Autore Anthony B. Atkinson
Titolo Disuguaglianza
SottotitoloChe cosa si può fare?
EdizioneCortina, Milano, 2015 , pag. 392, ill., cop.fle., dim. 15,4x23,5x2,7 cm , Isbn 978-88-6030-788-0
OriginaleInequality. What Can Be Done? [2015]
TraduttoreVirginio B. Sala
LettoreRenato di Stefano, 2016
Classe politica , economia , economia politica , sociologia , globalizzazione , lavoro












 

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Indice


    Prefazione all'edizione italiana (Chiara Saraceno)          VII

    Ringraziamenti                                                1
    Introduzione                                                  5


    Parte prima. Diagnosi                                        11

1.  La scena                                                     13
2.  Imparare dalla storia                                        49
3.  L'economia della disuguaglianza                              87

    Riepilogando fin qui                                        115


    Parte seconda. Proposte per l'azione                        117

4.  Cambiamento tecnologico e potere di equilibrio              119
5.  Il futuro dell'occupazione e delle retribuzioni             137
6.  Capitale condiviso                                          159
7.  Tassazione progressiva                                      183
8.  Sicurezza sociale per tutti                                 209

    Proposte per ridurre l'estensione della disuguaglianza      241


    Parte terza. Si può fare?                                   245

9.  Ridurre la torta?                                           247
10. La globalizzazione impedisce l'azione?                      267
11. Possiamo permettercelo?                                     285

    La strada che ci sta davanti                                305


    Glossario                                                   313
    Note                                                        319
    Fonti delle figure                                          349
    Indice analitico                                            355


 

 

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Pagina VII

Prefazione all'edizione italiana
Chiara Saraceno



"La disuguaglianza è una violazione della dignità umana; è la negazione della possibilità che ciascuno possa sviluppare le proprie capacità. Prende molte forme e ha molte conseguenze: morte prematura, salute cattiva, umiliazione, subordinazione, discriminazione, esclusione dalla conoscenza e/o da dove si svolge prevalentemente la vita sociale, povertà, impotenza, mancanza di fiducia in se stessi e di opportunità e possibilità della vita. Non è quindi solo questione delle dimensioni del proprio portafoglio. È un ordinamento socio-culturale che riduce le capacità, il rispetto e il senso di sé, così come le risorse per partecipare pienamente alla vita sociale." Queste parole del sociologo svedese Goran Therborn bene rappresentano la motivazione dell'instancabile lavoro di analisi e ricerca di Atkinson su questo tema e l'indignazione e l'impegno civile che lo accompagnano da sempre e ben prima che occuparsi di disuguaglianza diventasse, se non di moda, un'impresa del tutto rispettabile tra gli economisti e persino foriera di popolarità, come testimonia il successo imprevedibile del libro di Piketty e degli innumerevoli dibattiti che esso ha suscitato in diverse parti del mondo, nelle più prestigiose università e nei cenacoli di economisti e anche in sedi non accademiche come parlamenti nazionali e istituzioni politiche internazionali. Come osserva all'inizio di questo libro Atkinson, cui oggi Piketty riconosce di essere stato il padre degli studi economici sulla disuguaglianza, il tema della disuguaglianza, anche limitatamente a quella economica, non è mai stato molto popolare tra gli economisti. Molti ritengono persino che le questioni della distribuzione non li debbano interessare proprio come studiosi. La situazione è parzialmente diversa in sociologia, ove lo studio delle disuguaglianze, delle loro cause, dimensioni, riproduzione e trasformazioni costituisce uno dei settori più importanti, affrontato da prospettive teoriche molto diverse. Anche se, come ha osservato severamente Therborn, ciò è avvenuto e avviene per lo più sotto l'etichetta, più "neutrale", di stratificazione e mobilità sociale, con attenzione ai meccanismi di tipo micro (impatto dei sistemi educativi, dell'origine sociale, dei meccanismi distributivi e redistributivi, del capitale culturale e sociale e così via sulla collocazione sociale e sulle chances degli individui) piuttosto che per l'impatto che sulla disuguaglianza e sulle opportunità di vita delle persone ha il funzionamento dell'economia e delle decisioni che in essa o per essa vengono prese.

L'interesse di questo nuovo lavoro di Atkinson, pur concentrandosi solo sulla disuguaglianza economica, sta proprio nel suo costante legare macro e micro, nel rappresentare i fenomeni economici come qualche cosa che ha a che fare con la vita delle persone concrete – e diversificate per posizione sociale, genere, generazione – in società concrete, e allo stesso tempo come regolati non da leggi astratte, ma da specifiche decisioni, interessi di gruppo, rapporti di potere. La prospettiva teorico-metodologica in cui l'autore colloca la sua analisi è efficacemente descritta all'inizio del Nono capitolo: "Nei primi capitoli dei manuali tradizionali, gli studenti leggono di famiglie e aziende impegnate in mercati concorrenziali in cui i prezzi uguagliano offerta e domanda. Se dovessi scrivere un manuale di economia, inizierei invece con aziende in concorrenza monopolistica e con potere di mercato, che negoziano sui salari, in un mondo in cui ci sono lavoratori disoccupati. Non sto scrivendo un manuale, ma la mia posizione condiziona la risposta che do alla domanda se si possa ridurre la disuguaglianza e al contempo migliorare l'efficienza. Se assumo un punto di vista diverso da altri economisti sulle conseguenze di varie forme di intervento pubblico, in parte è perché muovo da un modo differente di concepire il funzionamento dell'economia. La scelta del modello economico può influenzare profondamente le conclusioni che si traggono sulla desiderabilità di certe proposte politiche."

In controtendenza rispetto ai dibattiti prevalenti oggi tra chi si occupa di politiche contro la disuguaglianza nell'ottica della strategia dell'investimento sociale, Atkinson, come Therborn, Piketty (di cui, per altro, è stato maestro), Stiglitz e, in Italia, Franzini, Granaglia e Raitano, ritiene che occorra preoccuparsi non solo della disuguaglianza delle opportunità, bensì anche della disuguaglianza degli esiti, sia per motivi di equità sia per motivi strumentali, legati alla coesione sociale e al benessere di una società nel suo complesso. Per quanto riguarda le questioni di equità, ricorda che anche le politiche di pari opportunità più avvedute e la competizione più leale non possono escludere la sfortuna. Occorre, inoltre, distinguere tra opportunità competitive e non competitive, tra la possibilità di correre ad armi pari le stesse gare e la possibilità, come direbbe Sen, di condurre la vita che si desidera, nella consapevolezza che la struttura dei premi ottenibili nell'uno come nell'altro caso è fortemente differenziata e determinata da convenzioni sociali che non sempre hanno a che fare con il valore intrinseco di una determinata attività. Aggiungerei anche che focalizzarsi solo sulle disuguaglianze di partenza rischia di far trascurare gli inciampi che si incontrano lungo il percorso non solo in modo random (una malattia improvvisa, una crisi aziendale che produce licenziamenti), ma anche specificamente legato alle proprie caratteristiche. Non è sufficiente, per esempio, far studiare nello stesso modo ragazzi e ragazze, se poi basta la sola ipotesi di una maternità a far considerare diversamente gli uni e le altre dai datori di lavoro, o se la divisione del lavoro familiare produce nuovi handicap per le une e simmetricamente vantaggi per gli altri. Infine, esiti disuguali hanno effetti anche sulle generazioni successive, come mostrano tutti gli studi sociologici sulla riproduzione intergenerazionale della disuguaglianza. Basterebbe solo questo dato a giustificare un interesse, a fine non solo di analisi, ma anche di policy, per le disuguaglianze di esito, oltre a quelle di partenza. Dal punto di vista strumentale, Atkinson condivide con Stiglitz l'idea, sostenuta da evidenze empiriche, che la disuguaglianza abbia un prezzo alto in termini di indebolimento della coesione sociale, di tassi di criminalità e morbilità e di comportamenti rischiosi per sé e potenzialmente costosi per la società. I sostenitori delle pari opportunità e dell'approccio dell'investimento sociale direbbero che, almeno al di sopra di un certo livello e se si configura come un destino, la disuguaglianza è anche un enorme spreco di capitale umano. Per questo ha effetti negativi sullo stesso sviluppo e benessere complessivo di una società, come argomenta anche Cingano sulla base di un'analisi di quanto è successo nei Paesi OCSE negli ultimi trent'anni. La disuguaglianza economica ha un prezzo anche per la stessa democrazia, nella misura in cui la concentrazione della ricchezza e del reddito portano con sé pure concentrazione del potere politico, quindi di influenza sulle decisioni in materia fiscale, di bilancio, della direzione che deve prendere lo sviluppo tecnologico e così via, ovvero su questioni di vitale importanza per le condizioni di vita e le opportunità delle persone.

Pur occupandosi di disuguaglianza negli esiti e non solo nelle opportunità, Atkinson non è un ingenuo utopista che vagheggia una società di uguali. Piuttosto ritiene che, smontando analiticamente i meccanismi che producono disuguaglianze eccessive o non giustificate da particolari meriti, sia possibile anche mettere a punto istituti, contromeccanismi che riequilibrino almeno in parte i rapporti di potere. Per questo le due parti del libro — quella analitica e quella propositiva in cui vengono illustrate dettagliatamente quindici proposte di policy — vanno lette insieme. Se si condivide l'analisi ma non le proposte, o non tutte, si è sfidati a elaborarne di migliori, o più fattibili, o più adeguate a uno specifico contesto nazionale (molte delle proposte di Atkinson sono articolate in relazione al contesto istituzionale britannico).

Non ho intenzione di riassumere qui né la parte analitica né quella propositiva. Mi limito a segnalare alcuni passaggi analitici che ritengo importanti, per poi arrivare ad alcune delle proposte che ritengo più interessanti.

[...]

Le proposte di Atkinson, quindi, non riguardano solo e prevalentemente un aumento della spesa sociale, perciò delle imposte, anche se implicano un rafforzamento e una ristrutturazione sia della spesa sociale sia delle imposte. Riguardano innanzitutto il modo in cui funzionano il mercato e i redditi che da questo provengono. Escono perciò dalla dicotomia (per altro un po' astratta) tra politiche di investimento sociale cosiddette attive, che sarebbero quelle proprie di un welfare moderno, e politiche di protezione sociale cosiddette passive, che sarebbero proprie del welfare tradizionale. Protezione e investimento stanno assieme, nella misura in cui l'obiettivo è intervenire in primo luogo nei meccanismi che determinano i redditi da mercato del lavoro e da capitale per mettere gli individui in grado di esercitare controllo sulla loro vita, di essere meno costretti da circostanze sfavorevoli sia di partenza sia di percorso e anche più capaci di destreggiarsi in un mercato del lavoro che non sempre e non a tutti offre occupazioni "intere" e in cui la distinzione tra occupati e disoccupati non è sempre netta.

La combinazione di protezione e attivazione, per usare due termini di moda, è chiara, per esempio, nella proposta di introduzione di un salario minimo al livello di ciò che è consensualmente ritenuto necessario per vivere. Essa è integrata da due altre proposte: uno sconto fiscale sul reddito da lavoro e un reddito minimo universale, o reddito di partecipazione, non subordinato a requisiti di reddito ma solo a requisiti di attività – nel mercato, nelle cure familiari, nel volontariato, nello studio. È questa una vecchia proposta di Atkinson, differente sia dalle proposte di reddito di cittadinanza senza condizioni, alla Van Parijs, sia da quelle, ben più ridotte, di reddito minimo per i poveri, incluse le varie forme di work tax credit messe in campo da alcuni Paesi per incentivare la ricerca e la permanenza nell'occupazione di chi guadagna troppo poco. A parere di Atkinson, infatti, i sostegni al reddito di tipo assistenziale, pur essendo meglio del niente che c'è, per esempio, in Italia, oltre a essere stigmatizzanti, hanno alti costi amministrativi e organizzativi e non risolvono il problema di chi, pur avendovi diritto, non li richiede perché non è informato o si vergogna. Un reddito di partecipazione, inoltre, consentirebbe di venire meglio incontro alle condizioni contemporanee del mercato del lavoro, con i suoi confini labili tra occupazione e disoccupazione. In effetti, una sorta di reddito minimo garantito già esiste, come osserva Atkinson, sotto forma di quota esente da imposte, specie laddove (non in Italia) esiste anche l'imposta negativa, ovvero viene compensato ciò che non si può detrarre, o si integra la parte mancante fino alla soglia esente. Tuttavia proprio i più poveri sono per lo più esclusi, in quanto difficilmente fanno una dichiarazione dei redditi. In chiara controtendenza rispetto al crescente utilizzo della prova dei mezzi per definire gli aventi diritto ai trasferimenti diretti, non solo nel Regno Unito ma in molti altri Paesi, tra cui l'Italia, Atkinson propone appunto di garantire a tutti il reddito di partecipazione, che sostituirebbe tutti gli sgravi fiscali (che oggi sono di fatto più favorevoli ai ricchi che non a chi ha un reddito modesto o scarso), salvo lo sconto sul reddito da lavoro. Tra i vantaggi, oltre a bassi costi organizzativi, all'assenza di stigmatizzazione e di effetti disincentivanti sull'offerta di lavoro (rispetto a un reddito minimo basato su un test dei mezzi familiari), vi sarebbe il fatto che aumenterebbe la propensione al consumo dei ceti medio-bassi, con effetto positivo sull'economia.

Un primo passo per arrivare a questa misura potrebbe essere un assegno per i figli definito a livello europeo, quindi vincolante per tutti i Paesi membri. Calcolato in termini di redditi dopo tutti i trasferimenti ma prima dell'imposta sul reddito, contribuirebbe a ridurre la povertà dei bambini riequilibrando il bilancio delle loro famiglie spesso in tensione tra reddito disponibile e numero dei consumatori. Insieme alla proposta di istituire una dote sociale (un'eredità minima sociale) da trasferire a ogni cittadino al raggiungimento della maggiore età, costituirebbe una misura di pari opportunità tra bambini e di investimento sociale nelle generazioni più giovani. Per l'Italia significherebbe introdurre finalmente un sostegno al costo dei figli di tipo universale, non categoriale e non legato a una prova dei mezzi, anche se di importo variabile a seconda del reddito dei genitori e tassabile.

In alternativa al reddito di partecipazione, come strumento redistributivo per combattere la disuguaglianza economica, Atkinson vede solo un rafforzamento della previdenza e in parte un cambiamento di ciò che costituisce una base contributiva. Ciò significa garantire una pensione minima adeguata e ai cui fini contributivi conti anche il riconoscimento del lavoro di cura, e un'indennità di disoccupazione che possa essere fruita anche da chi è involontariamente occupato solo part time. Mi sembra tuttavia, a differenza di quanto suggerisce Atkinson, che, diversamente dal reddito minimo universale, per quanto queste due misure siano auspicabili, non risolverebbero la povertà di chi è involontariamente inoccupato e, in assenza di un generoso assegno per i figli, anche dei lavoratori poveri e dei loro familiari. Non eliminerebbe, quindi, la necessità né di un reddito minimo assistenziale, né di forme di integrazione del reddito dei lavoratori poveri – due misure la cui introduzione sarebbe particolarmente urgente in Italia, l'unico Paese entro l'Unione Europea, insieme alla Grecia, a non avere una garanzia minima di reddito per i poveri e ad attardarsi in discussioni sul suo possibile effetto disincentivante sull'offerta di lavoro in un contesto in cui a mancare è piuttosto la domanda.

Dato che assegna all'occupazione, all'essere occupati, un forte valore in termini non solo economici, ma di integrazione sociale e di dignità personale, Atkinson non rifugge neppure dal proporre che lo Stato si faccia datore di lavoro di ultima istanza, anche se non necessariamente per occupazioni a tempo pieno e tanto meno per tutta la vita, ma sicuramente per occupazioni che producano utilità sociale e beni collettivi. Chi è a conoscenza di come siano andati e vadano i cantieri di lavoro soprattutto in alcune parti di Italia avrà modo di sorridere, o di sentire un brivido lungo la schiena. Ricordo io stessa il sindaco di una cittadina del Sud che, alla mia domanda su come utilizzasse i lavoratori socialmente utili, mi guardò sorpreso, dichiarando che non era nel suo potere farli lavorare, ma solo erogare il compenso (di fatto un sussidio a fondo perduto). Eppure non si può negare che siano molti i lavori che potrebbero essere utilmente svolti e che non lo sono, o non a sufficienza: dalla cura del territorio alla cura delle persone all'informazione rivolta a chi è più marginale e altro ancora. Per altro, anche in Italia, accanto a esperienze negative ce ne sono di positive. Lo stesso fatto che lo Stato, in Italia, sia il maggiore utilizzatore dei contratti temporanei e co.co.pro. segnala che senza questi lavoratori molte attività necessarie non verrebbero svolte. Una ricerca fatta da un gruppo di studiosi di varie discipline e di professionisti diversi, per esempio, ha segnalato come, in termini comparativi, la Pubblica amministrazione italiana abbia un organico sottodimensionato rispetto al bisogno e che occorrerebbe assumere circa un milione di laureati e diplomati da impiegare nei servizi maggiormente necessari per lo sviluppo del Paese (sanità, sicurezza, scuola, giustizia civile, tutela del patrimonio artistico, e altri ancora), con ciò contrastando la disoccupazione giovanile e aumentando il volume del reddito da lavoro dipendente, quindi degli introiti fiscali. Anche in questo caso, come in quello del reddito di partecipazione (ma anche del solo reddito minimo per i poveri) e degli assegni universali per i figli, infatti, non si tratterebbe di pura spesa, perché il reddito così guadagnato si trasformerebbe in consumi, oltre a essere l'esito di una produzione di beni pubblici – ovviamente se si ha la volontà e la capacità di utilizzare i lavoratori.

Non mi dilungherò qui su come Atkinson pensa che queste e altre misure possano essere finanziate. Rimando al lettore la valutazione della correttezza delle sue stime circa non solo i costi, ma i risparmi e gli effetti positivi che possono avere anche sul piano economico. È un invito che avanza esplicitamente lui stesso. A differenza di molte proposte di economisti con maggiore influenza politica, la sua, oltre a essere complessa e articolata, non è una ricetta formulata in modo apodittico. Mi limito a segnalare, perché rilevante per il dibattito italiano contemporaneo e per gli annunci del governo di questa estate 2015, che, come è intuibile, le sue indicazioni non vanno in direzione di una diminuzione delle tasse (salvo che per quelle sul lavoro), tanto meno di quelle sulla proprietà, e neppure in direzione di uno spostamento dell'imposizione dal reddito (e dalla ricchezza) al consumo. Ciò per motivi di equità, prima che di far cassa. Le tasse sul consumo, infatti, colpiscono i ceti più modesti più di quelli abbienti. Tassare maggiormente l'eredità (lo diceva anche Einaudi) è un modo per ridurre le disuguaglianze nell'origine di nascita e i privilegi non meritati degli eredi. Anche se Atkinson preferirebbe all'imposta di successione un'imposta sugli introiti da capitale ricevuti nell'arco della vita, in modo da comprendervi pure le donazioni in vita: un fenomeno che ha un ruolo rilevante tra i più ricchi e che oggi è sempre più diffuso a motivo dell'innalzamento delle prospettive di vita, che consigliano di diluire nel tempo la trasmissione ereditaria. Quanto all'imposta sulla casa, al contrario di quanto è stato fatto in passato in Italia e Renzi promette di rifare oggi, Atkinson, avendo in mente la situazione inglese, in cui pure c'è stata una progressiva diminuzione dell'imposizione a vantaggio soprattutto dei più ricchi, propone che venga reintrodotta una tassa proporzionale al valore catastale anche per l'abitazione principale. In questo modo, da un lato aumenterebbe la tassazione soprattutto per le abitazioni di maggior pregio; dall'altro lato si avrebbe un effetto di diminuzione complessiva dei prezzi di mercato, rendendo l'abitazione più accessibile, per l'acquisto o l'affitto, a chi, non avendo mezzi per acquistarla, non è stato beneficiato dall'aumento dei valori immobiliari e anzi ne ha subito il costo sotto forma di affitti elevati.

Quasi tutti i recensori di questo libro, pur non contestandone la parte analitica, hanno concluso che si tratta, per la parte propositiva, di un libro dei sogni, più o meno rivolto a un passato – politico-culturale – che non tornerà più. Ciò facendo, tuttavia, danno ragione a Atkinson, se non per quanto riguarda la fattibilità pratica, o l'efficacia, di questa o quella proposta, per la tesi di fondo che guida sia l'analisi sia le proposte e che sintetizzerei così: "It is not the economy, stupid, it is politics". Se le cose vanno come vanno nel campo della disuguaglianza economica non è per qualche ineluttabile legge economica, ma per precise scelte politiche. Di queste occorre discutere.

Settembre 2015

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Pagina 5

Introduzione



La disuguaglianza è in primo piano nel dibattito pubblico. Si scrive molto dell'1% e del 99%, e le persone sono ora più consapevoli di quale sia l'estensione della disuguaglianza. Il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, e il direttore del Fondo monetario internazionale (FMI), Christine Lagarde, hanno dichiarato che l'aumento della disuguaglianza è una questione prioritaria. Quando il Global Attitudes Project del Pew Research Center ha chiesto, in una ricerca condotta nel 2014, quale fosse "il pericolo maggiore per il mondo", ha scoperto che negli Stati Uniti e in Europa "le preoccupazioni per la disuguaglianza superano quelle per tutti gli altri pericoli". Ma se davvero vogliamo ridurre la disuguaglianza di reddito, che cosa si può fare? In quale maniera è possibile tradurre la maggiore consapevolezza pubblica in politiche e azioni che riducano effettivamente la disuguaglianza?

In questo libro, formulo proposte politiche concrete che, credo, potrebbero produrre un vero spostamento nella distribuzione del reddito in direzione di una minore disuguaglianza. Basandomi sulle lezioni della storia e gettando uno sguardo nuovo, con occhi distributivi, sugli aspetti economici sottostanti, cerco di mostrare che cosa si possa fare ora per ridurre la dimensione della disuguaglianza. Lo faccio con uno spirito ottimistico. Il mondo ha di fronte problemi gravi, ma collettivamente non siamo inermi davanti a forze che sono al di fuori del nostro controllo. Il futuro è in grandissima parte nelle nostre mani.




Il piano del libro


Il libro si divide in tre parti. La Parte prima riguarda la diagnosi. Che cosa intendiamo per disuguaglianza e qual è la sua estensione attuale? Sono esistiti periodi in cui la disuguaglianza è diminuita e, se sì, che cosa possiamo imparare da quegli episodi? Che cosa possono dirci gli economisti a proposito delle cause della disuguaglianza? Un capitolo porta all'altro, senza riassunti finali, anche se c'è un "Riepilogando fin qui" alla fine della Parte prima. La Parte seconda enuncia quindici proposte, in cui sono indicati i passi che le nazioni possono compiere per ridurre la disuguaglianza. L'insieme completo delle proposte, con cinque ulteriori "idee da perseguire", è elencato al termine della Parte seconda. Nella Parte terza, prendo in considerazione una serie di possibili obiezioni alle proposte. Si possono livellare le condizioni senza perdere posti di lavoro e senza rallentare la crescita economica? Possiamo permetterci un programma per ridurre la disuguaglianza? "La strada che ci sta davanti" riassume le proposte e quello che si può fare per realizzarle.

Il Primo capitolo prepara la scena, discutendo il significato della disuguaglianza e gettando un primo sguardo sull'evidenza empirica relativa alla sua estensione. Si parla molto di "disuguaglianza", ma si fa anche molta confusione, poiché il termine significa cose diverse per persone diverse. Si dà disuguaglianza in molte sfere dell'attività umana. Le persone non hanno tutte uguale potere politico. Le persone non sono tutte uguali davanti alla legge. Anche la stessa disuguaglianza economica, che è al centro della mia attenzione qui, è aperta a molte interpretazioni. Bisogna chiarire la natura degli obiettivi e la relazione che hanno con i valori sociali. Parliamo di disuguaglianza di opportunità o di disuguaglianza di esiti? Di quali esiti dobbiamo preoccuparci? Dobbiamo concentrarci solo sulla povertà? Davanti a dati sulla disuguaglianza, il lettore deve sempre chiedere: disuguaglianza di che cosa, fra chi? Il capitolo prosegue presentando un primo quadro della disuguaglianza economica e di come è mutata nell'arco degli ultimi cento anni. Questo serve non solo a evidenziare il motivo per cui oggi la disuguaglianza è in testa alle nostre priorità, ma anche a introdurre le dimensioni fondamentali della disuguaglianza considerata.

Uno dei temi del libro è costituito dall'importanza che ha apprendere dal passato. Può darsi sia diventato un luogo comune dire, come Santayana in The Life of Reason, che "chi non può ricordare il passato è condannato a ripeterlo", ma, alla stregua di molti luoghi comuni, contiene una gran parte di verità. Il passato ci offre sia un metro in base al quale possiamo giudicare quel che è realizzabile, sul fronte della riduzione della disuguaglianza, sia indizi su come si può realizzarlo. Per fortuna lo studio storico della distribuzione dei redditi è un'area dell'economia in cui in anni recenti sono stati fatti progressi considerevoli, e la stesura di questo libro è stata resa possibile dal grande miglioramento dei dati empirici, descritti nel Secondo capitolo, sulla disuguaglianza economica nel corso del tempo in Paesi diversi. Da questi dati si possono ricavare lezioni importanti, in particolare su come la disuguaglianza si è ridotta nei decenni successivi alla Seconda guerra mondiale in Europa. Questa riduzione della disuguaglianza si è verificata durante il conflitto, ma è stata anche il prodotto di varie forze egualizzanti, nel periodo compreso tra il 1945 e gli anni Settanta. Questi meccanismi di egualizzazione (incluse misure politiche consapevoli) in seguito hanno cessato di agire o hanno innestato la retromarcia, in quella che chiamo la "Svolta della disuguaglianza" negli anni Ottanta. Da allora la disuguaglianza è aumentata in molti Paesi (ma non in tutti, come vedremo parlando dell'America Latina).

Le forze che hanno portato a una riduzione della disuguaglianza nei decenni postbellici ci offrono una guida per progettare la politica per il futuro, ma il mondo da allora è cambiato drasticamente. Il Terzo capitolo prende in considerazione l'economia della disuguaglianza oggi. Qui, inizio dalla storia da manuale d'economia centrata sulle forze gemelle del cambiamento tecnologico e della globalizzazione, forze che rimodellano radicalmente i mercati del lavoro di Paesi ricchi e in via di sviluppo e portano a un divario crescente nella distribuzione dei salari. Poi però mi discosto dai manuali. Il progresso tecnologico non è una forza della natura, rispecchia invece decisioni sociali ed economiche. Le scelte operate dalle aziende, dagli individui e dai governi possono influire sulla direzione che prende la tecnologia e di conseguenza sulla distribuzione dei redditi. La legge della domanda e dell'offerta può porre dei limiti ai salari che possono essere pagati, ma lascia ampio spazio di movimento a considerazioni più generali. È necessaria un'analisi più ricca, che tenga conto del contesto economico e sociale. La storia raccontata dai manuali si concentra sul mercato del lavoro e non affronta invece il mercato dei capitali. Quest'ultimo, con la relativa questione della quota dei profitti sul reddito totale, in passato è stato un elemento centrale per l'analisi della distribuzione del reddito, e deve tornare a esserlo.

Dopo la diagnosi viene l'azione. La Parte seconda del libro formula una serie di proposte che nel loro insieme possono spingere le nostre società verso un livello di disuguaglianza significativamente minore. Le proposte si riferiscono a molti campi e non si limitano alla ridistribuzione fiscale, per quanto importante sia. Occorre che la riduzione della disuguaglianza divenga una priorità per tutti. Nei governi, deve stare a cuore al ministro che è responsabile della scienza così come a quello che ha la responsabilità della protezione sociale; è materia che riguarda le misure sulla concorrenza così come la riforma del mercato del lavoro. Deve essere una preoccupazione per i singoli nei loro ruoli di lavoratori, datori di lavoro, consumatori e risparmiatori, oltre che di contribuenti. La disuguaglianza è incorporata nella nostra struttura sociale ed economica, e per ottenerne una riduzione significativa bisogna prendere in esame tutti gli aspetti della nostra società.

Di conseguenza, i primi tre capitoli della Parte seconda affrontano elementi diversi dell'economia: il Quarto capitolo, il cambiamento tecnologico e le sue implicazioni distributive, compresa la relazione con la struttura del mercato e il potere di equilibrio (countervailing power); il Quinto capitolo, il mercato del lavoro e i cambiamenti nella natura dell'occupazione; il Sesto capitolo, il mercato dei capitali e la condivisione della ricchezza. In ciascun caso, il potere del mercato e la sua collocazione hanno un ruolo significativo. La distribuzione della ricchezza sarà anche diventata meno concentrata nel corso del XX secolo, ma questo non significa che vi sia stato pure un trasferimento del controllo sui processi decisionali economici. Nel mercato del lavoro gli sviluppi degli ultimi decenni, in particolare la sua maggiore "flessibilità", hanno comportato un trasferimento di potere dai lavoratori ai datori di lavoro. La crescita delle aziende multinazionali e la liberalizzazione dei commerci e del mercato dei capitali hanno rafforzato la posizione delle imprese rispetto a clienti, lavoratori e governi. Il Settimo e l'Ottavo capitolo affrontano i problemi della tassazione progressiva e del welfare state. Molte delle misure proposte, come un ritorno a una tassazione dei redditi maggiormente progressiva, sono state ampiamente discusse, ma altre sono meno scontate, come l'idea di un "reddito di partecipazione" quale base per la protezione sociale.

La risposta canonica alla domanda "Come possiamo combattere la disuguaglianza crescente?" sta nel sostenere un aumento degli investimenti nell'istruzione e nelle competenze. Dirò relativamente poco di queste misure, non perché pensi che siano poco importanti, ma perché sono state già largamente analizzate. Certamente sono a favore di tali investimenti sulle famiglie e sull'istruzione, ma vorrei mettere in luce proposte più radicali, proposte che ci impongono di ripensare aspetti fondamentali della nostra società moderna e di buttare alle ortiche alcune idee politiche che hanno dominato gli ultimi decenni. Come tali, potranno forse sembrare a prima vista stravaganti o non pratiche. Proprio per questo la Terza parte è dedicata alle possibili obiezioni e a valutare la fattibilità delle misure proposte. La contestazione più ovvia è che non possiamo permetterci le misure necessarie. Prima di arrivare all'aritmetica dei budget, però, prendo in considerazione l'obiezione più generale, quella riguardo all'esistenza di un inevitabile conflitto tra equità ed efficienza. La ridistribuzione non provoca necessariamente disincentivi? Questa discussione dell'economia del welfare e della "torta che si riduce" costituisce l'argomento del Nono capitolo. Un secondo gruppo di obiezioni alle proposte formulate è che "vanno bene, ma il grado di globalizzazione oggi significa che un Paese da solo non può avviarsi su un percorso così radicale". Questa argomentazione, potenzialmente molto seria, è discussa nel Decimo capitolo. Nell'Undicesimo capitolo arriviamo all'"aritmetica politica" delle proposte: le implicazioni che hanno per il budget dei governi, prendendo il Regno Unito come caso specifico di studio. Qualche lettore andrà a vedere quel capitolo per primo. Ho lasciato il tema per ultimo non perché creda che sia privo di importanza, ma perché l'analisi è necessariamente più specifica, in termini di luogo e tempo. I ricavi delle tasse proposte e i costi dei trasferimenti sociali dipendono dalle strutture istituzionali e da altre caratteristiche di ogni particolare Paese. Il mio obiettivo perciò è spiegare in che modo gli economisti valutano la fattibilità delle proposte, tramite l'esempio di quello che si può fare oggi nel Regno Unito. Per alcune delle proposte non è possibile eseguire simili calcoli, ma ho cercato di dare almeno un'indicazione generale di come inciderebbero sulle finanze pubbliche.




Che cosa potete aspettarvi


Il libro è il prodotto delle mie riflessioni, non solo sulle cause della disuguaglianza e sulle possibili cure, ma anche sullo stato del pensiero economico contemporaneo. Nel romanzo Cold Comfort Farm di Stella Gibboni, del 1932, l'autrice adottava (senza dubbio ironicamente) la pratica di evidenziare con asterischi "i passi migliori", per aiutare il lettore incerto "se una frase sia Letteratura o [...] solo pure sciocchezze [flapdoodle]". Avevo pensato di adattare il suo esempio e di contrassegnare i passi in cui mi allontano dall'opinione comune, in modo che i lettori che temono il "flapdoodle" potessero essere messi sull'avviso. Ho deciso alla fine di rinunciare agli asterischi, ma le deviazioni dal mainstream sono segnalate. Devo sottolineare una cosa: non è mia intenzione sostenere che le impostazioni adottate siano necessariamente superiori, ma che c'è più di un modo di fare economia. A Cambridge, in Inghilterra, e a Cambridge, nel Massachusetts, mi è stato insegnato a chiedere "Chi guadagna e chi perde?" da un cambiamento o da una misura economica. È una domanda che oggi spesso manca nelle discussioni sui media e nel dibattito politico. Molti modelli economici presuppongono agenti rappresentativi identici che mettono in atto raffinati processi decisionali, in cui i problemi di distribuzione sono eliminati e non si lascia spazio a una considerazione della giustizia dell'esito risultante. Per me, deve invece esserci la possibilità di parlarne. Non esiste una sola Economia.

Il libro si rivolge al lettore generico, interessato all'economia e alla politica. Il materiale tecnico è in gran parte confinato nelle note, e ho previsto anche un glossario di alcuni dei principali termini utilizzati. Vi sono parecchi grafici e un piccolo numero di tabelle. Le fonti dettagliate di tutti questi si possono trovare nell'elenco a fine libro. Ho sempre tenuto ben presente l'adagio di Stephen Hawking, "ogni equazione dimezza il numero dei lettori": non ci sono equazioni nel corpo del testo, perciò spero che tutti i lettori riescano ad arrivare fino all'ultima pagina.

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Pagina 13

1
La scena
[...]


Disuguaglianza di opportunità e disuguaglianza di risultati

Sentendo la parola "disuguaglianza" molti pensano subito alla possibilità di avere una "uguaglianza di opportunità". Questa espressione si trova spesso nei discorsi politici, nei programmi dei partiti e nella retorica delle campagne elettorali. È un potente invito all'azione, le cui radici affondano nella storia lontana. Nel suo classico saggio Eguaglianza, Richard Tawney sostiene che tutti devono essere "egualmente in condizione di fare l'uso migliore di quei poteri di cui dispongono". Nella letteratura economica recente, dopo il lavoro di John Roemer, fra i determinanti degli esiti economici si distinguono quelli che sono dovuti a "circostanze" al di fuori del controllo personale, quali le origini familiari, e quelli dovuti all'"impegno", di cui invece si può ritenere responsabile l'individuo. L'uguaglianza di opportunità si ottiene quando le prime variabili (le circostanze) non hanno alcun ruolo nell'esito risultante. Se qualcuno si impegna maggiormente a scuola, supera bene gli esami e si iscrive alla facoltà di Medicina, almeno una parte dei suoi guadagni elevati di medico (ma non necessariamente tutti) può essere attribuita al suo impegno. Se invece il suo accesso alla facoltà di Medicina è reso possibile dall'influenza familiare (per esempio, laddove viene data la preferenza ai figli di laureati della stessa università), allora si dà disuguaglianza di opportunità.

Il concetto di uguaglianza di opportunità è attraente, ma basta questo per dire che la disuguaglianza di esiti è irrilevante? Secondo me, la risposta a tale domanda è "no". La disuguaglianza di esiti è ancora importante, anche per quanti prendono le mosse dalla preoccupazione per un "campo di gioco livellato" (level playing field). Per comprenderne la ragione, dobbiamo cominciare con il notare la differenza fra i due concetti. La disuguaglianza di opportunità è essenzialmente un concetto ex ante (tutti devono avere un punto di partenza uguale), mentre molta dell'attività ridistributiva ha a che fare con gli esiti ex post. Quanti pensano che la disuguaglianza di esiti sia irrilevante considerano non legittima la preoccupazione per gli esiti ex post e sono convinti che, una volta preparato un campo di gioco livellato per la gara, non si deve stare a guardare quali siano gli esiti. Per me ciò è sbagliato, per tre motivi.

In primo luogo, la maggior parte delle persone troverebbe inaccettabile ignorare completamente quello che succede dopo il segnale di partenza. I singoli possono impegnarsi a fondo ma avere sfortuna. Supponiamo che qualcuno inciampi e finisca in povertà. In qualsiasi società umana gli si fornirebbe un aiuto. Inoltre, molti sono convinti che tale aiuto debba essere offerto senza stare a indagare perché quella persona si è ritrovata in difficoltà. Come notano gli economisti Ravi Kanbur e Adam Wagstaff, sarebbe moralmente ripugnante "far dipendere la distribuzione di una scodella di minestra da una valutazione, se siano state le circostanze o il suo impegno che hanno portato all'esito per cui quell'individuo [...] è in coda per avere un po' di minestra". Il primo motivo, quindi, per cui gli esiti sono importanti è che non possiamo ignorare quelli per i quali l'esito consiste in una situazione difficile, anche nel caso in cui esistesse uguaglianza di opportunità ex ante.

L'importanza degli esiti però arriva molto più in profondità e porta al secondo motivo per cui non possiamo disinteressarci dell'uguaglianza di esiti. Dobbiamo distinguere fra uguaglianza di opportunità competitiva e non competitiva. Quest'ultima garantisce che tutti abbiano le stesse possibilità di realizzare i loro progetti di vita indipendente. Per continuare con le analogie sportive, tutti possono avere l'opportunità di seguire un corso di nuoto; l'uguaglianza di opportunità competitiva significa solo che abbiamo tutti le stesse possibilità di partecipare a una gara di nuoto in cui sono in palio premi disuguali. In questo caso, che è il più comune, vi sono ricompense ex post disuguali: qui entra in gioco la disuguaglianza di esiti. È l'esistenza di una distribuzione di premi fortemente disomogenea che ci porta ad attribuire così tanto peso all'equità della gara. La struttura dei premi, poi, è in gran parte costruita socialmente. Le nostre convenzioni economiche e sociali determinano se il vincitore otterrà una corona d'alloro o tre milioni di dollari (il primo premio allo US Open di tennis nel 2014). Il modo in cui si determina la struttura dei premi è la principale preoccupazione di questo libro.

Infine, il terzo motivo per non trascurare la disuguaglianza di esiti è che essa influenza direttamente l'uguaglianza di opportunità — per la prossima generazione. Gli esiti ex post di oggi danno forma al campo di gioco ex ante di domani: chi beneficia della disuguaglianza di esiti oggi può trasmettere un vantaggio iniquo ai propri figli domani. La preoccupazione per la disuguaglianza di opportunità e per i limiti della mobilità sociale è cresciuta man mano che la distribuzione dei redditi e della ricchezza è diventata sempre più disuguale. Questo perché l'influsso della famiglia sugli esiti dipende sia dalla forza della relazione fra condizioni familiari ed esito, sia dal grado di disuguaglianza fra le condizioni familiari. La disuguaglianza di esiti nella generazione odierna è l'origine del vantaggio iniquo ricevuto dalla generazione successiva. Se ci sta a cuore l'uguaglianza di opportunità di domani, dobbiamo essere preoccupati per la disuguaglianza di esiti di oggi.

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Pagina 87

3
L'economia della disuguaglianza



Spesso gli economisti vengono accusati di essere in ritardo. Si dice che i loro modelli troppo di frequente ignorano il modo in cui il mondo cambia davanti ai nostri occhi e che sono troppo presi dalle loro preoccupazioni professionali. Come sosterrò, si possono muovere critiche valide all'economia contemporanea, ma bisognerebbe dare credito agli economisti che si sono concentrati sulla crescita della disuguaglianza e hanno identificato una serie di fattori che vi contribuiscono, fra cui:

– la globalizzazione;

– il cambiamento tecnologico (tecnologie dell'informazione e della comunicazione);

– la crescita dei servizi finanziari;

– il cambiamento delle norme retributive;

– la riduzione del ruolo dei sindacati;

– la contrazione della politica ridistributiva in materia di imposte e trasferimenti.

L'elenco fa una certa impressione, e tutti questi elementi compaiono in qualche punto del libro. Nell'identificare tali meccanismi, però, rischiamo di dare l'impressione che la disuguaglianza stia crescendo a causa di forze che sfuggono al nostro controllo. È tutt'altro che ovvio che questi fattori siano al di fuori del nostro raggio d'influenza o che siano esogeni al sistema economico e sociale. La globalizzazione è il risultato di decisioni prese da organizzazioni internazionali, governi nazionali, grandi aziende e individui, in quanto lavoratori e consumatori. La direzione in cui si muove il cambiamento tecnologico è il prodotto di decisioni prese da aziende, ricercatori e governi. Il settore finanziario può anche essere cresciuto per soddisfare le domande di una popolazione che invecchia e che ha bisogno di strumenti finanziari per gli anni della pensione, ma la forma che ha assunto e la regolamentazione del settore sono state tema di scelte politiche ed economiche.

Dobbiamo quindi sondare più a fondo e chiederci dove si collocano le decisioni fondamentali. E mia convinzione che la crescita della dísuguaglianza in molti casi possa essere fatta risalire direttamente o indirettamente a variazioni nell'equilibrio del potere. Se ho ragione, i provvedimenti per ridurre la disuguaglianza possono avere successo qualora venga messo in campo un potere di riequilibrio. Ma così stiamo bruciando le tappe: partiamo invece dal resoconto da manuale ormai invalso di come la disuguaglianza crescente sia dovuta alle forze della globalizzazione e del cambiamento tecnologico.

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Pagina 119

4
Cambiamento tecnologico e potere di equilibrio



Nel Terzo capitolo, ho descritto una semplice storia economica su come l'accumulazione di capitale e il cambiamento tecnologico si possono combinare per spiegare lo sviluppo della distribuzione macroeconomica nei decenni recenti. Vi è crescita nell'economia quando il capitale pro capite aumenta, ma la quota del capitale sul reddito nazionale aumenta a sua volta, limitando il vantaggio per chi ha solo redditi da lavoro. Questa storia è stata raccontata nei termini specifici dello sviluppo della tecnologia robotica: una gara fra la capacità crescente del capitale nudo (robot) e la produttività dei lavoratori. Per molti osservatori, i robot sono più di una metafora: stanno già vincendo. Un articolo apparso sull' Economist portava l'esempio delle automobili automatiche e sosteneva che "un tassista sarà ormai una rarità in molti luoghi negli anni Trenta o Quaranta del Duemila. Sembra proprio una cattiva notizia per i giornalisti, che si basano su quella affidabilissima fonte di informazioni e pregiudizi locali che sono i tassisti". Ma l'invenzione della tecnologia robotica, e più in generale il progresso tecnologico, non sono avvenuti per caso: rispecchiano la decisione consapevole di effettuare un tale investimento. Dobbiamo cominciare, perciò, con il chiederci come vengano prese decisioni del genere. Questo ci porta poi naturalmente alla domanda: "Chi prende le decisioni?", e ai problemi del potere di equilibrio.

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Pagina 122

La Stato come investitore nel progresso tecnologico

La politica pubblica può avere un ruolo significativo nell'influenzare la natura del cambiamento tecnologico e quindi la direzione futura dei redditi di mercato. Questo ci porta alla prima delle raccomandazioni su come si possa invertire la crescita della disuguaglianza:

Proposta 1: La direzione del cambiamento tecnologico deve essere una preoccupazione esplicita della politica; va incoraggiata l'innovazione in una forma che aumenti l'occupazione, mettendo in rilievo la dimensione umana della fornitura di servizi.

Non basta dire che la crescita della disuguaglianza è dovuta a forze tecnologiche al di fuori del nostro controllo. Il governo può avere un'influenza sulla strada che viene imboccata. Cosa ancora più importante, questa influenza viene esercitata da componenti del governo che normalmente non sono associate a questioni di giustizia sociale. Un governo che voglia ridurre la disuguaglianza deve coinvolgere infatti tutti i dicasteri.

Il primo dei mezzi per raggiungere questo fine è il finanziamento della ricerca scientifica. Il ruolo fondamentale del finanziamento pubblico è illustrato dall'esempio dell'iPhone negli Stati Uniti, il cui sviluppo è dipeso "da sette o otto conquiste scientifiche e tecnologiche fondamentali, come il GPS, gli schermi multi-touch, i visualizzatori a LCD, le batterie agli ioni di litio e le reti cellulari [...]. Tutte queste conquiste sono venute da ricerche sostenute dal governo federale [...]. Alla Apple va il merito del prodotto finale, ma questo dipende dalla ricerca sponsorizzata dal governo". La vicenda della Apple è stata studiata a fondo da Mariana Mazzucato nel suo libro, Lo Stato innovatore.

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Pagina 190

[TASSAZIONE PROGRESSIVA]



[...]

Un esempio specifico di ricaduta negativa è dato dalla remunerazione dei manager. In passato, con aliquote d'imposta marginali elevate, i grandi dirigenti non vedevano molto vantaggio nel negoziare retribuzioni più elevate; cercavano magari fringe benefits non tassati o indulgevano in sprechi aziendali, ma forse preferivano reinvestire i profitti per garantire un'espansione più rapida delle loro aziende. I tagli alle aliquote più alte negli anni Ottanta hanno fatto sì invece che essi riorientassero nuovamente i loro sforzi ad aumentare la propria remunerazione o i propri bonus, e ne hanno fatto le spese gli azionisti. Perciò, all'aumento dei guadagni dei manager vanno contrapposte le cifre più basse pagate agli azionisti, che, se sotto forma di dividendi più bassi, significano minor gettito fiscale. Questo è un esempio concreto dell'effetto della negoziazione identificato da Thomas Piketty, Emmanuel Saez e Stefanie Stantcheva, i quali mostrano come, se si tiene conto di tale fattore, l'aliquota massima che massimizza il gettito sia significativamente più elevata, specificamente l'83%, al posto del 56,6% da cui siamo partiti.

Infine, credo si debba assumere uno sguardo più ampio sugli obiettivi sociali, andando al di là della massimizzazione del gettito. Ciò potrebbe portarci molto lontano, ma ora voglio sollevare una considerazione rimasta fin qui assente: il concetto di "equità" applicato alla tassazione. Si lamenta spesso che la tassazione non è "equa". Le aliquote d'imposta non sono solo questione di incentivi: anche il modo in cui varia il totale in busta paga in conseguenza di un aumento di retribuzione viene giudicato in termini di equità intrinseca. L'equità comporta un collegamento percepibile fra impegno e ricompensa: le persone meritano di conservare almeno una porzione ragionevole di quello che guadagnano lavorando più ore o con una responsabilità maggiore o grazie a un secondo lavoro. Si è parlato a questo proposito, in termini un po' drammatici, di "trappola della povertà", per cui le persone con bassi redditi non sono in grado di migliorare la propria condizione perché un aumento dei loro guadagni non solo fa sì che paghino più imposte ma anche che perdano benefici legati al reddito. Sulla parte ulteriore di reddito devono affrontare un'aliquota marginale implicita elevata. È l'aliquota d'imposta marginale perché si applica al reddito aggiuntivo; non è la stessa cosa dell'aliquota media, che è il totale dell'imposta diviso per il reddito totale. Le obiezioni alla trappola della povertà sono che non solo scoraggia il lavoro (e i risparmi), ma permette anche alle persone di trattenere poco dei loro guadagni in più. È iniquo.

Simili preoccupazioni per l'equità valgono molto in generale; non riguardano solo la trappola della povertà, ma tutto lo spettro dei redditi. Un'aliquota marginale massima equa (in termini di quello che le persone si ritrovano in tasca come risultato di un impegno ulteriore) dovrebbe essere uguale per tutti. L'applicazione di questo principio suggerisce un criterio alquanto diverso per l'aliquota massima: che l'aliquota marginale in cima alla distribuzione dei redditi deve essere identica a quella applicata al fondo della scala. Nel Regno Unito, il governo sta introducendo il nuovo Universal Credit (un programma di trasferimento per le famiglie a basso reddito, basato sulla valutazione della condizione economica) con l'intento dichiarato di limitare il tasso di prelievo al 65%.




La proposta per le aliquote dell'imposta sui redditi


Queste considerazioni, e l'ultima in particolare, mi portano a proporre un'aliquota massima per i redditi più elevati delle persone fisiche nel Regno Unito pari al 65%. Questo rappresenterebbe un aumento notevole rispetto all'attuale (2015) aliquota massima del 45%, ma non elevato secondo gli standard storici. Il Regno Unito ha avuto un'aliquota massima del 65% o superiore per quasi metà degli ultimi cento anni e per più di metà di quegli anni il primo ministro è stato un conservatore. Un'aliquota specifica del 65% magari non è applicabile direttamente in altri Paesi, ma sono pertinenti fattori analoghi. Lo stesso vale per la definizione della scala che porta all'aliquota per i redditi più alti. Qui dobbiamo considerare la finalità di aliquote marginali elevate. Per molti anni, le aliquote marginali elevate per i redditi più alti sono state viste come un carattere distintivo di una politica fiscale progressista. Tuttavia, l'analisi matematica della tassazione avviata da William Vickrey e James Mirrlees ha evidenziato che, se i decisori politici sono interessati alla distribuzione del reddito dopo le imposte, la finalità delle aliquote marginali elevate è aumentare l'aliquota media pagata dalle persone con i redditi più alti. L'aliquota media per una persona è pari al rapporto fra l'ammontare dell'imposta versata e il reddito totale, e dipende non dall'aliquota marginale che la riguarda, ma dalle aliquote marginali sui gradini inferiori della scala. Ciò significa che, per aumentare l'aliquota media di chi sta meglio, devono aumentare le aliquote marginali sui gradini inferiori della scala dei redditi. Per il caso specifico del Regno Unito, le aliquote marginali proposte nell'Undicesimo capitolo partono dal 25% (20% sui redditi da lavoro) e salgono, per incrementi di dieci punti percentuali, fino a raggiungere il 65%.

Proposta 8: Dobbiamo tornare a una struttura di aliquote più progressiva per l'imposta sui redditi delle persone fisiche, con aliquote marginali crescenti per scaglioni di reddito imponibile, fino a un'aliquota massima del 65%, il tutto accompagnato da un ampliamento della base imponibile.

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Pagina 197

Imposte di successione e proprietà immobiliari


La ricchezza può essere tassata su base periodica, per esempio con un'imposta patrimoniale annuale, o al momento della sua trasmissione, come con le imposte pagate sul patrimonio di una persona quando questa muore, ma includendo anche i trasferimenti fra persone in vita, le cosiddette donazioni inter vivos. Comincio con il considerare l'imposizione nel momento in cui la ricchezza viene trasmessa, tema su cui esistono punti di vista molto radicali. Vi è chi è incline ad abolire le imposte sul patrimonio, e in effetti negli Stati Uniti è stata approvata una legge che ha abolito questo tributo per il 2010 (poi è stato reintrodotto). Altri sono convinti che, con la crescita dell'eredità, l'imposizione sui trasferimenti di ricchezza debba contribuire in misura maggiore al bilancio pubblico.

[...]

Le attuali forme di imposte di successione sono impopolari, e l'obiettivo della mia proposta è cambiare la mentalità con cui questa tassa viene considerata. L'elemento fondamentale della proposta è che le persone vengano tassate sulla ricchezza ricevuta anziché su quella lasciata, come accade nel sistema attuale: un tributo sul dare verrebbe convertito in un tributo sul ricevere. (Lo stesso varrebbe se ciò che viene ereditato fosse soggetto all'imposta sui redditi.) Con una struttura di aliquote progressive, questo passaggio darebbe un incentivo diretto a disperdere maggiormente la ricchezza. Le persone potrebbero trasferire la loro ricchezza esentasse se la lasciassero a persone che hanno ricevuto poco fino a quel punto. In tal modo, contribuirebbero a ridurre sia la disuguaglianza di genere sia quella fra generazioni. Cosa della massima importanza, la nuova imposta sarebbe palesemente orientata a cercare di garantire un campo di gioco più livellato e quindi a contribuire alla riduzione della disuguaglianza di opportunità – un obiettivo che, come abbiamo visto nel Primo capitolo, gode di ampio sostegno.

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Pagina 220

Vi è inoltre una seconda differenza cruciale fra i due tipi di schemi: la strategia del Child Benefit continuerebbe a generare trasferimenti alle famiglie con figli a tutti i livelli di reddito. Ciò significa che dobbiamo prendere in considerazione anche questioni di equità, non solo fra ricchi e poveri, ma anche fra quanti hanno figli e quanti non ne hanno. Dobbiamo esaminare come sono valutate nella nostra società le famiglie con e senza figli, un aspetto che non viene discusso nelle analisi tradizionali dell'economia. A parità di ogni altra cosa, dobbiamo dunque attribuire un valore maggiore alla sterlina ricevuta dalla persona con un figlio che a quella ricevuta da una persona senza figli? Qualcuno direbbe "no", argomentando che avere figli oggi è una "scelta di stile di vita" e che il genitore non deve essere trattato in modo diverso rispetto a chi ha fatto un'altra scelta. Per chi esprime questo giudizio, non erogare il Child Benefit a quanti hanno redditi superiori sarebbe la politica preferita dal punto di vista distributivo, poiché verrebbe tolto reddito a coloro che in media stanno meglio. Questa concezione della "scelta di stile di vita", però, non attribuisce alcun peso al benessere del bambino e molti lo considererebbero inaccettabile. Sicuramente i bambini devono contare, a buon diritto, nei nostri giudizi sociali. Una persona singola con un figlio deve contare come due persone. La concezione della scelta dello stile di vita va contro la pratica, ampiamente adottata nelle analisi distributive, di normalizzare il reddito familiare tenendo conto delle differenze di composizione delle famiglie, come abbiamo visto nel Primo capitolo. I bambini sono qui oggi e devono contare oggi – oltre a essere una componente importante del futuro. Questa considerazione è ulteriormente rafforzata dalla domanda di equità intergenerazionale. Nel complesso, tutte queste osservazioni dicono che devono esserci trasferimenti alle famiglie con figli, a tutti i livelli di reddito.

L'idea che "i figli devono contare" sicuramente affiora nel dibattito pubblico. In un articolo di giornale sui motivi per cui le famiglie hanno un solo figlio, una madre in Inghilterra, con un reddito troppo alto per godere dell'attuale Child Benefit, diceva: "Noi sentiamo di essere penalizzati dal governo. Non riceviamo alcun aiuto. Nessun assegno per i figli, nessun credito sulle tasse, niente ore libere per la cura dei figli, niente. Dobbiamo cavarcela con quello che abbiamo". Avrebbe potuto dire anche che il Child Benefit ha un'importante dimensione di genere. Uno degli obiettivi dei trasferimenti sociali è compensare lo svantaggio che hanno molte madri nel mercato del lavoro. Quando nel Regno Unito è stato introdotto il Child Benefit, l'intento esplicito di quell'intervento era di aiutare le donne, rendendo quel beneficio erogabile in primo luogo alla madre. Il Child Benefit garantisce una fonte indipendente di reddito per la madre, in un modo che non può essere riprodotto da un beneficio dipendente dal reddito e basato sul reddito congiunto di una coppia.

Per tutti questi motivi, credo che il Child Benefit, pagato per tutti i bambini, ma imponibile, e in misura sufficiente a portare un contributo significativo alla riduzione della povertà infantile, debba avere un ruolo essenziale in qualsiasi strategia per ridurre la disuguaglianza.

Proposta 12: Deve essere pagato un assegno familiare per tutti i figli, in misura sostanziale, che vada soggetto a imposta come reddito.




Reddito minimo


E gli adulti? Anche loro potrebbero ricevere un reddito minimo o, come viene più spesso chiamato oggi, un reddito di cittadinanza. Nella versione di cui si parla spesso (ma che non difendo qui), il reddito di cittadinanza verrebbe attribuito su base individuale, con un'eventuale differenziazione in base all'età o a condizioni di disabilità o di salute. Non sarebbe in relazione con lo status nel mercato del lavoro e non dipenderebbe da contributi di sicurezza sociale (che verrebbero aboliti). Non sarebbe in rapporto al reddito, ma tutto il reddito sarebbe soggetto all'imposta sui redditi delle persone fisiche e verrebbero aboliti gli sgravi personali. Nella sua forma pura, il reddito di cittadinanza sostituirebbe tutti i trasferimenti sociali esistenti: non ci sarebbero più previdenza sociale né benefici legati alla condizione economica. (Sarebbero necessarie norme per regolare la transizione; per esempio, onorare i diritti alla pensione maturati in precedenza.)

Un'idea di questo genere si è guadagnata sostegno politico. Nella sua campagna elettorale del 1972 per le presidenziali degli Stati Uniti, George McGovern propose un demogrant (un reddito minimo) annuale di 1000 dollari, finanziato da un'imposta sul reddito con un'ampia base. Si racconta che abbia fatto il suo annuncio mentre era in viaggio per la sua campagna, prima di tornare a casa e chiedere al suo consigliere economico quale aliquota d'imposta sarebbe stata necessaria. Il consigliere, James Tobin (che abbiamo già citato), si dice abbia risposto che, se serve un'aliquota d'imposta dello x per cento per finanziare il resto del governo, un reddito minimo pari allo y per cento del reddito medio significa che l'aliquota d'imposta deve essere (x + y). Ho promesso di non scrivere formule matematiche nel testo, ma l'espressione (x + y) coglie bene il rapporto costi-benefici che si deve affrontare quando si progetta un reddito minimo. Significa che, se serve un'aliquota d'imposta del 20% per finanziare altre iniziative di governo, un'aliquota forfettaria del 33 e 1/3% finanzierebbe un reddito minimo pari al 13 e 1/3% del reddito medio, il che sembra tutt'altro che adeguato a sostituire i trasferimenti sociali esistenti. Anche un'aliquota forfettaria del 50% finanzierebbe soltanto un reddito minimo pari al 30% di quello medio.




Reddito di partecipazione


Il crudo rapporto costi-benefici fra reddito minimo e livello di imposizione fiscale ha portato alla ricerca di varianti dell'idea semplice di reddito minimo. Propongo una versione del reddito di cittadinanza che si distingue da quella tratteggiata sopra per due aspetti. In primo luogo, perché andrebbe a complemento dei trasferimenti sociali esistenti, anziché sostituirli. Un pensionato che riceve una pensione statale si vedrebbe accreditato tra i due l'importo più alto: quello della pensione o quello del reddito di cittadinanza. Un pensionato che riceve anche un credito pensionistico (pension credit) basato sul reddito non avrebbe alcun guadagno, a meno che il reddito di cittadinanza sia sufficiente a ridurre il credito pensionistico a zero. Nel caso di una coppia di pensionati, il credito verrebbe calcolato tenendo conto del reddito di cittadinanza totale ricevuto. Il reddito minimo verrebbe pagato nella stessa misura per tutti gli adulti, ma incorporerebbe integrazioni in caso di disabilità o di altre condizioni particolari. Il reddito di partecipazione sostituirebbe tutti gli sgravi fiscali personali tranne lo "sconto sul reddito da lavoro" (se introdotto in base alla Proposta 9), cosicché tutto il reddito sarebbe soggetto all'imposta sui redditi.

In secondo luogo, quello che viene proposto è un beneficio da erogare non sulla base della cittadinanza ma della "partecipazione" e per questo lo definisco "reddito di partecipazione" (RP). Definirei genericamente la "partecipazione" come l'apporto di un contributo sociale, che per quanti sono in età lavorativa potrebbe essere soddisfatto da un lavoro dipendente o autonomo a tempo pieno o parziale, dall'istruzione, dalla formazione o da una ricerca attiva di occupazione, dalla cura domestica di bambini piccoli o di anziani non autosufficienti o dal volontariato regolare presso un'associazione riconosciuta. Vi sarebbero conferimenti per quanti non sono in grado di partecipare per ragioni di malattia o di disabilità. Il concetto di contributo sarebbe esteso, tenendo conto di tutta la gamma delle attività in cui una persona è impegnata. Rispecchiando le caratteristiche del mercato del lavoro del XXI secolo, descritte nel Quinto capitolo, la definizione di partecipazione includerebbe anche le persone che hanno un portafoglio di attività che copre, poniamo, una settimana di trentacinque ore; e le persone potrebbero avere i requisiti per frazioni di tale periodo.

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Proposte per ridurre l'estensione
della disuguaglianza



Nella Parte seconda, ho avanzato quindici proposte di misure che, credo, ridurrebbero sostanzialmente l'estensione della disuguaglianza:

Proposta 1: La direzione del cambiamento tecnologico deve essere una preoccupazione esplicita della politica; va incoraggiata l'innovazione in una forma che aumenti l'occupazione, mettendo in rilievo la dimensione umana della fornitura di servizi.

Proposta 2: La politica pubblica deve mirare a un equilibro appropriato di poteri fra gli stakeholder, e a questo fine deve (a) introdurre una dimensione distributiva esplicita nelle regole della concorrenza, (b) garantire un quadro giuridico di riferimento che consenta ai sindacati di rappresentare i lavoratori a pari diritti e (c) formare, ove già non esista, un Consiglio sociale ed economico che coinvolga le parti sociali e altri organismi non governativi.

Proposta 3: Il governo deve adottare un obiettivo esplicito per prevenire e ridurre la disoccupazione e deve sostenere tale obiettivo offrendo un impiego pubblico garantito a salario minimo a quanti lo cercano.

Proposta 4: Deve esistere una politica salariale nazionale, fondata su due elementi: un salario minimo legale fissato a livello di salario vitale e un codice di buone pratiche per le retribuzioni al di sopra del minimo, concordato nell'ambito di una "conversazione nazionale" che coinvolga il Consiglio sociale ed economico.

Proposta 5: Il governo deve offrire, attraverso buoni di risparmio nazionali, un tasso di interesse reale positivo garantito sui risparmi, prevedendo un tetto massimo per persona.

Proposta 6: Deve esistere una dotazione di capitale (eredità minima) assegnata a tutti all'ingresso nell'età adulta.

Proposta 7: Deve venire creata una Autorità di investimento pubblica, che gestisca un fondo patrimoniale sovrano al fine di accrescere il patrimonio netto dello Stato con investimenti in aziende e proprietà immobiliari.

Proposta 8: Dobbiamo tornare a una struttura di aliquote più progressiva per l'imposta sui redditi delle persone fisiche, con aliquote marginali crescenti per scaglioni di reddito imponibile, fino a un'aliquota massima del 65%, il tutto accompagnato da un ampliamento della base imponibile.

Proposta 9: Il governo deve introdurre nell'imposta sui redditi delle persone fisiche uno "sconto sui redditi da lavoro", limitato alla prima fascia di retribuzione.

Proposta 10: Eredità e donazioni inter vivos devono essere soggette a un'imposta progressiva sugli introiti da capitale nell'arco della vita.

Proposta 11: Deve esistere un'imposta proporzionale, o progressiva, sugli immobili, basata su una valutazione catastale aggiornata.

Proposta 12: Deve essere pagato un assegno familiare per tutti i figli, in misura sostanziale, che vada soggetto a imposta come reddito.

Proposta 13: Deve essere introdotto a livello nazionale un reddito di partecipazione, a complemento della protezione sociale esistente, con la prospettiva di un reddito di base per i figli a livello di Unione Europea.

Proposta 14 (alternativa a 13): Deve darsi un rinnovamento della previdenza sociale, con un innalzamento del livello dei benefici e un'estensione della sua copertura.

Proposta 15: I Paesi ricchi devono innalzare il loro obiettivo per l'assistenza ufficiale allo sviluppo, portandolo all'1% del reddito nazionale lordo.


Accanto a queste proposte, vi sono varie possibilità da esplorare ulteriormente:

Idea da perseguire: una revisione approfondita dell'accesso al mercato del credito per le famiglie, al fine di contrarre prestiti non garantiti da ipoteca sulla casa.

Idea da perseguire: esame della possibilità di un trattamento "basato sull'imposta sui redditi" dei contributi per le pensioni private, in modo analogo agli attuali schemi di risparmio "privilegiato", che anticiperebbe il pagamento delle imposte.

Idea da perseguire: un riesame della possibilità di un'imposta patrimoniale annuale e dei prerequisiti per una sua efficace introduzione.

Idea da perseguire: un regime fiscale globale per i contribuenti individuali, basato sulla ricchezza totale.

Idea da perseguire: un'imposta minima per le società.


Ho avanzato un programma per l'azione. È un pacchetto unico? No, nel senso che non è necessario liquidare tutte le proposte se si trova qualche elemento inaccettabile o non fattibile. Ma anche sì, in due sensi. In primo luogo, vi sono delle interdipendenze. Alcune misure saranno più efficaci se accompagnate da altre parti del programma. La tassazione dei benefici è un dispositivo mirato più efficace se affiancato a una struttura di aliquote per le imposte sui redditi tale che le aliquote marginali crescano con il reddito, come proposto qui. Il funzionamento effettivo del Consiglio sociale ed economico proposto a (4) sarebbe più facile se la posizione giuridica dei sindacati venisse rafforzata in base a (2). In secondo luogo, vi è un'ammissione di ignoranza. Abbiamo una buona idea dei meccanismi che hanno portato all'aumento della disuguaglianza, ma siamo ben lontani dall'aver capito per certo quale sia il contributo relativo di ciascuno. Se vogliamo fare qualche progresso, non possiamo affidarci a un unico approccio.

Qualcuno però obietterà che "non si può fare" o che "non possiamo permettercelo". Affronto queste obiezioni nella Parte terza del libro.

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La globalizzazione impedisce l'azione?



In questo libro ho avanzato alcune proposte per ridurre la disuguaglianza nei Paesi dell'OCSE. Un'obiezione facile è: "Va bene, ma viviamo in un mondo che ci impedisce di imboccare una strada simile". Potremmo aver avuto ambizioni di questo genere in passato, ma oggi una distribuzione più equa del reddito è un lusso che non possiamo permetterci in un'economia globalizzata, perché se un Paese dovesse incamminarsi su quella strada non sarebbe più competitivo sui mercati mondiali. Anche se la torta nazionale non dovesse diventare più piccola, dobbiamo far fronte a vincoli esterni. In base a questa concezione, il welfare state, la tassazione progressiva, l'idea di politiche salariali e un obiettivo di pieno impiego vengono tutti relegati alla storia; non hanno posto nel XXI secolo. Esistono in realtà due versioni (apparentate, ma diverse) di tale obiezione alle proposte. La prima riguarda la capacità dei Paesi dell'OCSE (o dell'Unione Europea) nel loro complesso di perseguire politiche simili, di fronte alla concorrenza del mondo di nuova industrializzazione. La seconda riguarda la libertà di manovra che possono avere i singoli Paesi, nell'adottare misure di ridistribuzione e di miglioramento della spesa sociale, se altri Paesi dell'OCSE continuano a seguire le loro politiche attuali, senza alcun cambiamento.

Sono preoccupazioni reali, e le prendo sul serio. Sarebbe in effetti insensato liquidare questa obiezione, visto che sappiamo così poco su come si andrà sviluppando il mondo. Se avessi scritto questo libro dieci anni fa, le prospettive dell'economia globale sarebbero apparse molto diverse da quelle del 2015. Esistono grandi forze che potenzialmente influenzano l'economia mondiale, in particolare il cambiamento climatico e le relazioni politiche con Cina e Russia, che le mie competenze non mi consentono di valutare. Presento però tre ragioni per cui non sono totalmente pessimista riguardo al nostro futuro economico. La prima è che uno degli elementi fondamentali delle misure proposte, il welfare state, ha avuto origine in Europa nel periodo della globalizzazione del XIX secolo. Lascia un po' perplessi perciò che l'attuale periodo di globalizzazione debba produrre una risposta contraria, che ci spinga a smantellare il welfare state anziché, come ho sostenuto qui, a rafforzarlo in reazione al crescere della disuguaglianza. La forma assunta oggi dalla globalizzazione può essere diversa, ma le conseguenze per l'occupazione e i salari sono simili. La seconda ragione di ottimismo è che i Paesi non sono semplici agenti passivi di fronte agli sviluppi del mondo. Un tema centrale di questo libro è che è sbagliato vedere la forte disuguaglianza di oggi come il prodotto di forze su cui non abbiamo alcun controllo, e lo stesso vale per la globalizzazione. La terza ragione è che sono moderatamente ottimista sulle potenzialità della cooperazione internazionale.




Il welfare state nella storia


La globalizzazione non è una novità. La voce relativa di Wikipedia (in inglese) ci ricorda che "il XIX secolo ha visto il sorgere della globalizzazione in una forma che si avvicina a quella moderna. L'industrializzazione ha consentito la produzione a basso costo di oggetti domestici sfruttando economie di scala, mentre la rapida crescita della popolazione ha creato una domanda intensa di beni di consumo". Quel che vorrei sottolineare è che lo stesso periodo ha visto l'emergere di una delle istituzioni fondamentali, il welfare state europeo, la cui sopravvivenza si dice sia minacciata dalla globalizzazione di oggi.

È stato lo sviluppo della moderna relazione di lavoro subordinato, con la Rivoluzione industriale, a generare le pressioni da cui sono nate le istituzioni fondamentali della protezione sociale. L'occupazione in campo industriale ha fatto sì che molti lavoratori si trovassero ad affrontare una situazione in cui disoccupazione, malattia o pensionamento significavano una perdita totale di reddito. Verso la fine del XIX secolo, o agli inizi del XX, questo ha portato alla creazione dell'indennità di disoccupazione, dell'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro, della tutela contro le malattie e delle pensioni di anzianità. Questi nuovi schemi fornivano una copertura contro i rischi che nel mondo industriale correvano i lavoratori, i quali potevano trovarsi all'improvviso senza mezzi di sostentamento, o per cattiva sorte personale (come nel caso di un infortunio sul lavoro) o in conseguenza di una crisi economica generale. In Germania, nazione che ha aperto la strada, i motivi che hanno portato all'introduzione del sistema bismarckiano di previdenza sociale erano numerosi: fra gli altri, la necessità di mantenere la stabilità politica e sociale davanti alla crescita delle organizzazioni dei lavoratori e alla diffusione delle idee socialiste. Un fattore significativo però era anche il bisogno di protezione sociale che nasceva dalla precarietà dell'occupazione, quando l'Europa era esposta a una concorrenza più forte, nel periodo della globalizzazione dal 1870 al 1914.

Vanno evidenziate le origini del welfare state moderno in questo periodo di globalizzazione antecedente la Prima guerra mondiale, perché a volte si pensa che il welfare state sia nato invece nel periodo fra le due guerre. È vero che negli Stati Uniti l'assicurazione per gli anziani e per i veterani è stata creata negli anni Trenta con Franklin Roosevelt, il trentaduesimo presidente, e non con Theodore Roosevelt, il ventiseiesimo (1901-1909). È vero che le spese per i diversi programmi europei di sicurezza sociale sono molto cresciute nel periodo fra le due guerre. Ma tanti degli schemi erano stati introdotti prima del 1914, e lo si può vedere nella Tabella 10.1. Come descriveva un osservatore americano, vi era stato un "rapido sviluppo del complesso corpus legislativo relativo alla previdenza sociale in Europa. [...] Dalle gelide sponde della Norvegia fino al clima soleggiato dell'Italia, dagli estremi confini orientali fino alla Spagna, tutta l'Europa, germanica, sassone, latina o slava che sia, segue lo stesso percorso. [...] Il movimento per la previdenza sociale è uno dei movimenti mondiali più importanti dei nostri tempi". Sono parole scritte nel 1913.

Sottolineo la cronologia perché l'introduzione dei programmi di welfare state in Europa va vista come complementare, e non in concorrenza con il raggiungimento di obiettivi economici. Nei primi tempi del welfare state europeo, le politiche sociali ed economiche erano viste come orientate nella stessa direzione. Questa concezione è rimasta viva per vari decenni. Quando, nel Regno Unito, Beveridge ha formulato il suo piano del 1942 per la sicurezza sociale del dopoguerra, ha collaborato con Keynes per avere la certezza che la politica macroeconomica e quella sociale operassero concordemente, in particolare per quanto riguarda il ruolo dei trasferimenti sociali come stabilizzatori automatici. Negli Stati Uniti, Moses Abramovitz ha affermato che "il sostegno ai minimi di reddito, all'assistenza sanitaria, alla previdenza sociale, e ad altri elementi del welfare state, è stato [...] un componente del processo stesso di crescita della produttività".

Solo in seguito, negli anni Ottanta e Novanta, la concezione predominante è mutata e la protezione sociale ha finito per essere vista come un ostacolo, invece che come un complemento, alla performance economica.

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La strada che ci sta davanti



Questo libro è stato scritto per cercare di rispondere alla domanda: se vogliamo ridurre l'estensione della disuguaglianza, come possiamo fare? I motivi per affrontare la disuguaglianza sono molti. Se riduciamo la disuguaglianza di esiti economici, questo contribuisce a garantire l'uguaglianza di opportunità, che è considerata una caratteristica fondamentale di una società democratica moderna. Mali sociali come la criminalità e le cattive condizioni sanitarie sono attribuiti alla natura estremamente disuguale delle società di oggi. Ciò costituisce un motivo strumentale per cercare di raggiungere livelli inferiori di povertà e disuguaglianza, e lo stesso si può dire a proposito del timore che livelli estremi di disuguaglianza siano incompatibili con una democrazia funzionante. Ci sono poi quelli che, come me, credono che i livelli attuali di disuguaglianza economica siano intrinsecamente in contraddizione con l'idea di una società buona. Quali che siano i motivi di preoccupazione, resta l'interrogativo: come si può ottenere una riduzione significativa della disuguaglianza?

L'obiettivo è delineare dei percorsi per andare avanti, non indicare la destinazione finale. Non ho cercato di descrivere uno stato ultimo desiderabile per la nostra società: questo libro non è un saggio sull'utopia. Mostra, invece, direzioni di movimento per quanti hanno a cuore la riduzione della disuguaglianza e prende l'avvio dall'attuale stato della società. Woodrow Wilson, nel suo primo discorso d'insediamento come presidente degli Stati Uniti nel 1913, diceva che "dovremo affrontare il nostro sistema economico così com'è e per come può essere modificato, non per come potrebbe essere se avessimo un foglio bianco su cui scrivere".

I passi da compiere sono in relazione con i motivi per cui le società sono così disuguali e la disuguaglianza è aumentata negli ultimi decenni. Perché a partire dal 1980 si è verificata una "Svolta della disuguaglianza"? Nel cercare di applicare gli strumenti della scienza economica per dare una risposta, ho sottolineato la necessità di collocare al centro dell'analisi i problemi distributivi. Non è una posizione di moda fra gli economisti, ma credo sia essenziale non solo per capire davvero la disuguaglianza, ma anche per spiegare il funzionamento dell'economia e per affrontare le grandi sfide politiche che ci attendono oggi. Ha poco senso supporre che il mondo consista di persone identiche, con le stesse risorse e gli stessi interessi, se dobbiamo confrontarci con i problemi dell'equilibro fiscale, dell'invecchiamento delle popolazioni, del cambiamento climatico e degli squilibri internazionali. Tenere conto della dimensione distributiva è necessario, se vogliamo mettere in rapporto i grandi numeri della politica economica (come il PIL) con l'esperienza reale dei singoli cittadini.

Il taglio adottato in questo libro è diverso da quello di gran parte dell'economia mainstream, proprio perché pone i problemi distributivi al centro della scena. Mette l'accento sui seguenti elementi:

– Per comprendere la disuguaglianza, dobbiamo esaminare tutti gli aspetti delle nostre società, come sono oggi e come sono evoluti in passato.

- È meglio interpretare la documentazione storica in termini di episodi, anziché di tendenze di lungo periodo, e possiamo imparare una serie di cose dai periodi in cui la disuguaglianza si è ridotta.

- I passi in direzione di una minore dimensione della disuguaglianza si compiono per mezzo di cambiamenti nei redditi di mercato, così come attraverso le imposte e la spesa.

- Le fonti della disuguaglianza crescente sono da ricercare sia nel mercato dei capitali sia in quello del lavoro; non si tratta solo del fatto che vengano sempre più premiate le qualifiche derivanti dall'istruzione.

- Il potere del mercato ha un ruolo importante e dobbiamo analizzare la sede dei processi decisionali e il campo d'azione di un potere di equilibrio.

– Il mondo cambia sotto aspetti significativi, in particolare nella natura dell'occupazione e nella relazione fra patrimonio (come fonte di reddito) e capitale (come fonte di controllo).

La cosa fondamentale è che non accetto l'idea secondo cui la crescita della disuguaglianza sia inevitabile: non è il prodotto esclusivamente di forze che stanno al di fuori del nostro controllo. Esistono passi che possono essere intrapresi dai governi, singolarmente o collettivamente, da aziende, da sindacati e organizzazioni dei consumatori e da noi tutti in quanto individui, per ridurre i livelli attuali di disuguaglianza.




Le proposte


Come ho spiegato inizialmente, non ho discusso di investimenti in istruzione e formazione, che considero importanti e complementari alle misure proposte qui. Mi sono concentrato invece su proposte che sono state meno analizzate e che sono più radicali. Riepilogo qui le quindici proposte:

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Come fare progressi


Deve esserci la voglia di agire, e questo richiede una leadership politica. L'interrelazione fra disuguaglianza e politica è cruciale. Un motivo strumentale importante per essere preoccupati della disuguaglianza economica è che le concentrazioni di ricchezza e di reddito portano con sé potere e influenza politica. Mark Hanna, senatore americano del XIX secolo, ha fatto un'affermazione che viene spesso citata: "Esistono due cose importanti in politica. La prima è il denaro, la seconda non riesco a ricordare cosa sia". La crescita della disuguaglianza dopo il 1980 ha rafforzato l'opposizione alla ridistribuzione e dato vigore al sostegno di certe politiche economiche, come la liberalizzazione dei mercati, che contribuiscono alla disuguaglianza: è in atto un processo cumulativo. I lettori forse avranno l'impressione che abbia dedicato troppo poca attenzione alla politica. Questo non è perché sottovaluti in alcun senso l'importanza del nesso disuguaglianza/politica. Il mio obiettivo però era concentrarmi sul modo particolare in cui è stato formulato il messaggio politico, ossia l'idea corrosiva che non ci sia nulla da fare: che non esista alternativa agli attuali elevati livelli di disuguaglianza. È un'idea che respingo. Sono esistiti in passato, e non solo in tempi di guerra, periodi in cui sono state conseguite riduzioni significative della disuguaglianza e della povertà. Il XXI secolo è diverso, in particolare per la natura del mercato del lavoro e per la globalizzazione dell'economia, ma mentre guardiamo al futuro possiamo imparare dalla storia.

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