Copertina
Autore Virginio Bettini
Titolo Scorie
SottotitoloL'irrisolto nucleare
EdizioneUTET Libreria, Torino, 2006, Frontiere , pag. 190, cop.fle., dim. 150x230x17 mm , Isbn 978-88-02-07352-1
PrefazioneGiorgio Nebbia
LettoreCorrado Leonardo, 2006
Classe scienze tecniche , ecologia , energia
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Indice

VII Prefazione di Giorgio Nebbia
  3 Introduzione

 21 1. Il parco nucleare del XXI secolo e il problema delle scorie

 31 1.1 La situazione in Europa
 42 1.2 Geografia delle ipotesi di rilancio del nucleare
 51 1.3 L'Europa divisa sul rilancio del nucleare,
        in attesa del picco di Hubbert
 55 1.4 L'azzardo francese del nucleare pulito

 73 2. Il caso Yucca Mountain

 80 2.1 Le opzioni considerate per la gestione delle scorie nucleari
 83 2.2 Deaf Smith County e Hanford
 90 2.3 Opinioni a confronto su Yucca Mountain
 95 2.4 Il trasporto delle scorie verso Yucca Mountain
 98 2.5 Assurde giustificazioni analogiche

105 3. Scorie a Scanzano, rottura del patto faustiano

110 3.1 La scelta di Scanzano
113 3.2 Scanzano una verifica di geologia ambientale
116 3.3 Il confinamento geologico delle scorie radioattive
        a lunga vita e ad alta attività
122 3.4 Il parere dei fisici
129 3.5 L'ipotesi spallazione e l'European Spallation Source
131 3.6 La tecnologia laser
132 3.7 Nessuna scelta dopo la rivolta di Scanzano
135 3.8 La Corte Costituzionale cancella la protesta antinucleare

138 4. Principi di precauzione

142 4.1 Oklo, un non analogo
145 4.2 Un improbabile ecologismo nucleare
149 4.3 Un esempio: le scorie prodotte da un REP-PWR
150 4.4 Il percorso obbligato del controllo del nucleare
        e delle scorie
150 4.4.1 Il controllo delle scorie s'impone,
          nel rispetto delle generazioni future
151 4.4.2 Depositi chiusi, sigillati e dimenticati?
152 4.4.3 Ipotesi Negawatt
160 4.4.4 Una trappola da evitare:
          produrre idrogeno utilizzando l'energia nucleare
162 4.4.5 Protocollo di Kyoto, cavallo di Troia del nucleare
167 4.4.6 Applicare al nucleare il principio di precauzione
168 4.4.7 Introdurre il bilancio di massa nella valutazione
          del ciclo del nucleare

173 Bibliografia generale a cura di Antonella Scarpa e Virginio Bettini

 

 

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Pagina VII

Prefazione


La radioattività è sempre esistita intorno a noi. Georg Bauer, detto Agricola (1494-1555), nel suo trattato di tecnologia mineraria, racconta che i minatori che scavavano minerali di argento nelle montagne metallifere a Joachimsthal (Jachimov, nella Repubblica Ceca), si ammalavano perché l'aria era infestata da «spiritelli maligni», che probabilmente erano i vapori di radon emessi dall'uranio e dal radio presenti nelle rocce. La parte che non serviva a fini metallurgici veniva scaricata come inutili scorie nei pressi delle miniere. E quando Marie Curie (1867-1934), per la sua tesi di laurea, cercò di identificare la misteriosa sostanza che accompagnava l'uranio e che impressionava le lastre fotografiche molto più dello stesso uranio, si fece mandare, a sue spese — una povera studentessa polacca a Parigi, moglie di un assistente universitario — un carico di scorie proprio da Joachimsthal.

Ci vollero mesi per scomporre quei detriti rocciosi, per separare gradualmente una frazione ricca di uranio e per frazionare dai sali di uranio i sali della sostanza, molto più radioattiva, che fu chiamata radio. Il genio era stato fatto uscire dalla bottiglia magica ed era ora possibile guardarlo in faccia: il raggio che uccide e risana, che permette di fermare il cancro, ma che, nello stesso tempo, provoca il cancro se una persona sana viene esposta troppo a lungo a esso; di tumore morì, per il prolungato contatto con i sali di radio e polonio, la stessa Marie Curie.

I primi decenni del Novecento furono segnati dalle prime attività industriali di estrazione dei minerali di uranio, di produzione di uranio e radio e dalla scoperta che molte morti di lavoratori dovevano essere attribuite alla esposizione alla radioattività delle scorie di varie attività minerarie e metallurgiche (una pagina della storia ecologica e industriale tutta ancora da scrivere).

Ma la storia delle scorie radioattive di cui parla questo libro comincia un po' più tardi; le ricerche dei Curie e dei pionieri stimolarono la curiosità e la voglia di capire perché alcuni elementi potevano liberare materia ed energia. Nel corso di pochi anni fu ricostruita la struttura del nucleo atomico e fu possibile osservare che in alcuni elementi, per esposizione alle nuove particelle, alfa e beta, e alle radiazioni gamma, i nuclei originali si trasformano nei nuclei dello stesso o di altri elementi; l'analisi dei bilanci energetici di queste trasformazioni mostrò ben presto che alcuni nuclei di elementi pesanti, come uranio e torio, addirittura subiscono fissione con «perdita di massa» e liberazione di una grande quantità di energia, proprio come Einstein aveva previsto mezzo secolo prima, descrivendo il processo che si ha ogni volta che una massa «si trasforma» in energia. I lettori perdonino questa esposizione imprecisa e popolare.

Intanto siamo arrivati al 1939 e alla gente del mestiere apparve chiaro che «sarebbe dovuto» essere possibile, con adatti accorgimenti tecnici, provocare artificialmente la fissione dei nuclei di uranio e «raccogliere» il calore così liberato da usare al posto di quello che allora era ottenuto bruciando il carbone o il petrolio. Il 2 dicembre 1942, come è ben noto, Fermi e altri scienziati dimostrarono sperimentalmente che era possibile produrre, per fissione nucleare, energia sia per azionare navi, sia come esplosivo militare.

La vera storia delle scorie radioattive, con cui abbiamo a che fare oggi, cominciò con una gigantesca catena di imprese industriali e impegni finanziari: bisognava trovare minerali di uranio, che esistono in natura, sia pure non molto abbondanti; trattare meccanicamente e chimicamente questi minerali, lasciandosi dietro quel po' di radio e di radon che sempre accompagna le rocce contenenti uranio (le prime scorie nucleari sono quelle di miniera), per ottenere l'ossido di uranio come «yellow cake» (1 tonnellata di ossido si lascia dietro circa 500 tonnellate di scorie minerarie e chimiche in qualche misura radioattive); bisognava trasformare l'ossido di uranio in fluoruro di uranio, una forma chimica che consente la separazione dell'isotopo-238, il più abbondante (99,3% del totale), dall'isotopo-235 (0,7% del totale), l'unico capace di subire fissione. Sono così stati inventati diversi sistemi di separazione dei fluoruri dei due isotopi, dotati di diversa volatilità, o per diffusione gassosa o per centrifugazione.

In ciascun passaggio si formavano residui contenenti uranio-238, «impoveriti» del più «utile» uranio-235, residui blandamente radioattivi e inutili, fino a quando l'uranio non ha trovato impiego in leghe metalliche, adatte per proiettili perforanti, per corazze di carri armati e in alcuni altri usi industriali. Uso già fatto dai tedeschi durante la Seconda guerra mondiale, come ricorda nelle sue memorie il ministro nazista degli armamenti Albert Speer.

Ma la vera merce preziosa è l'uranio arricchito, contenente circa il 3% di uranio-235, adatto per alimentare i reattori commerciali, o contenente oltre il 70-80% di uranio-235, adatto per bombe atomiche.

L'«età dell'oro», si fa per dire, o l'«età della morte», è quella degli anni dal 1942 al 1945; in quel brevissimo periodo si è capito tutto quello che occorreva per la bomba. Nel corso del processo di fissione nucleare – durante il bombardamento dell'uranio-235 con neutroni di adatta energia – insieme all'energia si forma un'affollata popolazione di altri elementi radioattivi quasi tutti fino allora sconosciuti; alcuni, come il plutonio, più «pesanti» dell'uranio e anch'essi «fissili», si formano per «attivazione» dell'uranio; uranio e nuclei transuranici per fissione generano vari frammenti radioattivi, con peso atomico di circa la metà di quello dell'uranio (cesio, rubidio, stronzio, iodio eccetera); inoltre i flussi di neutroni interagiscono con i metalli e i materiali da costruzione della struttura dei reattori che si trasformano, per «attivazione», in altri isotopi radioattivi.

Per la fretta di fabbricare sufficiente uranio e plutonio per le prime tre bombe atomiche, quelle di Alamagordo, Hiroshima e Nagasaki, le enormi quantità di scorie radioattive furono sistemate, per lo più sotto forma di soluzioni, alla meglio, nel sottosuolo, intorno ad Hanford, nello stato di Washington, dove furono installati i primi grandi impianti industriali e altrove; non c'era molto tempo da dedicare alla chimica e alla tecnologia dei rifiuti; tanto è vero che molti sono ancora lì, da qualche parte, nel sottosuolo.

Dal 1945 in avanti la formazione di scorie radioattive si è fatta sempre più rapida. L'Unione Sovietica si è inserita subito nelle attività nucleari; Inghilterra, Francia e Cina sono ormai membri del club delle potenze nucleari ufficiali; India, Pakistan e Israele hanno proprie potenzialità industriali nucleari militari; centinaia di centrali nucleari commerciali e militari, centinaia di reattori sperimentali sono sparsi nel mondo, alcuni con il loro carico di materiali radioattivi.

Tali materiali sono costituiti dal «combustibile irraggiato», le barre di uranio estratte dai reattori dopo uno o due anni di funzionamento e contenenti uranio-238, una parte residua di uranio-235, elementi transuranici e prodotti di fissione. Vi sono poi le scorie dei processi di «ritrattamento» condotti per recuperare uranio e plutonio dal combustibile irraggiato, i residui di materiali usati in medicina e diagnostica, i residui di materiali industriali (dalle punte dei parafulmini, ai dispositivi per eliminare l'elettricità statica negli ambienti di lavoro), materiali da costruzione che sono stati esposti a flussi radioattivi e in cui si sono formati elementi radioattivi di attivazione, rottami metallici contenenti metalli radioattivi (rottami e scorie di alluminio, acciaio eccetera) formatisi durante lo smantellamento di impianti o per eventi accidentali.

Si tratta di materiali diversissimi che sono classificati grossolanamente in categorie a seconda del tempo di dimezzamento, considerando che possono essere posti in depositi che debbono essere tenuti sotto controllo per mesi, o per anni e decenni o per migliaia di anni. Si tratta di uno dei capitoli più straordinari della chimica dei rifiuti, perché la loro pericolosità per la vita varia a seconda della composizione chimica, che a sua volta varia continuamente nel tempo.

Credo che nessuno sappia esattamente dove questi materiali siano, sul pianeta, che composizione abbiano e come circolino e circoleranno nella biosfera. Ci sono schegge di informazioni, associate ad alcuni incidenti, come quello di Celiabinsk nell'Unione sovietica, filtrato attraverso le maglie del segreto militare, perché alcuni biologi sovietici hanno descritto, in riviste di pubblica circolazione, come si stavano disperdendo nell'ambiente alcuni composti radioattivi che erano evidentemente stati «liberati» in seguito a un incidente o a un incendio in un deposito di scorie.

Altre fughe di materiali radioattivi si sono verificate a Sellafield in Inghilterra, in Francia e forse altrove, ma le informazioni disponibili costituiscono un capitolo ancora inesplorato della storia dell'ambiente.

Il nocciolo del dibattito, quello cui è principalmente dedicato questo libro, riguarda il tentativo di fornire una risposta alla domanda: dove metteremo le scorie radioattive esistenti, note e inventariate e quelle che continuamente si stanno formando? La risposta ragionevole è: nessuno lo sa. Nelle miniere di sale abbandonate? In terreni argillosi? In fondo al mare? Nello spazio interplanetario, lanciate da speciali missili? Pochi problemi tecnico-scientifici hanno avuto risposte fantasiose e speranzose come quello dello smaltimento per tempi lunghi e lunghissimi delle scorie nucleari.

L'aspetto drammatico è che, in totale mancanza di certezze, si continua a costruire centrali nucleari e a produrre scorie con attività commerciali e militari.

L'esposizione dei fatti in questo libro induce ad alcune considerazioni.

Primo. E possibile uscire dalla trappola in cui siamo caduti, è possibile rimettere il genio nella bottiglia? La risposta è «no». Con le scorie radioattive dovremo convivere per tutta la vita e anzi la loro quantità tenderà a crescere e assumerà, col passare del tempo, anche nuovi caratteri. Si pensi ai materiali metallici che sono radioattivi per esposizione, più o meno lunga, ad irraggiamento e che finiscono nei rottami metallici, che a loro volta sono incorporati nei metalli e negli oggetti di consumo domestico. Ci sono già state numerose segnalazioni di scorie e residui di lavorazioni metalliche che si sono rivelati radioattivi, scoperti alle dogane miscelati a rottami metallici, finiti poi in discariche o in fonderia, anche in Italia.

Circolano continue proposte, cui fa cenno anche questo libro, sul trattamento in speciali reattori dei prodotti di fissione e attivazione in modo da modificarne la composizione chimica e la radioattività, ma un'attenta analisi di tali proposte di improponibili «spallazioni», mostra che si esce da una trappola per cadere in un'altra e che il tutto è utile essenzialmente a spillare finanziamenti dai governi creduloni.

Così come sono insensate le proposte di costruire reattori nucleari «puliti» a fusione; ogni tanto qualcuno si presenta sulla scena anche in Italia (come è successo in Basilicata), promettendo una cornucopia di denaro e visibilità a quel paesino che accetterà di ospitare nel suo territorio qualche miracolosa nuova soluzione di impianto che dovrebbe, attraverso la fusione nucleare, fornire energia illimitata a basso prezzo. Non si tiene mai conto di tutte le code avvelenate che la fusione, qualora funzionasse, al di fuori delle bombe a idrogeno, in maniera controllata, genererebbe sotto for- ma di scorie radioattive, sulla cui composizione e sepoltura eterna si sa ancora meno di quanto si sappia sulle scorie delle centrali a fissione.

Secondo. Possiamo seppellire le scorie radioattive in qualche deposito per il quale possiamo chiedere alle generazioni future una sorveglianza affidabile? La risposta è «no».

Il libro riporta nel testo la celebre frase di Alvin Weinberg: «Noi nucleari proponiamo un patto col diavolo: possiamo fornire energia a condizione che le società future assicurino una stabilità politica e istituzioni quali mai si sono avute finora».

Ma proprio questa condizione è irrealizzabile e anche se fosse realizzabile dovrebbe fare i conti con problemi di cui non si vede la soluzione. Abbastanza curiosamente su tali problemi hanno richiamato l'attenzione studiosi che non sono sociologi, né ingegneri, né moralisti, ma semiologi, studiosi di meccanismi di comunicazione.

Si fa presto a dire «diecimila anni» (che comunque è meno della metà del periodo in cui la radioattività del plutonio-239, uno dei prodotti che si formano per attivazione nei reattori nucleari, il più pericoloso per la vita, perde metà della sua radioattività), ma in quale maniera sarà possibile avvertire coloro che vivranno fra diecimila anni, accanto a un deposito di scorie nucleari, che devono continuare a vigilare attentamente perché il materiale depositato non sia esposto a infiltrazioni di acqua, non venga a contatto con forme viventi?

Il semiologo americano Thomas Sebock nel 1984 ha scritto, per conto dell'Office of Nuclear Waste Isolation, un saggio intitolato: Pandora's box: why and how to communicate 10.000 years into the future, «General Semantics Bulletion», 1984, 49, pp. 23-45, un tema ripreso da Umberto Eco nello scritto: «Alla ricerca di una lingua perfetta».

Diecimila anni sono un periodo nel quale possono nascere e scomparire interi imperi; appena pochi secoli dopo la fine dei faraoni era scomparsa anche la conoscenza di come leggere i geroglifici. Se dovessimo mettere un avviso, all'ingresso dei depositi di scorie: «Attenzione: non avvicinatevi», in quale lingua dovremmo scrivere il messaggio? Con quali segni? Chi tramanderà la leggibilità di tale messaggio?

Sebock ha scartato immediatamente la possibilità dell'uso di qualsiasi tipo di messaggio verbale o di segnale elettrico che richiederebbe una fonte di elettricità continua, o messaggio olfattorio, che sarebbe di breve durata, o qualsiasi forma di ideogramma o pittogramma. Sebock ha notato che oggi, quando osserviamo le pitture rupestri delle società primitive di poche migliaia di anni fa, ci è difficile dire se i personaggi stavano cacciando o ballando o combattendo fra loro.

Sebock ha suggerito che occorrerebbe organizzare una «casta sacerdotale atomica», un «atomic priesthood», di durata eterna, in grado e col compito di tramandarsi nel corso delle 300 generazioni che si susseguirebbero nei diecimila anni, la lingua e il significato di quel cartello apposto sul cimitero delle scorie radioattive e dei residui delle centrali e degli impianti contenenti materiali radioattivi.

E poi su quale supporto l'eventuale messaggio custodito dai sacerdoti atomici può essere tramandato a tutti gli abitanti del pianeta per 300 generazioni? Vari autori hanno trattato, dopo Sebock, il problema della comunicazione del pericolo a chi vivrà fra migliaia di anni.

Il 27 settembre 2005 il notiziario telematico «Apogeonline», nel citare un progetto inglese di otto miliardi di sterline per un deposito in cui stivare i residui dello smantellamento delle centrali nucleari, si soffermava sul tipo di supporto materiale sul quale si dovrebbero depositare, per le generazioni future, le informazioni sulla pericolosità del contenuto del deposito di scorie radioattive, con tanto dei necessari dati, diagrammi e disegni tecnici. Si possono scartare subito i supporti informatici, dal momento che la maggior parte del materiale informatico odierno sarà illeggibile fra poche diecine d'anni. Qualcuno ha pensato di ricorrere ... ai papiri, i supporti che ci sono pervenuti quasi leggibili, sia pure quasi incomprensibili, a quattromila anni dalla loro redazione.

Terzo. Si possono, in qualche maniera, attenuare le conseguenze negative della gestione delle scorie nucleari? Sì e no.

I professori di tecnologie nucleari accusano i critici di questa forma di energia di aver provocato una disaffezione e un disincanto dei giovani universitari verso questa branca dell'ingegneria e della chimica. A mio modesto parere, invece, proprio l'attuale situazione potrebbe mobilitare e attrarre molti giovani verso gli studi di tecnologia nucleare. I giovani dovrebbero occuparsi del nucleare con coraggio, non per alimentare fumose speranze e illusioni di un mondo pieno di centrali nucleari che ci libererebbero dalla schiavitù del petrolio e dallo spettro dell'effetto serra, di centrali a fusione, un po' calda o un po' fredda, di sempre «più perfette» bombe e bombette nucleari, capaci di stanare i terroristi dalle caverne, ma per affrontare i giganteschi problemi chimici, fisici, ingegneristici, biologici, urbanistici, geologici, economici, istituzionali, associati alla sistemazione delle scorie delle centrali, delle fabbriche di armi atomiche, dei rottami radioattivi, per la sistemazione dei tanti materiali radioattivi intorno a noi.

Forse a questi studenti futuri di tecnologie nucleari bisognerebbe richiedere, come si fa col giuramento di Ippocrate per i medici, di impegnarsi per fermare la proliferazione di impianti nucleari commerciali e militari che producono quelle scorie su cui loro dovranno lavorare per seppellirle. Se questa grande rivoluzione non sarà fatta e non sarà accettata da tutti i paesi, l'umanità sarà dilaniata da conflitti sempre più gravi e costosi.

Quarto. Qualsiasi successo di qualsiasi tecnologia di sepoltura dei materiali radioattivi sarà impossibile senza una partecipazione e una cultura popolare. Purtroppo i movimenti di contestazione si sono sempre rivelati di breve durata; finito il pericolo (annullato il progetto di costruzione di una centrale o di un deposito di scorie «a casa sua»), ciascuno torna al suo lavoro e dimentica tutto.

L'autore di questo libro ricorda che riuscimmo ad allontanare il pericolo delle centrali nucleari a Montalto di Castro e a Carovigno, a Mantova e a Termoli eccetera, cominciando con un'alfabetizzazione tecnico-scientifica delle popolazioni locali che, dopo qualche settimana, sapevano replicare alle sirene dell'ENEA e dell'Enel contestando i singoli dati a suon di neutroni, di rem, di tossicità del cesio e dello stronzio! Che fine ha fatto questo patrimonio di cultura popolare? Direi che è scomparso. Chi, fra i ventenni di oggi, ha mai sentito parlare delle lotte di San Benedetto Po, che pure durarono alcuni anni? Sono scomparsi i documenti, gli archivi, le persone. Ma del resto chi, fra i ventenni di oggi, sa che cosa è successo a Hiroshima, al di là di una generica risposta: «bomba atomica», o a Chernobyl, al di là di una generica risposta: «centrale nucleare»?

Perfino le più recenti lotte popolari contro il progetto di confinamento di scorie radioattive in una caverna da scavare in un deposito di sale nel sottosuolo di Scanzano, in Basilicata, sono ormai un ricordo. Per ricostruire la passione civile di quel novembre 2003 ormai restano le rassegne stampa e il documentato libro di Rossella Montemurro, «I giorni di Scanzano. Cronaca di un accidente nucleare», Roma, Ediesse, 2004. Smantellate le trivelle a Scanzano, il fiammifero acceso delle scorie nucleari passerà a qualche altro paese d'Italia che dovrà ricominciare il cammino di informazione e documentazione per far fronte a chi ne vorrà usare il territorio per crearvi il mortale cimitero.

Ai tempi di Scanzano mi ero permesso di suggerire di organizzare, sulla base delle conoscenze acquisite nelle settimane di lotta, un centro nazionale di documentazione popolare che permettesse di socializzare tali conoscenze con le molte future «Scanzano» che sono e saranno investite da simili problemi. Finora ben poco si è fatto, nonostante qualche buon sito e blog su Internet, che però passa quasi inosservato nel gran chiasso della rete globale.

Nello stesso tempo continua vivace il lavoro, presso i centri del potere politico ed economico, dei gruppi di propaganda filonucleare che, con l'aiuto di diligenti scienziati, di quei nipotini del dott. Ure che minimizzava qualsiasi pericolo e danno della nascente rivoluzione industriale inglese, tranquillizzano sulla fattibilità di depositi di scorie e sulla convenienza di nuove centrali nucleari.

Quinto. Alla luce dell'attuale situazione dobbiamo imporci di fermare non solo la costruzione di nuove centrali nucleari, ma di fermare gradualmente il funzionamento delle centrali esistenti e soprattutto le operazioni dei reattori che producono i materiali fissili, il cui possesso è desiderato sia dalle potenze nucleari, sia dai paesi con ambizioni nucleari, sia dai gruppi terroristici.

Dobbiamo impegnarci perché sia fatto qualche passo, davvero, verso l'attuazione di quanto disposto dall'«articolo sei» del trat- tato di non proliferazione nucleare che impone ai paesi firmatari di avviare iniziative concrete per un disarmo totale nucleare, premessa per un disarmo totale planetario. Disarmo nucleare significa rallentare e fermare le attività di arricchimento dell'uranio, solo apparentemente giustificate dall'alimentazione dei reattori commerciali e le attività di recupero del plutonio dal combustibile irraggiato, solo apparentemente giustificato dall'alimentazione con ossidi misti di uranio e plutonio dei reattori commerciali.

Il disarmo nucleare e la disattivazione delle armi nucleari esistenti metterebbero in circolazione enormi quantità di materiali radioattivi che vanno ad aggiungersi a quello esistente, ma almeno potrebbero segnare un rallentamento e la fine della produzione di sostanze e scorie radioattive. Se ci fermassimo oggi ci sarebbe già un bel da fare lungo decenni per sistemare le scorie esistenti, ma almeno non aumenterebbe ulteriormente la massa di materiali mortali con i quali fare i conti in futuro.

Eppure il mondo va avanti proprio in direzione opposta, con proliferazione delle attività nucleari, sia commerciali, sia militari. Lo dimostrano anche i dibattiti del 2005 sui tentativi di fermare la corsa agli armamenti nucleari di Iran e Corea del Nord, paesi che si dichiarano disposti a rinunciare alla produzione di armi a condizione che possano moltiplicare le centrali nucleari commerciali. Intanto i paesi nucleari «ufficiali» continuano a perfezionare le proprie armi nucleari, sempre «più perfette» piccole e devastanti e continuano a tenere in efficienza le trentamila bombe nucleari esistenti nel mondo, cinquemila in stato di permanente allarme, ormai insensato davanti alla fine di un ruolo di deterrenza che ne ha giustificato per decenni l'esistenza: tu, nemico, non lancerai una bomba nucleare contro di me, altrimenti le mie bombe nucleari ti stermineranno. Ma chi è oggi, nell'era dei commerci globali, il nemico se non noi stessi?

Il fervore nucleare commerciale e militare è confermato dalla ripresa dell'estrazione e del commercio dell'uranio il cui prezzo, scesò e rimasto a lungo al livello di una diecina di dollari per libbra di ossido, un quarto dei 40 dollari per libbra che era il prezzo ai tempi del trionfo del nucleare (anni 1960-1980), dall'inizio del 2000 ha ricominciato ad aumentare, a 30 dollari per libbra nel 2005, come risultato di nuove attività di estrazione e di arricchimento. L'ossido di uranio estratto dalle miniere è passato da 41 a 48 mila tonnellate dal 2000 al 2005.

Sesto. Chi ci salverà? «Forse» la conoscenza diffusa, «forse» la presa di coscienza popolare dei pericoli cui stiamo andando incontro come umanità. Purtroppo i temi trattati in questo libro sono assenti dal dibattito e dai programmi politici, dal chiacchiericcio sulla crescita-decrescita, su un'ipotetica futura società sobria e felice. Parlate, parlate, fate incontri e convegni: intanto chi veramente conta, nel complesso militare-industriale, si frega le mani per la contentezza, va avanti a passo sicuro e, nel nome dei propri affari, aiuta il mondo a scivolare verso un abisso di instabilità, insicurezza e violenza.

Giorgio Nebbia

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Pagina 3

Introduzione


In Cento soli (approssimazione del Bhagavadgita: «Se nel cielo divampasse simultaneamente la luce di mille soli, sarebbe come lo splendore dell'Onnipotente», citato da J. Robert Oppenheimer, allibito da ciò che aveva contribuito a creare, quando la prima atomica incendiò il deserto del New Mexico), il fotografo americano Michael Light ha raccolto cento fotografie ufficiali tratte dall'archivio dei laboratori di Los Alamos e dagli archivi di stato americani (Light, 2004).

Tra queste immagini di esplosioni nucleari ne ho individuato una, a mio avviso molto significativa: l'esplosione della bomba atomica Climax, 61 kilotoni, avvenuta nel 1953 nel deserto del Nevada, dove gli Stati Uniti collocheranno le proprie scorie nucleari. Un perfetto fungo premonitore.

Chiuso il libro di Light, ho compiuto due passi indietro. Sono andato a rileggermi i due testi che avevo pubblicato a cavallo degli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso sui problemi della incompatibilità ambientale del nucleare, con riferimento ai problemi dei siti possibili ove confinare le scorie, ovvero i «siti impossibili» che segnavano pollice verso per il nucleare (Bettini, 1978, 1981). Ho anche ritrovato un articolo che scrissi venti anni fa sul quotidiano «Avvenire» (Bettini, 1985) in cui si esaminavano alcuni siti «possibili» per i rifiuti nucleari prodotti negli Stati Uniti: Deaf Smith County nel Texas, Hanford nello Stato di Washington e Yucca Mountain in Nevada, Davis Canyon, ai margini del Parco Nazionale dei Canyons, in Utah e il giacimento di sale di Richton Dome in Mississippi.

Si avviava il primo scontro sui siti destinati al confinamento delle scorie che avrebbe visto perizie, controperizie, confronti, dibattiti pubblici, valutazioni di impatto ambientale, per finire nell'ovvio, ovvero la scelta del sito ben controllato dai militari: Yucca Mountain.

Il sito nel Texas, Deaf Smith County, cinquanta kilometri da Amarillo, è stato scartato in quanto zona agricola con riserve idriche destinate anche a Stati limitrofi. Hanford, Stato di Washington, avrebbe potuto contaminare le falde sotterranee e il fiume Columbia. Davis Canyon si trova ai margini di un Parco Nazionale, mentre il giacimento di sale di Richton Dome non è considerato sicuro.

La scelta quindi è caduta su Yucca Mountain perché sito più consono luogo alla filosofia nucleare: all'interno della A51, sito di test nucleari superficiali e sotterranei, di un'ipotetica presenza extraterrestre, ma, fondamentale, completamente sotto controllo militare.

Ho visitato il sito nell'aprile del 2004 e ne ho scritto per «Il Manifesto» (Bettini, 2004).

Ho trascorso tutto il mese di giugno 2005 tra la Biblioteca del Congresso a Washington, dove ho potuto accedere ai documenti delle audizioni sui diversi siti, le aree del Panhandle Texano e del Paradox Basin, tra Utah e Colorado. Non mi è stato concesso l'accesso ad Hanford. Ho ascoltato tanti pareri e ho maturato le mie impressioni da sessantenne, impegnato da trent'anni contro il nucleare.

Questo libro ve le propone, ma in primo luogo vorrei che leggeste qual'è stato il primo impatto con la realtà di Yucca Mountain.

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Pagina 132

3.7 Nessuna scelta dopo la rivolta di Scanzano


Al momento attuale la situazione delle scorie nel nostro paese è la seguente: 1.500 tonnellate di combustibile irraggiato, provenienti dai vecchi impianti di Latina e del Garigliano sono stoccate in Gran Bretagna, a Sellafield.

Altre 62 tonnellate di combustibile irraggiato, non inviate al riprocessamento in Gran Bretagna, sono immagazzinate presso il disattivato reattore Superphenix di Creys Malville.

Il 99% della radioattività italiana sarà trattato in Francia o in Inghilterra.

Si tratta delle barre di combustibile irraggiato che sono l'eredità dell'esperienza nucleare conclusasi nel 1987.

L'uranio e il plutonio, il 97% del materiale, verranno riutilizzati e a noi tornerà un 3% di cui non sapremo cosa fare. Ce le rimanderanno a casa entro 20 anni.

Il Ministro delle attività produttive, Antonio Marzano, ha firmato, il 2 dicembre 2004, un decreto che in pratica cancella quello dei 2001, il quale prevedeva lo stoccaggio nelle centrali.

La Sogin, la società pubblica presieduta dal generale Carlo Jean, pubblicamente bocciata dalla rivolta di Scanzano, ha scelto un'uscita laterale di una certa sicurezza: avviare una gara d'appalto rivolta ai due impianti europei in grado di trattare le scorie, l'impianto Bnfl di Sellafield in Inghilterra e l'impianto Cogema di La Hague, in Francia.

Invierà, al migliore offerente, 235 tonnellate di combustibile irraggiato a un costo che si aggira attorno ai 300 milioni di euro. Sogin non avrà problemi economici. Dal 2001, ogni italiano, per ogni kilowattora consumato, versa 1,22 lire per lo smaltimento del parco rifiuti nucleari.

Tra l'aprile del 2003 e il gennaio 2005 hanno preso la strada di Sellafield le 53 tonnellate stoccate nel deposito Avogadro di Saluggia (Vercelli).

Le scorie non rientreranno prima del 2012.

Costo 80 milioni di euro, grazie a un contratto che risale al 1980.

Le barre, lunghe 4 metri e del diametro di un centimetro, viaggiano in contenitori corazzati a prova di arma anticarro chiamati cask. Caricati su camion o treni speciali fino a Dunquerque, da dove si imbarcano per l'Inghilterra. Le scorie ad alta attività che l'Italia prima o poi dovrà riprendersi, torneranno trasformate in manufatti di vetro vulcanico, una sorta di ossidiana, disperse nell'impasto con cui si fa il vetro e inglobate in colonne alte 1 metro e mezzo (Porqueddu, 2004).

Non si sa quanti convogli partiranno da Vercelli e da Piacenza. Ci sarà da discutere con le amministrazioni locali interessate per quanto riguarda le misure di sicurezza e la valutazione del rischio legate al trasporto.

Non è detto che non si avvii una sorta di resistenza passiva sulle strade e lungo i binari, come già avvenuto in Francia, Germania e Stati Uniti.

Il nervosismo che si rileva in Italia è diffuso nel resto del mondo.

La mancanza di una linea comune, di un progetto che consenta di affrontare il problema delle scorie nucleari condiziona la possibilità di collaborazione.

I laboratori e le lobbies nucleari non si confrontano, si combattono, e la globalizzazione non favorisce il dialogo.

Si rilevano anche casi di ritorno a vecchi errori, come in Russia.

I russi stanno ipotizzando di riattivare la vecchia discarica di Mayak, negli Urali, dove, negli anni Cinquanta del Novecento, i rifiuti nucleari raggiunsero il fiume, contaminando 272.000 persone.

Una sola esplosione in un limitato deposito di rifiuti nucleari, sempre in Unione Sovietica, nel 1957, a Celiabinsk, rese sterili migliaia di ettari di territorio, provocando tumori nella popolazione.

A questo proposito consiglio ai lettori, se già non lo conoscono, il libro di Medvedev «Disastro atomico in URSS» che riguarda specificamente l'incidente alle scorie radioattive di Celiabinsk.

Putin ora avrebbe deciso di riaprire l'area per importare scorie fino a 20.000 tonnellate, il che significherebbe 20 miliardi di dollari cash, con le conseguenze di un costo, in prospettiva, incalcolabile in termini di rischio e danno ambientale per le generazioni future.


3.8 La Corte Costituzionale cancella la protesta antinucleare

La sentenza numero 62 emessa dalla Corte costituzionale, in data 13 gennaio 2005, ha praticamente cancellato le proteste antinucleari delle Regioni Sardegna, Basilicata e Calabria che, nel 2003, con tre leggi regionali, dichiararono denuclearizzato il proprio territorio.

Una dichiarazione d'illegittimità dal punto di vista giuridico, una stroncatura dal punto di vista politico.

Dopo questa sentenza della Corte, nessuna regione potrà autoproclamarsi denuclearizzata, come non potrà impedire che, sul proprio territorio, transiti materiale nucleare.

Al tempo stesso però il Governo, che dispone di competenza esclusiva dal punto di vista ambientale, non dovrebbe più poter decidere da solo per quanto attiene alla localizzazione d'impianti e depositi, ma dovrebbe basarsi sull'accordo con le regioni interessate.

Un colpo al cerchio ed uno alla botte, lontano dalla chiarezza e sempre più nell'equivoco (Massari, 2005).

La decisione è grave perché, se la linea dell'Unione Europea si mantiene al livello di lasciare a ciascuno stato membro l'iniziativa per la soluzione del problema delle scorie nucleari e la questione non viene affrontata a scala globale in maniera seria e definitiva, in Italia il sito di Scanzano resterà ipotesi aperta nonostante le affermazioni dei politici e la scarsa chiarezza degli scienziati allineati.

Ora però l'ineffabile generale Jean, commissario straordinario della Sogin, ci riprova disponendo la creazione di un nuovo sito a Saluggia, senza VIA e senza che il Comune modifichi il piano regolatore. Vince, in negativo, il principio dell'interesse nazionale. Il sito di Saluggia ospita tre impianti nucleari ed oltre 4.000 m3 di rifiuti radioattivi. Si tratta di una «pattumiera nucleare» che andrebbe messa in sicurezza al più presto. A Saluggia si sta configurando un vero e proprio, futuro deposito di rifiuti nucleari di tipo D-2, a bassa radioattività e D-3, ad alta attività, integrato nel deposito Cemex (Massari, 2006b).

Il comune di Saluggia non ha approvato il piano di variante che consente gli interventi Sogin. Lo ha solo adottato. Il Parco del Po, in cui è localizzato il centro di 4.000 abitanti di Saluggia, non ha riconosciuto alcuna urgenza o necessità: «ha solo preso atto» (Massari, 2006b).

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4. Principi di precauzione


Abbiamo visto come il problema delle scorie nucleari non si risolva semplicemente attraverso ipotesi di stoccaggio in strutture geologiche profonde.

Dopo la separazione dell'uranio e del plutonio, gli altri elementi pesanti e i prodotti di fissione rappresentano, per i reattori ad acqua, una massa di circa il 3% del combustibile irraggiato.

In un primo momento sono collocati, sotto forma di soluzione liquida, in contenitori di acciaio a doppia parete, poi vetrificati in borosilicati per resistere a eventuali aggressioni fisico-chimiche.

I rifiuti ad alta attività sono trattati con cemento speciale o fusi in lingotti metallici, quelli a media o debole attività sono inglobati in cemento, resine o bitume.

Siamo quindi a una svolta importante. Fino a ora, se le emissioni alfa di lungo periodo erano sufficientemente deboli, lo stoccaggio avveniva in superficie, basti pensare al centro di stoccaggio della Manica, presso l'impianto francese di La Hague, ormai saturo, che presenta una capacità di 500.000 metri cubi e al nuovo deposito francese di Soulaines-Dhuys nella Aube.

I tempi non sono certamente brevi, ma, in alcune centinaia d'anni, la radioattività di questi prodotti sarà irrilevante e i siti di stoccaggio potrebbero essere recuperati (Reuss, 1999).

I prodotti che contengono quantità notevoli di emettitori alfa pongono invece un problema a lungo termine, di milioni di anni, in particolare quando si tratta di combustibile irradiato che non sia stato ritrattato.

In Francia, al momento, le scorie ritrattate e vetrificate sono provvisoriamente stoccate in pozzi di cemento ventilati nei pressi degli impianti di vetrificazione di La Hague sulla Manica e di Marcoule (Gard).

Anche se non è urgente — il limite è stato fissato per il 2010 circa — una decisione deve essere presa. Una soluzione radicale sarebbe l'invio di questi materiali verso il sole, una soluzione che però non sembra affatto realista, considerate le incognite delle tecniche spaziali. La soluzione più semplice sarebbe la sistemazione a centinaia di metri di profondità in formazioni geologiche stabili e impermeabili, in siti in cui il rischio di future intrusioni umane sia debole.

Si studia anche l'incenerimento di questi noccioli pesanti nel reattore (oppure utilizzando un acceleratore di particelle): sotto l'azione dei neutroni essi subirebbero finalmente la fissione, trasformandosi in prodotti il cui periodo sarebbe più breve (meno di una decina d'anni per la maggior parte).

Questo problema — che interessa le generazioni a venire — impone di valutare e considerare non solo gli aspetti tecnici, ma anche quelli sociali ed etici (Reuss, 1999).

Ipotesi «creative» di smaltimento delle scorie non sono mancate in passato, anche se le grandi potenze nucleari si stavano sempre più orientando verso lo smaltimento in profondità, in formazioni geologiche stabili.

Si tratta delle soluzioni cui abbiamo già accennato nel secondo capitolo, ma che necessitano di alcune righe di approfondimento.

Negli anni Settanta del secolo scorso si parlava della possibilità di collocare i contenitori dei rifiuti nucleari sulla calotta dell'Antartide, dove, grazie al calore prodotto, avrebbero fuso il ghiaccio, aprendosi la strada verso la sottostante piattaforma rocciosa.

Il vantaggio di quest'ipotesi starebbe in una situazione di bassa densità di popolazione in area polare e nella stabilità stessa dei ghiacci. L'ipotesi viene messa in gioco dalle prospettive di cambiamento climatico, dai costi e dalle condizioni meteo. Resta il fatto che questa soluzione può essere presentata solo come elemento di cronaca storica, avendo il Trattato Antartico del 1959 proibito ogni stoccaggio di materiale nucleare e scorie sul continente Antartico.

Un'altra, non so fino a che punto originale e scientificamente attendibile proposta, è stata quella di collocare i contenitori sul fondo dell'oceano in aree di movimenti geologici, in modo che le scorie potessero essere inglobate nella crosta terrestre. La Convenzione di Londra, dell'ottobre 1993, ha bandito, fino al 2018, la possibilità di stoccare le scorie sul fondo del mare. Dopo il 2018, la «sub-seabed disposal option», potrà essere ridiscussa e riconsiderata a intervalli di 25 anni.

Erano i tempi in cui il nucleare era definito «scelta responsabile» dal FIEN, il Forum Italiano per l'Energia Nucleare (FIEN, 1977), sulla base della semplice constatazione che i rifiuti nucleari prodotti per fornire tutta l'energia elettrica consumata da un individuo per la durata della vita sarebbero pari al volume di 100 compresse di aspirina.

Negli anni Settanta, nel nostro paese, quando sembrava che nulla si sarebbe potuto opporre alla continua, indisturbata crescita del nucleare, la parola d'ordine in tema di scorie era: minimizzare.

Si riteneva istruttivo fornire una dimensione pratica che traducesse le cifre delle scorie naturali. «Se tutta l'energia elettrica prodotta in Italia (160 miliardi di kWh nel 1976) fosse generata con energia nucleare (in quel tempo era meno del 3%), le scorie fortemente radioattive ammonterebbero a 0,2 g pro abitante/anno, all'incirca un chicco di riso. Tenendo conto del sistema di contenimento si arriva al volume pratico di immagazzinamento di 1 cm3 pro abitante/anno» (Knoepfel, 1979).

Areva ha acquistato su «Le Monde» un'intera pagina, il 31 marzo 2005, per porre ai cittadini la seguente domanda: «Come ottimizzare la gestione del combustibile nucleare usato?».

Ecco la risposta: «Le soluzioni ad alta tecnologia proposte da Areva consentono di riciclare, dopo trattamento, il 96% del combustibile usato. Soluzioni che permettono di gestire le scorie nucleari finali dividendo per 10 la loro tossicità e per 5 il loro volume».

Il tasto battuto è sempre il solito: in termini volumetrici, la quantità di scorie prodotte dai reattori oggi in funzione è veramente bassa.

Se il riprocessamento è adeguato, un impianto da 1000 MW, produce solo 5 metri cubi di scorie ad alta radioattività in un anno. Il volume delle scorie nucleari ad alta radioattività, generato ogni anno in Europa, assomma a 500 m3, che rappresentano un modesto 0,005% di tutti i residui tossici industriali.

L'inventiva umana può trovare una soluzione nella sfida per il loro smaltimento (Johnston, 2005).

I sostenitori del nucleare ritengono che non si tratti di un problema di quantità.

Il problema vero, irrisolvibile, sta nell'ormai indiscussa incapacità di isolare i rifiuti nucleari non solo dall'ambiente umano, ma anche dal complesso dei cicli biogeochimici, per centinaia di migliaia/milioni d'anni, in modo che essi possano ritornare ai livelli di radioattività del fondo naturale.

Un'impresa praticamente impossibile.

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