Copertina
Autore Claudio Bartocci
Titolo Racconti matematici
EdizioneEinaudi, Torino, 2006, Supercoralli , pag. 308, cop.ril.sov., dim. 14,5x22x2,3 cm , Isbn 978-88-06-18321-9
CuratoreClaudio Bartocci
LettoreRenato di Stefano, 2007
Classe narrativa italiana , narrativa argentina , narrativa inglese , narrativa statunitense , narrativa austriaca , fantascienza , matematica
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Indice

  v Introduzione di Claudio Bartocci

    Racconti matematici


    Numeri

  5 Il libro di sabbia
    di Jorge Luis Borges
 10 Nove volte sette
    di Isaac Asimov
 23 Quanto scommettiamo
    di Italo Calvino
 33 L'hotel straordinario, o il milleunesimo
    viaggio di Ion il Tranquillo
    di Stanislaw Lem
 43 La trama celeste
    di Adolfo Bioy Casares
 76 Eupompo diede lustro all'Arte mediante i Numeri
    di Aldous Huxley
 87 Esame dell'opera di Herbert Quain
    di Jorge Luis Borges

    Spazi

 95 I sette messaggeri
    di Dino Buzzati
100 Continuità dei parchi
    di Julio Cortàzar
102 Geometria solida
    di Ian McEwan
122 La quadratura del cerchio
    di O. Henry
128 La Biblioteca Universale
    di Kurd Laßwitz
139 Il conte di Montecristo
    di Italo Calvino
152 La casa nuova
    di Robert Heinlein
180 Fuga
    di Daniele Del Giudice
192 Riflusso
    di José Saramago
208 Ragazzo
    di Dario Voltolini
213 Naturalmente
    di Fredric Brown
215 Tennis, trigonometria e tornado
    di David Foster Wallace

    Ritratti

245 Pitagora
    di Umberto Eco
255 La morte di Archimede
    di Karel Capek
259 Paolo Uccello
    di Marcel Schwob
263 Un Hugo geometra
    di Raymond Queneau
266 John von Neumann 1903-1957
    di Hans Magnus Enzensberger
268 Breve ritratto di Alan Turing
    di Emmanuel Carrère

    L'uomo matematico

289 L'uomo matematico
    di Robert Musil
295 Nota biobibliografica

 

 

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Pagina 5

Jorge Luis Borges

Il libro di sabbia


                                    thy rope of sands...

                                    GEORGE HERBERT (1593-1633)



La linea è costituita da un numero infinito di punti; il piano, da un numero infinito di linee; il volume, da un numero infinito di piani; l'ipervolume, da un numero infinito di volumi... No, decisamente non è questo, more geometrico, il modo migliore di iniziare il mio racconto. È diventata ormai una convenzione affermare che ogni racconto fantastico è veridico; il mio, tuttavia, è veridico.

Vivo solo, a un quarto piano di calle Belgrano. Qualche mese fa, verso sera, sentii bussare alla porta. Aprii ed entrò uno sconosciuto. Era un uomo alto, dai lineamenti indistinti. Forse era la mia miopia a vederli cosí. Tutto il suo aspetto lasciava trasparire una dignitosa povertà. Era vestito di grigio e aveva in mano una valigia grigia. Intuii subito che era straniero. All'inizio mi parve vecchio, poi mi resi conto che ero stato tratto in inganno dai suoi radi capelli biondi, quasi bianchi, come quelli degli scandinavi. Nel corso della nostra conversazione, che non sarebbe durata neppure un'ora, seppi che veniva dalle Orcadi.

Gli indicai una sedia. L'uomo tardò a parlare. Emanava un senso di malinconia, come me adesso.

- Vendo Bibbie, - spiegò.

Non senza pedanteria gli risposi:

In questa casa ci sono varie Bibbie inglesi, compresa la prima, quella di John Wiclif. Ho anche quella di Cipriano de Valer, quella di Lutero, che letterariamente è la peggiore, e un esemplare della Vulgata latina. Come vede, non sono esattamente le Bibbie a mancarmi.

Dopo un attimo di silenzio, ribatté:

- Non vendo solo Bibbie. Posso mostrarle un libro sacro che forse le interesserà. L'ho acquistato ai confini di Bikaner.

Lo tirò fuori dalla valigia e lo posò sul tavolo. Era un volume in ottavo, rilegato in tela. Senza dubbio era passato per molte mani. Lo esaminai; il suo peso insolito mi sorprese. Sul dorso c'era scritto Holy Writ e sotto Bombay.

- Sarà dell'Ottocento, - osservai.

- Non lo so. Non l'ho mai saputo, - fu la risposta.

Lo aprii a caso. I caratteri mi erano sconosciuti. Le pagine, che mi parvero logore e povere dal punto di vista tipografico, erano stampate su due colonne come una Bibbia. Il testo era fitto e disposto in versetti. Negli angoli in alto comparivano cifre arabe. Attrasse la mia l'attenzione il fatto che la pagina pari portasse (mettiamo) il numero 40.514 e quella dispari, successiva, il 999. La voltai: il verso aveva una numerazione a otto cifre. C'era anche una piccola illustrazione, come si usa nei dizionari: un'ancora disegnata a penna, come dalla mano goffa di un bambino.

Fu allora che lo sconosciuto mi disse:

- La guardi bene. Non la vedrà mai più.

C'era una minaccia nell'affermazione, non nella voce.

Guardai bene il punto esatto e chiusi il volume. Poi lo riaprii immediatamente. Cercai invano la figura dell'ancora, pagina dopo pagina. Per nascondere il mio sconcerto, gli chiesi:

- Si tratta di una versione delle Scritture in qualche lingua indostanica, non è vero?

- No, - rispose.

Poi abbassò la voce come per confidarmi un segreto:

- L'ho acquistato in un villaggio della pianura, in cambio di qualche rupia e della Bibbia. Il proprietario non sapeva leggere. Ho il sospetto che nel Libro dei Libri vedesse un amuleto. Apparteneva alla casta piú bassa; la gente non poteva calpestare la sua ombra senza contaminarsi. Mi disse che il suo libro si chiamava Il libro di sabbia, perché né il libro né la sabbia hanno principio o fine.

Mi invitò a cercare la prima pagina.

Appoggiai la mano sinistra sul frontespizio e aprii il volume con il pollice quasi attaccato all'indice. Fu tutto inutile: tra il frontespizio e la mano c'erano sempre varie pagine. Era come se spuntassero dal libro.

- Ora cerchi la fine.

Fu un nuovo fallimento; riuscii a stento a balbettare con una voce che non era la mia:

- Non può essere.

Sempre sottovoce, il venditore di Bibbie mi disse:

- Non può essere, ma è. Questo libro ha un numero di pagine esattamente infinito. Nessuna è la prima, nessuna l'ultima. Non so perché siano numerate in questo modo arbitrario. Forse per far capire che i termini di una serie infinita ammettono qualunque numero.

Poi, come se pensasse a voce alta:

- Se lo spazio è infinito, siamo in qualunque punto dello spazio. Se il tempo è infinito, siamo in qualunque punto del tempo.

Le sue considerazioni mi irritarono. Gli chiesi:

- Lei è religioso, non è vero?

- Sí, sono presbiteriano. La mia coscienza è pulita. Sono sicuro di non aver imbrogliato l'indigeno quando gli ho dato la Parola del Signore in cambio del suo libro diabolico.

Gli assicurai che non aveva nulla da rimproverarsi e gli chiesi se era di passaggio da queste parti. Mi rispose che pensava di rientrare in patria nel giro di qualche giorno. Seppi allora che era scozzese, delle isole Orcadi. Gli dissi che personalmente amavo molto la Scozia per via di Stevenson e Hume.

- E di Robbie Burns, - mi corresse.

Mentre parlavamo, continuavo a esplorare il libro infinito. Con finta indifferenza, gli chiesi:

- Ha intenzione di offrire questo curioso esemplare al Museo Britannico?

- No. Lo offro a lei, - ribatté e fissò una cifra elevata.

Gli risposi, in tutta sincerità, che quella somma era inaccessibile per me e mi misi a riflettere. In pochi minuti il mio piano era ordito.

- Le propongo uno scambio, - gli dissi. - Lei ha ottenuto questo volume per qualche rupia e per le Sacre Scritture; io le offro l'ammontare della mia pensione, che ho appena riscosso, e la Bibbia di Wiclif in caratteri gotici. L'ho ereditata dai miei genitori.

- A black-letter Wiclif!, - mormorò.

Andai in camera mia e gli portai il denaro e il libro. Sfogliò le pagine e studiò la copertina con fervore da bibliofilo.

- Affare fatto, - disse.

Mi stupii che non contrattasse. Solo in seguito compresi che era entrato in casa mia deciso a vendere il libro. Mise via le banconote senza neppure contarle.

Parlammo dell'India, delle Orcadi e degli jarls norvegesi che le avevano governate. Era notte quando l'uomo se ne andò. Non l'ho piú visto, né ho mai saputo il suo nome.

Pensai di mettere Il libro di sabbia nello spazio vuoto lasciato dal Wiclif, ma alla fine decisi di nasconderlo dietro alcuni volumi scompagnati delle Mille e una notte.

Andai a letto e non dormii. Alle tre o alle quattro del mattino accesi la luce. Presi il libro impossibile e iniziai a sfogliarlo. Su una pagina vidi l'incisione di una maschera. Nell'angolo in alto c'era un numero, non ricordo quale, elevato alla nona potenza.

Non mostrai il mio tesoro a nessuno. Alla gioia di possederlo si aggiunse il timore che me lo rubassero, e poi il sospetto che non tosse davvero infinito. Queste due preoccupazioni aggravarono la mia vecchia misantropia. Mi restavano alcuni amici; smisi di vederli. Prigioniero del libro, quasi non mettevo piede fuori di casa. Esaminai con una lente il dorso logoro e le copertine ed esclusi la possibilità di un qualche artificio. Mi resi conto che le piccole illustrazioni si trovavano a duemila pagine una dall'altra. Le annotai pian piano in una rubrica, che non tardai a riempire. Non si ripetevano mai. Di notte, nelle rare tregue che mi concedeva l'insonnia, sognavo il libro.

L'estate declinava quando compresi che il libro era mostruoso. A nulla valse considerare che era non meno mostruoso di me, che lo percepivo con gli occhi e lo palpavo con dieci dita dotate di unghie. Sentii che era un oggetto da incubo, una cosa oscena che infamava e corrompeva la realtà.

Pensai al fuoco, ma ebbi paura che la combustione di un libro infinito fosse altrettanto infinita e soffocasse il pianeta nel fumo.

Ricordai di aver letto che il luogo migliore per nascondere una foglia è un bosco. Prima di andare in pensione lavoravo alla Biblioteca Nazionale, che ospita novecentomila volumi; so che a destra dell'atrio una scala curva scende nel seminterrato, dove sono i periodici e le mappe. Approfittai di una distrazione degli impiegati per abbandonare Il libro di sabbia su uno degli umidi scaffali. Cercai di non far caso a quale altezza né a quale distanza dalla porta.

Mi sento un po' sollevato, ma non voglio neppure passare per calle México.

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Pagina 102

Ian McEwan

Geometria solida


A Melton Mowbray, nel 1875, a un'asta di articoli «curiosi e di valore» il mio bisnonno, in compagnia del suo amico M, fece un'offerta per il pene del capitano Nicholls, che mori nel 1873 nella prigione di Horsemonger. Era in un contenitore di vetro lungo dodici pollici e, come annotò il mio bisnonno nel suo diario quella notte, «in ottimo stato di conservazione». Era in vendita anche «l'innominata parte della defunta Lady Barrymore. Fu aggiudicata a Sam Sraels per cinquanta ghinee». Il mio bisnonno era attratto dall'idea di completare la coppia, e M lo dissuase. Questo fatto illustra perfettamente la loro amicizia. Il mio bisnonno, il teorico eccitabile, M l'uomo d'azione che sapeva quando era il caso di fare un'offerta a un'asta. Il mio bisnonno visse sessantanove anni. E per quarantacinque di questi, alla fine di ogni giornata, prima di andare a letto si sedeva a scrivere i suoi pensieri in un diario. Adesso questi diari sono sul mio tavolo, quarantacinque volumi rilegati in cuoio, e alla loro sinistra c'è il capitano Nicholls nel barattolo di vetro. Il mio bisnonno viveva dei proventi del brevetto di un'invenzione di suo padre, un tipo molto comodo di chiusura usata dai bustai fino allo scoppio della prima guerra mondiale. A mio bisnonno piacevano i pettegolezzi, numeri e le teorie. Gli piaceva anche il tabacco, il buon porto, lo stufato di lepre e, in modo assai occasionale, l'oppio. Gli piaceva considerarsi un matematico, anche se non aveva mai lavorato né pubblicato un libro. Non aveva neanche mai viaggiato né visto il suo nome sul «Times», nemmeno quando morí. Nel 1869 sposò Alice, unica figlia del reverendo Toby Shadwell, coautore di un libro non molto considerato sui fiori selvatici in Inghilterra. Ritengo che mio bisnonno sia un ottimo diarista, e quando avrò finito di rivedere i diari e saranno stati pubblicati, sono certo che riceverà il riconoscimento dovutogli. Una volta ultimato il mio lavoro mi prenderò una lunga vacanza, viaggerò in qualche posto freddo, pulito e senza alberi, Islanda o la steppa russa. Una volta pensavo che alla fine di tutto questo avrei cercato, se possibile, di divorziare da mia moglie Maisie, ma ormai non ce n'è piú bisogno.

Spesso Maisie gridava nel sonno e dovevo svegliarla.

- Abbracciami, - diceva. - Era un sogno orribile. L'ho già fatto una volta. Ero in un aeroplano che volava sul deserto. Ma non era proprio un deserto. Facevo volare l'aereo piú basso e riuscivo a vedere migliaia di bambini ammucchiati, una vista che si estendeva sino all'orizzonte, ed erano tutti nudi e si arrampicavano uno sull'altro. Io avevo quasi finito il carburante e dovevo atterrare. Cercavo di trovare uno spazio, continuavo a volare e a volare in cerca di uno spazio...

- Dormi adesso, - dissi sbadigliando. - Era solo un sogno.

- No, - gridò lei: - Non devo dormire, non ancora.

- Be', io sí, - le dissi, - devo esser su presto domattina.

Mi scosse una spalla. - Per piacere, non addormentarti subito, non lasciarmi cosí.

- Sono nello stesso letto, - dissi, - non ti lascerò.

- Non cambia niente, non lasciarmi sveglia... - Ma gli occhi mi si stavano già chiudendo.

Ultimamente ho preso l'abitudine dei mio bisnonno. Prima di andare a letto mi siedo per una mezz'ora a riflettere sulla mia giornata. Non ho ghiribizzi matematici o teorie sessuali da buttar giú. Scrivo soprattutto quello che ho detto a Maisie e quello che Maisie ha detto a me. Ogni tanto, per avere una privacy assoluta, mi chiudo in bagno, e mi siedo sul gabinetto, col taccuino sulle ginocchia. Oltre a me in bagno possono capitare un ragno o due. Si arrampicano sul grande tubo e si accovacciano perfettamente immobili sullo scintillante smalto bianco. Si chiederanno dove sono finiti. Dopo ore di quella posizione accovacciata tornano indietro, perplessi o forse contrariati di non averne appreso di piú. Per quel che ne so, il mio bisnonno ha fatto un unico riferimento ai ragni. L'8 maggio 1906, scrisse: «Bismarck è un ragno».

Durante il pomeriggio Maisie veniva a portarmi il tè e mi raccontava i suoi incubi. Di solito io stavo sfogliando vecchi giornali, compilavo indici, catalogavo argomenti, mettevo giú un volume, ne prendevo un altro. Maisie diceva di non star bene. Ultimamente se ne stava tutto il giorno seduta qua e là per la casa, leggiucchiando libri di psicologia e occultismo, e quasi tutte le notti faceva brutti sogni. Dopo quella volta che ci eravamo scambiati colpi materiali, appostandoci fuori del bagno per colpirci l'un l'altro con la stessa scarpa, non ho avuto piú molta comprensione per lei. In parte il suo problema era la gelosia. Era molto gelosa... del diario in quarantacinque volumi di mio bisnonno, e della mia decisione ed energia nel revisionarlo. Lei non faceva niente. Stavo mettendo giú un volume e prendendone un altro quando Maisie entrò col tè.

- Ti posso raccontare il mio sogno? - mi chiese. - Stavo volando con questo aereo sopra una specie di deserto...

- Piú tardi, Maisie, - dissi, - sono nel bel mezzo di una cosa.

Dopo che se ne fu andata, fissai il muro di fronte al mio tavolo, pensando a M, che venne a chiacchierare e pranzare col mio bisnonno regolarmente per un periodo di quindici anni fino alla sua improvvisa e inspiegabile scomparsa una sera del 1898. M, chiunque fosse, era una specie di accademico, oltre che un uomo di azione. Per esempio la sera del 9 agosto 1870, i due stanno discutendo sulle varie posizioni per fare l'amore, e M dice al mio bisnonno che la copulazione a posteriori è il modo piú naturale, data la collocazione del clitoride, e dato che altri antropoidi prediligono questo metodo. Il mio bisnonno, che copulò circa mezza dozzina di volte in tutta la sua vita, e tutte con Alice durante il primo anno del loro matrimonio, si chiese ad alta voce quale fosse l'opinione della Chiesa, e subito M è in grado di dirgli che nel VII secolo il teologo Teodoro considerava la copulazione a posteriori un peccato dello stesso livello della masturbazione e perciò meritevole di quaranta penitenze. Piú tardi, quella stessa sera, il mio bisnonno dimostrò matematicamente che il massimo numero di posizioni non può superare il numero primo diciassette. M si fece beffe di questo e gli disse che aveva visto una raccolta di disegni di Romano, un allievo di Raffaello, in cui erano illustrate ventiquattro posizioni. E, disse, aveva sentito parlare di un certo F. K. Foberg che ne aveva calcolate novanta. Quando mi ricordai del tè che Maisie mi aveva lasciato, ormai era freddo.

[...]

Il mio lavoro sui diari non può procedere finché non avrò chiarito il mistero che circonda M. Dopo essere andato a pranzo dal mio bisnonno per quindici anni e avergli fornito una quantità di materiale per le sue teorie, M semplicemente scompare dalle pagine del diario. Martedí 6 dicembre il mio bisnonno invitò M a pranzo per il sabato seguente, e sebbene M fosse venuto, il mio bisnonno nell'annotazione di quel giorno scrive soltanto: «M a pranzo». Tutte le altre volte la conversazione che si era svolta durante questi pasti è ampiamente riportata. M era stato a pranzo lunedí 5 dicembre, e avevano parlato di geometria, e tutte le annotazioni fatte durante il resto della settimana erano interamente dedicate a questo stesso argomento. Non v'è affatto alcuna traccia di antagonismo. Inoltre, il mio bisnonno aveva bisogno di M. M gli forniva il materiale, M era al corrente degli avvenimenti, conosceva bene Londra ed era stato parecchie volte sul Continente. Sapeva tutto sul socialismo e su Darwin, aveva un conoscente nel movimento per il libero amore, un amico di James Hinton. M conosceva il mondo in un modo che il mio bisnonno, che aveva lasciato Melton Mowbray solo una volta in vita suai per andare a Nottingham, non immaginava neanche. Anche da giovane il mio bisnonno preferiva teorizzare accanto al camino; tutto quello di cui aveva bisogno era il materiale fornitogli da M. Per esempio, una sera del giugno 1884 M, che era appena tornato da Londra raccontò al mio bisnonno che le strade della città erano insozzate e ostruite dal letame di cavallo. Ora proprio quella settimana il mio bisnonno aveva letto il saggio di Malthus intitolato Sul principio della popolazione. Cosí quella notte annotò nel diario una pagina tutta eccitata su un pamphlet che aveva intenzione di scrivere e pubblicare. Si sarebbe dovuto chiamare De stercore equorum. L'opuscolo non fu mai pubblicato né probabilmente mai scritto, ma ci sono note dettagliate a questo riguardo nelle pagine del diario per le due settimane seguenti. Nel De stercore equorum (Sullo sterco di cavallo) egli presuppone una crescita geometrica della popolazione equina, e lavorando su dettagliate mappe stradali, prevede che col 1935 la metropoli sarà impraticabile. Per impraticabile intendeva dire uno spessore medio di un piede (compresso) in tutte le vie principali. Descrisse complessi esperimenti compiuti davanti alle sue stalle per stabilire la compressibilità dello sterco di cavallo, che riuscí a esprimere matematicamente. Naturalmente era pura teoria. I suoi risultati si basavano sull'ipotesi che lo sterco non sarebbe stato spazzato via nei prossimi cinquant'anni. Molto probabilmente fu M che dissuase il mio bisnonno da questo progetto.

Un mattino, dopo una lunga notte buia e piena di incubi per Maisie, eravamo a letto, sdraiati fianco a fianco e io le dissi:

- Cos'è che vuoi davvero? Perché non riprendi il tuo lavoro? Queste lunghe passeggiate, tutta questa analisi, sempre seduta in giro per la casa, le mattine passate a letto, i tarocchi, gli incubi... cos'è che vuoi?

E lei: - Voglio raddrizzarmi la testa, - cosa che aveva già detto molte altre volte.

- La tua testa, la tua mente, non è la cucina di un albergo, non puoi buttar fuori la roba come se fossero barattoli vecchi. Assomiglia piú a un fiume che a un lago, un fiume che si muove e cambia continuamente. Non puoi raddrizzare un fiume.

- Non ricominciamo, non sto cercando di raddrizzare un fiume, sto cercando di raddrizzare la mia testa.

- Devi fare qualcosa, non puoi non fare mai niente. Perché non ricominci a lavorare? Quando lavoravi non avevi gli incubi. Quando lavoravi non eri mai cosí infelice.

- Devo star lontana da tutte quelle cose per un po', non sono piú sicura del significato di niente.

- Moda, è tutta una moda. Metafore di moda, letture di moda, disagi di moda. Che te ne importa di Jung, per esempio? Ne hai lette dodici pagine in un mese.

- Non continuare, - supplicò, - sai che non porta a nulla. Ma io continuai.

- Non sei mai stata in nessun posto, non hai mai fatto niente. Sei una ragazza simpatica senza neanche la fortuna di una infanzia infelice. Il tuo buddismo sentimentale, questo misticismo da rigattiere, terapia all'incenso, astrologia da rivista... niente di tutto questo fa parte di te, niente di tutto questo l'hai svolto tu per conto tuo. Ci sei caduta dentro, sei caduta in una palude di intuizioni rispettabili. Non hai l'originalità o la passionalità per intuire qualcosa da sola al di là della tua infelicità. Perché ti riempi la mente con le mistiche banalità di altra gente e ti fai venire gli incubi? - Scesi dal letto, aprii le tende e cominciai a vestirmi.

- Parli come se questo fosse un finto seminario, - disse Maisie, - perché cerchi di rendermi le cose piú difficili? - L'autocommiserazione cominciò a gonfiarlesi dentro, ma lei la ricacciò indietro.

- Quando parli mi sento accartocciare come un pezzo di carta.

- Forse questo è un finto seminario, - dissi cupo. Maisie si tirò su e rimase seduta a guardarsi in grembo. Improvvisamente cambio tono. Diede un colpetto al cuscino accanto a lei e disse dolcemente:

- Vieni qui. Vieni a sederti qui. Voglio toccarti, voglio che tu mi tocchi... - Ma io, sospirando, stavo già andandomene in cucina.

In cucina mi feci un caffè e me lo portai nello studio. Durante la mia notte di sonno interrotto mi era venuto in mente che una possibile chiave per la sparizione di M poteva essere trovata nelle pagine sulla geometria. Finora le avevo sempre saltate perché la matematica non mi interessa. Lunedí 5 dicembre 1898, M e il mio bisnonno discussero la vescia piscis, che a quanto pare è il soggetto della prima proposizione di Euclide e ha avuto una grande influenza sulle fondamenta di molti antichi edifici religiosi. Lessi attentamente il resoconto della conversazione, cercando di capirne meglio che potevo la parte geometrica. Poi, girando la pagina, trovai un lungo aneddoto che M raccontò al mio bisnonno quella sera stessa, quando venne portato il caffè e si accesero i sigari. Proprio mentre stavo cominciando a leggere entrò Maisie.

- E tu allora, - disse, come se al nostro litigio non ci fosse stata un'ora di intervallo, - tutto quello che hai sono dei libri. Strisci sul passato come una mosca su uno stronzo.

Naturalmente mi arrabbiai, ma sorrisi e dissi amabilmente: - Striscio? Be', almeno mi muovo.

- Non parli piú con me, giochi con me come con un flipper, per fare punti.

- Buongiorno, Amleto, - risposi, e aspettai pazientemente di sentire cos'altro avesse da dire. Ma lei non parlò piú, se ne andò chiudendo dolcemente la porta dello studio.

- Nel settembre 1870, - M cominciò a raccontare a mio bisnonno, - venni in possesso di certi documenti che non solo invalidano tutte le nostre nozioni fondamentali di geometria solida, ma minano alle fondamenta l'intero canone delle nostre leggi fisiche e ci obbligano a ridefinire il nostro posto nello schema della Natura. Queste dissertazioni superano per importanza i lavori di Marx e Darwin messi insieme. Mi furono affidate da un giovane matematico americano e sono opera di David Hunter, matematico anch'esso e scozzese. L'americano si chiamava Goodman. Ero stato per molti anni un corrispondente di suo padre, a proposito delle sue ricerche sulla teoria ciclica delle mestruazioni che, cosa piuttosto incredibile, è ancora ampiamente screditata in questo paese. Incontrai il giovane Goodman a Vienna dove, insieme a Hunter e ad altri matematici provenienti da una dozzina di paesi, partecipava a una conferenza internazionale sulle matematiche. Goodman era pallido e notevolmente preoccupato quando lo incontrai, e aveva in programma di tornare in America il giorno dopo anche se la conferenza non era che a metà. Mi affidò le carte con l'istruzione di restituirle a David Hunter, se mai avessi appreso dove si trovasse. E poi, ma solo in seguito alle mie insistenze, mi raccontò quello a cui aveva assistito il terzo giorno del convegno. Le sedute cominciavano ogni mattino alle nove e trenta, con la lettura di una relazione cui facevano seguito le discussioni. Alle undici venivano portati i rinfreschi e la maggior parte dei matematici si alzavano abbandonando il lungo tavolo lucidissimo intorno a cui erano seduti, e passeggiavano nell'ampia sala elegante, impegnati in discussioni senza formalità con i colleghi. Gli incontri dovevano proseguire per due settimane, e in base ad accordi precedenti i piú eminenti fra i matematici presenti avrebbero letto per primi le loro relazioni, seguiti da quelli un po' meno eminenti e cosí via, in una gerarchia decrescente che, com'è consuetudine tra uomini molto intelligenti, causava occasionali ma intense gelosie. Hunter, per quanto fosse un matematico brillante, era giovane e virtualmente sconosciuto al di fuori della sua università, quella di Edimburgo. Si era iscritto per leggere una relazione sulla geometria solida che definiva della massima importanza, e siccome in questo pantheon era una persona di poco conto, la sua relazione era stata assegnata al penultimo giorno del convegno, quando ormai la maggior parte dei convenuti piú importanti sarebbe già partita per i rispettivi paesi. Perciò la mattina del terzo giorno, quando ci fu l'interruzione per i rinfreschi, Hunter si alzò improvvisamente e si rivolse ai colleghi proprio mentre questi si disponevano a lasciare il tavolo. Era un uomo robusto e ispido e, per quanto giovane, aveva una certa imponenza fisica che ridusse il mormorio al silenzio assoluto.

- Signori, - disse Hunter, - devo chiedervi di perdonarmi questa forma impropria d'indirizzo, ma ho da dirvi qualcosa di estrema importanza. Ho scoperto il piano senza superficie -. Circondato da sorrisi di scherno e gentili risate divertite, Hunter raccolse dal tavolo un grande foglio di carta bianca. Con un temperino incise sulla sua superficie un taglio lungo circa tre pollici e un po' spostato su un lato. Poi lo piegò velocemente in modo complicato e, tenendo il foglio alto in modo che tutti lo vedessero, apparentemente fece passare un angolo attraverso l'incisione, e in quella il foglio sparí.

- Osservate, signori, - disse Hunter, mostrando le mani vuote agli spettatori, - il piano senza superficie.

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Pagina 152

Robert Heinlein

La casa nuova


In tutto il mondo gli americani sono ritenuti dei pazzi.

Ammettono solitamente che l'accusa non è infondata, ma indicano nella California il focolaio dell'infezione. I californiani sostengono che la loro cattiva fama deriva esclusivamente dalla condotta degli abitanti della Contea di Los Angeles. Gli angeleni ammettono, se si insiste, che l'accusa è giustificata, ma si affrettano a precisare:

- È Hollywood. Non è colpa nostra; non siamo stati noi a volerlo; è Hollywood che ha continuato a crescere.

La gente di Hollywood non se la prende; anzi se ne gloria. Se la cosa vi interessa, vi portano in macchina a Laurel Canyon «... dove abbiamo ricoverato i casi piú violenti». I canyoniti - le donne dalle gambe abbronzate, gli uomini in pantaloni corti continuamente occupati a costruire e ricostruire le loro stravaganti abitazioni - considerano con una sfumatura di disprezzo le monotone creature che vivono in appartamenti, e celano in cuore la segreta certezza che loro, e loro soltanto, sanno come si debba vivere.

Lookout Mountain Avenue è il nome di un canyon laterale che si dirama da Laurel Canyon. Gli altri canyoniti non amano che se ne parli; anche per loro ci sono dei limiti.

Proprio in fondo a Lookout Mountain, al numero 8775, viveva Quintus Teal, architetto laureato.

Anche l'architettura è differente nella California meridionale. Salsicciotti caldi sono in vendita in una costruzione eretta in forma di salsicciotto. I coni gelati provengono da un gigantesco cono gelato di stucco e grandi lettere al neon proclamano: «Bevete birra!» dai tetti di palazzi che sono senz'ombra di dubbio boccali di birra. Benzina, olio e carte stradali gratuite vengono fornite sotto le ali di aerei da trasporto di cemento, mentre l'albergo diurno autorizzato, ispezionato ogni ora per il vostro benessere, è situato nella cabina dell'aereo stesso. Tutte cose che possono stupire, o divertire, il turista, ma i residenti locali, che passeggiano a testa nuda al famoso sole californiano di mezzogiorno, le considerano naturalissime.

Quintus Teal giudicava gli sforzi dei suoi colleghi architetti come pavidi, incerti e privi di autentica audacia.


- Che cos'è una casa? - chiese Teal al suo amico Homer Bailey.

- Be'... - ammise Bailey cautamente, - ... parlando in linea di massima, ho sempre ritenuto una casa uno strumento per tenere lontana la pioggia.

- Sciocchezze! Non sei meglio degli altri.

- Non ho detto che la mia definizione fosse completa...

- Completa! Non è nemmeno nella giusta direzione. Con delle idee simili tanto varrebbe che ce ne stessimo ancora accoccolati in fondo alle caverne dei nostri piú remoti antenati. Ma non te ne faccio una colpa, - continuò Teal, magnanimo, - non sei peggio dei vermiciattoli che frequentano la facoltà di architettura. Perfino i Moderni, tutto quello che hanno saputo fare è stato di abbandonare la Scuola stile Torta Nuziale in favore della Scuola stile Stazione di Servizio e Rifornimento, grattar via la panna montata per appiccicare sulle loro costruzioni un po' di cromo, ma in fondo all'anima sono rimasti conservatori e tradizionalista come un tribunale di contea. Neutra! Schindler. Che cos'hanno questi vagabondi? Che cos'ha Frank Lloyd Wright che io non abbia?

- Incarichi e appalti, - rispose il suo amico succintamente.

- Eh? Che hai detto? - Teal inciampò nel proprio flusso di parole, vacillò per un istante e si riprese. - Incarichi, appalti. Esatto. E perché? Perché io non penso una casa come a una caverna imbottita e tappezzata; concepisco la casa come una macchina d'abitazione, un processo vitale, una cosa viva, dinamica, che cambia secondo l'umore di chi vi abita, non un morto catafalco statico e ipertrofico. Ma perché dobbiamo lasciarci inceppare dalle concezioni congelate dei nostri avi? Qualunque idiota con una infarinatura di geometria descrittiva può disegnare una casa tradizionale. La geometria statica di Eudide è forse la sola matematica? Dobbiamo gettare completamente alle ortiche la teoria Picard-Vessiot? E dei sistemi modulari, che ne facciamo? Per non dir nulla di tutto ciò che ti sugerisce la stereochimica. Possibile che non ci sia posto in architettura per la trasformazione, la omomorfologia, le strutture azionali?

- Che mi venga un colpo se lo so, - rispose Bailey. - Per me, è lo stesso che parlarmi della quarta dimensione.

- E perché no? Perché dovremmo limitarci alla... Un momento! - S'interruppe per fissare il vuoto con aria assorta. - Homer, credo che tu abbia colpito nel segno. In fin dei conti, perché no? Pensa alla infinita ricchezza di articolazioni e rapporti esistente nelle quattro dimensioni. Che casa, che casa... - Rimase in silenzio, immobile, mentre i suoi pallidi occhi sporgenti ammiccavano meditabondi.

Bailey gli scosse il braccio.

- Svegliati, Teal. Di che accidente stai parlando, delle quattro dimensioni? La quarta dimensione è il tempo; non puoi piantar chiodi nel tempo.

Teal rispose con un'alzata di spalle.

- D'accordo, d'accordo. Il tempo è una quarta dimensione, ma io sto pensando a una quarta dimensione spaziale, come lunghezza, larghezza e spessore. Come economia di materiali e comodità di strutture non potresti trovare di meglio. Per non dir nulla del risparmio di terreno da costruzione: potresti costruire una casa di otto vani sul terreno normalmente occupato da una casa d'un solo vario. Come un tesseract...

- Che cos'è un tesseract ?

- Non sei mai andato a scuola in vita tua? Un tesseract è un ipercubo, una figura quadrata a quattro dimensioni, cosi come un cubo lo è a tre e un quadrato a due. Ecco, ora ti faccio vedere -. Teal corse nella cucina del suo appartamento e tornò con una scatola di stuzzicadenti che sparse sul tavolo, spingendo da parte dei bicchieri e una bottiglia quasi vuota di gin olandese. - Mi occorre della plastilina. Ne avevo in casa un po', la settimana scorsa -. Si mise a frugare in un cassetto della scrivania ingombra d'ogni sorta di cose, che occupava un angolo della sala da pranzo, e ritornò con un blocco di creta oleosa. - Ecco qua.

- Che cosa vuoi fare?

- Ora ti faccio vedere -. Rapidamente Teal si mise a staccare dei pezzi di creta dal blocco e li arrotolò fino a farne delle palline non piú grandi di un pisello. Piantò uno stuzzicadenti in ognuna delle quattro palline e le agganciò insieme in modo da formare un quadrato. - Ecco fatto! Questo è un quadrato.

- Lo vedo.

- Un altro come questo, quattro altri stecchini e noi abbiamo un cubo -. Gli stecchini furono ora disposti in modo da formare una scatola quadrata, un cubo, con le pallottole di creta che tenevano insieme gli spigoli. - Ora noi facciamo un altro cubo esattamente uguale al primo, ed entrambi formeranno due lati del tesseract.

Bailey si accinse ad aiutarlo nell'arrotolare le palline di creta per il secondo cubo, ma si lasciò distrarre dal tocco sensuale della docile argilla e si dette a lavorarla e a modellarla con le dita.

- Guarda, - disse, alzando la mano che stringeva il frutto della sua fatica, una minuscola figuretta, - Gipsy Rose Lee.

- Assomiglia di piú a Gargantua; ti farebbe causa. Ora fa' bene attenzione. Tu apri un angolo del primo cubo, agganci il secondo cubo a un angolo e poi chiudi l'angolo. Prendi poi altri otto stecchini e congiungi il fondo del primo cubo al fondo del secondo, di sghembo, e il disopra del primo al disopra del secondo, sempre allo stesso modo -. Cosa che fece rapidamente, continuando a parlare.

- E questo che cosa dovrebbe essere? - domandò Bailey, sospettoso.

- Questo è un tesseract, otto cubi che formano i lati di un ipercubo a quattro dimensioni.

- Per me, ha soprattutto l'aria di una gabbia per conigli. E poi, lí hai soltanto due cubi. Dove sono gli altri sei?

- Usa un po' d'immaginazione, figliolo. Considera il disopra del primo cubo in rapporto al disopra del secondo: questo è il cubo numero tre. Quindi i due quadrati del fondo, poi la faccia anteriore di ogni cubo, la faccia posteriore, il lato destro, il lato sinistro, e hai otto cubi -. Li indicò con la mano a uno a uno.

- Sí, li vedo. Ma per me continuano a non essere dei cubi; sono dei... come si dice?... sono dei prismi. Non sono quadrati, ma sghembi.

- E cosí che li vedi, in prospettiva. Se tu tracciassi il disegno di un cubo su un foglio di carta, i quadrati laterali sarebbero sghembi, non ti pare? È questa la prospettiva. Quando guardi una figura quadridimensionale su tre dimensioni, è naturale che appaia storta. Ma questi sono tutti cubi lo stesso.

- Forse lo sono per te, tesoro, ma per me continuano a essere delle cose storte.

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Pagina 263

Raymond Queneau

Un Hugo geometra


Nel 1828, Abel Hugo, fratello maggiore di Victor, ebbe un figlio che, in seguito, divenne funzionario del Ministero dei Lavori pubblici. Léopold (cosí si chiamava questo figlio) sembra in un primo tempo essersi interessato alle antichità nazionali, in particolare ai problemi concernenti Alesia (come Colomb, l'illustre autore, sotto il nome di Christophe, del Savant Cosinus) e all'irritante enigma dei dodecaedri eseguiti in bronzo cavo traforato dell'epoca gallo-romana. J. de Saint-Venant, nel lavoro che ha pubblicato sull'argomento a Nevers nel 1907, sostiene che soltanto grazie alla «calorosa raccomandazione» dello zio, Léopold Hugo poté presentare i suoi lavori all'Accademia delle scienze, ma che quest'ultima non lo prese mai sul serio.

Fin dal 1867 Léopold Hugo aveva scoperto i cristalloidi a direttrice circolare e nel 1873 usciva il suo Essai sur la géométrie des cristalloides. Con quest'ultima parola Léopold Hugo designa dei solidi regolari di sua invenzione, ad eccezione (cosa che ignorava) dell'equidomoide a base quadrata già considerato da Archimede e da Viviani, e naturalmente ad eccezione anche della sfera che altro non è che un equidomoide a base circolare. Tra questi solidi, segnaliamo in particolare l equitremoide il quale, con l'aggiunta di sabbia fine, serve in cucina a misurare il tempo necessario alla cottura delle uova à la coque.

Come si è già segnalato prima, non sembra che i geometri del tempo abbiano preso in considerazione i lavori di Hugo. Nel 1875 scrive nell' Avvertenza alla sua Géométrie hugodomoidale, anhellénique, mais philosophique et architectonique: «Mi sono visto costretto ad accentuare al massimo l'originalità della forma nelle mie successive produzioni per imprimere, almeno a grandi linee, la mia piccola teoria nella memoria dei lettori. Continuerò a fare cosí anche in futuro, per tentare di abbreviare il periodo di noviziato che è costretta a superare ogni ardita novità (e nessuna è piú ardita della teoria dell'Equidomoide, il domatore delle sfere [sphaerarum domitor]) prima di arrivare a una giusta notorietà, soprattutto quando l'innovazione ha la prerogativa di rimandare anche i piú dotti a scuola perché riprende semplicemente le cose ab ovo». «La sfera, - scrive ancora, - non ha che da sgonfiarsi... o da rassegnarsi al ruolo di Equidomoide limite». «La Scuola hugodomoidale è veramente la Scuola romantica della geometria».

Nel 1877 pubblica La théorie hugodécimale ou la base scientifique et definitive de l'arithmo-logistique universelle, che contiene un'Enciclica supremolamasica, un'evocazione cinotibetana, la eometria panimmaginaria a 1/m dimensioni, l'aritmetica a 1/m cifre, un Decreto presidenziale ecumenico relativo alla base hugodefinitiva della numerazione decimale. «Nel mio isolamento di semplice filosofo, sarò costretto a usare le combinazioni piú strane e a colpire l'attenzione del lettore con la stessa singolarità della mia esposizione».

E annuncia (ma non sembra che nessuno di questi lavori sia mai stato pubblicato): Geometria druido-parisiensis nec non sinensis nova, Il potenziale hugoleopodico, La filofia dei quaternioni hugo-stereometrici, Cosmografia ovhelitica, hugosofica e realiconforme.

Gli si deve anche un progetto di «Palazzo della Scoperta» che chiamava il «Valhalla delle scienze pure e applicate» e che si sarebbe dovuto sistemare nel castello di Blois. Era anche scultore; espose il suo medaglione al Salon del 1874 e un marmo, Electryon, genio dell'elettricità terrestre al Salon del 1877.

La Bibliothèque Nationale non possiede nessuna pubblicazione di Léopold Hugo posteriore a questa data, benché sia morto soltanto il 19 aprile 1885.

Spero che questo breve ragguaglio (tratto dai Paralipomeni ai Figli del limo ) attirerà l'attenzione degli studiosi su questo autore. Bisognerà consultare gli Archivi del Ministero dei Lavori pubblici e dell'Accademia delle Scienze, i cataloghi del Salon, bisognerà mettere in chiaro la questione dei rapporti con suo zio (c'è un'allusione a Léopold nelle opere di Victor?); infine bisognerà determinare il valore dei suoi lavori di geometria e ritrovare le sue sculture.

«Analista! rendi omaggio alla verità, se no l'Equidomoide vendicatore verrà a pesare di notte sul tuo petto ansioso».

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Pagina 289

Robert Musil

L'uomo matematico [1913]


Che alcuni grandi condottieri siano chiamati «matematici del campo di battaglia» è una delle molte assurdità che circolano sulla matematica, per ignoranza della sua natura. In verità, per non essere catastrofico, il calcolo logico dei generali non deve oltrepassare la sicura semplicità delle quattro operazioni. Se tutto a un tratto fosse necessario ricorrere a un procedimento deduttivo appena un po' complicato, come la risoluzione di una semplice equazione differenziale, migliaia di uomini correrebbero ineluttabilmente incontro alla morte.

Ciò non depone a sfavore dell'ingegno dei condottieri; ma depone certo a favore della peculiare natura della matematica. Si dice che essa sia un'estrema economia del pensiero, e anche questo è giusto. Ma il pensiero stesso è una cosa complicata e malsicura. Sarà anche nato come semplice risparmio biologico; ma da un pezzo, ormai, è diventato una passione per il risparmio piuttosto complessa, alla quale l'utilità differita interessa tanto poco quanto all'avaro l'indigenza, sulla quale pure, contraddittoriamente, indugia con voluttà.

Un'operazione, a rigore, impossibile da portare a termine, come la somma di una serie infinita di addendi, la matematica consente di realizzarla, in circostanze favorevoli, in pochi istanti. Fino ai complicati calcoli logaritmici, e persino agli integrali, essa anzi la risolve addirittura con una macchina; oggi basta impostare le cifre del problema e girare una manovella, o qualcosa del genere. E cosí il tecnico ausiliario di una cattedra universitaria può annullare dei problemi che solo duecento anni fa il professore della materia avrebbe potuto risolvere soltanto andando a trovare il signor Newton a Londra o il signor Leibniz a Hannover. E anche di fronte ai compiti, naturalmente mille volte piú numerosi, che non si possono ancora risolvere meccanicamente, la matematica si può definire una meravigliosa apparecchiatura spirituale fatta per pensare in anticipo tutti i casi possibili. E ci riesce.

Non è un trionfo dell'organizzazione dello spirito? La vecchia strada maestra, battuta dalle intemperie ed esposta alle insidie dei malviventi, è stata sostituita da una linea ferroviaria con servizio di vagone letto. Gnoseologicamente parlando, è una bella economia.

Ci si è domandati quanti di questi «casi possibili» vengano realmente utilizzati. Si è riflettuto sulle vite umane, il denaro, le ore creative, le ambizioni consumate nella storia di questo immane sistema di risparmio, su tutto ciò che anche oggi vi viene investito, ed è necessario già solo per non dimenticare i risultati raggiunti, e si è cercato di commisurare tutto questo all'utilità pratica che se ne trae. Ma questo apparato cosí gravoso e complesso si rivela economico nonostante tutto; si rivela, anzi, letteralmente incomparabile. Tutto il nostro progresso civile è nato con il suo aiuto, non esiste uno strumento paragonabile. Questo apparato soddisfa completamente i bisogni per i quali è sorto, con una prodigalità che è al di là di ogni critica, come tutti i fenomeni unici nel loro genere.

Ma soltanto se, invece di guardare all'utilità esterna, consideriamo nella matematica stessa la proporzione fra le parti utilizzate e le parti non utilizzate scorgeremo l'altro volto, il volto autentico, di questa scienza. Il volto non finalizzato, ma antieconomico e passionale. All'uomo comune basta, piú o meno, la matematica imparata alle elementari; all'ingegnere quel tanto da sapersi orizzontare fra gli elenchi di formule di un prontuario tecnico tascabile, cioè non gran che; persino il fisico lavora, di solito, con strumenti matematici poco differenziati. E se una volta o l'altra le loro esigenze aumentano, sono per lo piú abbandonati a se stessi, perché al matematico questi lavori di adattamento interessano poco. Infatti gli specialisti di non pochi settori della matematica importanti dal punto di vista pratico spesso non sono dei matematici. Accanto a tali settori, però, si estendono zone smisurate che esistono soltanto per il matematico. Un immane intreccio di nervi si è raccolto attorno ai punti d'inserzione di pochi muscoli. Da qualche parte, là dentro, lavora, solo soletto, il matematico, e le sue finestre non dànno verso l'esterno ma sui locali attigui. Egli è uno specialista, perché nessun genio è piú in grado di dominare l'insieme. Ed è convinto che il suo lavoro frutterà, presto o tardi, un vantaggio traducibile in termini pratici. Ma non è questo a spronarlo: egli serve la verità, vale a dire il proprio destino, non lo scopo di esso. L'effetto potrà essere mille volte economia; ma dal punto di vista immanente la sua è una dedizione totale, una passione.

La matematica è un'ostentazione di audacia della pura ratio; uno dei pochi lussi oggi ancora possibili. Anche i filologi si dedicano spesso ad attività nelle quali essi per primi non intravedono il minimo utile, e i collezionisti di francobolli o di cravatte ancora peggio. Ma questi sono passatempi inoffensivi, ben lontani dalle cose serie della vita. La matematica, invece, proprio in esse abbraccia alcune delle avventure piú appassionanti e incisive dell'esistenza umana. Alleghiamo un piccolo esempio. Si può dire che in pratica tutta la nostra vita dipenda dai risultati di questa scienza, a essa ormai piuttosto indifferenti. Grazie alla matematica cuociamo il nostro pane, costruiamo le nostre case e facciamo andare avanti i nostri mezzi di locomozione. Prescindendo dai pochi mobili, dagli abiti e dalle calzature fatte a mano, nonché dai bambini, tutto ciò che abbiamo è ottenuto attraverso calcoli matematici. Tutto ciò che esiste intorno a noi, che si muove, corre o se ne sta immobile, non soltanto sarebbe incomprensibile senza la matematica ma è effettivamente nato dalla matematica, e ne è sostenuto nella realtà concreta della propria esistenza. I pionieri della matematica ricavarono da certi principi delle idee utilizzabili. Da quelle idee nacquero deduzioni, tipi di calcolo, risultati. I fisici ci misero su le mani e ne ricavarono nuovi risultati. Alla fine arrivarono i tecnici, accontentandosi spesso di questi risultati, ci fecero su dei nuovi calcoli e crearono le macchine. Ma a un tratto, quando ogni cosa era stata realizzata per il meglio, saltan su i matematici - quelli che si lambiccano il cervello piú vicino alle fondamenta - e si accorgono che nelle basi di tutta la faccenda c'è qualcosa che non torna. Proprio cosí, i matematici guardarono giú al fondo e videro che tutto l'edificio è sospeso in aria. Eppure le macchine funzionano! Insomma, siamo costretti ad ammettere che la nostra esistenza è un pallido fantasma. Noi la viviamo, ma soltanto sulla base di un errore; senza di esso non esisterebbe. Solo il matematico, oggigiorno, può provare sensazioni cosí fantastiche.

A questo scandalo intellettuale il matematico reagisce in modo esemplare: lo sopporta con orgogliosa fiducia nella diabolica pericolosità del proprio intelletto. E potrei addurre altri esempi, come quello dei fisici matematici, che a un tratto si accinsero con foga a negare l'esistenza dello spazio o del tempo. Ma non da sognatori e alla lontana, come, di tanto in tanto, si mettono a fare anche i filosofi (che tutti sono pronti a scusare, perché è il loro mestiere); macché: con argomenti che ti sbucano davanti all'improvviso come un'auto in corsa e hanno un aspetto terribilmente credibile. Tanto basta per capire che razza di gente sia.

Noialtri dopo l'Illuminismo ci siamo persi di coraggio. È bastato un piccolo fallimento per farci voltare le spalle all'intelletto, e permettiamo a ogni esaltato zuccone di tacciare di vano razionalismo le aspirazioni di D'Alembert e di Diderot. Andiamo in visibilio per il sentimento e diamo addosso all'intelletto, dimenticando che il sentimento senza intelletto - fatte le debite eccezioni - è grasso come un ricciolo di burro. Cosí abbiamo rovinato a tal punto la nostra letteratura che, dopo aver letto di seguito due romanzi tedeschi, dobbiamo risolvere un integrale per dimagrire.

[...]

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