Copertina
Autore Alessandro Aresu
Titolo Filosofia della navigazione
EdizioneBompiani, Milano, 2006, Tascabili Saggi 244 , pag. 244, cop.fle., dim. 125x192x14 mm , Isbn 978-88-452-5692-9
PrefazioneMassimo Cacciari
LettoreFlo Bertelli, 2006
Classe filosofia , viaggi , mare , critica letteraria
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Indice

Introduzione di Massimo Cacciari           5

Premessa                                  13

Il filosofo si imbarca!                   15
Platone e dintorni


Il mare: chiamata e rischio               15
Navi e zattere                            20
La spiaggia del ritorno                   30
Il mare del disincanto                    35
Il nocchiero e la città                   48
Navi alate                                55


I pericoli del mare: il volo di Ulisse    63
e la disperazione di Achab


Ritorno in mare                           63
Del mare e dell'inganno                   64
Il capitano e l'equipaggio                71


Utopia: la morte della navigazione        85


Mostri e porti                            85
L'isola senza il mare                     86
Naufragi di Utopia                        95


Shakespeare.                             105
In scena La Tempesta


Felice naufragio?                        105
Il teatro in riva al mare                111
Ariel: il volo della musica              125
L'isola dei giovani                      130
La zattera di Shakespeare                137


Dall'isola alla nave                     145


L'isola davanti al mare                  145
Il mare in tempesta                      146
Via sulle navi!                          153


Navigare nella storia                    167


Maestri ed elementi                      167
Terra: la madre del diritto              169
Acqua: la via della scoperta             173
Aria: l'interregno della tecnica         186
Fuoco: il preludio all'Apocalisse        194
La fine della storia nonché del libro    203


Note                                     227

 

 

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Pagina 13

Premessa



La nostra non vuole essere una storia della filosofia scritta attraverso la metafora della navigazione, che risulterebbe certamente incompleta, e forse un po' noiosa. Vuole essere allo stesso tempo di meno e di più.

Ciò che vogliamo fare è "imbarcarci" e cercare di capire che cosa significhi il gesto dell'imbarcarsi, adesso, tracciandovi attorno la nostra rotta. Ovviamente intendiamo "imbarcarci" assieme ad alcuni pensatori, che saranno i nostri compagni di viaggio. Nel primo capitolo affronteremo i problemi che Platone desta attorno alla navigazione, e in particolare la chiamata al pensiero e l'attività politica.

Ora, la nostra rotta non intende proseguire canonicamente, e perciò raccogliere che cosa per esempio Aristotele, Proclo, Cartesio e compagnia bella pensavano del mare e della navigazione. Si tratta invece di navigare appassionatamente da Platone verso l'altro grande pensatore che abita il nostro mare: Hegel. In Hegel il mare diventerà una figura fondamentale per l'interpretazione della storia del mondo, e quindi per la costruzione di una filosofia della storia che alla fine ci porterà, con Carl Schmitt e Alexandre Kojève, al tentativo di leggere le "carte" del presente per "scuoterlo". Questo tentativo peraltro non si trova soltanto alla fine, ma accompagna tutto il percorso.

Se la metafora della navigazione non è l'occasione per azzardare una storia della filosofia, ma un'esplorazione del gesto del pensare e di quel gesto particolare che è la stessa metafora, non possiamo dimenticare i volti e i luoghi della navigazione, perché tracciano le rotte che costituiscono nel nostro immaginario i pericoli e le virtù del mare. Perciò negli altri capitoli, muovendoci da Platone verso Hegel, ci chiederemo: che cosa significa navigare? E incontreremo nel nostro viaggio anzitutto due grandi paesaggi della letteratura dedicati ai navigatori: il canto di Ulisse dell' Inferno dantesco e Moby Dick di Herman Melville.

In seguito vedremo che cosa significhi concretamente per chi naviga sbarcare in un'isola e dimenticare il mare per gettarsi in un'organizzazione rivolta a uno scopo di cui tutti i membri dell'isola sono schiavi e non possono più cercare la propria libertà nella via del mare. Tenteremo perciò di decifrare la figura dell'Utopia come una negazione della navigazione.

Infine renderemo "giustizia" alla metafora dell'isola cercando di inscenare nella nostra traversata La Tempesta di Shakespeare, l'isola in cui abita la magia di un teatro volto a dare gioia, ma insieme del tutto consapevole del mare che lo circonda e quindi di quell'oltrepassamento che potrebbe anche significare la sua fine.

Col ritorno al mare aperto dall'isola, che già ci apparirà in Shakespeare, saremo pronti per tuffarci – attraverso Kant e Nietzsche – nel mare di Hegel.

Questa è la rotta. Alle navi!

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Pagina 15

Il filosofo si imbarca!
Platone e dintorni



                        La filosofia non ha soltanto per origine
         ma anche per fine l'inquietudine, e non la tranquillità

                            Lev Sestov, Sulla bilancia di Giobbe



Il mare: chiamata e rischio

Sta scritto nel libro dell'Apocalisse che alla fine dei tempi non ci sarà più il mare (Ap 21,1). Finisce il tempo e finisce il mare. Ma che cosa significa la presenza del mare nel nostro tempo? Come si può vivere pienamente il tempo attraverso il mare e la navigazione? Sono queste le domande verso cui vogliamo navigare, tenendo presente che non siamo affatto alla "fine del mare". Il mare continua a chiamarci: uomini e filosofi si trovano imbarcati assieme nell'avventura della vita.

La filosofia, imbarcandosi, intende parlare all'uomo. Parlare delle vie del mare e della navigazione; parlare della sfida del mare per riportare all'enigma della conoscenza di sé, alla scoperta del nuovo e dello straniero, invitando gli uomini a non stare fermi nell'ozio delle isole ma a misurarsi col viaggio insito in ogni attività, e certamente anche nell'attività politica. Così gli imbarcati si danno appuntamento sulla riva e si dicono l'un l'altro: "Alle navi!"

Non si potrà però cominciare il viaggio se non con un gesto deciso, quasi prendendoci a strattoni. "La filosofia non ha soltanto per origine ma anche per fine l' inquietudine, e non la tranquillità" – così la pensava Lev Sestov, un pensatore abramitico russo. Lo definiamo abramitico perché ha individuato come propria del pensiero la risposta a una chiamata, la chiamata che impone uno sradicamento iniziale, proprio come quello di Abramo, che abbandonò la sua patria e la sua vita per rispondere alla chiamata di una voce che gli aveva promesso un futuro di cui non sapeva nulla. Ora, ogni filosofo è in un certo senso abramitico: comincia facendosi straniero. Difatti la filosofia, in quanto "amore per la sapienza", non nasce dal possesso iniziale della sapienza ma dalla sua ricerca. Uno può dirsi filosofo in ogni momento in cui tende alla sapienza stessa, e dunque risponde alla chiamata che gli impone di andarle incontro. Non si è filosofi perché si possiede la sapienza. Un simile possesso eliminerebbe il desiderio di mettersi "a caccia" della sapienza, come nella descrizione di Diotima nel Simposio di Platone, e il tentativo di "acchiapparla". Perciò il filosofo insegue la sapienza in ogni condizione e in ogni luogo e, anche se attraverso la "caccia" della sapienza cerca se stesso, non si dimentica come fanno altri navigatori (come Ulisse e Achab, per esempio, che affronteremo nel prossimo capitolo).

[...]

In questo senso la filosofia può legarsi, e legarsi intimamente, alla metafora del mare e della navigazione. E proprio perché si tratta di una metafora che, nel momento in cui viene formulata, conduce già oltre la metafora stessa. La filosofia difatti non è una metafora; è un' attività. Le metafore con cui proviamo a dirla, o meglio a raffigurarla, colgono nel segno in quanto ci portano nel cuore della stessa filosofia, e cioè nel movimento del fare filosofia. Se la filosofia è un'attività e una ricerca, impone ai filosofi di abbandonare ogni facile patria, di lasciarsi alle spalle credenze e pregiudizi, per decidersi ad andare. Andare anzitutto dove il rischio è maggiore, dato che al suo aumentare aumenta anche la possibilità di conoscere e di conoscersi. Perciò, se il filosofo è sempre figlio di Poros – l'espediente, e dunque alla ricerca di una strada – la sua capacità si noterà in massimo grado nell'assenza di strade, e cioè nel luogo dove per definizione non si può "camminare": il mare. Ecco la sfida. Domandiamoci ciò che il filosofo domanda: si potrà attingere una strada anche tra i flutti? A rigor di logica, no. In mare non si cammina. Si nuota, si annega o ci si arrangia tramite imbarcazioni più o meno agevoli. E le imbarcazioni solcano il mare sempre alla ricerca di un porto, a meno che non lo solchino proprio perché invaghite della sua mancanza di strade.

Così il mare appare come un intruso, come una sfida estrema per il filosofare; e la filosofia s'immagina queste sfide, quando mette in immagine i suoi sforzi. Sforzi che sono esercizi. Anche l'ascesi è un esercizio a cui corrisponde più agevolmente una filosofia esperta di altezze, una "filosofia della montagna". L'arrampicatore giunge nell'alto del monte e contempla, rivolgendo gli occhi a una visione baciata dal sole. In opposizione a questa visione perfetta e tersa irrompe l'assenza di visione del mare, le cui distanze, che si confondono con il cielo, non possono essere pienamente abbracciate, comprese dallo sguardo. Nondimeno lo sguardo ama queste distanze e cerca di abbracciarle, anche allo scopo di contemplarle: dacché il filosofo si trova davanti a uno spazio che pare indefinito, la sua ambizione è raccoglierlo in un confine, verificare la pretesa di infinità di ciò che vede.

Nel momento in cui si parte, ci si interroga sul senso del viaggio. Il filosofo non sa cosa lo aspetta ma non può nemmeno andare in viaggio con sregolatezza, pensando che nell'assenza di regole si trovi una qualche "genialità". Dall'inizio della sua navigazione, le esperienze dovranno essere analizzate e criticate. Nel solco delle esperienze del viaggio, il filosofo cerca la verità. Egli vuole conoscere la verità che ricerca. Pertanto allo stesso tempo si domanda come sia possibile conoscere la verità se nella ricerca non ci si trova già in verità. Si chiede se il navigante possa semplicemente partire, salpare, senza avere già in mente la sua navigazione, le sue tappe, il porto d'arrivo. A partire da queste domande si avanza la pretesa di un metodo nel viaggio, un progetto di navigazione che sappia opporre dei tentativi di risoluzione agli enigmi che si trovano nella via e nella vita.

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Pagina 86

L'isola senza il mare

I viaggi per mare lasciano un segno effettivo, un segno politico? Il mare non è per definizione un luogo in cui i nostri viaggi e le nostre rotte possono lasciare una traccia sensibile. Noi vogliamo lasciare tracce, e perciò anche nel ragionare di vicende che mettono in gioco il mare ritorna nuovamente l'istinto umano di aggrapparsi a una terra. Non si possono pensare gli spazi in una prospettiva soltanto marittima, dato che la naturale instabilità dell'elemento acquatico è incompatibile con un diritto che pretende linee e ordini, forme ben definite, come ha osservato Carl Schmitt: "Nel mare non è possibile seminare e neanche scavare linee rette. Le navi che solcano il mare non lasciano dietro di sé alcuna traccia. 'Sulle onde tutto è onda'. Il mare non ha carattere, nel significato originario del termine, che deriva dal greco charassein, scavare, incidere, imprimere. Il mare è libero".

Nella navigazione, se dobbiamo "fondare", non siamo dunque rivolti esclusivamente all'esperienza del mare ma ci portiamo sempre appresso una terra. Nell'estrema libertà del mare affiora così un'isola, che può essere l'isola in cui la navigazione e il mare sono soltanto il passato. Così sbarchiamo in Utopia.


Nella sua Utopia o la migliore forma di Repubblica, che risale al 1516, Tommaso Moro scrive di essersi dimenticato di chiedere a chi gli ha raccontato la storia di Utopia in quale parte del Nuovo Mondo si trovi l'oggetto della narrazione. Sappiamo però che Utopia sta nel Nuovo Mondo: è una collocazione importante perché la inserisce nella nuova immagine del mondo che andava formandosi in un'epoca caratterizzata da esplorazioni e speranze di rinnovamento.

Raffaele Itlodeo, che racconta a Moro il suo viaggio per le sponde di Utopia, è un seguace di Amerigo Vespucci, e quindi uno dei primi esploratori del Nuovo Mondo. Nell'epoca delle grandi navigazioni con cui la Vecchia Europa sfida l'Atlantico il Nuovo Mondo viene dichiarato aperto, ma nelle sue coordinate precise rimane un mistero. Nelle pagine di Moro lo spazio del mistero viene riempito da un "gioco" dell'immaginazione.

Itlodeo e i suoi compagni passano di viaggio in viaggio, assetati di scoperte e destinazioni come è stato Ulisse. Moro racconta: "Ebbe così modo di osservare da ogni parte molte terre: non c'era nave che apparecchiasse per qualsiasi viaggio, in cui non prendesser posto, con piacere di tutti, lui e i suoi compagni. Le navi da essi vedute nei primi paesi erano, narrava lui, a fondo piatto e spiegavano vele di papiro cucito o di vimini e altrove di pelli; trovarono poi carene con le chiglie a spina, vele di canapa e tutto insomma come da noi. I nocchieri avevano pratica di mare e di cielo. (...) Non c'è quasi luogo, infatti, sulla terra, dove non si trovino Scille e Celeni rapaci e Lestrigoni divorapopoli e altrettali orrori prodigiosi; ma non in ogni luogo si possono incontrare cittadini con sani e savi ordinamenti".

Moro, con la prosa ironica che gli è caratteristica, domanda retoricamente sulla particolarità del viaggio che conduce a Utopia. In verità i mostri non sono certo l'elemento più straordinario del viaggio: i mostri ci attendono anche dietro l'angolo, anche dentro le nostre stesse case, e se c'è qualcosa di straordinario nel viaggio è trovare popoli che si comportano in modo civile. Anzi: è trovare gli stimoli per chiedersi che cosa sia davvero ciò che definiamo "civiltà".

Ogni viaggio, e in particolare il viaggio di chi scopre, trova il suo senso in quanto ci mette continuamente davanti alla domanda su cosa sia quel diverso che si incontra e cosa sia quell'identità che noi ci portiamo appresso. Ma la domanda in quanto tale non può sfuggire alla conoscenza di sé e al dramma che le appartiene. Nietzsche ha scritto: "C'è da dubitare che un gran viaggiatore abbia trovato in qualche parte del mondo zone più brutte che nella faccia umana".

Della ferocia con cui Utopia farà piazza pulita di questo senso del viaggio a prima vista nelle pagine di Moro non c'è traccia.

Del resto, bisogna essere esperti navigatori per giungere alle sponde dell'isola di Utopia, e gli Utopiani apparentemente praticano con la massima cura l'arte della navigazione: solo accompagnati da un pilota del posto si riesce ad approdare nei suoi porti. Vi sono in Utopia 54 città, e sono pressappoco tutte uguali: chi ne conosce una, le conosce tutte.

La proprietà è stata abolita: in Utopia vige invece un regime di agricoltura permanente. I cittadini campano dei prodotti che offre loro la giusta terra opportunamente coltivata. Di conseguenza, tutti gli abitanti sono agricoltori, e in più imparano un altro mestiere per essere utili alla comunità. Un tipo particolare di magistrati chiamati "sifogranti" hanno il compito di vigilare sul lavoro di tutti, affinché venga svolto correttamente, senza sbavature.

Gli abitanti di Utopia per mandare avanti la loro società necessitano soltanto di sei ore di lavoro al giorno, perché il lavoro riguarda tutti e non è concessa la nullafacenza. Solo a pochissimi è concesso di fare dello studio una professione. Tutta la comunità è coinvolta nei problemi della città, che le autorità riescono a gestire al meglio perché tutti i cittadini sono disposti a dedicare qualche ora di lavoro al bene comune, come per esempio la riparazione di una strada.

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Pagina 146

Il mare in tempesta

In Kant torna l'idea del mare della dissomiglianza del mito del Politico, un mare di cui si ha terrore. E torna il nihil alterius, il divieto ad andare oltre che caratterizzava gli Argonauti, che caratterizza in negativo il volo di Ulisse. Kant è perfettamente d'accordo con la logica di Ulisse: il navigatore, per andare al di là della sua isola, non deve più andar per mare. Navigare non basta. Si deve volare. Però Kant non vuole azzardare "folli voli": sa perfettamente che gli uomini non volano. Volano i poeti e i visionari.

Kant domanda allora: che cosa stiamo facendo? Stiamo facendo filosofia o stiamo "componendo"? Stiamo facendo filosofia o stiamo "pregando"? E risponde: stiamo facendo filosofia, punto e basta. Se questo è il nostro compito, ci muoviamo entro limiti prestabiliti. Il mare allora ci è interdetto, perché se ci imbarchiamo rischiamo nel mezzo delle tempeste. Noi non dobbiamo andare incontro a rischi, ma a certezze. Il nostro filosofare è individuazione del limite perché si muove entro il limite. Possiamo parlare perché siamo dentro il limite. Altrimenti non parliamo più: facciamo altro. Componiamo, deliriamo e quant'altro.

Quindi: via dal mare, filosofi!

Kant: un filosofo che a suo modo viveva in un'isola, dato che per tutta la vita non si è praticamente mai mosso dalla sua Königsberg, l'attuale Kaliningrad, nella quale ha svolto i suoi studi, dagli inizi fino agli ultimi scritti, e nella quale ovviamente è sepolto. E il suo epitaffio riporta quella frase della chiosa della Critica della Ragion Pratica che tutti abbiamo sentito almeno una volta: "Il cielo stellato sopra di me, la legge morale in me".

Fin qui il nocciolo della barzelletta del filosofo "strambo". In realtà già il celebre epitaffio è un invito a ripensare continuamente il problema di Kant, e cioè le condizioni di possibilità della conoscenza umana, le domande che aiutano a comprendere che cosa sia l'uomo.

In realtà Kant, rispettando il verso di Donne (No man is an island), in quanto uomo, non si sentiva affatto un'isola. Anzi. La sua vita non era fatta solo di studio attento e solitario – che certo non mancava – ma anche, per esempio, di piacevoli conversazioni con gli ospiti in una tavolata di numero compreso tra il tre delle Grazie e il nove delle Muse. Un'ardente curiosità lo spingeva a esplorare e catalogare le distanze di questo mondo attraverso i racconti di viaggio e le carte geografiche, e attraverso le teorie astronomiche abbracciava le distanze dell'universo intero.

Inoltre Kant intratteneva un gran numero di carteggi con altri europei, e tramite gli scambi epistolari coi suoi contemporanei salpava da Königsberg verso altri spazi del pensiero. I suoi contributi alle riviste o ai concorsi delle accademie scientifiche erano sempre puntuali e meditati. Le sue opere sono piene di citazioni dei classici latini. Insomma, è un po' più vivace di come venga normalmente dipinto. Se affrontiamo la tutt'altro che impegnativa lettura delle Osservazioni sul bello e sul sublime ci rendiamo conto di un interesse kantiano a livello antropologico o etnografico, anche semplicemente nell'ottica della semplice "conversazione", dato che lo stesso filosofo indirizza quel suo libello "alle signore", con la tipica mentalità del Settecento. Tuttavia ciò che conta è che in Kant, e in modo manifesto nelle tre Critiche, queste istanze che noi definiremmo oggi di "scienze umane" sono sempre subordinate alla questione della possibilità della conoscenza, e non si riducono alla teoria supportata da dati empirici né tantomeno si arrestano alla raccolta di informazioni. Ci conducono dalla porta principale a quei problemi che sono gli stessi che ci troviamo ad affrontare oggi: primo tra tutti, il rapporto della filosofia con la scienza. Se la filosofia possa essere ridotta a una scienza particolare, e quali siano le pretese che avanza per non essere considerata soltanto un gioco di parole, un espediente letterario, un "sogno di un visionario".

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Pagina 153

Via sulle navi!

Via sulle navi!

L'invito che Nietzsche rivolge ai suoi simili, agli spiriti liberi, ci pare il contrappunto tanto "scenico" quanto concettuale del paesaggio dell'isola kantiana. Allo stesso tempo, la nave di Nietzsche presuppone l'isola di Kant. E proprio a partire dal riscontro del paesaggio desolante, del confine entro cui l'intelletto può soltanto "computare" ma l'idea pone faccia a faccia col mare in tempesta, che in Nietzsche rivive l'istinto della chiamata a sfidare i flutti. E ci viene incontro come un'invocazione, un grido tra le coste mediterranee di cui Nietzsche era innamorato. La gaia scienza è figlia del Mediterraneo. Fuori dal grigiore di un'isola teutonica, di un viandante che contempla tra i ghiacci, bisogna saper riconoscere nel grido di Nietzsche questa gioia meridionale, quella stessa gioia che il filosofo attribuiva alla musica di Mozart.

Così ne La gaia Scienza noi siamo chiamati ad andare, ora, senza ritardi di sorta. Nietzsche chiama così:

Auf die Schiffe, ihr Philosophen!

Via sulle navi, filosofi!


Leggiamo tutto l'aforisma in questione, il 289: "Via sulle navi! Se si considera come una totale giustificazione filosofica della propria maniera di vivere agisce su ogni singolo, a guisa, cioè, di un sole che riscalda, benedice, feconda e risplende apposta per lui; se si pensa come essa rende indifferenti alla lode e al biasimo, paghi di sé, ricchi, munifici di felicità e benevolenza; come essa incessantemente converte il male nel bene, fa sbocciare e maturare tutte le forze e non lascia che alligni minimamente la piccola e grande malerba dell'afflizione e della tetraggine – si finisce per gridare, con tutto il nostro desiderio: oh, se fossero creati ancora molti nuovi soli come questo! Anche il malvagio, anche lo sventurato, anche l'uomo d'eccezione deve avere la sua filosofia, il suo buon diritto, il suo splendore solare! Con costoro non è necessaria compassione! – dobbiamo disimparare questo suggerimento dell'alterigia, per quanto a lungo fino a oggi l'umanità abbia appreso e messo in pratica precisamente quest'ultima — per costoro non abbiamo bisogno di tirare in ballo confessori, esorcizzatori d'anime, e rimettitori di peccati! Č necessaria invece una nuova giustizia! E una nuova parola d'ordine! E nuovi filosofi! Anche la terra della morale è rotonda! Anche gli antipodi hanno in loro diritto all'esistenza! C'è ancora un altro mondo da scoprire — e più d'uno! Via sulle navi, filosofi!"

Nieztsche è dunque il filosofo-poeta degli Idilli di Messina, che "incontrò un uomo e una barca". Se noi gli chiedessimo perché la filosofia si deve imbarcare, ci risponderebbe che ci troviamo già imbarcati. Imbarcati, anche nell'illusione della nostra isola.

Così chi ha sete del nuovo si trova ancora a salpare. Con una differenza essenziale: la sua nave non è più quella della poesia di Orazio, che nel mezzo del mare, in balia della tempesta, cerca di tornare il più possibile a un porto. Questa idea della navigazione non ha in mente "porti". Non vede nemmeno il "porto della filosofia", non si sente più obbligata a "tornare". Ormai siamo partiti, dice il filosofo alato. Non avrebbe più senso, una volta partiti, pensare al ritorno. Dobbiamo piuttosto alzare lo sguardo, e fare gli uomini durante il viaggio.

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Pagina 167

Navigare nella storia



                Dato che Hegel è morto e non è risorto,
                tocca a qualcun altro giocare il suo ruolo.
                Io mi sono permesso di provarci.

                                           Alexandre Kojève



Maestri ed elementi

"Non potete immaginarvi che vita strana si conduce in questa grande diligenza che chiamano vascello! L'obbligo di vivere gli uni sugli altri, e di aversi sempre sotto gli occhi, crea una libertà e una mancanza di imbarazzo di cui non ci si può fare un'idea sulla terraferma. Qui ciascuno agisce nel mezzo di una folla come se fosse solo. Gli uni leggono ad alta voce, gli altri giocano, gli altri cantano. C'è chi scrive, come faccio io ad esempio in questo momento, mentre il vicino sta cenando. Tutti bevono, ridono, mangiano, o piangono, così come gli viene. Le stanze sono così strette che si esce fuori per vestirsi. E a parte togliersi e mettersi le mutande, non so che cosa della toilette non si faccia davanti a tutti. In parole povere viviamo sulla pubblica piazza come gli antichi. Questo è il paese della libertà, ma essa può essere esercitata soltanto su questo legno; questo è il suo male".

Così scriveva Tocqueville dalla nave che l'avrebbe condotto a una destinazione fondamentale per il suo sviluppo intellettuale, gli Stati Uniti d'America. Anche noi siamo quasi giunti alle ultime tappe del nostro viaggio per mare, dunque veleggiamo ormai verso il "senso del viaggio", (ammesso che il viaggio abbia un senso).

Perciò è giunto il momento di tirare le fila del motivo storico-politico della nostra ricerca. Il che significa chiederci: che senso ha navigare nella storia? Bisogna seguire le correnti che sfociano in una filosofia della storia per rispondere a questa domanda. In effetti, la disciplina che Hegel ha messo al centro delle sue più celebri lezioni è il luogo a partire da cui possiamo raccontare le riflessioni di due personaggi decisivi per il pensiero del Novecento: Carl Schmitt e Alexandre Kojève.

Pensare la "filosofia della navigazione" con Schmitt e Kojève è anche l'occasione per interrogarsi sulla sua attualità e sulla sua eredità. A dire il vero, l'attualità di Schmitt e Kojève è così palese e dirompente che spesso più che attualizzarli tocca inseguirli, per capire quanto – da inattuali – si siano spinti oltre "noi contemporanei".

Si è parlato talvolta di "cattivi maestri" o di "maestri occulti" in riferimento a questi due personaggi. Le loro vicende biografiche, prima ancora delle loro riflessioni filosofiche, hanno il potere di "ammaliare". Č ovvio che quando si studia un autore con passione si pensa quasi fisiologicamente a come gli elementi della sua biografia abbiano potuto influire sull'elaborazione di un pensiero, e viceversa. Riflettiamo insieme agli autori e talvolta li giudichiamo o finiamo vittime del loro "fascino". E altrettanto ovvio che se dobbiamo chiudere per sempre i libri di Schmitt perché era antisemita o tralasciare Kojève perché qualcuno ha detto che era un agente del KGB, limitiamo i nostri orizzonti di comprensione dei problemi. Non si tratta di raggranellare maestri, ma di raggruppare elementi di riflessione. Detto ciò, il lettore non avrà difficoltà a individuare le mie eventuali simpatie e dunque a criticarle.

Ma queste sono più passioni, che ragioni. Anche in Schmitt e Kojève il punto essenziale, come al solito, è che hanno da dirci qualcosa, qualcosa di decisivo sull'immagine del mondo attuale e, più in generale, su che cosa significa pensarlo.

Quando ci saremo dati da fare per pensare assieme a loro, la nostre navi avranno trovato un porto?

Chissà!


Terra: la madre del diritto

Proveremo a individuare nella lotta tra terra e mare, e, più oltre, nella lotta tra gli elementi, una galleria di immagini che animano la storia e uno sfondo di visioni del mondo che la abitano. Per questo cerchiamo di seguire le intuizioni di Carl Schmitt.

Non è ancora facile parlare di Carl Schmitt. Su di lui pesa una biografia tra le più ingombranti ed estreme della cultura del Novecento. Un secolo che Schmitt visse quasi interamente, dato che nacque nel 1888 e morì nel 1985. Nacque e morì nello stessa cittadina, Plettenberg. Studiò alle Università di Strasburgo e di Monaco, e fu allievo di Max Weber. Divenne un giurista di enorme influenza nell'università tedesca tra le due guerre, e partecipò attivamente alla vita politica del suo Paese negli ultimi anni della repubblica di Weimar e nei primi anni del regime nazista. Alla fine della guerra fu processato a Norimberga dagli alleati per le sue collusioni con il regime (con cui i rapporti ufficiali erano terminati nel 1936). Con la coscienza del "vinto" e la proibizione dell'insegnamento ufficiale, continuò dal ritiro di Plettenberg a occuparsi intensamente di teoria politica, di diritto pubblico e di diritto internazionale, flirtando tra l'altro con la storia delle idee e con la teologia.

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