Copertina
Autore Nello Barile
Titolo La mentalità neototalitaria
EdizioneApogeo, Milano, 2008, Giochi di parole 8 , pag. 136, cop.fle., dim. 12x19,5x1 cm , Isbn 978-88-503-2720-1
LettoreGiorgia Pezzali, 2008
Classe sociologia , politica , comunicazione , marketing , paesi: Italia
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Indice


Premessa                                         1

Lo scontro delle inciviltà                      21

Dalla Terza via alla "guerra degli uguali"      33

Presidenti operai                               43

Marche globali contesti locali                  51

Mamme in carriera                               61

La moda e il lusso neototalitari                69

Bobos (o la classe creativa va) in Paranoia     77

Cose da Pacs                                    85

Buongiorno! Il multilevel marketing
alla conquista della vita quotidiana            93

Contro l'ideologia turistica
e l'economia delle esperienze                  103

Revival e trionfo dell'estetica pornografica   111

Grano rosso sangue                             125


 

 

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Premessa


Quale relazione intercorre tra i nuovi modi di combattere la guerra globale, le campagne comunicative delle marche più spregiudicate, lo stile politico informale di Berlusconi, l'impraticabile ideale della mamma in carriera, il sogno di una famiglia omosessuale, il trionfo dell'estetica pornografica, l'ideologia turistica e il giovanilismo oppressivo delle vecchie classi dirigenti?

La mentalità neototalitaria è un fenomeno culturale d'ampia portata che investe le dimensioni confinanti della politica, dell'economia e della comunicazione contemporanea. Riguarda fasce sempre più vaste di soggetti e gruppi sociali che s'impegnano a rinnegare la loro posizione di privilegio, di supremazia, di vantaggio competitivo rispetto a coloro che stanno "dall'altra parte", che sono distanti, se non addirittura marginali o smaccatamente sottomessi. Ma tale orientamento coinvolge anche questi ultimi, dato che nel loro bisogno d'emancipazione s'annida la volontà di abbandonare quella condizione indesiderabile, avvantaggiandosi però di tutti i benefit che l'essere inferiori comporta. In altri termini il verbo neototalitario consiste nella volontà di affermare il proprio punto di vista impossessandosi di quello dell'altro, in una sommatoria di comportamenti contraddittori, che tracciano nuove traiettorie di affermazione del potere nelle società avanzate.

Nel corso dell'ultimo ventennio, la frantumazione delle soggettività moderne, operata dalle nuove tecnologie e dal consumo, era salutata come un atto liberatorio che avrebbe sganciato le identità sociali dai vincoli biologici, etici, politici, inaugurando una nuova era. A ben vedere, invece, tale sommovimento preludeva a una svolta radicale che avrebbe riformulato il concetto di "identità debole" nei termini di una latente visione reazionaria. Come fosse un'osmosi culturale, quei temi dibattuti nell'ambito di circoli chiusi e delle accademie sono filtrati progressivamente nel linguaggio comune condizionando, nel bene e nel male, la mutevolezza dei climi d'opinione. In questa acculturazione diffusa si è imposto come criterio di valutazione oggettiva dei fatti sociali ciò che possiamo definire come il meccanismo di sanzione dell'ovvio: un abito mentale che appunto tende a celare la verità delle cose quando questa è troppo scontata, troppo palese, troppo banale. Così oggi vanno tutti alla ricerca del caso insolito o di una chiave di lettura originale, talvolta dietrologica, per spiegare fenomeni che sono disarmanti a causa della loro limpidità. Così si è tentato di occultare quanto invece alcuni discorsi stavano preparando: il ribaltamento di una visione solidale, progressista, democratizzante nel suo opposto. Il neo-totalitarismo è appunto la massima espressione di questa svolta culturale che tende a negare l'altro, assumendone sembianze e carattere.

Imperativo è: essere tutto ciò che posso essere, anche quando questo comporta una stridente aporia esistenziale. Essere ovunque e comunque tutto quello che voglio, come del resto recita una pubblicità del cellulare Samsung quando si esorta il pubblico a "vivere più vite in una". A tal proposito, può risultare utile il ricorso ad alcuni concetti della concezione bellica che non a caso oggi sono completamente trapelati nel linguaggio ordinario e nel senso comune. Mi riferisco al rapporto tra strategia e tattica che solitamente viene concepito come una relazione basata sulla maggiore generalità della prima rispetto alla seconda. Comunemente si ritiene la strategia come un insieme strutturato di tattiche, come il disegno a lungo raggio che comprende una serie di mosse più estemporanee e limitate. Secondo Michel de Certeau — che non a caso va a studiare forme quotidiane di consumo televisivo — le due grandezze si fronteggiano, in modo che alla forza egemone spetta il primato dell'agire strategico, mentre a quella subalterna toccano i vantaggi di un agire tattico. La strategia è in grado di quadrettare la realtà sociale, di organizzarla e di predeterminare i percorsi e le mosse che in essi faranno coloro che agiscono tatticamente. A costoro, che non possono né prevedere né modificare il percorso tracciato dalla visione strategica, è però concessa una enorme opportunità: quella della trasgressione della regola e del riutilizzo dei percorsi tracciati dal pensiero strategico, per esaudire bisogni e desideri non previsti. Così, magicamente, i soggetti sociali relegati nei margini di un'azione tattica scoprono un privilegio che non avrebbero mai sognato di possedere. Esso consiste nella capacità di creare nuove idee a partire da un utilizzo non previsto e non programmato dei mezzi che sono reperibili nel loro ambiente sociale. Trasferita alla sfera del consumo, l'azione tattica si traduce in una "produzione di secondo livello" o nell'idea già auspicata da Marx nei Grundrisse di "consumo produttivo".

La sostanziale asimmetria tra chi gestisce il potere e lo spazio dell'interazione e chi invece agisce al suo interno sottomettendosi alle sue regole è utile per capire una serie di fenomeni di varia natura, dalla politica delle nazioni più forti rispetto a quelle più deboli, al rapporto tra l'opinione pubblica e un determinato fenomeno di costume. Implicitamente lo studioso francese tendeva a enfatizzare la superiorità "morale" dell'azione tattica ma non poteva ancora cogliere il movimento inverso. Quello di un'azione strategica che si fa così capillare e disarticolata da acquisire una movenza tattica. Questi due movimenti speculari — quello di un agire strategico che mira a essere anche tattico e quello di un agire tattico che ambisce ad assumere margini di manovra di tipo strategico – rientrano a pieno titolo nella logica del neototalitarismo. In questa strana oscillazione sistematica, ambedue i discorsi tentano di mantenere in vita una contraddizione che, in quanto tale, diventa essa stessa lo strumento più efficace e persuasivo. Come ho già detto in altri casi a proposito del "doppio vincolo" di Gregory Bateson, il successo di una serie d'iniziative di marketing e di branding si fonda sulla contraddizione logica insita nei messaggi (parleremo della campagna "ascolta la tua sete" di Sprite), ma anche sulla forza creativa dei pubblici che vi si oppongono. Estendendo tale discorso ad altri campi – la politica, le relazioni pubbliche, il valore della famiglia, la maternità ecc. – è possibile evidenziare come tale logica abbia attecchito in molteplici strati sociali che perseguono politiche di affermazione della loro identità attraverso questa sorta di "schizofrenia progettuale".

Quando l'agire strategico mira a ridurre la distanza, a risolvere la marginalità, a ribaltare l'asimmetria con la sua controparte, non lo fa semplicemente per un bisogno di giustizia sociale – che rientra a pieno titolo nella retorica populista – ma per un progetto di espansione su ambiti sociali e culturali che altrimenti rimarrebbero a esso preclusi. Si tratta in altri termini di una sorta di delirio di onnipotenza che non si limita a enfatizzare le caratteristiche precipue di singole soggettività, ma che vuole estendere la sua ambizione totalizzante verso luoghi, discorsi e soggetti che un tempo sarebbero rimasti incolumi in quanto indesiderati. Parimenti l'agire tattico, impegnato nel tentativo di approdare alla vetta della società, riscattare la propria condizione determinata dalla natura e dalla storia, allargare il proprio margine di manovra o di visibilità sociale, fa leva esattamente sullo stesso principio, ribaltandolo. Così i valori che caratterizzano la condizione di partenza vengono costantemente riproposti – le radici, la strada, l'emarginazione – affinché si possa marcare la differenza da coloro che sono stati avvantaggiati dalla lotteria della nascita. Ambedue pertanto mirano a occupare lo spazio identitario dell'altro assorbendo caratteristiche e requisiti di quella data posizione.

Cosa resta delle vecchie forme di totalitarismo – frontale e molare – che inseguivano utopie di una completa identificazione tra un punto di vista parziale – di un gruppo, del partito, dell'uomo carismatico – e quello della collettività? A esso corrispondeva un principio di esclusione che attraverso la violenza imponeva al diverso una gamma piuttosto ridotta di opzioni: dall'eliminazione fisica, all'allontanamento, alla subordinazione intransigente che gli consentiva di continuare a esistere ai margini del sistema. Era in altri termini la completa negazione dell'identità dell'altro; la cancellazione di ciò che non era in nessun modo riducibile e assimilabile alla logica del potere dominante. Se il vecchio totalitarismo escludeva in modo coatto il punto di vista dei gruppi subalterni o antagonisti, la sua riformulazione all'interno dei regimi democratici ha imposto alle diverse soggettività, che rientravano a vario titolo nella categoria di "altro", un iter di purificazione etica nel quale queste hanno dovuto rinunciare ai tratti più problematici della loro stessa identità per essere accolti a pieno titolo nel sistema ospitante. Dunque occorreva che queste piegassero la loro volontà, le rispettive weltanschauungen, il loro stile di vita per assimilarli alla coerenza autoritaria del gruppo e della cultura dominante.

Ma il nuovo totalitarismo, forse postdemocratico, è molto più sottile, capillare e molecolare. Esso penetra negli interstizi, si annida nelle nicchie, dà nuovo senso agli "scarti". Tutto ciò per occupare perentoriamente lo spazio identitario dell'altro, per carpire il patrimonio di segni e valori che lo contraddistingue, per negare il suo status e riaffermarlo successivamente su un livello superiore. Tale operazione non ambisce a quella sintesi dialettica che inseguivano i vecchi totalitarismi, quando, attraverso l'espulsione del contraddittorio prima, e la sua assimilazione dopo, miravano a inglobare la totalità della popolazione in un unico organismo collettivo. E nemmeno come accadeva nelle democrazie moderne, che istituivano e pubblicizzavano gli strumenti di ripulitura morale e di integrazione culturale delle minoranze, per favorire il loro ingresso nella vita pubblica delle nazioni. Se i primi inseguivano, almeno nella visione popperiana, l'ideale di bene assoluto inventato da Platone, e le seconde invece seguivano un approccio funzionalista che attingeva alla tradizione della dialettica hegeliana, il neototalitarismo emerge come residuo sopravvissuto all'obsolescenza delle teorie postmoderne.

Quando Hannah Arendt parla di totalitarismo, il suo pensiero va alla tremenda esperienza dei regimi novecenteschi che hanno reso manifeste alcune falle nella logica di funzionamento del sistema democratico. Ciononostante l'autrice riesce a fuoriuscire dal recinto delle scienze della politica per toccare aspetti più vitali e dunque basilari. Quella radicale negazione della libertà non risulta essere "l'elemento decisivo per comprendere la natura specifica del totalitarismo". La difesa della libertà non passa solo per la fatidica divisione dei poteri formulata da Montesqieu, ma soprattutto per la distinzione che l'autore francese formula tra il cittadino e l'individuo. Per Arendt questo "doppio standard di moralità" è fondamentale e costitutivo della democrazia in quanto assegna alla legge il compito di proibire e sanzionare ciò che non deve essere assolutamente fatto, ma lascia alla sfera individuale il compito di scegliere ciò che è opportuno fare. La legge stabilisce dei confini alla libertà individuale; i regimi totalitari, invece, intervengono sulla sfera privata con l'intento di atrofizzarla per annullare le possibilità di movimento degli individui e renderli "statici" rispetto alla dinamica della totalità alla quale partecipano.

Tra le due sfere citate, nella fenomenologia politica contemporanea compare una terza che, a prima vista sembrerebbe incommensurabile con le altre, ma che ha acquistato un peso sempre maggiore. Si tratta della sfera del consumatore, alla quale la politica oggi s'appella più che a quella del cittadino o dell'individuo. Essa si colloca a metà strada fra le altre due e in alcuni casi funziona come interfaccia, cioè le mette in connessione, in altri invece si pone in posizione di predominio. A questo sono riconducibili i due grandi discorsi che si producono intorno al consumo: mezzo di sostituzione del dominio politico con quello culturale oppure fautore della liberazione e dell'affermazione dell'individuo. Il problema è che oggi, posta la nuova centralità del consumatore, entrambi i discorsi funzionano e dimostrano come il potere del consumo risieda soprattutto nella sua natura paradossale. Che si parli di identificazione con i valori e i racconti suggeriti dalle marche commerciali o di contenuti proposti dal sistema dei media, la capacità del consumo di intervenire, modificare o indirizzare la vita privata delle persone è indiscutibile.

Il fenomeno che sta modificando la logica democratica da dentro non è tanto la vetusta "mercificazione" (dei soggetti, delle relazioni sociali, delle esperienze ecc.), quanto piuttosto l'espansione del consumo come dimensione dominante della nostra vita. La sociologia delle emozioni ha da tempo scoperto l'importanza decisiva della sfera affettiva nelle organizzazioni lavorative o in altri sistemi burocratizzati come appunto quello dei media. Eva Illouz ha coniato il termine "ontologia emozionale" per spiegare il processo attraverso cui le emozioni degli individui acquistano consistenza, si solidificano e diventano di dominio pubblico a opera dei mezzi di comunicazione. Ciò coinvolge sia gli attori della politica mondiale sia le star, fino a individui isolati che sfruttano le possibilità offerte dai media televisivi o digitali, per diventare visibili su scala globale.

Presenzialismo, esibizionismo e una nuova forma di autismo sono talvolta l'effetto indesiderato di questa dilatazione del sé consentita dalle nuove tecnologie e dalle logiche della comunicazione globale. La sua natura è fondamentalmente logica, il suo potere è perlopiù cognitivo, i suoi effetti tutto sommato impercettibili; ma la sua influenza è enorme.

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Da questa breve rassegna si capisce quanto sia ben diverso il concetto posto alla base dalle nuove forme di totalitarismo che prendono piede al di là dell'orizzonte democratico e rappresentano un'evoluzione della visione postmoderna. I tratti distintivi di questa nuova tendenza sono almeno tre:

1. la sistematicità;

2. il grado di penetrazione;

3. la reciprocità.

Con il primo s'intende che mentre nelle forme passate tale approccio riguardava espressioni ataviche, irrazionali, spirituali o carismatiche, dunque singolarità che marcavano il corso degli eventi, oggi è riscontrabile una sorta di metodologia alla base dei soggetti neototalitari che viene applicata rigorosamente nella vita pubblica come in quella privata. Potremmo addirittura parlare di un'operazione di selfbranding che si rende necessario nel momento in cui le teorie più avanzate del marketing e della comunicazione d'impresa diventano di dominio pubblico e modificano la visione del mondo di ampi strati sociali. A questo si collega il secondo punto per evidenziare come tale concezione sia sempre più diffusa nei campi del sociale che un tempo non avrebbero minimamente percepito l'importanza o l'urgenza di tali strumenti. Proprio quando il marketing-pensiero diventa non solo uno strumento di vendita, ma soprattutto una modalità di conoscenza/rappresentazione del mondo, cambiano profondamente i modelli di relazione non solo per chi sta in vetta alla "piramide", ma anche per coloro che sono alla base o che addirittura nemmeno sono collocabili nella classifica dello status. Mi riferisco ai disadattati di ogni genere, età ed etnia che un tempo furono incaricati dal buon Marcuse di salvare il sistema sociale dalla sua stessa rovina.

Oggi è evidente che a tali soggetti non è concesso un percorso escatologico o salvifico, ma soltanto una tattica di valorizzazione della propria esperienza all'interno del più generale mercato delle identità. Anche tale ragionamento preannuncia quello successivo, cioè la reciprocità. Se le forme passate che ho discusso presupponevano una sostanziale asimmetria tra chi gestisce il potere e chi lo subisce, ora siamo, almeno in linea di principio, in una fase che incentiva ovunque la collusione. Proprio in virtù della enfatizzazione e della valorizzazione simbolica di ogni posizione sociale, la nuova logica suggella un patto di ferro tra chi è privilegiato e chi non lo è. Non si tratta più del sogno americano che prometteva, in scale e proporzioni trascurabili, una fetta di paradiso a chiunque avesse avuto sufficiente caparbietà e fortuna. Oggi non è poi così importante inseguire la svolta definitiva che cambia la vita (come nella sindrome della lotteria). È invece assolutamente fondamentale esserci, galleggiare finché si può, orbitare intorno a una corte di pari con cui ci si ritrova a vivere virtualmente o concretamente una "emozione condivisa". I tre punti menzionati segnano una netta divergenza tra le vecchie forme di totalitarismo e la nuova tendenza. Si tratta di una nuova consapevolezza, di nuovi valori condivisi e di tecniche di autopromozione che potremmo definire come marketing della moltitudine.

Questa nuova visione viene in soccorso nel momento in cui i concetti di postmoderno e di globale hanno perso la loro forza esplicativa, hanno dissipato il loro contenuto di novità e sono schizzati al di fuori di un'ideologia progressista per essere accolti e rivalutati da un pensiero fondamentalmente reazionario. Pertanto diventa frequente l'incontro, nei salotti televisivi, con opinionisti che fanno appello a tali concetti per difendere il primato dell'astrologia sull'astronomia, oppure religiosi che ne ricavano elementi utili per difendere sia il primato di un percorso alternativo alla conoscenza razionale sia il radicamento culturale del proprio credo. Sappiamo dunque che al di là degli anni Novanta questi concetti hanno perso la loro carica progressista, che si risolveva nell'euforia collettiva per il valore utopico della comunicazione, e si sono trasformati in congegni pericolosi, in boomerang costruiti da un pensiero di sinistra, che diventano grimaldelli nelle mani dello schieramento opposto.

A questo punto, la categoria di neototalitarismo ci consente di spiegare il presente dando senso a fenomeni che altrimenti verrebbero interpretati (purtroppo maldestramente) attraverso i modelli interpretativi che sono stati approntati nel decennio passato. Sarà quindi chiaro al lettore che tale concetto, mutuato dalle scienze della politica, è distante dalle forme passate di autoritarismo e addirittura si pone agli antipodi di una subordinazione gerarchica di stampo autoritario per sposare una retorica spregiudicatamente democratica. Così il modello di riferimento non proviene dalla politica, quanto piuttosto dai linguaggi del consumo e della comunicazione. Esso comprende una serie piuttosto variegata di fenomeni, definibili a partire da un set di regole comuni, che può aiutarci a illuminare il lato oscuro del postmoderno per rivalutare l'importanza della critica sociale e del dissenso. Si tratta di una tendenza culturale che ha profondamente mutato la retorica del Potere, come anche di tutti i micropoteri che si generano nel corso delle attività quotidiane e solo da poco tempo coinvolge ampi strati della società in modo così evidente, sistematico, totalizzante. Esso è forse una risposta implicita all'agonia sempre più evidente del relativismo culturale che ha tentato di conferire pari dignità alla dispersione di punti di vista inaugurata dalle logiche della modernità. In questo nuovo bellum omnium contra omnes l'importante non è eliminare il nemico, ma assumerne il punto di vista, occupare il suo spazio vitale per negargli il primato della sua inferiorità o della sua superiorità e con esso il diritto a essere ciò che è. Tali discorsi includono chiunque dal punto di vista di una retorica generale dei diritti ma allo stesso tempo escludono, proprio perché mirano a depredare gli includendi del loro patrimonio identitario. Dunque la mentalità neototalitaria non contraddistingue colui che esclude l'altro ignorandolo, né chi lo include assoggettandolo, ma è propria di colui che esclude l'altro attraverso l'emulazione. Così potrebbe obiettare la vittima di questa sorta di nuovo regime mentale: "proprio perché sei così abile a trasformarti in qualcosa di simile a ciò che sono per occupare il mio spazio vitale, sottrai significato e valore alla mia stessa esistenza".

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Lo scontro delle inciviltà


In una prospettiva macropolitica sono molteplici i segnali che concorrono alla conformazione di questa nuova attitudine e coinvolgono tanto la politica internazionale quanto quella interna di diversi paesi. Tra questi, gli Stati Uniti sono i principali interpreti di una visione che, a fortiori, segna il declino dell'ideale democratico. In quanto epicentro dell'Impero (dal punto di vista di Negri e Hardt ) oppure in quanto Impero a sé stante (dal punto di vista delle vecchie teorie critiche) la nuova politica Usa mostra a viso aperto il modo in cui intende reinventare la sua leadership. Si è parlato molto di guerra sporca, infinita, asimmetrica per segnalare le qualità nuove e peculiari di questo conflitto. La stessa idea di guerra preventiva e le argomentazioni dei neoconservatori sono strumenti eclatanti che si fanno indispensabili quando un gruppo di anonimi assassini decide di attaccare ovunque e comunque i simboli della loro egemonia planetaria. Il neototalitarismo così dice: "non voglio combatterti perché sei diverso da me" (anche se la sua sottile retorica continua a rivendicare il primato dello Ius occidentale), ma lo faccio proprio per essere come te". In altri termini ci si rende conto che in una guerra sporca o asimmetrica, dove prevale l'azione tattica sulla pianificazione strategica, a nulla servirebbero gli strumenti di un'iniziativa legittima né tanto meno quelli di un'operazione bellica in stile tradizionale tra i quali c'è l'ormai obsoleta guerra chirurgica che a suo tempo scatenò ferventi polemiche. L'invasione dell'Iraq che, prescindendo dal casus belli virtuale, pareva risolversi in un attacco in stile canonico, in realtà si sarebbe rivelata affatto diversa. Una guerra di logoramento interno giocata da parte degli invasori/liberatori più sul piano simbolico che su quello strategico. Un conflitto estemporaneo nel quale le forze in campo hanno ripensato continuamente le loro mosse. Una scorribanda jazzistica che pare frutto di una voluta de-razionalizzazione dello scontro. In tutto questo, gli episodi di Abu Grhaib non sono un semplice epifenomeno ma la conferma del nuovo mood che orienta le loro azioni. Se partiamo dalla giustificazione dell'evento appare chiarissimo il paradosso: un esercito infallibile, iperorganizzato e superdotato di strumentazioni hi-tech, deve giustificare l'accaduto tramite l'idea delle "mele marce", di un manipolo di matti che sfuggono al controllo e si improvvisano in un solo gesto carnefici, giustizieri e crociati.

L'argomento dimostrerebbe che il gioiello più splendente della razionalità tecnica, il prodigio della scienza militare e della ricerca tecnologica è costretto ad assorbire il rumore di fondo del territorio iracheno, a filtrare l'alea e l'errore per concorrere con – e sconfiggere – il caos che lo inonda. Se invece i tribunali avessero provato la versione opposta, cioè che sono stati i vertici militari a suggerire una nuova linea di condotta – e c'è oggi chi ha parlato di un vertice operativo specializzato in torture – allora l'ipotesi che stiamo discutendo sarebbe ancor più convalidata. La nazione guida del mondo intero, per combattere un manipolo di scellerati (terroristi per la destra e guerriglieri per la sinistra), avrebbe dato fuoco alla sua carta costituzionale per regredire al Medioevo. Ma a quel tempo la tortura era lo strumento tautologico per estorcere alle vittime la loro propria ammissione di colpa in quanto l'unica via per fuggire il dolore era la firma della propria condanna a morte.

Oggi, nell'era dell'informazione, tale pratica avrebbe una sua funzione "cibernetica": vorrebbe solo assecondare l'emissione di segnali, di output dal soggetto sottoposto a trattamento per consentire il reperimento di informazioni utili alla pianificazione bellica. Sotterrano platealmente la lezione dell'illuminismo, quella di Cesare Beccaria come anche quella del principio di indeterminazione di Heisenberg che spiega come il monitoraggio di una realtà complessa è al contempo un'ingerenza che altera lo stato dell'oggetto sotto osservazione e distorce l'informazione. In realtà, e ancora una volta con Jean Baudrillard, l'obiettivo della tortura non è tanto l'estrazione della verità, anzi non lo è affatto, il vero fine è l'umiliazione di colui che ci avrebbe a sua volta umiliato. E se si è permesso di farlo, ritorcendo contro il nostro mondo quei mezzi che simbolizzano tanto il primato della produttività quanto il sogno turistico dell'interruzione del lavoro, noi, allo stesso modo, abbiamo utilizzato gli strumenti morali che disciplinano la sua condotta per ritorcerli contro la sua stessa dignità. Dunque corpi nudi, legati, promiscui, beffeggiati ecc. che precipitano le vittime nel peggiore degli incubi come fosse un 11/09 interiore. Io ti tratto come tu mi hai trattato. Dimenticando o cancellando arbitrariamente la sostanziale asimmetria tra la vetta del mondo e il suo sottoscala, tra una missione morale iniziata con la Dichiarazione d'indipendenza e una morale minatoria che devasta ogni cosa. Siccome i terroristi di Al Qaeda hanno umiliato gli Usa, questi rispondono contro altri, che forse sono loro simili forse no, con una veemenza che è meno massiva, ma altrettanto intensa. L'obiettivo è quello di colpire gente che non ha paura della morte, trasformando la loro vita in un inferno.

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Il fatto che la realtà non abbia più tanto peso è cosa già nota ma è certamente vero che un certo tipo di politica sta cercando di impostare un discorso coerente, se non addirittura una metodologia, là dove prima c'erano solo confusione, urla, immagini seducenti, simbolismi subliminali. Se è vero che un filosofo come Leo Strauss ha informato il pensiero neo o teoconservatore all'insegna di un neomachiavellismo capace di giustificare la bugia dinnanzi al popolo quando questa è necessaria per il suo bene, allora la stessa idea del simulacro assume un nuovo senso. Esso prende forma dalla consapevolezza che un'élite può cogliere il significato di eventi che sfuggono al resto del popolo e può agire di conseguenza. In altre parole si parte dal solito iato tra dominati e dominanti ma si arriva a una sostanziale sovrapposizione. In tal modo si salva il legame tra le due parti del sistema soprattutto facendo leva su argomenti che avrebbero fatto inorridire i padri dei Lumi e della democrazia. Il ritorno alla comunità, alla terra, alla religione ecc. Il successo del brand neocon è dovuto, in altri termini, a una grossa beffa che ha subìto il pensiero di sinistra a partire dalla seconda metà degli anni Novanta. Allora era appunto questo schieramento politico che difendeva la vulgata sull'affermazione del glocale, dell'etnico, del piccolo è bello, dell'autentico, del tipico, del neonaturalista, della deurbanizzazione, della provincia, contro il globalismo liberista della destra che non a caso era chiamato "pensiero unico". Oggi invece il locale è divenuto un punto di forza della visione di destra in virtù di quel movimento centripeto innescato da una paura collettiva generalizzata che sta letteralmente facendo a pezzi qualsiasi universalismo di matrice illuminista. Anche qui un autogol del pensiero progressista. Se la critica alle nefaste derive della dialettica dell'Illuminismo giungevano da posizioni apocalittiche neomarxiane oppure dal pensiero della crisi mitteleuropeo, oggi il suo più grande nemico è la stessa ipocrisia borghese che l'aveva fondato.

Il fallimento della visione illuminista è un dramma interno alla borghesia occidentale, che purtroppo ha avuto una ricaduta ancora più lacerante su scala mondiale. Il tradimento di quel formidabile progetto filosofico e politico è stato preparato da quei componenti della classe dirigente e dell'intellighenzia che hanno corrotto la retorica universalista del razionalismo settecentesco virandola verso il "politically". Non è dunque soltanto uno scontro tra Lumi e Romanticismo, tra ragione e passione, tra globalismo e localismo. Si tratta del modo utilitaristico con cui la borghesia ha accolto l'essenza del progetto liberale, traducendola opportunisticamente in una retorica buona per ogni occasione. Un discorso che ha escluso l'altro accogliendolo a ogni costo. Una visione che sebbene votata all'uguaglianza – perlomeno a quella "dello start" – celava invece la volontà di frenare il mutamento, arginare le spinte dal basso, inibire il dinamismo delle classi subalterne. E sono ancora peggio, da noi lo si vede in modo drammatico, quei regionalismi, provincialismi, campanilismi, condominialismi che infrangono il disegno universalistico dell'uguaglianza e della legalità.

Questi avrebbero dovuto essere combattuti esattamente sul loro terreno: la sfera del locale. Invece certe differenze, certi folclorismi sono stati accolti ed enfatizzati proprio come fossero dati ontologici, realtà oggettive e immutabili. In Italia tutto ciò è lampante. I ghigni di tutti contro tutti. Realtà locali contro realtà locali che si cimentano in un insolito quanto imbecille razzismo. E non parlo dei frequentatori di un qualsiasi Bar dello sport, ma di antropologi, politologi, professionisti ecc. che si permettono il lusso di discriminare la diversità culturale proprio perché protetti dallo scudo di una visione falsamente democratica. Questa patetica "microfisica" del potere ha minato alle fondamenta il formidabile edificio della cultura dei lumi, montando dall'interno delle nostre piccole realtà le premesse per uno scontro più ampio e più drammatico.

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