Copertina
Autore Matilde Asensi
Titolo L'origine perduta
EdizioneSonzogno, Milano, 2006 , pag. 504, cop.ril.sov., dim. 140x224x45 mm , Isbn 978-88-454-1335-3
OriginaleEl Origen Perdido [2003]
TraduttoreMargherita D'Amico
LettoreRiccardo Terzi, 2006
Classe narrativa spagnola
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Pagina 9

Il problema che intuivo appena quel pomeriggio, mentre indugiavo in piedi immobile tra la polvere, le ombre e gli odori di un vecchio edificio chiuso, era che essere metropolitano, progressista, scettico e tecnologicamente avanzato all'inizio del XXI secolo mi impossibilitava a prendere in considerazione qualsiasi cosa rimanesse fuori dall'ambito dei cinque sensi. In quel momento la vita, per un hacker come me, era soltanto un complesso sistema di algoritmi scritti in un linguaggio di programmazione su cui non esistevano manuali. In altre parole, io ero uno di coloro per i quali vivere significava imparare ogni giorno a gestire il proprio software senza avere avuto la possibilità di seguire corsi né il tempo per esercitazioni o prove. La vita era ciò che era, e per di più molto breve; la mia consisteva nel tenermi permanentemente occupato, senza pensare a niente che non avesse a che vedere con quanto facevo momento per momento, soprattutto se, come allora, stavo compiendo un reato punito dalla legge.

Ricordo che mi fermai un secondo a osservare con stupore i particolari di quel teatro di posa in rovina che, un tempo per me molto lontano (venti o forse trent'anni prima), aveva brillato alla luce dei riflettori e vibrato alla musica dal vivo delle orchestre. Non erano ancora trascorse del tutto le ultime ore di quel giorno di fine maggio e il sole era già scomparso dietro i contrafforti dei vecchi studi televisivi di Miramar, a Barcellona, i quali, seppure chiusi e abbandonati, grazie ai miei amici e a me erano sul punto di essere riutilizzati per il loro scopo originario. Osservandoli dall'interno, come facevo io, e ascoltando l'eco delle voci famose che li avrebbero abitati per sempre, sembrava impossibile pensare che in pochi mesi si sarebbero trasformati in un altro hotel per turisti di lusso.

Accanto a me, Proxi e Jabba si affannavano a montare l'apparecchiatura su un vecchio palco di legno scolorito fino al quale arrivava con difficoltà la luce dei lampioni in strada. I pantaloni di Proxi, neri e attillati, le coprivano appena le caviglie e quegli ossicini appuntiti, quegli spigoli, gettavano ombre enormi sulle sue gambe, lunghe e piene di ondulazioni, sotto le lampade al neon poste sulla pedana. Jabba, uno dei migliori ingegneri della Ker-Central, stava collegando la telecamera al computer portatile e all'amplificatore di segnali con rapidità e competenza. Nonostante fosse grande, grosso e gelatinoso, Jabba apparteneva a quella razza di tipi intelligenti, abituati al contatto con l'aria e il sole, che, sebbene induriti dalle mille battaglie con le regole della società civile, conservavano ancora qualcosa della disinvoltura dell'uomo primitivo nell'uomo moderno.

"Ho terminato", mi disse Jabba, sollevando lo sguardo. La sua faccia tonda ammucchiava occhi, naso e bocca al centro del cerchio. Aveva raccolto dietro le orecchie ciocche disordinate di capelli rossi e lunghi.

"I collegamenti sono attivati?" chiesi a Proxi.

"Tra un paio di minuti."

Guardai l'ora. Le lancette dell'orologio, che uscivano direttamente dal naso del barbuto capitano Haddock, segnavano le otto meno cinque. Nel giro di mezz'ora, tutto sarebbe terminato. Al momento, l'antenna parabolica era già orientata e il punto di accesso pronto ad aprirsi; mancava solo che Jabba finisse di installare la connessione senza fili perché io potessi cominciare a lavorare.

In quel preciso istante capii che cosa, già da un pezzo, mi risultava tanto familiare in quel teatro di posa: aveva lo stesso odore del divano della casa di mia nonna, a Vic, un odore di mobili vecchi, di sacchetti antitarme e di metallo ossidato. Era molto tempo che non parlavo con la nonna, ma non ne avevo colpa perché, ogni volta che prendevo la decisione di andarla a trovare, lei partiva per qualche luogo remoto del globo in compagnia delle sue folli amiche, tutte vedove e ottuagenarie. Senza dubbio sarebbe stata entusiasta di visitare i vecchi studi di Miramar perché ai suoi tempi era stata un'appassionata spettatrice del programma di Herta Frankel e della sua cagnetta Marylin.

"È pronto", annunciò Proxi. "Sei già dentro."

Mi sedetti sul pavimento muffoso con le gambe incrociate e appoggiai il portatile sulle ginocchia. Jabba si piazzò accanto a me e si chinò per seguire a video l'evoluzione dell'accesso. Mi inserii nei computer della Fondazione TraxSG usando la mia versione di "Sevendoolf", un noto cavallo di Troia che permetteva di accedere a sistemi remoti attraverso l'uso di "porte di servizio" (backdoor).

"Come hai trovato la chiave?" volle sapere Proxi, sistemandosi sull'altro lato e assumendo la stessa posizione di Jabba. Proxi era una di quelle donne che non sapevo come considerare. Ogni parte del suo corpo era di per sé perfetta, e il viso, incorniciato da una lucente e corta chioma nera, era molto attraente, con il bel naso affilato e i grandi occhi scuri. L'insieme, però, non risultava armonioso, come se i piedi fossero di un'altra persona, le braccia un paio di taglie in più e la vita, benché sottile, troppo larga per i suoi fianchi sfuggenti.

"Con la forza bruta?" azzardò.

"Ho fatto delle prove con i computer di casa mia da quando è incominciato tutto questo", le risposi sorridendo. Mai, nemmeno sotto l'effetto del pentotal, avrei rivelato i miei più preziosi segreti a un altro hacker.

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Pagina 31

"Prego..." mormorò.

Il minuto dottor Hernàndez si sistemò tra Ona e me facendo cadere sul tavolo, con un colpo secco, una cartella gonfia che fino ad allora aveva tenuto sotto il braccio. Non sembrava molto felice, ma, in realtà, in quella stanza nessuno lo era, quindi che differenza faceva?

"Il paziente Daniel Cornwall", inziò a dire Llor con voce neutra, inforcando un paio di occhiali che aveva tirato fuori dal taschino del camice, "mostra una sintomatologia non frequente. Il dottor Hernàndez e io concordiamo sul fatto che potrebbe trattarsi di qualcosa di simile a una depressione acuta."

"Mio fratello depresso?" chiesi stupito.

"No, non esattamente, signor Queralt..." mi chiarì, guardando lo psichiatra con la coda dell'occhio. "Vedrà, suo fratello presenta un quadro clinico abbastanza confuso di due patologie che di solito non si riscontrano congiuntamente nel medesimo paziente."

"Per un verso", intervenne per la prima volta il dottor Hernàndez, che mal dissimulava l'emozione di avere tra le mani un caso tanto raro, "sembra soffrire di quella che in letteratura medica si chiama illusione, o più propriamente sindrome di Cotard, diagnosticata per la prima volta nel 1788 in Francia. Le persone che ne sono colpite credono in modo inconfutabile di essere morte ed esigono, a volte persino in maniera violenta, di essere avvolte nel lenzuolo funebre e sepolte. Perdono la sensibilità delle membra, non rispondono a stimoli esterni, il loro sguardo si fa opaco e vacuo, il corpo rimane completamente sfibrato... Insomma, sono vivi perché noi sappiamo che lo sono, ma reagiscono come se fossero veramente morti."

Ona cominciò a piangere in silenzio senza riuscire a contenersi e Dani, spaventato, si voltò verso di me in cerca di appoggio, ma, vedendomi molto serio, finì per mettersi a frignare pure lui. Se Jabba e Proxi non venivano a prenderlo subito, sarebbe finita male.

Siccome il pianto del bambino impediva la conversazione, Ona, tentando di calmarsi, si alzò e prese a passeggiare su e giù consolando il piccolo. Attorno al tavolo nessuno aprì bocca. Finalmente, dopo alcuni interminabili minuti, mio nipote smise di piangere e sembrò addormentarsi.

"È molto tardi per lui", sussurrò mia cognata tornando a sedersi con cautela. "Dovrebbe essere a letto già da un pezzo e non ha nemmeno cenato."

Incrociai le mani sul tavolo e mi chinai verso i medici.

"Bene, dottor Hernàndez", dissi. "E che soluzione c'è per questa sindrome di Cotard?"

"Soluzione, soluzione...! Si consigliano il ricovero e la somministrazione di psicofarmaci. La prognosi, sotto terapia, di solito è buona, anche se, a dire il vero, in quasi tutti i casi si verificano delle ricadute."

"Gli ultimi studi sulla sindrome di Cotard", osservò il dottor Llor, che sembrava voler apportare il proprio granello neurologico di sabbia, "rivelano che è comunemente associata a un certo tipo di lesione cerebrale localizzata nel lobo temporale sinistro."

"Vuol dire che ha preso un colpo in testa?" chiese Ona, allarmata.

"Assolutamente no", ribatté il neurologo. "Quello che voglio dire è che, pur senza aver subito un trauma, ci sono una o più zone dell'encefalo che non reagiscono come dovrebbero o, almeno, come ci si aspetta. Il cervello umano è formato da molte parti distinte che hanno funzioni differenti: alcune controllano il movimento, altre realizzano calcoli, altre ancora elaborano i sentimenti... Per fare ciò questi segmenti utilizzano piccole scariche elettriche e agenti chimici molto specifici. Basta che uno solo di questi agenti si alteri un po' per cambiare completamente il modo di lavorare di una zona cerebrale e, con esso, il modo di pensare, di sentire o di comportarsi. Nel caso della sindrome di Cotard, le tomografie dimostrano che esiste un'alterazione dell'attività nel lobo temporale sinistro... qui." E accompagnò la parola con il gesto, appoggiando la mano sulla parte posteriore dell'orecchio sinistro. "Né più in alto né più in basso, e nemmeno più indietro."

"Come un computer cui si guasti un circuito, non è così?"

I due medici corrugarono la fronte all'unisono, spiacevolmente sorpresi per l'esempio.

"Sì, be'..." ammise il dottor Hernàndez. "Ultimamente è molto di moda paragonare il cervello umano al computer perché entrambi funzionano, diciamo, in maniera analoga. Però non sono uguali: un computer non ha coscienza di sé e nemmeno emozioni. Questo è il grave errore cui ci conduce la neurologia." Llor non batté ciglio. "In psichiatria l'approccio è differente. Senza dubbio esiste una componente organica nella sindrome di Cotard, ma è pur vero che i suoi sintomi coincidono quasi totalmente con quelli della depressione acuta. Inoltre, nel caso di suo fratello, non si è potuta verificare questa alterazione nel lobo temporale sinistro."

"Comunque, siccome il paziente è sotto la mia responsabilità", intervenne Llor, e stavolta fu Hernàndez a non muovere neppure un muscolo della faccia, "ho pensato a una terapia choc con neurolettici, Clorpromazina e Tioridazina, e spero di poterlo dimettere entro quindici giorni."

"Ah! C'è un altro problema", ricordò lo psichiatra. "Daniel presenta, assieme alla sindrome di Cotard, che è la cosa più palese, segni evidenti di una patologia chiamata agnosia."

Sentii che qualcosa dentro di me si ribellava. Fino a quel momento ero riuscito a convincermi che tutto ciò fosse qualcosa di passeggero, che Daniel soffrisse di un'"illusione" che si poteva curare e che, una volta eliminata, mio fratello sarebbe tornato quello di prima. Però il fatto che si sommassero più malattie mi procurava una sensazione dolorosa. Guardai Ona e, dalla contrazione del suo volto, percepii che era angosciata quanto me. Il piccolo Dani, protetto dalla copertina azzurra e dalla madre, era caduto in un sonno profondo. E fu una fortuna perché in quel momento il mio cellulare, che il piccolo continuava a tenere stretto tra le mani, cominciò a emettere le note musicali che identificavano le chiamate di Jabba. Per fortuna, non si mosse nemmeno; emise solo un lungo sospiro quando la madre, non senza difficoltà, riuscì a estirparglielo.

Chiedendo di Daniel al Pronto Soccorso, Jabba e Proxi erano riusciti a raggiungere l'atrio che dava accesso al reparto di Neurologia. Dopo avere terminato la breve conversazione, informai Ona, e lei, alzandosi adagio, si diresse verso la porta e uscì.

"Aspettiamo la moglie di Daniel o proseguiamo?" mi chiese Llor con una certa impazienza. Il suo tono mi fece ricordare una cosa che avevo letto una volta: in Cina, anticamente, i medici percepivano gli onorari solo se salvavano il paziente, in caso contrario o non lo riscuotevano o la famiglia li ammazzava.

"Chiudiamo una volta per tutte", replicai pensando che gli antichi cinesi erano veramente molto saggi. "Parlerò io con mia cognata."

Il dottore più basso prese la parola.

"Oltre che della sindrome di Cotard, suo fratello soffre di un'agnosia abbastanza marcata." Portò gli occhiali fino alle sopracciglia e guardò inquieto il neurologo. "Come le spiegava Miquel... il dottor Llor, l'agnosia, una patologia molto più comune, appare essenzialmente in soggetti colpiti da emorragie o traumi in seguito ai quali hanno perduto una parte del cervello. Come vede, questo non è il caso di suo fratello e nemmeno quello dei pazienti con la sindrome di Cotard, e tuttavia Daniel è incapace di riconoscere oggetti o persone. Per farle capire meglio, suo fratello, che afferma di essere morto, vive in questo momento in un mondo popolato di cose insolite, che si muovono in modo assurdo e fanno strani rumori. Se lei gli mostrasse, per esempio, un gatto, lui non saprebbe che cos'è, e non saprebbe nemmeno che è un animale perché non sa cosa sia un animale."

Mi presi la testa tra le mani, disperato. Sentivo una pressione terribile alle tempie.

"Non potrebbe riconoscere lei", continuò a spiegare il dottor Hernàndez, "e neppure sua moglie. Per Daniel tutti i volti sono degli ovali piatti con un paio di macchie nere nel punto dove dovrebbero stare gli occhi."

"La cosa brutta dell'agnosia", aggiunse Llor sfregandosi i palmi delle mani, "è che, come avviene per un'emorragia o per la perdita traumatica di una massa, non si può trattare né curare. Ebbene..."

Lasciò la frase in sospeso, con uno stillicidio di speranza.

"Le tomografie fatte a suo fratello rivelano che il suo cervello è in perfette condizioni."

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Sebbene non ci fosse molta gente, tutti i tavoli erano occupati da solitari parenti dei malati che cenavano con gli occhi fissi sul vassoio che avevano davanti. Il cibo, disposto in grandi contenitori di alluminio incassati nel bancone, aveva un aspetto sgradevole sotto i potenti faretti, come se lo avessero preparato con gli avanzi del rancio dei carcerati. Le persone che mangiavano – soprattutto donne di una certa età, educate a credere che le malattie e la morte non fossero cose da uomini – lo ingoiavano in silenzio, accettando con rassegnazione gli inconvenienti del ricovero di un famigliare.

In fondo all'ampia sala, una cameriera, con addosso una goffa uniforme a righe bianche e blu, passava un panno umido sul tavolo di formica appena lasciato libero da una delle tante donne anziane. Con il vassoio sul quale traballavano le bibite, ne prendemmo possesso seguiti dallo sguardo di antipatia della cameriera.

"Allora, vediamo. Che cosa avete scoperto di tanto grave?"

"No, non grave", mi corresse Proxi."Direi strano."

Jabba aprì la cartella e ne estrasse un fascio di fogli che sistemò al centro del tavolo.

"Dai un'occhiata a questi."

"Per favore!" ribattei restituendogli le carte. "Non siamo a una riunione di lavoro. Raccontamelo."

Sembrava che non sapesse da dove cominciare e lanciava lunghi sguardi a Proxi mentre si scompigliava i capelli rossi.

"All'inizio non trovavamo niente di insolito", cominciò lei, più decisa. "Quando Jabba mi ha spiegato quello che volevi ho pensato che fossi diventato matto, veramente... ma siccome quando hai una delle tue idee penso sempre la stessa cosa, non ti ho insultato troppo... Ti saranno fischiate le orecchie."

Jabba annuì ripetutamente.

"Alla fine", continuò lei, "siamo andati al '100' e ci siamo messi all'opera. La faccenda sembrava intricata, ma, scomponendola in più parti, come se fosse un problema di strategia di programmazione, si semplificava molto. Avevamo diverse parole chiave: aymara, incas, linguaggio, idioma... C'era abbondanza di informazioni nella rete sull'argomento. L'aymara è una lingua ancora in uso nel sud del Perù e in Bolivia, e coloro che la parlano, gli aymaras o aymaraes, sono un pacifico popolo andino, di poco più di un milione e mezzo di persone, che faceva parte dell'impero inca. A quanto pare, nonostante l'aymara abbia convissuto con il quechua per secoli, i due non sono idiomi fratelli, cioè non provengono dalla stessa famiglia linguistica."

"In realtà, l'aymara non..." attaccò Marc, ma Proxi lo interruppe.

"Aspetta un po', perché così lo confondiamo."

"Va bene."

"Ascoltami, Root."

"Lo sto facendo, Proxi."

"L'aymara... Be', conosci la solfa dell'origine delle lingue e tutta la tiritera?"

"Stai parlando della Torre di Babele?"

I due mi guardarono in modo strano.

"Qualcosa del genere. I linguisti pensano che i cinquemila idiomi che esistono oggi sul pianeta probabilmente hanno avuto un'origine comune, una specie di protolinguaggio da cui derivarono tutti gli altri, inclusi quelli che si sono perduti per sempre. Questo protolinguaggio sarebbe come il tronco dell'albero da cui nascono molti rami; da ciascun ramo, altri ancora, e così fino alle cinquemila lingue di oggi, raggruppate in grandi famiglie linguistiche... Hai capito?"

"Perfettamente. Ora parlami dell'aymara, se non ti dispiace."

"Non fare il somaro e ascolta", pretese Jabba.

"Questo protolinguaggio originale..."

"La lingua di Adamo ed Eva?" scherzai, ma Proxi mi ignorò.

"... è conosciuto come nostratico e si calcola che sia esistito circa tredicimila anni fa. Cervelloni delle migliori università del mondo si bruciano i neuroni da mezzo secolo tentando di ricostruirlo."

"Molto interessante", mi lasciai scappare, annoiato.

"Adesso saprai quanto, ignorante!" proruppe Jabba.

"C'è tutta una corrente di pensiero all'interno della linguistica che lavora sulla teoria secondo cui l'aymara potrebbe essere quella prima lingua madre. Il tronco... Afferrato?"

Rimasi di ghiaccio e il mio volto dovette rifletterlo perché il malumore del mio amico scomparve.

"Infatti", disse Proxi, riprendendo la parola, gli occhi che le brillavano in modo strano, "l'aymara è molto lontano dall'essere una lingua qualsiasi. Stiamo parlando di una lingua perfetta, una lingua la cui struttura logica è talmente straordinaria che sembra più il risultato di un disegno preordinato che di un'evoluzione naturale. Gli aymaras chiamavano la loro lingua Jaqui Aru, che significa 'linguaggio umano', e la parola aymara significa 'popolo dei tempi remoti'."

"Ascolta questo..." intervenne Jabba frugando disperatamente tra i documenti sul tavolo; infine, dopo una lunga ricerca, trovò quello che voleva e mi guardò trionfante. "Il tipo che ha scritto Il nome della Rosa, Umberto Eco, è un semiologo di fama mondiale, e, tra gli altri, ha scritto un libro che si intitola La ricerca della lingua perfetta in cui dice: Il gesuita Ludovico Bertonio aveva pubblicato nel 1603 una Arte de lengua aymara e nel 1612 un Vocabulario de la lengua aymara (una lingua parlata ancor oggi tra Bolivia e Perù), e si era reso conto che si trattava di idioma di immensa flessibilità, capace di una incredibile vitalità neologizzante, particolarmente adatto a esprimere astrazioni, tanto da avanzare il sospetto che si trattasse dell'effetto di un 'artificio'. Due secoli dopo Emeterio Villamil de Rada poteva parlarne definendola lingua adamitica, espressione di 'una idea anteriore alla formazione della lingua', fondata su 'idee necessarie e immutabili' e dunque lingua filosofica se mai ve ne furono'." Jabba mi fissò esultante. "Che ne dici, eh?"

"Ma la cosa non finisce qui", fece notare Proxi.

"Proprio per niente! Eco continua spiegandoci le caratteristiche in base alle quali l'aymara potrebbe qualificarsi come un linguaggio perfetto, anche se non si compromette del tutto con la teoria che sia un linguaggio artificiale."

"Un linguaggio artificiale?" esplosi. "Queste sono sciocchezze!"

"Per fartelo capire", continuò pazientemente Proxi, "ci sono un mucchio di studiosi nel mondo che concordano nell'affermare che l'aymara è una lingua che sembra ideata in base alle stesse regole che si seguono oggi per scrivere linguaggi di programmazione informatica. È una lingua con due elementi di base, radici e suffissi, che di per sé non hanno alcun significato, ma che legati gli uni agli altri in lunghe catene li creano tutti... Come un linguaggio matematico! Inoltre", aggiunse notando che io aprivo la bocca per oppormi di nuovo, "il professore boliviano Ivàn Guzmàn de Rojas, un ingegnere informatico che da molti anni lavora a questa ricerca, afferma che le combinazioni dei suffissi aymaras obbediscono a una regolarità con proprietà di struttura algebrica, una specie di anello di polinomi con una tale quantità di astrazione matematica che è impossibile credere sia il prodotto di un'evoluzione naturale."

"Senza dimenticare", precisò Jabba, "che l'aymara non ha avuto un'evoluzione. Questa maledetta lingua, incredibilmente, si è mantenuta quasi intatta per secoli o millenni... circa tredici millenni, se fosse il nostratico."

"Non è variata per niente? Non è cambiata?" mi sorpresi.

"Pare di no. Ha preso alcune parole dal quechua e dal castigliano negli ultimi secoli, molto poche, però. Gli aymaras credono che la loro lingua sia sacra, una sorta di regalo degli dei che appartiene a tutti senza distinzioni e che non deve modificarsi in nessun modo. Che cosa te ne sembra?"

"Viracocha gli regalò il suo idioma?" volli sapere senza abbassare la guardia.

"Viracocha?" si stupì Proxi. "No, no. Viracocha non compare per niente nelle leggende aymaras. Almeno non in quelle che abbiamo letto, vero, Jabba? La religione aymara si basa sulla natura: la fecondità, il bestiame, il vento, le tempeste... Vivere in armonia con la natura significa essere in armonia con gli dei; ne hanno uno per ciascun fenomeno naturale, anche se in cima a tutti c'è la Pachamama, la Madre Terra, e, se non ricordo male, anticamente c'erano anche un certo Thunupa, dio di... di che cosa, Jabba?"

"Della pioggia o qualcosa del genere", suggerì lui, incerto.

"Ecco, sì. Della pioggia e del lampo. Può darsi che, per influenza degli incas, credano in Viracocha, non so", continuò Proxi. "Affermano, comunque, di essere discendenti diretti dei fondatori di Tiwanacu, una città molto importante, vicino al lago Titicaca, che era già in rovina quando gli spagnoli la scoprirono. A quanto pare, Tiwanacu era una specie di monastero, il luogo sacro più importante delle Ande, e i suoi governanti, i Capacas, erano sacerdoti astronomi."

"Il problema è che nessuno ne sa niente", fece notare Jabba. "Sono tutte elucubrazioni, ipotesi e teorie più o meno fondate."

"E succede la stessa cosa con gli incas", dissi io ricordando le mie letture del pomeriggio. "Non riesco a capire come, pur vivendo nel XXI secolo, siamo ancora incapaci di spiegare certe cose."

"Perché sono cose che non interessano a nessuno, Root", mi chiarì Proxi con tristezza. "Soltanto a qualche tipo stravagante come tuo fratello. Perché tutto questo lo fai per Daniel, vero?"

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In tutto quel mare magnum di informazioni inutili, si distinguevano un paio di grandi fotocopie piegate che stavano dentro un portadocumenti senza indicazioni. Erano le riproduzioni di alcune antiche mappe, piuttosto spiegazzate, che si rivelarono incomprensibili. Nella prima, dopo parecchi tentativi, riconobbi, a destra, la forma della penisola iberica e la costa occidentale dell'Africa, all'interno delle quali comparivano numerose figure umane e animali quasi indistinguibili su cui passavano (e si incrociavano) linee che partivano da varie rose dei venti di diverse dimensioni. Meglio preparato ora alla geografia dell'immagine, dedussi che ciò che si vedeva a sinistra era la costa americana, con i suoi fiumi e affluenti, molti dei quali partivano da una catena montuosa, le Ande, che costituiva la fine del disegno da quel lato; mancava infatti il profilo della costa del Pacifico, sostituita da un lungo testo scritto in minuscoli caratteri arabi. Nella seconda mappa, abbozzato su una specie di lenzuolo dall'orlo sfilacciato, si vedeva un grande lago circondato da linee e segni che sembravano orme di formica e, in evidenza, il rozzo tracciato di una città, a sud del lago, sotto cui si riusciva a leggere con qualche difficoltà, a causa dei ghirigori dell'antica grafia, "Sentiero degli indios yatiris" e, sotto, "Due mesi per terra", e ancora più in basso, in caratteri più piccoli, "Io, Pedro Sarmiento de Gamboa, dico che ciò è vero. Città dei Re, ventidue febbraio del millecinquecentosettantacinque".

La cosa finalmente cominciava piano piano a chiarirsi: yatiris era una parola che conoscevo e che mio fratello utilizzava con frequenza nel suo delirio. Dovevo cercare di sapere di più sugli yatiris, mi dissi, perché sembravano godere di un ruolo da protagonisti nella storia e, inoltre, e questo era il lato curioso, secondo quell'antico nobiluomo spagnolo, Pedro Sarmiento de Gamboa, avevano un proprio sentiero che, dopo due mesi di cammino, andava a finire chissà dove.

Il grosso della biblioteca di Daniel era composto da testi di antropologia, di storia, e da grammatiche varie. Negli scaffali più vicini al suo tavolo, sia a destra sia a sinistra, aveva sistemato a portata di mano i volumi sugli incas e un mucchio di vocabolari, tra i quali si trovavano quello pubblicato nel 1612 dal gesuita Ludovico Bertonio, Vocabulario de la lengua aymara, e quello di Diego Torres Rubio, Arte de la lengua aymara, del 1616. Era il momento di verificare che diavolo volesse dire lawt'ata. Dopo essere impazzito per un po' (perché in realtà non avevo idea di come si scrivesse), riuscii a trovare il termine a forza di consultare, una per una, tutte le voci che cominciavano con la lettera elle; così verificai che era un aggettivo e che significava "chiuso a chiave", la qual cosa mi ricondusse al messaggio della supposta maledizione, nella cui ultima riga, ricordai, comparivano queste parole. Ovviamente, ciò non risolse nulla, ma almeno capii che avevo sciolto un'incognita. Avevo in progetto di dare uno sguardo alle antiche cronache spagnole in quanto, tra le altre ragioni, oltre a un'enorme svogliatezza, avevo dedicato tutto il mio tempo a studiare linguistica e, più in particolare, linguistica aymara, facendo parecchie incursioni in rete per catturare informazioni più precise su questa lingua.

Tutto ciò che Jabba e Proxi mi avevano raccontato era troppo esiguo rispetto a ciò che in realtà era l'aymara. Chiaramente io non conoscevo tante lingue come mio fratello; eccetto per il catalano, il castigliano e l'inglese, rimanevo disorientato come un neonato e potevo fare pochi confronti con altri idiomi naturali. Ma padroneggiavo bene i linguaggi di programmazione (Python, C/C++, Perl, LISP, Java, Fortran...), e ciò bastava e avanzava perché mi rendessi conto che l'aymara non era una lingua come le altre. Non poteva esserlo, poiché si trattava di un autentico linguaggio di programmazione. Era precisa come un orologio atomico, senza ambiguità, senza dubbi nei suoi enunciati, senza spazio per le imprecisioni. Nemmeno un diamante puro tagliato in modo insuperabile avrebbe uguagliato le sue proprietà di integrità, esattezza e rigore. Nell'aymara non erano previste frasi tanto stupide come quelle che da bambini ci facevano ridere per la loro incongruenza, come "il pollo è pronto da mangiare", per esempio. No, l'aymara non consentiva questo tipo di assurdo linguistico, e inoltre era vero che le sue regole sintattiche sembravano costruite a partire da una serie invariabile di formule matematiche che, applicate, davano come risultato una strana logica di tre valori – vero, falso e neutro –, al contrario di qualsiasi lingua naturale conosciuta, che rispondeva solo a vero o falso secondo la vecchia concezione aristotelica. In aymara, dunque, le cose potevano essere, realmente e senza equivoci, né sì né no né tutto il contrario. A quanto pareva, non c'erano altri idiomi al mondo che permettessero niente di simile e la cosa d'altra parte non doveva stupire, dato che parte della ricchezza che le lingue acquisivano in secoli di evoluzione consisteva precisamente nella sua capacità letteraria per le confusioni e le ambiguità. Così, mentre gli aymaras, che ancora usavano questa lingua in Sudamerica, se ne vergognavano e venivano emarginati in quanto poveri e arretrati indigeni senza cultura, la loro lingua proclamava ai quattro venti che provenivano da una civiltà molto più avanzata della nostra, o almeno capace di creare un linguaggio basato su algoritmi matematici di alto livello. Non mi sorprendeva per niente che Daniel fosse stato affascinato da queste scoperte e che avesse abbandonato lo studio del quechua per dedicarsi totalmente all'aymara; quello che mi stupiva, invece, era che non avesse contato sul mio aiuto per comprendere tutti quei concetti tanto astratti e tanto lontani dalle discipline che lui conosceva e aveva studiato. Ricordavo che mi aveva chiesto in varie occasioni di scrivergli alcuni programmi semplici e molto specifici per conservare, classificare e recuperare informazioni (bibliografie, dati statistici, archivi di immagini...). Ma persino queste piccole applicazioni gli sembravano complesse e difficili da gestire, tanto che dubitavo molto del fatto che da solo sarebbe stato in grado di riconoscere le similitudini che presentava l'aymara con i moderni e sofisticati linguaggi di programmazione.

E non trovai nemmeno da nessuna parte il famoso quipu in aymara immaginato da Jabba e Proxi. Da un lato, in materia di quipus, individuai solo un grosso faldone che conteneva le copie dei documenti Miccinelli, ma dava la sensazione, per il posto in cui era sepolto e per la sottile patina di polvere che si vedeva all'interno della copertina, che Daniel non lo toccasse da molto tempo; dall'altro, se quell'insieme di corde con nodi, o meglio la sua riproduzione grafica, si trovava da qualche parte nello studio, poteva essere all'interno del computer portatile di mio fratello, il fiammante IBM che gli avevo regalato a Natale e che era ancora connesso alla rete elettrica, alimentando una batteria sufficientemente carica. Pigiai il tasto di avvio. Il piccolo hard disk tornò subito in vita con un lieve ronzio e lo schermo si illuminò dal centro verso i bordi, mostrando le poche righe di istruzioni di file del sistema prima di far comparire la schermata azzurra di Windows. Mi appoggiai alla spalliera della sedia e, mentre mi sfregavo gli occhi stanchi, un inaspettato scintillio di luce arancione mi avvertì di un processo anomalo nell'avvio del sistema operativo.

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