Copertina
Autore Enrico Bellone
Titolo L'origine delle teorie
EdizioneCodice, Torino, 2006 , pag. 132, cop.ril.sov., dim. 145x216x11 mm , Isbn 978-88-7578-057-9
LettoreRenato di Stefano, 2006
Classe scienze cognitive , scienze sociali , scienze umane , epistemologia , filosofia , evoluzione
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Indice


vii Introduzione

    Capitolo 1
  3 La mente non ha gli occhi

    Capitolo 2
 25 Scrivere, contare e parlare di cibo

    Capitolo 3
 39 Clessidre, occhiali e cose d'altri tempi

    Capitolo 4
 57 La storia, i termometri e
    l'incerta vita delle cose reali

    Capitolo 5
 71 Sentire: filtrare con regole innate

    Capitolo 6
 83 Essere una teoria, avere una teoria

    Capitolo 7
 97 Alberi e fossili perduti

    Capitolo 8
107 L'origine e l'evoluzione delle teorie

121 Conclusioni

125 Bibliografia



 

 

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Pagina vii

Introduzione


La formazione di linguaggi differenti e di specie distinte, e le prove che sia gli uni che le altre si sono andati sviluppando con un graduale processo, sono stranamente parallele... Il continuo uso del linguaggio deve avere agito sul cervello e determinato un effetto ereditario; e questo a sua volta ha agito sul miglioramento del linguaggio. CHARLES DARWIN, L'origine dell'uomo, 1871


Gli esseri umani continuamente si scambiano informazioni su svariati argomenti. L'elenco di questi ultimi è lunghissimo: dagli orari dei treni all'età dell'universo, dal linguaggio delle api alla storia dell'impero romano. La maggior parte di questi scambi si realizza in forma narrativa, ovvero con l'impiego di verbi e di parole come prima, adesso e dopo. La forma narrativa, così intesa, fa allora riferimento a processi che si sviluppano nel tempo. Parliamo e scriviamo, infatti, di evoluzione delle galassie, degli organismi viventi, dei generi letterari o dell'arte degli impressionisti.

Il termine "evoluzione", però, non è usato in modo univoco: esistono grandi differenze tra le descrizioni relative alla nascita e alla morte di una stella, ai mutamenti nelle specie, alle variazioni nella sequenza di tele che un pittore come Paul Cézanne ha dedicato al monte S.Victoire, o alle trasformazioni linguistiche che hanno caratterizzato con James Joyce la transizione dalle pagine di Ulysses a quelle di Finnegans Wake. L'unica sfaccettatura comune a queste forme descrittive è la circostanza per cui esse ricostruiscono eventi che sono dislocati nello spazio e mutano nel tempo. Una circostanza, questa, che troviamo del tutto naturale, in quanto è conforme ai nostri più usuali modi di percepire gli oggetti: essi ci appaiono alloggiati qua e là attorno a noi, e ne osserviamo le trasformazioni.

Non dobbiamo tuttavia sottovalutare che, con altrettanta naturalezza, gli esseri umani si scambiano anche informazioni che non richiedono specifiche caratterizzazioni spaziali e temporali. Ciò accade quando si parla di entità numeriche, figure geometriche, elementi di logica matematica o fenomeni gravitazionali. Queste entità, e le loro reciproche connessioni, escludono sia un tempo narrativo sia un riferimento a specifiche collocazioni nello spazio.

La somma di due numeri fornisce infatti un terzo numero, e l'esito di questa semplicissima operazione aritmetica non dipende da quando la si esegue (o da dove si trova colui che maneggia i numeri). Lo stesso vale anche nel caso delle proprietà elementari delle figure nella geometria euclidea, o delle connessioni logiche del tipo "se... allora". In generale, «la notazione matematica è libera da determinazioni temporali, e trasmette la sua atemporalità alla logica simbolica». Per ragioni analoghe, ampi settori della fisica teorica inducono a credere che il mondo è e non diviene. Ovvero, in termini ancor più scarni, a sostenere che «la divisione tra passato, presente e futuro ha solo il valore di una ostinata illusione».

Queste sostanziali situazioni di indifferenza rispetto alla temporalità non sono d'altra parte liquidabili con l'opinione che esse non incidano sui nostri modi di vivere. Incidono, e molto. E questo particolarissimo modo di incidere va davvero chiarito. In due mosse.

Ecco la prima. Non c'è dubbio che ci adattiamo più o meno bene alle nostre nicchie domestiche proprio perché sappiamo numerare le cose che ci circondano, stimare le superfici o i volumi, ragionare in modo tale che se succede una certa cosa, allora può verificarsi un dato evento. E non c'è dubbio che l'adattamento non richiede necessariamente lunghi periodi di tirocinio o di studio. Riusciamo davvero a contare mele e anfore senza doverci prima laureare in matematica, e camminiamo nel nostro campo gravitazionale senza essere obbligati a leggere, prima, un trattato sui fondamenti della teoria della relatività generale.

Anche le api, però, si adattano senza dover prima leggere libri. Le api sono abilissime nel fornire ad altre api preziose informazioni che riguardano la collocazione di certi fiori o la direzione da seguire per raggiungerli. E nel descrivere questi scambi di dati siamo spesso portati a dire che le api si comportano così in quanto sono governate da istinti. Il che equivale a sostenere che le regole del loro comportamento sono già incise nei loro minuscoli sistemi nervosi, e che la natura stessa dell'incisione esclude ogni forma di consapevolezza o di intenzionalità. Ciò che le api fanno apparterrebbe dunque, senza residui, alla loro struttura biologica, grazie alla quale esse sono in grado di stimare distanze, angoli e quantità, e di trasferire queste conoscenze ad altre api.

Ed ecco, allora, la mia seconda mossa. Un pastore che non sappia leggere e scrivere riesce a numerare le pecore di un gregge, a programmare il percorso geometrico più affidabile per portare il gregge in una località ricca di erbe, ad agire sulla base di inferenze logiche del tipo "se faccio così, allora succede che". Orbene, quali che siano le nostre più radicate opinioni sull'istinto, dobbiamo ammettere che nel sistema nervoso del nostro analfabeta sono già incise alcune elementari norme dell'aritmetica, della geometria e della logica simbolica. E poiché potremmo conversare con lui, è inevitabile ammettere che la conversazione è possibile in quanto nel suo cervello, come nel nostro, sono già presenti quelle comuni regole di base per il linguaggio parlato che il nostro interlocutore non ha sicuramente appreso studiando grammatica e sintassi.

Questa conclusione è quanto mai impegnativa, come meglio si vedrà in questo libro. Già in sede introduttiva è comunque opportuno ricordare che essa è ben documentata da ciò che sappiamo sullo sviluppo del linguaggio scritto. Le prime tracce di scrittura risalgono a circa dodicimila anni or sono, e, per non pochi millenni, i segni tracciati dagli antichi scribi non servirono per memorizzare e trasmettere pensieri, emozioni o racconti. Erano unicamente usati per conservare valutazioni quantitative a proposito di merci e corpi numerabili. Il ricorso a entità aritmetiche condivise precedette di gran lunga la formulazione di testi sull'aritmetica, e, di conseguenza, possiamo solamente ipotizzare che le norme indispensabili per l'impiego di numeri naturali e di operazioni di somma fossero state tramandate per via orale. Ma ciò ulteriormente irrobustisce il punto di vista secondo cui la dimestichezza con numeri e somme e la capacità di ragionare in ambiti aritmetici fossero preesistenti a tutto il successivo sviluppo culturale della nostra specie, e quindi innate, non apprese con l'esperienza. Non è allora banale la domanda di chi si chiede dove fossero collocate le forme primitive dell'aritmetica. E parimenti non banale è la presa d'atto di una situazione che riguarda lo sviluppo della scrittura e che non è molto intuitiva: la stesura di poesie, i resoconti sulla vita di un re, i primi testi sulle costellazioni e i pianeti, o i documenti sui rituali religiosi e su come rivolgersi agli dèi per ottenere qualcosa, emersero come deviazioni inattese rispetto ai bisogni originari che dovevano essere soddisfatti dal mero computo di anfore d'olio o di vasi d'orzo.

Riassumendo, abbiamo accesso sia a descrizioni che coinvolgono il prima e il dopo, sia a descrizioni che non necessitano di riferimenti allo scorrere del tempo. Questa biforcazione è particolarmente rilevante quando si tiene doverosamente conto del fatto che il secondo genere di descrizioni è essenziale per capire com'è fatto il mondo. La cultura tipica di Homo sapiens sapiens è effettivamente impensabile senza numeri, figure geometriche e regole logiche.

Nello stesso senso, è impossibile collocare l'evoluzione delle specie al di fuori di discipline come la biologia molecolare e la genetica, che hanno radici nella biochimica e, quindi, nella fisica, che a sua volta dipende da austeri settori della matematica e della logica matematica, esenti questi ultimi da convivenze con il tempo delle nostre sensazioni.

Che cosa fare, allora, per tracciare una teoria evoluzionistica riferita al tempo fenomenico, visto che essa dovrebbe comunque rifarsi ad altre discipline scientifiche che in varie forme escludono questa modalità del tempo?

Questa domanda è lecita. Le varie teorie oggi disponibili non sono tra loro disgiunte. Esse sono tutte immerse in una sorta di continuum di linguaggi, e solo provvisoriamente viaggiamo in una teoria senza l'obbligo di prestare attenzione ad altre. Nello stato attuale dei nostri saperi, tutta la scienza è un affinamento del senso comune, poiché tenta di collegare l'esperienza sensibile a un sistema globale di enunciati logicamente connessi. O, se si preferisce, tutta la scienza è una specie di ponte lungo il quale passiamo da una stimolazione sensoriale a un'altra. Quando diciamo: "Piove", indichiamo uno stato di cose che ai nostri sensi appare situato in un determinato posto e realizzato in un determinato momento. Eppure, il transito da questo enunciato alle zone più remote del linguaggio, là dove il senso comune incontra la scienza, è un transito che si svuota dai riferimenti rituali a entità tra loro distinte e battezzate come "spazio", "tempo" e "materia".

Ritengo che queste considerazioni siano doverose in un'introduzione, se non altro perché un'introduzione è pur sempre un'avvertenza per il lettore. L'avvertenza qui si traduce nel dire che questo libro tratta l'evoluzione culturale come un fenomeno biologico. Suggerisco infatti che si possa parlare dell'origine delle teorie e del loro sviluppo in analogia con quanto scientificamente si dice dell'evoluzione delle specie e della selezione naturale.

Suggerisco anche che debbano essere prese in esame certe conseguenze di questo modo di intendere l'evoluzione, anche se esse sono poco intuitive. Scarsamente intuitiva è quella che riguarda la struttura atemporale delle inferenze logiche, che non possiamo fare a meno di effettuare per parlare di una qualsiasi faccenda, anche se la descrizione di quest'ultima ha bisogno di una scansione temporale. Altrettanto lontana dalle nostre abitudini è la conseguenza che si ha quando si abbandona davvero la propensione a considerare l'uomo come la misura di tutte le cose. L'antropocentrismo è una patologia filosofica, anche se ha già subito le terapie che hanno tolto la Terra dal centro del cosmo e l'uomo dal centro del mondo vivente.

Un'ulteriore conseguenza poco intuitiva ha a che fare con l'opportunità, espressa in questo libro, di eliminare le nozioni di "mente" e di "idea". Non coltivo troppi pregiudizi nei confronti delle entità che, pur non essendo direttamente osservabili, popolano le nostre teorie. Una mente e un'idea, quali che siano le proprietà che attribuiamo loro, non si percepiscono con i sensi e sfuggono a un microscopio: ma queste non sono ragioni per metterle in disparte. Un elettrone, il numero "4" e un teorema non hanno il sapore delle fragole e non sono osservabili con un normale microscopio, ma abbiano una pletora di ragionevoli motivi per sostenere che si tratta di entità ammissibili per spiegare molti fenomeni.

Il mio punto di vista sull'eliminazione delle menti e delle idee dipende esclusivamente dal fatto che esse sono incompatibili con i modelli evoluzionistici della cultura, anche se autorevoli studiosi ritengono che la mente sia basilare per sviluppare una buona descrizione della crescita delle conoscenze verso la verità. Basti qui ricordare, a questo proposito, l'opinione di Karl Raimund Popper. Egli sostiene che tutti gli organismi viventi, inclusi i vegetali, hanno conoscenze, e che «il 99 per cento della conoscenza di tutti gli organismi è innata» e incorporata nella loro «costituzione biochimica». Per quanto mi riguarda, c'è poco da eccepire. Egli tuttavia aggiunge che ciò si inquadra in una visione evoluzionistica, e che la scienza, grazie alla mente, tende alla verità «oggettiva» come «corrispondenza con i fatti». L'aggiunta è problematica. Se infatti si accetta una visione evoluzionistica, allora non si può anche accettare che l'evoluzione tenda a uno scopo: a meno di essere seguaci di qualche variante dell' Intelligent Design.

Detto questo, nel mio libro raccolgo dati provenienti da discipline tra loro diverse, e compio un tentativo di individuare correlazioni tra i dati così selezionati, a conferma sia della tesi di Cavalli Sforza secondo cui le idee sono «materiali», sia della tesi di Darwin secondo cui il linguaggio e il mondo dei valori sono riconducibili alla sfera del biologico. Con una clausola: ovvero, che la sfera del biologico non è autonoma rispetto alla sfera esplicativa delle scienze fisiche e matematiche.

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Pagina 16

Una trentina d'anni dopo il lavoro di Hartline, altri studiosi ne ricordavano il valore, che consisteva nell'aver spalancato una linea di studio grazie alla quale si doveva abbandonare il punto di vista secondo cui il sistema nervoso non farebbe altro che raccogliere dati trasmessigli dalla periferia corporea. Il cervello non è un recipiente passivo, ma è un cacciatore di informazioni che attivamente accoppia gli stimoli esterni e i propri codici interni, o innati: vedere è cercare.

Otteniamo pertanto una conseguenza che riguarda la distinzione di John Searle tra esperienza percettiva e intenzionalità. La distinzione si dovrebbe infatti reggere sull'opinione che l'intenzionalità differisca dall'esperienza percettiva, in quanto quest'ultima rinvia a un recipiente passivo. Ma questo recipiente non c'è, neppure all'estrema periferia dei sensori. Al contrario, possiamo solo osservare un primo gruppo attivo di modificazioni spaziotemporali nelle cellule già in prossimità del mondo esterno, e un succedersi, poi, di amplificazioni, ritardi, sfasature, inibizioni e traduzioni in segnali elettrici e chimici, correlazioni varie con gli apparati stessi che biologicamente conservano memorie di eventi precedenti. Il tutto regolato da processi già installati nel sistema nervoso, i quali operano senza che l'organismo se ne accorga: ma la circostanza per cui l'organismo non è consapevole di questi processi non vuol dire che l'organismo sia passivo.

[...]

In un'altra sua opera, Searle scrive che «la coscienza è un fenomeno naturale, biologico», ma che essa non è esplorabile con le «tradizionali categorie del mentale e del fisico». Egli battezza questo suo modo di vedere con l'espressione «naturalismo biologico», e ritiene che «saremo in grado di comprendere la coscienza quando capiremo come funziona il cervello, in termini biologici». Più avanti, però, egli sottolinea che «l'evoluzione biologica deriva da forze naturali, brute e cieche», mentre «le idee devono essere capite e interpretate. E devono essere capite e giudicate come desiderabili o indesiderabili, per poter essere considerate oggetto di imitazione o rifiuto».

Sia detto come nota marginale: è abbastanza curioso che un sostenitore del "naturalismo biologico" attribuisca brutalità e cecità alle forze che governano l'evoluzione biologica. Quest'ultima è sicuramente cieca, ma ciò non la rende sgradevole a chi davvero crede che la stessa coscienza, un giorno o l'altro, sarà ridotta a operazioni del cervello. In realtà, Searle sta qui polemizzando con Daniel Dennett, il quale nega l'esistenza di stati mentali e di stati di coscienza soggettivi. Il che, in breve, vuol dire che l'elogio del "naturalismo biologico" è un atto filosofico parziale: tutto va bene, ma lasciamo in pace gli stati mentali e la coscienza, con tutto il corrispondente bagaglio di intenzionalità varie.

Sorge allora un problema che va molto al di là delle tesi di Searle, e ripropone, in chiave generale, i nostri punti di vista sulla verità e sull'opinione che la crescita delle conoscenze sia, nell'uomo, un itinerarium mentis in veritatem.

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Pagina 22

Ho scelto di riesumare la disputa sulle qualità oggettive (o primarie, o etichette) e soggettive per un motivo solo. Se è legittimo, a mio parere, insistere sulla mancanza di modelli atti a esprimere le interazioni tra le menti e i corpi, allora è altrettanto legittima la posizione di Searle secondo cui c'è una mancanza di modelli che esprimano un rapporto preciso tra le strutture fisiche dei cervelli e la coscienza. In questo senso, Searle avrebbe ragione nelle sue critiche a vari studiosi di primo piano, quali Edelman.

In un altro senso, però, le critiche di Searle sono deboli. Esse presumono, infatti, qualcosa che la moderna impresa scientifica non aspira a produrre: spiegazioni complete e definitive. Non a caso ho appena fatto riferimento alla scienza "moderna", e cioè a quelle modalità di accrescimento dei sapere che Galilei ha instaurato rielaborando sia la scienza dei greci, sia la teoria della conoscenza, così da prendere le distanze da quei filosofi in libris i quali sostenevano che, per bocca di Aristotele, la natura stessa aveva già detto tutto il dicibile. Sta proprio nel Dialogo del 1632 il manifesto dell'incompletezza, e vale davvero la pena di citarlo per esteso: «Estrema temerità mi è parsa sempre quella di coloro che voglion far la capacità umana misura di quanto possa e sappia operar la natura, dove che, all'incontro, non è effetto alcuno in natura, per minimo che e' sia, all'intera cognizion del quale possano arrivare i più speculativi ingegni. Questa così vana presunzione d'intendere il tutto non può aver principio da altro che dal non avere inteso mai nulla, perché, quando altri avesse esperimentato una volta sola a intender perfettamente una sola cosa ed avesse gustato veramente come è fatto il sapere, conoscerebbe come dell'infinità dell'altre conclusioni niuna ne intende».

Ovvero: è sacrosanto ribadire che le conoscenze esistenti oggi sul cervello non spiegano la coscienza o gli stati mentali intenzionali, e che, di conseguenza, abbiamo il cosiddetto "mistero della coscienza". Ciò tuttavia equivale a sostenere che l'equazione di Dirac per l'elettrone quantorelativistico non permette di scrivere la funzione d'onda di una tonnellata di mandarini e di trovarne adeguate soluzioni, anche se i mandarini contengono elettroni: dal che dovremmo concludere che siamo di fronte al "mistero dei mandarini".

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Pagina 32

Questo punto di vista si basa sulla circostanza, controllabile in laboratorio, per cui «tutti i membri della specie umana hanno, anche prima dell'apprendimento dell'aritmetica, una rappresentazione non verbale dei numeri approssimati, acquisita nel corso dell'evoluzione».

L'esistenza di tale rappresentazione non verbale ci aiuta a meglio comprendere come mai il linguaggio scritto abbia preso le mosse da atti di contabilità, e non da altre esigenze. Ma, nello stesso tempo, ci invita a soppesare una tesi decisamente incisiva. Questa: «Non è dunque necessario supporre che l'universo sia stato concepito per essere conformato alle leggi matematiche. Non potrebbe essere piuttosto che le nostre leggi matematiche, e, prima ancora, i principi di organizzazione del cervello siano stati selezionati in funzione del loro adattamento alla struttura dell'universo?».

La tesi è davvero forte, e pone almeno due questioni rilevanti per l'intera teoria della conoscenza. Una prima questione si riferisce al fatto che molti dei nostri saperi sulla natura sono sempre più matematizzati. La seconda mette in evidenza il ruolo che i modelli evoluzionistici conferiscono all'adattamento: l'adattamento, infatti, è cosa ben diversa dalla tensione verso la verità.

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Pagina 54

Riassumiamo, ora. Ciò che chiamiamo "senso comune" e ciò che chiamiamo "linguaggio di senso comune" si reggono sulla naturalezza di un'operazione triplice e inconscia. Siamo bombardati da stimoli in eccedenza: miliardi di neutrini al secondo per ogni centimetro quadrato della nostra epidermide, oppure fotoni che talune cellule specializzate delle nostre retine sanno catturare. Nel primo caso, non abbiamo sensori, e nel secondo ne abbiamo di così raffinati da tradurre quei quanti di luce nella nostra percezione visiva di un dipinto di Leonardo da Vinci. Troppi stimoli, perbacco. La triplice discriminazione è un inconscio filtraggio e un'inconscia irregimentazione di ciò che i filtri lasciano passare: generiamo oggetti, li distribuiamo nello spazio e li raccontiamo nel tempo.

Fatto il riassunto, si è ancor più radicalizzata la divaricazione tra i nostri impianti narrativi nello "spazio + tempo" e gli impianti esplicativi inquadrati nello "spaziotempo".

Quine, avendo le competenze per discutere di eventi nello "spaziotempo" della teoria della relatività generale, non si ritrae di fronte alla divaricazione. Così, per fare un esempio eccellente, scrive che una mentalità legata al tempo è sempre in ambasce ogni qual volta debba cimentarsi nel concepire «relazioni fra non contemporanei». Si può chiudere serenamente un occhio nel caso di Marco Antonio e Cleopatra: sono banalmente coesistenti («a dispetto della loro non esistenza attuale, perché ormai è passata»). Ma non si possono chiudere gli occhi quando esaminiamo la relazione di "bis-bis-nonno": «Raramente due persone, se mai è capitato, sono esistite simultaneamente per essere in quella relazione».

E allora? «Che dire, ancora, di una classe di non contemporanei, come la classe di tutti i grandi generali della storia? Senza dubbio vi sono molti metodi per affrontare il problema, ma quello che abbiamo dinanzi agli occhi è il più semplice e il migliore: riconoscere tutti gli abitanti dello "spaziotempo", per quanto remoti rispetto a qualsiasi dimensione, come atemporalmente coesistenti».

Alla radice del discorso à la Quine sta la divaricazione maggiore: «Il linguaggio comune insiste sull'aspetto temporale dei verbi anche quando, come in matematica pura, il tempo è irrilevante. Per fortuna la notazione matematica è libera da determinazioni temporali, e trasmette la sua atemporalità alla logica simbolica».

Quale determinazione temporale dovremmo scovare per sostenere che "uno più uno fa due" o che "se... allora" dipendono dal secolo o dall'anno (o dal luogo) in cui sono enunciati? La trasmissione di cui parla giustamente Quine investe per intero, grazie alla matematica e alla logica, anche la teoria della relatività generale, così che, per Einstein, siamo autorizzati a dichiarare che il mondo è e non diviene.

Ciò è molto trasparente. Ma, a dispetto della trasparenza, ha senso credere che prima furono i dinosauri e dopo coloro che uccisero Giulio Cesare.

Abbiamo margini per invocare una mediazione? Suggestiva è quella esposta da Hermann Weyl. Egli accetta senza riserve il punto di vista secondo cui, ragionando sul mondo con un'ottima teoria fisica, non è possibile assegnare indelebili e distinti statuti ontologici a spazio e tempo. L'accettazione ci porta, come ormai sappiamo a iosa, a nutrire perplessità sui nostri più comuni linguaggi, poiché questi ultimi si rifanno a percezioni condivise e si esprimono raccontando dei prima, degli ora e dei dopo, mescolati ai dove e ai qui. La divergenza è radicale, e Weyl ipotizza che essa nasca in quanto la coscienza opera come levatrice: la coscienza che, esplorando a modo suo una qualche porzione del mondo, «percepisce ciò che incontra e lascia indietro come storia». Le cose stanno allora come se ci fosse un "io" che con naturalezza espone eventi del passato, avendone conoscenza sia attraverso la percezione diretta, sia attraverso procedure di memorizzazione in qualche modo connesse alla percezione stessa.

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Pagina 107

Capitolo 8

L'origine e l'evoluzione delle teorie


Finora ho tracciato alcuni suggerimenti che riguardano che cosa facciamo quando usiamo procedure per apprendere una teoria: procedure materiali nel senso pieno del termine, poiché sono riferite a reti plastiche di cellule. All'inizio queste procedure ci guidano, senza che ne siamo consapevoli, nel leggere un testo in cui una data teoria è presente, oppure nell'ascoltare qualcuno che la espone e, non di rado, nel prendere appunti scritti da controllare consultando qualche libro. In ogni caso, la lettura è basilare. Ma la lettura, di per sé, non è sufficiente. Occorre infatti impadronirsi di un complesso di inferenze e poi farne uso per risolvere problemi: a questo servono le teorie.

Ho appena evocato la lettura. Leggere delle pagine non assomiglia al sentire di cartesiana memoria? Nulla vieta di parlare della lettura con un linguaggio mentalista. Gli occhi ricevono stimoli dall'esterno e li trasmettono a sezioni interne del cervello. Gli stimoli, quali che siano le nostre conoscenze sulla luce, sono pensati come entità — corpuscoli, onde, raggi — che vengono riflesse dalla pagina e giungono sino alle retine, dove lasciano tracce che poi sono tradotte in segnali e viaggiano di cellula in cellula, sino ad approdare ad aree specializzate del sistema nervoso che sono usualmente citate con l'espressione "area visiva".

Il percorso dalla pagina all'area visiva è mappato sempre meglio, e le mappe sono sempre più dettagliate. Basta consultare i lavori di Semir Zeki o i capitoli di un manuale di neuroscienze per ottenere informazioni sulla mappatura che esprime, appunto, le fasi del sentire mediate da assemblee cellulari. Anche un mentalista può consultare le mappe. Può addirittura ammettere che esse descrivono sempre meglio il substrato materiale dell'apprendimento e della memoria. Fatta l'ammissione, il mentalista coerente è tuttavia propenso a distinguere tra il substrato e l'agire cognitivo vero e proprio. La coerenza è ostinazione su un tema unico: il substrato non sarebbe nient'altro che un recipiente passivo. Il capire, di conseguenza, si dà altrove. In qualche stazione terminale che se ne sta al di là, o sopra, il substrato, e che al substrato non è riducibile: la mente, l'anima, lo spirito.

Ogni forma di descrizione mentalista dell'accoppiata sentire-capire è tuttavia debole, come più volte ho sottolineato nelle pagine precedenti, qualora configuri i processi che dovrebbero realizzarsi sia là dove termina il sentire e comincia il capire, sia là dove il capire si traduce in messaggi da inviare al corpo affinché quest'ultimo faccia qualcosa. Leggere, ad esempio.

Per evitare queste due imbarazzanti lacune suggerisco di cominciare da capo. Ovvero, dalla prima riga di questa pagina: «Anche un mentalista può...». Anzi, dalla prima lettera. La prima lettera è il segno "A". La comprensione della riga è legata alla circostanza per cui riconosciamo questo segno come A e non come H o 5. A volte ci si sbaglia, ma l'errore può essere facilmente corretto.

Come facciamo a riconoscere A? Propongo di modificare la domanda, e di sostituirla con questa: "Dove A è riconosciuto?".

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Pagina 112

Abbiamo molti sistemi di memoria, oltre ai due appena citati. Ma sullo sfondo ci sono soltanto le connessioni sinaptiche e i loro processi interni. Vanno allora attentamente ascoltati Edelman e Tononi: «In un cervello complesso, la memoria è il risultato dell'accoppiamento selettivo tra attività neurale in corso, distribuita, e una serie di segnali che provengono dal mondo, dal corpo e dallo stesso cervello. Lo modificazioni sinaptiche che ne derivano influiscono sulle risposte che quel cervello darà a segnali simili o differenti».

Questo modo di vedere punta all'elaborazione di una teoria della conoscenza «a fondamento biologico», capace, in altri termini, di andare oltre il suggerimento di Quine secondo cui l'epistemologia va naturalizzata costruendo un ponte tra le irritazioni che gli stimoli causano negli organi di senso e i comportamenti osservabili, tra i quali il linguaggio. Quine non sottovaluta, ovviamente, le reti di neuroni e le connessioni sinaptiche. Ma non entra nelle loro architetture. Ecco allora che Edelman e Tononi sono propensi ad andare oltre il naturalismo: «L'epistemologia naturalizzata si ferma di necessità alla stimolazione delle lamine recettoriali — della retina, della cute, delle papille gustative — e seppure includa l'analisi del linguaggio, non tocca le attività interne del corpo e del cervello. A nostro avviso è una concezione insufficiente: l'epistemologia dovrebbe affondare le radici nella biologia, in special modo nelle neuroscienze e in una teoria della coscienza, che includa naturalmente la psicologia».

Un simile superamento può trovare molti punti di appoggio, soprattutto nella propensione a riunificare gli studi sul cervello e le indagini psicologiche. Un recente lavoro di Kandel e Squire pone in evidenza che, poiché «tutti gli organismi sperimentano un ambiente sensoriale diverso, ciascun cervello è modificato in modo diverso. Questa creazione graduale di un'architettura cerebrale peculiare fornisce una base biologica per l'individualità».

Il mio punto di vista è che Edelman e Tononi siano dunque nel giusto criticando l'insufficienza dell'approccio naturalistico à la Quine. Si tratta allora di vedere se effettivamente si può andare oltre questa forma del naturalismo salvando gli argomenti di Quine sulla mutevolezza, storicamente documentabile, delle entità che comunque la scienza introduce nelle proprie descrizioni della realtà.

Andare oltre vuoi dire corroborare una visione forte dell'evoluzione culturale in chiave decisamente biologica. Vuol dire, senza perifrasi, accettare un modello secondo cui, nel corso dell'evoluzione, i sistemi di base per «la categorizzazione percettiva» erano «già in sede prima che apparisse la coscienza». Vuol dire, anche, che in una specifica fase dell'evoluzione biologica (la transizione tra rettili e uccelli, e tra rettili e mammiferi) sono "emersi" alcuni moduli anatomici predisposti per attività di memorizzazione.

E va bene. Ma quante sono le sinapsi, come sono fatte e come funzionano?

Cominciamo dalla numerazione. Nella sola corteccia cerebrale umana sono al lavoro un milione di miliardi di connessioni sinaptiche: «Se contassimo una sinapsi al secondo, finiremmo il nostro conteggio tra 32 milioni di anni. Se considerassimo poi il numero di possibili circuiti neurali, avremmo a che fare con cifre iperastronomiche: un 10 seguito da almeno un milione di zeri». Il che si può intuire scrivendo, come fanno Kandel, Siegelbaum e Schwartz, che «vi sono probabilmente più sinapsi nel cervello umano che stelle nella nostra galassia».

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Pagina 117

Appunto, le versioni scritte, che sono i fossili di cui abbiamo documentazione, ma che prima di essere "costruite" vengono elaborate con le procedure materiali delle reti neuronali. Dovendo tenere conto della plasticità intrinseca di queste ultime, ci si deve allora chiedere dove se ne stiano alloggiate le fasi intermedie fra l'apprendimento e la stesura di una specifica versione scritta.

Le fasi intermedie sono nelle assemblee cellulari, e sottostanno alle grammatiche molecolari. Una persona studia una teoria e ne immagazzina un certo numero di sfaccettature. Ma la relativa labilità delle procedure di immagazzinamento è ormai nota. Si danno continuamente mutazioni, sia in quanto nuove proteine possono essere sintetizzate o derubricate, sia in quanto può cambiare il numero stesso delle connessioni sinaptiche. Tutte le informazioni circolanti nel sistema nervoso vanno per loro conto, obbedendo a ciò che nel sistema è già presente grazie ai traffici dell'evoluzione.

Processi materiali, questi, che agiscono sempre, quali che siano le teorie in gioco. Il cucciolo d'uomo, nelle prime settimane di esplorazione della sua nicchia, esibisce comportamenti regolati da aspettative innate, e si avvia a ristrutturare quelle aspettative attraverso procedure di learning per le quali è già attrezzato. Il cucciolo non è un recipiente passivo, non è una tabula rasa, non è un foglio bianco (o un secchio vuoto) su cui (o in cui) l'esperienza deposita qualcosa. Egli possiede norme, le sottomette al vaglio ambientale, comincia a emettere fonemi e brevi enunciati, e infine a scrivere.

L'origine degli apparati teorici è allora questa, sia che si esamini il problema nei cuccioli d'oggi, sia che invece volgiamo l'attenzione ai primi scribi. Posso quindi esporre la mia prima tesi: il problema circa l'origine delle teorie non è dissimile da quello che Darwin enunciò e avviò a soluzione a proposito dell'origine delle specie. In entrambi i casi ci sono antenati, anche se di questi ultimi mancano molti resti fossili. Lo storico che ricostruisce l'evoluzione di una teoria deve sempre fronteggiare la mancanza di anelli di congiunzione tra le singole fasi di cui esiste una documentazione affidabile. Questa mancanza sta alla base dell'argomento per cui certi punti di svolta - un dato teorema di Galilei sull'accelerazione - gli si presentano come anacronismi, come eventi emergenti da contesti storici in cui non si trovano le premesse culturali che dovrebbero invece garantire una crescita razionale delle conoscenze.

Gli anelli di congiunzione sono irreperibili perché sono situati nella materialità delle cellule nervose, là dove continuamente mutano quelle condizioni dell'apprendimento che sono le vere responsabili delle variazioni culturali.

Obiezione: la galileiana scoperta dei primi quattro satelliti di Giove non è l'esito di un tentativo di mettere alla prova una previsione, ma nemmeno è riducibile alle sole mutazioni in una rete di neuroni. Certo. Solo che in questo specifico caso quella rete di neuroni non interpretava dati esterni filtrati solamente dalle retine con cui era innervata, ma interagiva con altri dati, mediati da un filtro di altra natura: un sistema costituito da quelle retine e da una coppia di lenti allineate alle estremità di un tubo.

La comparsa inattesa e imprevedibile di quattro insospettabili entità nel cielo di Giove era propriamente un evento generato da una protesi materiale che acuiva l'operatività naturale degli occhi, e induceva il cervello dell'osservatore a prendere atto di uno nuovo stato di cose.

Si profila così la mia seconda tesi: l'evoluzione delle teorie, come l'evoluzione delle specie, non è retta da un progetto e non tende a uno scopo.

Solo in apparenza questa seconda tesi è in disaccordo con la plurisecolare credenza secondo cui la dinamica delle teorie porta gli esseri umani a estendere e approfondire le descrizioni dei fenomeni. Questa vetusta opinione, infatti, non distingue a sufficienza tra l'appello a regole di ragionamento e la pretesa che il rispetto delle regole sfoci in teorie in cui la realtà si rispecchi sempre meglio.

Quale rispecchiamento? E che cosa si dovrebbe mai riflettere in quegli specchi variabilissimi che chiamiamo "teorie"? Ciò cui affibbiamo il nome "realtà" è soggetto a continui cambiamenti, perché lo status degli enti che formerebbero la realtà è estremamente flessibile: si pensi agli orbi cristallini e agli epicicli, all'etere luminifero e alla vis vitalis, ai quattro elementi dell'antica filosofia, all'atomo indivisibile, al tempo assoluto o all'anima di Cartesio. Chi si appella a regole nella costruzione di descrizioni di questo o quel pezzo di mondo non fa altro che accettare la possibilità che qualcuno gli dica di andare alla lavagna per esporre qualcosa, o di mostrare quali misure siano conformi - e sino che punto - con un assetto teorico messo in pubblica discussione. L'accettazione ha indubbiamente aspetti metodologici, ma alla sua radice sono collocate quelle norme corporee e non progettuali che l'evoluzione ha pazientemente e ciecamente imposto negli organismi viventi, e che cominciamo a scoprire nei nostri cervelli e in tutti gli esseri viventi che cercano di sopravvivere e riprodursi. La seconda tesi può aiutarci a rettificare, in chiave biologica, l'approccio naturalistico.

Se queste due tesi sono ammissibili, allora se ne rende necessaria una terza. Essa riguarda lo stato di cose per cui i tempi dell'evoluzione delle specie si stimano in milioni di anni, mentre la nascita del linguaggio scritto è recentissima. Una simile differenza temporale suggerisce che l'evoluzione culturale, così come la rintracciamo sui documenti restanti, coinvolga velocità di crescita e ristrutturazione ben superiori a quella che invece è adatta alle scale temporali dell'evoluzione degli organismi viventi.

In entrambe le situazioni è ormai accertato il ruolo centrale delle mutazioni. A proposito della crescita delle conoscenze, le uniche mutazioni accertabili direttamente (ovvero, principalmente attraverso la lettura) sono quelle che stanno negli elaborati scritti. Questi ultimi, tuttavia, sono solo gli esiti di processi che si realizzano nelle reti di neuroni e che, pertanto, non lasciano fossili da osservare. Nonostante ciò, questi processi sono descrivibili con teorie e apparati di laboratorio la cui estensione è in crescita continua e ci fa comprendere che cosa siano e dove avvengano le mutazioni in seno alle nostre plastiche reti.

Rileggiamo con cura, allora, Kandel e Squire: «Attraverso l'evoluzione, il sistema nervoso ha ereditato molti adattamenti che sono troppo importanti per essere lasciati ai capricci dell'esperienza individuale. Per contro, la capacità di plasticità si riferisce al fatto che il sistema nervoso è in grado di adattarsi o di mutare come risultato delle esperienze che avvengono nel corso della vita di un individuo, e il risultato è che gli organismi possono apprendere e ricordare».

La terza tesi pertanto afferma che, durante la transizione fra lo studio di una teoria e la produzione di una sua versione scritta, folle di variazioni popolano interi agglomerati di connessioni sinaptiche: l'evoluzione culturale è il prodotto di queste mutazioni, e la sua velocità dipende dal numero enorme di connessioni sinaptiche.

Rimarrebbe sullo sfondo la questione della temporalità. L'evoluzione culturale si sviluppa nel tempo, si dice. Ma è proprio l'evoluzione culturale a respingere l'ipotesi che esistano tre entità tra loro distinte e chiamate "tempo", "spazio" e "materia". La questione della temporalità, pertanto, porterebbe a un conflitto netto fra ricostruzioni di stampo evoluzionistico e descrizioni relativistiche dell'universo.

Non è il caso di sottolineare una divergenza che, tutto sommato, è solo apparente. I nostri cervelli sono portati a reificare molte cose: così coltiviamo la credenza che il tempo fenomenico sia un ente reale, ovvero indipendente dai nostri neuroni. Nessun dramma, però: c'è sempre spazio, nel linguaggio di senso comune, per il tempo fenomenico. Uno spazio analogo a quello dedicabile alle menti, alle idee e agli arcangeli. Basta sapere, quando maneggiamo enunciati di senso comune, di che cosa stiamo parlando.

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