comparirà come C già alla prima fissazione. Se c'è qualcosa per cui Kafka avrebbe avuto bisogno di un'abilità espressiva, non sarebbe stato per l'estraniazione, ma piuttosto per la revoca dell'estraniazione.

In sé, la «naturalezza» di attribuzioni estranianti non è un fenomeno per noi sconosciuto. Quando un chimico, nel suo laboratorio, considera e tratta l'acqua non come un liquido potabile, ma come H2O, questo non ci sorprende. Sorprendente invece ci risulta quel cambiamento di nome che è compiuto individualmente e che viene preteso da noi, senza che il traduttore ci consegni e autentichi espressamente la sua chiave di traduzione. Ora, è questo che accade in Kafka. E perciò il suo lettore necessita di «istruzioni per l'uso».

Il metodo di Kafka consiste dunque nel sospendere, mediante uno scambio di etichette, i pregiudizi legati alle etichette, e di rendere possibili in tal modo giudizi liberi da pregiudizi. Quando attacca alle cose etichette incomprensibili, egli agisce esattamente nello stesso senso. Per esempio, egli descrive un oggetto («Odradek») la cui funzione sembra consistere proprio nel non avere alcuna funzione. Ma l'introduzione di questo oggetto «senza senso», e denominato in una maniera apparentemente priva di senso, è tanto poco insensata quanto quella degli oggetti etichettati «falsamente». L'oggetto ci ricorda tutte le specie di cose e macchine che l'uomo moderno deve maneggiare giorno dopo giorno, sebbene le loro prestazioni non sembrino aver nulla a che fare direttamente con i bisogni dell'uomo. L'uomo d'oggi si imbatte mille volte in apparecchi la cui costituzione gli è sconosciuta e con cui egli può mantenere soltanto rapporti «estraniati», giacché il loro rapporto con il sistema di bisogni dell'uomo è infinitamente mediato: l'«estraniazione» non è infatti un espediente del filosofo o del poeta Kafka, ma un fenomeno del mondo d'oggi; soltanto che l'estraniazione nella vita quotidiana viene appunto coperta dalla vuota abitudine. Attraverso la sua tecnica dell'estraniazione, Kafka scopre l'estraniazione mascherata della vita quotidiana: e quindi, in tal modo, è di nuovo un realista. La sua «deformazione» constata.

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Pagina 43

L'aldilà di Kafka è questo mondo. La sua vita è un arrivare per tutta la vita

Diciamo «aldilà». E la maggior parte degli interpreti, che spiegano Kafka in senso religioso senza alcuna ponderazione, saranno soddisfatti di questa parola. Ma solo della parola. Poiché l'aldilà di cui si tratta in Kafka non è affatto qualcosa di extraterreno, bensì il mondo stesso, l'aldiqua stesso. Egli (o il suo eroe K.) sta all'esterno, sta «al di là dell'aldiqua»: in tal modo l'aldiqua diventa aldilà. L'identificazione tra «mondo» e «aldilà» non significa più di quanto significasse, nel socialismo utopistico, la rappresentazione dello stato futuro del mondo come paradiso. L'aldilà in lui non è il futuro, né il mondo che verrà, bensì il mondo esistente. Chi deve «venire» è di nuovo lui, lo straniero; poiché è lui a dover arrivare, lui a sopraggiungere. L'opera principale di Kafka, Il castello, è la testimonianza fondamentale di questa tesi.

Questo è infatti il contenuto del Castello: un uomo, K., si presume sia stato chiamato in un villaggio situato presso un castello, e una sera giunge in questo villaggio. Vuole essere accolto. Ma coloro che lo hanno chiamato non sanno nulla della sua chiamata: dunque non viene accettato, anche se non proprio rispedito via. Tutto il resto della sua vita – tutto il resto del contenuto del libro – è costituito dai tentativi e dagli sforzi, mille volte ripetuti, per essere comunque accettato. Vale a dire: tutta la sua vita è una nascita continua, un «venire al mondo» che non ha fine.

L'enorme tensione che nelle religioni vere e proprie esiste tra il mondo celeste e questo mondo, oppure tra creator e creatura – la cosiddetta trascendenza –, qui sussiste tra K. ed il mondo, che in quanto mondo di potere totalitariamente istituzionalizzato resta irraggiungibile. Dunque, K. non «vive» (se, con Heidegger, la vita significa «essere nel mondo»): la sua vita è tutt'al più un fare anticamera. «In qualche modo» il nuovo venuto è nel mondo, ma il grado del suo esserci è appena sufficiente a rendergli chiaro che non è in esso. Numerose favole kafkiane (e il suo romanzo America) cominciano con situazioni di arrivo, che non si differenziano fondamentalmente da quella sviluppata nel Castello, e tutte finiscono come sforzi inutili di arrivo: «[...] la mancanza d'illusione sul fatto che tutto sia soltanto un inizio, beh, nemmeno questo è un inizio [...]» (Diari, 1921). E nel 1922: «Nel mio ufficio si continua ancora a fare calcoli come se solo ora la mia vita iniziasse in modo definitivo, mentre sono alla fine».


Conseguenze dell'arrivo perpetuato

Mentre i romanzi del mondo borghese interpretavano la crescita in questo mondo come un'«educazione», in Kafka il mondo è descritto dall'esterno, la crescita come un naufragio. L'eroe non appartiene al mondo. Il realismo kafkiano consiste proprio in questa eccentricità, poiché per la maggior parte degli uomini d'oggi il mondo – che del resto, nella teoria della conoscenza, si chiamava già da tempo «mondo esterno» – è divenuto «esterno». La figura principale diviene così un eroe in senso negativo, perché, nel confronto con il mondo essente, si distacca in modo assoluto come «nessuno». È il punto centrale dei romanzi, esattamente come il punto centrale di un cerchio: non ha estensione.

«Esserci» per Kafka significa certamente arrivare eternamente, senza arrivare mai, quindi «non-esserci»; ma, dal momento che egli d'altra parte non può negare di essere invece in qualche modo nel mondo, deve dare al non-esserci un mascheramento positivizzante, oppure trovare forme intermedie tra essere e non-essere. Egli trova queste forme intermedie in maniera classica, conferendo al non-essere un significato temporale: esso diventa «non-essere-ancora» oppure «non-essere-più». Nella storia del Cacciatore Gracco, ad esempio, Kafka rappresenta l'essere partoriti come un morire, come un «morire-dentro-il-mondo». Anni prima Gracco era morto per una caduta (nascita), ma, in seguito ad una disattenzione del traghettatore dei morti, non era mai giunto nel regno delle ombre: la sua esistenza è dunque, contemporaneamente, essere ancora e non essere più, non semplicemente un non-essere (temporalmente neutrale).

D'altro canto, per Kafka, colui che non arriva mai, si trasforma (giacché, «in qualche modo è comunque lì») in uno che, fondamentalmente, arriva troppo tardi; e la vita si trasforma in un inseguimento di luogo in luogo: si è giunti e già s'è mutata intenzione. Questo è il tema esclusivo dei racconti I coniugi e Confusione di ogni giorno. In queste storie la sfortuna sta nel fatto che il mondo, che si frappone tra la meta del cammino e colui che cammina, è troppo forte: in un certo senso sommerge, con i suoi dettagli, il cammino. Se si prende la vita stessa come un «cammino» (cosa che Kafka fa volentieri, richiamandosi a Lao-Tse), allora ogni nuovo giorno porta un nuovo obbligo «che allontana dalla meta»; questo conduce a sua volta ad un nuovo obbligo, e si giunge, anche se correndo costantemente, sempre troppo tardi. Una descrizione che si adatta ovviamente solo a colui che, come Kafka, in fondo non ha chiari misura e ambito dei suoi obblighi, e per il quale ogni passo significa già tralasciare innumerevoli altri passi, dal momento che il mondo è lastricato di grida d'aiuto.

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Pagina 102

Eppure la lingua di Kafka è graziosa

Che il mondo e la lingua di Kafka, malgrado la loro pietrificazione (o, più esattamente, in virtù della loro pietrificazione), siano «belli», risulta ora ben comprensibile. Difficilmente intelligibile appare però il fatto che la lingua kafkiana, nonostante ciò, si possa muovere con perfetta grazia. Difficilmente intelligibile, poiché la «grazia» è proprio la promessa della benevolenza malgrado la distanza; è anzi costantemente commozione e scioltezza giocosa: dunque il contrario della pietrificazione. La «grazia» è una scioltezza così perfetta da poter trasformare perfino la paura in qualcosa di «incantevole», cioè in «timidezza».

Come si deve intendere la grazia, davvero innegabile, della prosa kafkiana?

Come un salto a lato dell'impotenza. Proprio in quanto il mondo è considerato la potenza superiore assoluta ed esclude ogni libertà effettiva, la lingua salta verso le mille possibilità immaginate, i congiuntivi e le frasi ipotetiche, per «giocare» così, non gravata dalla realtà. «Tra i miei mucchi di terra», dice il tasso nel racconto La tana, «posso naturalmente sognare qualunque cosa, anche un'intesa, pur sapendo benissimo che una cosa di questo genere non esiste». «Posso» e «se». «Se un'acrobata a cavallo, fragile, tisica, venisse spinta per mesi interi senza interruzione in giro sulla pista sopra un cavallo vacillante di fronte a un pubblico instancabile, da un direttore di circo spietato sempre con la frusta in mano, continuando a frullare sul cavallo, gettando baci, oscillando sulla vita, e se questo spettacolo proseguisse in mezzo al fracasso dell'orchestra e dei ventilatori nel grigio futuro che continua a spalancarsi sempre, accompagnato dall'applauso, che si estingue e poi torna ad ingrossare, di mani che sono veri martelli a vapore» – e soltanto a questo punto abbiamo ciò che può accadere in seguito (In loggione). Qui, in effetti c'è tutto: il se «sciolto», «il gioco» di circo e cavallo, l'inutilità del maneggio a forma di carosello che ricomincia a più riprese, infine la dimensione di morte data da frusta e martello a vapore; in breve: la grazia nasce dal fatto che il linguaggio, simile ad un cane che gioca, scorrazza intorno alla potenza superiore del mondo, che occupa tutta l'ampiezza della strada; la sua leggerezza è la leggerezza di chi viene reputato troppo leggero in confronto al peso del mondo, e la sua serenità è quella di chi non viene preso sul serio, non quella di chi non è serio.

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Pagina 105

IV Ateismo che si vergogna


Kafka fa parte della storia dell'ateismo che si vergogna

Solo di tanto in tanto abbiamo preso in mano fino ad ora quella chiave che solitamente è considerata come il grimaldello per penetrare nell'opera di Kafka. Kafka viene definito come homo religiosus; si assicura che l'unico accesso al suo mondo sbarrato sia quello religioso.

Anche noi ci siamo imbattuti in quei motivi kafkiani fondamentali come colpa, redenzione, grazia, trascendenza, potenza superiore, sacrificio, che difficilmente possono essere discussi sotto un titolo differente dal religioso; anche se poi è risultato che quelli che Kafka ha descritto con concetti presi a prestito dal linguaggio religioso erano rapporti dell'uomo con l'aldiqua, e non con l'aldilà. Resta tuttavia innegabile che già questo «prestito» (il minimo, che nemmeno il più scettico può negare) rappresenta pure un problema.

Se abbiamo rinviato così a lungo la trattazione di Kafka come homo religiosus, ciò è accaduto perché quest'espressione non ci sembra costituire una risposta, ma un problema: resta dubbio ciò che questa parola può designare nel nostro mondo secolare. La storia delle religioni positive offre una lunga serie di definizioni di funzioni religiose ben distinte: Salvatore, santo, profeta, apostolo, fondatore, riformatore, eretico e così via. Nessuno, interrogato su «che cosa» siano stati San Francesco o Buddha, si limiterebbe alla vaga risposta: un homo religiosus. D'altra parte, però, nessuno neppure oserebbe applicare a Kafka una delle diverse definizioni nominate sopra. In effetti, l'incerta espressione in fondo non può nemmeno venir realmente precisata; ciò che solo può essere fatto oggetto d'indagine e di comprensione è perché Kafka sia stato classificato in un modo tanto vago.

Salta immediatamente agli occhi, infatti, che coloro i quali, in modo così precipitoso e così generico, hanno applicato alla posizione fondamentale di Kafka l'investitura dell'espressione «religiosa», non sono riusciti a collegare alla parola nessuna concreta concezione religiosa. L'investitura di Kafka ha avuto luogo nella letteratura, dunque in una sfera già da molto tempo divenuta irreligiosa, o almeno indifferente alla religione. In una sfera a cui lo stesso Kafka (se mai egli può essere annoverato da qualche parte) certamente apparteneva ancora.

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Pagina 145

Max Brod

Assassinio di un fantoccio chiamato Franz Kafka


Nel libro Kafka. Pro e contro, pubblicato dalla casa editrice C. H. Beck di Monaco, Günther Anders ha creato un fantoccio che non ha niente a che fare con Franz Kafka, benché ne porti il nome. La frase va letta con attenzione. Non è un problema che il fantoccio messo al mondo da Anders non abbia nulla da spartire con Kafka, ma che non lo riguardi «quasi per niente». Il pericolo e nel contempo il fascino della questione scaturisce proprio dal fatto che alcuni tratti secondari del carattere di Kafka, meno importanti per la conoscenza della sua vera natura, sono esaminati correttamente. Essi appartengono, dunque, sia all'autore realmente vissuto, sia al fantoccio senza vita che appare nel nuovo libro. Benché lo si desideri, non è possibile separare Kafka dal fantoccio penzolante. Questi aspetti secondari sono esposti con grande, forse troppo ingegno, un ingegno immodesto e palese, consapevole e sicuro, in contrasto con la mancanza di sicurezza, i dubbi, l'indecisione e la scarsa coscienza di sé kafkiane. Tuttavia, accanto a questi particolari ben compresi, sta il fatto che Anders travisa del tutto gli aspetti essenziali.

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