Copertina
Autore Luigi Bignami
CoautoreGianluca Ranzini, Daniele Venturoli
Titolo La vita nell'universo
EdizioneBruno Mondadori, Milano, 2007 [2003], Economica , pag. 242, ill., cop.fle., dim. 14x20,5x1,4 cm , Isbn 978-88-424-2088-0
LettoreRenato di Stefano, 2007
Classe cosmologia , biologia , astronomia , evoluzione , inizio-fine , vita
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Indice


     1.  All'inizio...

  1  1.1 Scienza o non scienza
  2  1.2 L'inizio c'è stato
  5  1.3 Uno scoppio... più o meno
  8  1.4 A caccia di prove
 13  1.5 I primi elementi chimici
 15  1.6 Le stelle "alchimiste"
 18  1.7 L'origine del sistema solare
 22  1.8 Famiglie di pianeti

     2.  La Terra: un laboratorio unico

 27  2.1 Dentro il pianeta
 33  2.2 La nascita della Terra: ipotesi e dubbi
 36  2.3 Nasce la Luna
 40  2.4 Nascono i continenti
 42  2.5 L'atmosfera terrestre primitiva
 44  2.6 L'evoluzione dell'atmosfera

     3.  La vita sulla Terra

 51  3.1 La vita come la conosciamo oggi
 59  3.2 Le molecole degli esseri viventi
 64  3.3 Le reazioni chimiche che permettono la vita
 74  3.4 L'importanza dell'acqua
 77  3.5 L'enigma dell'origine della vita
 86  3.6 La vita in ambienti apparentemente ostili

     4.  Alla ricerca della vita nel sistema solare

 89  4.1 Quali sono le condizioni per la vita?
 94  4.2 Acqua su Marte
 98  4.3 Gli esperimenti sulle sonde Viking
102  4.4 I (presunti) batteri marziani
105  4.5 Asteroidi e molecole organiche
108  4.6 Gli oceani dei satelliti di Giove
114  4.7 Titano e la sua atmosfera
118  4.8 Le comete: portatrici di vita?

     5.  Alla ricerca della vita nello spazio

122  5.1 Dove cercare?
125  5.2 Stelle adatte a pianeti abitabili
130  5.3 Alla ricerca dell'acqua
133  5.4 Biomolecole tra le stelle
139  5.5 Pianeti al di fuori del sistema solare: i risultati

     6.  L'uomo e lo spazio vicino

147  6.1 Fino a quando la Terra potrà sostenere la vita?
151  6.2 L'avventura dell'austronautica
158  6.3 Le missioni Apollo
160  6.4 Basi spaziali orbitanti
164  6.5 Medicina e fisiologia spaziali
171  6.6 Le future basi lunari
174  6.7 Verso Marte?

     7. Civiltà intelligenti e possibilità di comunicazione

179  7.1 La struttura della Via Lattea e dell'universo
         a grande scala
180  7.2 Il SETI
187  7.3 Altre ricerche di tipo SETI
191  7.4 Conclusioni sul SETI
193  7.5 Il "problema UFO"
196  7.6 Il paradosso di Fermi
198  7.7 Viaggi interstellari
202  7.8 Il principio antropico


Appendici

209  1.  Il SETI in Italia

213  2.  Bibliografia di esobiologia
         Libri di carattere generale, p. 213
         Origine della vita, p. 214
         Vita su Marte, p. 216
         L'equazione di Drake... e oltre, p. 216

219      Indice dei nomi

227      Illustrazioni


 

 

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Pagina XIII

Introduzione


Da quanto tempo l'uomo s'interroga sulla sua posizione nell'universo? Da quando si chiede se veramente il pianeta che lo ospita, con il suo corredo d'innumerevoli forme di organismi viventi, sia una realtà unica e senza eguali o se sia solo un esempio, ripetibile e forse ripetuto altrove, di un luogo dove la vita abbia avuto la possibilità di nascere ed evolversi? Quante volte, guardando il cielo, gli è capitato di chiedersi se siamo veramente soli? Moltissime, a giudicare dalla ricorrenza di questa domanda nella letteratura e nella filosofia, fin dai tempi più remoti. Ma è solo dagli anni sessanta del secolo appena trascorso che, per rispondere a questo interrogativo, prende forma una vera e propria scienza della "vita al di fuori della Terra": è l' esobiologia, una disciplina che nasce dalla convergenza di astronomia, geologia, biologia e da tutte le loro possibili declinazioni e branche collaterali. Da allora gli strumenti e gli obiettivi dell'esobiologia hanno assunto una fisionomia sempre più precisa, tanto che alcuni hanno preferito ribattezzarla bioastronomia o astrobiologia.

Ma, qualunque sia il nome che si vuol dare a questa disciplina, la domanda fondamentale è sempre la stessa: quali sono le probabilità che raggiunga il proprio scopo? Leggendo quanto ha scritto ormai più di trent'anni fa Jacques Monod (1910-1976), premio Nobel per la medicina nel 1965, nel suo celeberrimo Il caso e la necessità, si direbbe che tali probabilità siano ben poche: la nascita della vita è un evento casuale nel flusso degli infiniti accadimenti dell'universo, che molto difficilmente potrebbe ripetersi. Ma, in questi quarant'anni, l'esobiologia ha potuto far tesoro di molte interessanti e spesso inaspettate scoperte, che abbiamo cercato di raccogliere e tratteggiare in questo libro: per esempio, l'esistenza di organismi viventi nei pressi delle sorgenti termali sui fondali oceanici, dove si pensava niente potesse sopravvivere; l'ormai quasi certezza che vi sia acqua nel sottosuolo di Marte, che forse un tempo fluiva copiosa sulla superficie; l'individuazione, sempre più frequente, di pianeti che orbitano intorno a stelle che non sono il nostro Sole e così via.

Chissà, la scoperta di un microrganismo extraterrestre, per quanto piccolo, potrebbe segnare la fine della nostra "solitudine cosmica".

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Pagina 1

1. All'inizio...


Per affrontare la complessa questione della vita nell'universo conviene prendere le mosse dall'inizio, dall'origine dell'universo stesso. Infatti, i "mattoni" che costituiscono gli esseri viventi si sono formati subito dopo il Big bang, l'esplosione da cui ha avuto origine tutto ciò che conosciamo. Il Sole, il sistema solare e la Terra sono apparsi molto più tardi.

In questo capitolo ci proponiamo di tracciare brevemente la storia dell'universo da quell'istante iniziale fino ai giorni nostri.


1.1 Scienza o non scienza?

La branca dell'astrofisica che studia l'universo nel suo insieme e che, in particolare, tratta della sua nascita, della sua struttura attuale a grande scala e del suo destino, è la cosmologia, nel cui ambito si pone il problema della vita nell'universo. Questa disciplina, per molti versi, è una scienza sui generis. Anni fa, a tal proposito, una rivista di divulgazione astronomica riportò un vivace scambio di opinioni tra il filosofo della scienza Ludovico Geymonat e l'astrofisico Livio Gratton, i quali affrontarono la questione se la cosmologia dovesse considerarsi davvero una scienza.

In effetti la cosmologia, rispetto alle scienze tradizionali, come la fisica, presenta alcune peculiarità significative: innanzi tutto, l'oggetto del suo studio – cioè l'universo – è unico. Di universi ne esiste uno solo, almeno per quanto possiamo osservare; possiamo però ipotizzare – come affermano alcune teorie – che esistano infiniti altri universi, paralleli al nostro, o che si generino continuamente. Tali infiniti universi non sono però osservabili: perciò, in ogni caso, il fatto che esistano o meno non modifica la sostanza del nostro discorso. Se l'universo (osservabile) è uno, segue che le sue proprietà non possono essere oggetto di un'indagine di tipo statistico, come nelle scienze "normali". Inoltre, i "fatti" della cosmologia si svolgono, o si sono svolti, su una scala temporale che abbraccia miliardi di anni. Ciò li rende sostanzialmente fuori della portata degli esseri umani, che possono compiere le loro osservazioni e fare esperimenti su scale temporali ben diverse. Di fatto, per gli uomini, i "fatti cosmologici" non sono ripetibili, pertanto non sono suscettibili di un'indagine sperimentale quale è postulata, per esempio, dal metodo scientifico galileiano.

L'universo dunque non si può sperimentare in laboratorio, possiamo soltanto osservarlo. In cosmologia, quindi, le osservazioni con strumenti sempre più sofisticati giocano un ruolo fondamentale. Si può ovviamente partire da un'ipotesi di lavoro, da una teoria più o meno definita, ma questa va poi messa alla prova dei fatti.

Ma com'è possibile verificare, per esempio, una teoria sulla nascita dell'universo se questa è avvenuta miliardi di anni fa e non si può assistere a un'altra "nascita"? L'unico modo è cercare di capire se quella teoria preveda fenomeni che lascino tracce persistenti, rilevabili ancora ai nostri giorni. La verifica della teoria sarà fatta analizzando quelle tracce.


1.2 L'inizio c'è stato

La teoria oggi prevalente sulla nascita dell'universo è quella del Big bang, letteralmente "la grande esplosione", da cui tutto avrebbe avuto origine. Ci si potrebbe porre, ancora a monte, una domanda per nulla ovvia: l'universo ha avuto un inizio? Ciò, in passato, non era affatto scontato. È vero che alcune cosmogonie antiche prevedevano che l'universo avesse avuto origine dal nulla o da uno stato di caos primordiale, ma altre, come quella induista (e di fatto l'opinione di tutti gli scienziati fino alla prima parte del XX secolo), ritenevano invece che l'universo esistesse da sempre, e che fosse immutabile; o, tutt'al più, che la sua evoluzione presentasse un andamento ciclico. Le stelle erano portate a esempio d'incorruttibilità perfetta: sempre uguali a se stesse, e perciò prive di una qualunque evoluzione nel tempo. Finché, all'inizio del XVII secolo, Galileo mostrò che la superficie del Sole presentava un insieme di "macchie", segno che perfino la nostra stella era "corruttibile".

Oggi sappiamo che i corpi celesti si evolvono e si modificano. Lo mostrano, per esempio, le stelle pulsanti e le esplosioni di supernovae; la geologia testimonia l'evoluzione del nostro stesso pianeta, dal tempo in cui si è formato a oggi (anche la Terra è un corpo celeste, non dimentichiamolo). Ogni corpo celeste è nato in un certo momento del passato, più o meno lontano, attraversa una fase stabile, più o meno lunga, e terminerà la propria esistenza, in maniera più o meno catastrofica. Secondo le teorie cosmologiche attuali, neanche l'universo sfugge, nel suo insieme, a queste regole.

Tuttavia, ancora oggi vi sono teorie alternative a quella del Big bang. Fra queste, quella più nota, proposta alla fine degli anni quaranta da Fred Hoyle, Thomas Gold e Hermann Bondi, prende il nome di "teoria dell'universo stazionario". Nella sua versione originaria tale teoria, che prosegue la tradizione cosmologica dei secoli precedenti, prevede che l'universo sia uguale a se stesso in ogni luogo e in ogni tempo, quindi ab aeterno e in aeternum. Questa teoria si scontra però con una serie di osservazioni sperimentali, le quali portano in modo piuttosto naturale (anche se complicato) alla conclusione che l'universo sia in evoluzione, come vedremo successivamente. Tuttavia, fino alla propria morte (avvenuta nell'agosto del 2001), Hoyle ha difeso strenuamente il proprio modello, pur avendovi apportato, nel corso del tempo, alcune modifiche sostanziali per renderlo "non incompatibile" con le osservazioni, arrivando al compromesso di un universo "quasi stazionario".

Assumiamo, dunque, che il Big bang sia realmente avvenuto (le prove osservative di ciò sono riportate in § 1.4). Che cosa possiamo dire del Big bang? E ancora: che cosa possiamo dire di ciò che c'era prima del Big bang? Fino a non molti anni or sono, la questione del "prima del Big bang" veniva liquidata in modo piuttosto sbrigativo. Nel senso che, se si assume che con il Big bang abbiano avuto inizio sia lo spazio che il tempo, non ha senso parlare di un prima. Persino sant'Agostino alla domanda che lo angustiava «Che cosa faceva Dio prima di creare il cielo e la terra?» rispondeva: «Non c'era alcun prima, allorché non c'era un tempo» Il tempo fu creato quando il mondo fu creato.

È opportuno rilevare, comunque, che il Big bang non implica necessariamente quella che potremmo definire la "creazione" di tutto ciò che esiste a partire dal nulla. Infatti, le leggi della fisica (in particolare la Teoria generale della relatività di Einstein) non si possono applicare nei primissimi istanti di vita del cosmo. Esse perdono di significato prima dell'istante 10^-43 secondi (cioè un decimilionesimo di miliardesimo di miliardesimo di miliardesimo di miliardesimo di secondo dopo il Big bang), il cosiddetto tempo di Planck. Prima di quell'istante, in sostanza, non ci sono leggi note che possano descrivere lo stato fisico dell'universo. Per farlo, servirebbe una teoria che unifichi la Relatività generale e la Meccanica quantistica (la branca della fisica che studia le particelle elementari), ma a tutt'oggi non esiste, e il suo futuro sviluppo rappresenta una delle sfide più importanti della fisica teorica.

Ciò nonostante, negli ultimi decenni i cosmologi hanno sviluppato la teoria delle cosiddette supercorde, che sembra essere estremamente promettente a questo riguardo. Secondo tale teoria, le particelle elementari non sarebbero puntiformi ma simili, piuttosto, a corde vibranti. Secondo questo modello – estremamente complesso per il formalismo matematico che richiede (dovuto, tra gli altri, al fisico italiano Gabriele Veneziano) – il Big bang non segnerebbe necessariamente l'inizio dell'universo ma un momento di svolta nella sua storia.

Già nel 1973, però, Edward Tyron aveva proposto che l'universo fosse nato da una fluttuazione quantistica del vuoto. Secondo le teorie quantistiche, infatti, il vuoto è un "magazzino" di energia, contrariamente alle apparenze, essendo sede di un brulichio di particelle che appaiono a scompaiono in tempi brevissimi. Nove anni dopo Tyron, Alexander Vilenkin ha raffinato questo modello e, con una serie di artifizi matematici, è riuscito, per così dire, a far nascere la materia e lo spazio-tempo dal nulla, o meglio, dal vuoto. Ovviamente solo per via speculativa, e per alcuni cosmologi criticabile, anche dal punto di vista della validità formale della sua argomentazione.


1.3 Uno scoppio... più o meno

Nella maggior parte dei testi di divulgazione, il Big bang è descritto come un'immane esplosione. Quest'immagine aiuta a farci un'idea dell'inizio del cosmo ma, a ben vedere, è fuorviante. Infatti, una comune esplosione avviene in un certo luogo (possiamo pensare a un palloncino che scoppia all'interno di una stanza) e in un momento preciso. Per il Big bang non è così: come abbiamo visto, esso avviene quando i concetti di spazio e di tempo non hanno ancora un senso definito (a causa degli effetti che la gravità quantistica potrebbe aver avuto su di essi) o, per lo meno, non hanno il senso che oggi noi attribuiamo a queste grandezze. Lo spazio e il tempo "normali" nascono soltanto con il Big bang, definito dai fisici uno stato di singolarità. Semplificando, si potrebbe affermare che è uno stato fisico in cui alcuni parametri perdono di significato mentre altri, per esempio la densità e la temperatura, tendono ad assumere un valore infinito. Viceversa, le dimensioni del cosmo, nell'istante del Big bang, tendono a zero. Il Big bang è quindi uno stato iniziale in cui la materia è compressa in un punto di densità e di temperatura altissime, praticamente infinite. Dopo lo "scoppio", l'universo si dilata, espandendosi e raffreddandosi progressivamente.

L'universo, quindi, sia all'inizio della sua evoluzione, sia ancora ai nostri giorni, non si espande nello spazio ma si espande con lo spazio. In un certo senso, il suo "confine" è anche il limite entro il quale esistono lo spazio e il tempo.

Per quanto riguarda il tempo, possiamo fare una considerazione di questo tipo: il concetto di tempo non ha significato in assenza di un avvenimento, di qualcosa, cioè, che cambia, si modifica, si evolve. Il tempo non ha senso in condizioni di staticità assoluta. Che senso ha misurare un intervallo di tempo se in tale intervallo di tempo non accade nulla? Come potremmo discernere la situazione (uno scienziato direbbe "lo stato fisico del sistema") iniziale da quella finale? Allora, potremmo dire che il Big bang e la successiva espansione dell'universo costituiscono le premesse indispensabili perché il computo del tempo abbia senso.

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5. Alla ricerca della vita nello spazio


Nella ricerca della vita nello spazio, come abbiamo avuto occasione di dire, l'analisi si è progressivamente estesa dall'indagine diretta di qualche forma di vita intelligente all'individuazione di possibili segni indiretti dell'esistenza di organismi viventi e, più in generale, alla rilevazione dei prerequisiti geologici e biochimici per il sorgere della vita. Gli studiosi hanno così inteso abbandonare quell'atteggiamento che Carl Sagan, uno dei "padri" dell'esobiologia, ha chiamato "sciovinismo antropocentrico". È una posizione, a ben vedere, presente anche in altre branche della scienza: l'uomo è considerato centro dell'universo e tutto quanto possa essere scoperto è rapportato a una dimensione "umana". Si può ben immaginare come questo modo di vedere sia limitativo per lo sviluppo dell'esobiologia, confinando le ricerche nell'ambito estremamente ristretto della rilevazione di altri mondi abitabili per la specie umana o, ancor peggio, limitandosi all'esclusiva ricerca di altri organismi nostri "gemelli". Dobbiamo invece considerare che in realtà, se non fosse per l'aiuto della tecnologia, la nostra specie occuperebbe sulla Terra una nicchia ecologica assai ristretta, mentre si è trovato di recente che altri organismi (tipicamente i batteri) dimostrano uno straordinario adattamento naturale a condizioni estreme (come abbiamo visto nei due capitoli precedenti).

In questo capitolo, quindi, non inseguiremo le tracce di altre specie viventi, simili alla nostra, che abitino qualche regione posta oltre il sistema solare, ma ci proponiamo di trovare una risposta alla solita domanda: esistono in qualche altra parte dell'universo a) una sorgente di energia appropriata, b) un solvente adeguato e c) un insieme di elementi biogenici adatti a far nascere e sostenere la vita? E, prima ancora, ci sono regioni dello spazio verso le quali convenga indirizzare di preferenza l'indagine?


5.1 Dove cercare?

Il primo oggetto celeste dove si potrebbe pensare di trovare più facilmente le condizioni per l'esistenza della vita, per analogia con la Terra, dovrebbe essere un altro pianeta. Ma abbiamo visto nei due capitoli precedenti che, secondo la teoria della panspermìa, anche meteoriti e comete potrebbero ospitare forme di vita, seppure – per così dire – "sospesa". In ogni caso, la composizione di queste due categorie di oggetti celesti può fornire preziose indicazioni esobiologiche. E che cosa dire delle nubi di polvere che si trovano tra una stella e l'altra, o dei tanti materiali che costituiscono le nebulose che formeranno poi stelle e pianeti? Nessun luogo dell'universo, tranne forse l'interno delle stelle più attive, dove le elevatissime temperature rendono instabile qualsiasi tipo di composto chimico, va escluso a priori dalla ricerca di una qualche caratteristica d'interesse esobiologico. Lo vedremo nel corso del capitolo, cominciando a focalizzare l'attenzione sulla ricerca di pianeti al di fuori del sistema solare, adatti alla vita.

La reale esistenza di questi pianeti, pur se del tutto prevedibile, è stata provata solo recentemente, dopo che sono state superate le enormi difficoltà sperimentali relative alla loro rilevazione (torneremo su questo argomento più avanti in questo capitolo). Come si può facilmente immaginare, non foss'altro per analogia con il nostro sistema solare, non tutti i pianeti extrasolari sono adatti a ospitare la vita, perciò è probabile che la vita sia nata e si sia evoluta sui pianeti che soddisfano a certi criteri, che sono stati fissati negli anni ottanta del secolo scorso.

Questi criteri stabiliscono un insieme di requisiti: da quelli di pertinenza prettamente astronomica a quelli biochimici.

– Per cominciare, si definiscono i requisiti della stella centrale del sistema (discussi in dettaglio nel prossimo paragrafo).

– Quindi si definiscono i requisiti planetari, per esempio si postula che il pianeta abbia una massa non eccessiva (altrimenti, da un lato, la forza gravitazionale sarebbe enorme, dall'altro, come nel caso del nostro sistema solare, il pianeta potrebbe essere un gigante gassoso come Giove e Saturno, con meno probabilità di essere adatto a ospitare la vita) e non troppo piccola (sarebbe difficile per un pianeta molto piccolo trattenere un'eventuale atmosfera).

– Altri requisiti da prendere in considerazione sono quelli di un' orbita stabile che consenta al pianeta di non avere differenze eccessive d'illuminazione tra il punto più vicino e quello più lontano alla stella attorno alla quale orbita; quello della presenza di un' atmosfera, che funzioni sia da schermo per le radiazioni provenienti dalla stella, sia da "laboratorio" biochimico; quello della presenza di un' idrosfera, ovvero dovrebbe essere possibile trovare acqua liquida sulla superficie del pianeta, che dovrebbe a sua volta avere determinate caratteristiche morfologiche.

- Inoltre, il pianeta dovrebbe soddisfare a precisi requisiti biochimici: presenza di adeguati solventi per lo svolgimento delle reazioni (in primis, in ordine d'importanza, l'acqua liquida); determinate composizioni e concentrazioni di certe sostanze chimiche, in modo da favorire il formarsi e l'evoluzione delle molecole prebiotiche; disponibilità di sorgenti di energia, necessaria per le reazioni biochimiche; un adatto potenziale di redox (questo parametro misura la facilità con cui possono avvenire le reazioni di ossidoriduzione, importanti per il metabolismo); un adeguato intervallo di pH (la vita sulla Terra si è adattata difficilmente ad ambienti molto acidi o molto basici).

- Infine, entrando nell'ambito più propriamente biochimico della questione della vita, dovrebbero essere soddisfatti anche requisiti di carattere protobiologico, come la presenza di diversi tipi di molecole, principalmente molecole informative autoreplicanti (che rappresenterebbero gli acidi nucleici ancestrali) e molecole catalitiche stereospecifiche (cioè enzimi).


Sulla base di questi requisiti, e fissando altre caratteristiche (come, per esempio, l'intervallo di temperature accettabili) si può definire, come abbiamo visto, una fascia di abitabilità intorno a ogni stella dotata del proprio corredo di pianeti. Con l'avvertimento, però, che il concetto stesso di abitabilità, e quindi le condizioni per così dire "accessorie" perché un pianeta possa ospitare la vita, si è evoluto di pari passo con la scoperta di organismi viventi in ambienti prima ritenuti del tutto ostili alla loro esistenza. Si è passati quindi dalle condizioni che avrebbero reso possibile la presenza della vita umana sulla superficie del pianeta alla semplice possibilità che sulla stessa superficie l'acqua liquida esista stabilmente, per poi superare anche questo requisito dopo la scoperta dei microrganismi che vivono sotto la superficie terrestre e nelle profondità degli oceani. Il che significa che conviene dare al termine fascia di abitabilità un significato probabilistico, definendone le condizioni in termini fisici: anche se non è da escludere che scoperte di rilevanza esobiologica possano essere fatte al di fuori di questa fascia, è pur vero che al suo interno è più elevata la probabilità che sia nata e si sia evoluta la vita.

Anche fuori della fascia di abitabilità, quindi, si possono fare osservazioni di grande interesse per l'esobiologia. Del resto, come abbiamo visto nel capitolo precedente, l'analisi dei composti organici trovati nelle meteoriti e di quelli osservati nelle comete e negli asteroidi porta a concludere che tali composti si siano formati parallelamente alla nascita del loro sistema planetario, quello stesso che poi, eventualmente, ospiterà la vita su uno o più dei propri pianeti. Ma questo significa che non solo i sistemi planetari già formati, ma anche le nebulose planetarie, e addirittura le nubi di gas interstellare, che poi si condenseranno fino a formare le stelle, sono luoghi di grande interesse per l'esobiologia. La risposta alla domanda "dove cercare?" è allora, un po' inaspettatamente, "ovunque". Il che da un lato sicuramente complica la ricerca, ma dall'altro, fatti i dovuti distinguo, fa tornare alla mente la teoria di Helmholtz e Kelvin, alla quale si è fatto cenno nel cap. 3: che la vita sia veramente nata con l'universo?

Lasciamo sospesa questa domanda e, dopo aver accennato alle condizioni che i pianeti dovrebbero soddisfare per poter ospitare la vita, vediamo in dettaglio le caratteristiche che dovrebbero avere le stelle che sono al centro di sistemi planetari.


5.2 Stelle adatte a pianeti abitabili

Nel 1961, l'astronomo americano Frank Drake propose, con alcuni colleghi, una celebre equazione che, almeno in via teorica, permetteva di stimare il numero di civiltà evolute che potrebbero essere presenti nella nostra Galassia. Ecco la formula di Drake:

N = R* x fp x na x fv x fi x fc x L


dove N è il numero di civiltà tecnologiche che esistono nella Via Lattea e che sono in grado di emettere segnali elettromagnetici rilevabili; R* è il tasso medio di formazione di stelle che potrebbero eventualmente supportare la vita; fp è la frazione di tali stelle che possiedano anche sistemi planetari; na il numero medio di pianeti con ambiente favorevole all'origine della vita in ciascun sistema planetario; fv è la frazione di tali pianeti adatti in cui la vita si è effettivamente sviluppata; fi è la frazione di tali pianeti abitati su cui si sono sviluppate forme di vita intelligenti; fc è la frazione di civiltà che hanno sviluppato una tecnologia che consenta loro di emettere segnali elettromagnetici rilevabili; L è l'intervallo di tempo durante il quale tali segnali sono effettivamente emessi.

È evidente che l'equazione di Drake contiene diversi parametri di così difficile valutazione da renderla poco più di una curiosità intellettuale. E ciascuno dei termini dell'equazione potrebbe essere a sua volta suddiviso in una miriade di sottotermini che tengano in conto dettagli più sottili. Diversi ricercatori hanno tuttavia provato, in questi quarant'anni, ad attribuire valori plausibili alle diverse grandezze contenute nell'equazione, ottenendo come risultato un valore di N variabile tra 1 (cioè esiste solo la civiltà terrestre) e svariati milioni.

In questa sede non ha quindi particolare significato analizzare in dettaglio i singoli termini dell'equazione di Drake. Tuttavia, per dare un'idea delle difficoltà connesse con una statistica di questo tipo, proviamo a vedere quali sono le condizioni a cui deve sottostare una stella perché attorno a essa possa orbitare un pianeta adatto alla nascita e allo sviluppo di una vita intelligente. Si tratta in sostanza del primo passo sulla lunga scala che conduce alla vita. Senza una stella adatta, la vita non può svilupparsi.

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Pagina 196

7.6 Il paradosso di Fermi

Anche il grande fisico Enrico Fermi , uno dei maggiori scienziati del XX secolo e premio Nobel per la fisica, s'interessò della questione della vita nell'universo. In occasione di una visita ai laboratori di Los Alamos nel 1950, Fermi affrontò con i propri colleghi, quasi per gioco, una discussione sugli UFO che sfociò rapidamente nella conclusione che gli avvistamenti che da alcuni anni si annunciavano in grande quantità difficilmente potevano avere qualche relazione con gli extraterrestri.

La conversazione si spostò allora sui viaggi interstellari e sull'esistenza di civiltà extraterrestri. Fermi affrontò la questione di petto: «Se esistono, allora dove sono?». Dopo una semplice serie di conti, la sua conclusione fu che se esistessero davvero avrebbero già dovuto comparire dalle nostre parti, venire a farci visita più volte, da che esiste la Terra. Quindi, concluse ancora Fermi, non esistono. L'unica civiltà intelligente è quella terrestre.

Un'affermazione perentoria, indubbiamente. Su che cosa si basavano í calcoli di Fermi? Il suo ragionamento fu il seguente: il Sole è nato circa 4,55 miliardi di anni fa, quando la nostra Galassia tuttavia aveva già circa 8 miliardi di anni. Quindi è possibile che forme di vita avessero già avuto un tempo sufficientemente lungo per nascere, evolversi, sviluppare una tecnologia. Secondo Fermi, dal momento in cui una civiltà tecnologica è in grado d'intraprendere viaggi interstellari (forse da noi accadrà tra qualche secolo), sono sufficienti alcune decine o centinaia di milioni di anni perché esplori l'intera Via Lattea e individui le altre forme di vita.

Si tratta di un tempo estremamente breve rispetto all'età della Galassia. E, se sono davvero esistite molte altre civiltà, almeno una avrebbe dovuto arrivare fino a noi.

Nel 1975, il paleontologo Mikael Hart riscopre le dissertazioni di Fermi. Che aveva concluso che la mancata presenza di tracce di civllta extraterrestri nel sistema solare doveva significare che queste non esistevano e che quindi anche la ricerca di segnali radio era da considerarsi una perdita di tempo e di denaro. Carl Sagan, ancora lui, battezzò quest'argomentazione come il "paradosso di Fermi".

Negli anni ottanta, Frank Tipler mise in evidenza che le conclusioni di Fermi erano ancora più paradossali se una di queste civiltà evolute fosse stata capace di realizzare sonde in grado di "riprodursi" in modo autonomo. Il ragionamento era piuttosto logico: la colonizzazione avrebbe potuto essere realizzata, prima che con navi spaziali con a bordo esseri viventi, con macchine automatiche. Supponiamo che una di queste civiltà costruisca dieci sonde "intelligenti" e le invii nello spazio in direzioni diverse. Queste, trovati pianeti o asteroidi dove procurarsi le materie prime, possono a loro volta costruire altre sonde uguali a se stesse, e queste a loro volta altre sonde ancora, con una moltiplicazione esponenziale. In breve, una flotta di milioni di sonde avrebbe invaso l'intera Galassia.

Secondo Tipler, era l'assenza di sonde di questo tipo che testimoniava della nostra unicità di civiltà intelligente o, per dirla in altri termini, della nostra "solitudine" galattica.

Una delle motivazioni che Fermi addusse per risolvere in qualche modo il proprio paradosso, fu che la durata media delle civiltà fosse troppo breve; in pratica, esse si distruggerebbero e si estinguerebbero prima di riuscire a raggiungere un livello tecnologico adeguato per la colonizzazione della Via Lattea. Non dimentichiamo, a tal proposito, che Fermi fu il progettista del primo reattore nucleare, utilizzato anche per le ricerche sulla bomba atomica, e che tra gli esiti possibili della corsa agli armamenti, come si capì ben presto, c'era quello dell'annientamento dell'umanità.

Secondo altri, il paradosso di Fermi potrebbe presentare anche altre soluzioni, più "fantascientifiche". Per esempio, Arthur C. Clark (l'autore di 2001: Odissea nello spazio) rilevò che ingegneri di una civiltà davvero molto avanzata rispetto a quella terrestri ai nostri occhi apparirebbero come dei "maghi". Forse la presenza di alieni supera a tal punto le nostre capacità di comprensione che semplicemente non ce ne rendiamo conto.

Oppure, semplicemente, alcune delle ipotesi del paradosso di Fermi sono sbagliate in partenza. Non è detto, per esempio, che il desiderio di conoscenza e di esplorazione sia insito in qualunque essere intelligente. O forse la nostra civiltà è la prima nata nella Galassia.

Un'altra possibilità è che lo sviluppo e l'invio di sonde per la colonizzazione della Galassia, oltre a essere oltremodo costoso, non sia considerato interessante. In fondo, a causa delle enormi distanze, non sarebbe possibile comunicare con esse. Perché prendersi il disturbo d'inviare un segno della propria presenza che forse non si saprà mai se è giunto a destinazione?

In ogni caso, il paradosso di Fermi ha un significato non trascurabile. Non si può considerare una prova dell' inesistenza della vita nell'universo, ma un argomento di riflessione.

Per dovere di cronaca, vale la pena ricordare che considerazioni analoghe a quelle di Fermi erano già state avanzate intorno al 1930 da Kostantin Tsiolkovskij, nell'ambito di un movimento culturale noto come "pancosmismo russo". E che anche il matematico John von Neumann , nel 1951, e il famoso fisico Freeman Dyson , nel 1963, si occuparono di macchine in grado di autoriprodursi.

Ma su quali basi può la civiltà umana pensare ai viaggi interstellari?


7.7 Viaggi interstellari

Se la vita nel cosmo esiste, è molto probabile che i suoi esempi siano caratterizzati da stadi diversi di evoluzione. Nel senso che è probabile che vi siano civiltà all'inizio della loro storia e altre molto evolute rispetto a quella terrestre. Lo stadio che oggi sta attraversando la nostra civiltà è tale per cui la tecnologia permette d'intraprendere viaggi umani in prossimità della Terra e di "pensare" ai viaggi interstellari. Per quanto grande sia il desiderio dell'umanità di uscire dal sistema solare per avvicinarsi ad altri mondi lontani, e ammesso che si riescano a trovare le risorse finanziarie necessarie per un simile obiettivo, rimane comunque il problema di riuscire a colmare le grandi distanze in "tempi umani", considerato che la massima velocità, teorica, di un tale viaggio è quella della luce. Se per raggiungere i confini del nostro sistema solare con le tecnologie attuali infatti, è necessario almeno un decennio, per arrivare a Proxima Centauri sarebbero necessari 70-80.000 anni. Solo alla velocità della luce la si potrebbe raggiungere in 4 anni e mezzo, considerando i tempi di accelerazione e decelerazione dell'astronave. Ma anche con un'astronave che viaggi a 300.000 km/s, ci vorrebbero 2,2 milioni di anni per arrivare alla galassia di Andromeda, una delle più vicine alla Via Lattea. L'esplorazione diretta di un altro sistema solare è dunque, allo stato attuale dell'arte, ancora un sogno, ben più affascinante di una missione extraterrestre affidata a una sonda-robot, i cui dati non torneranno se non dopo numerose generazioni.

Ecco allora la nuova sfida: trovare rivoluzionari sistemi di propulsione per viaggiare tra le stelle e le galassie che accorcino i tempi di trasferimento di 100, 1000 volte.

Un primo passo potrebbe essere quello di usare l'antimateria. Infatti, l'annichilazione tra materia e antimateria rilascia la maggior quantità di energia per unità di massa rispetto a qualsiasi altra reazione fisica. Quando si fa scontrare un protone con un antiprotone si producono energia e particelle che, in quantità opportune, possono produrre spinte elevatissime per un'astronave. Nei laboratori è già possibile produrre gli antiprotoni, ma è necessario ottenerne grandi quantità e costruire contenitori in grado di preservarli per periodi lunghi come quelli di un viaggio interstellare. Alla Pennsylvania State University (USA) stanno costruendo una "trappola" che permetterà di contenere un trilione di antiprotoni, circa un nanogrammo, in un serbatoio non più pesante di 100 kg, ma è necessario averne almeno un microgrammo (cioè 1.000 volte di più) per far funzionare un motore ad antimateria con le tecnologie attuali. Poca cosa comunque, per un viaggio interstellare. Un'astronave con un propulsore ad antimateria dovrà imbarcare almeno una tonnellata di protoni e antiprotoni senza che questi entrino a contatto, a meno di non usare un piccolo motore ad antimateria per alimentare un secondo propulsore a fusione nucleare. Con questo sistema ibrido, la quantità di antiprotoni necessari sarebbe allora molto ridotta, ma l'astronave molto più grande. E nell'arco di una vita umana si potrebbero raggiungere le stelle più vicine.

Se invece ci si accontentasse di un raggio d'azione più limitato, basterebbe un razzo spinto dalla luce. Il Lighcraft sfrutta proprio questa fonte di energia. È una navicella la cui propulsione avviene non in virtù dell'energia liberata dal consumo di combustibili, ma grazie alla spinta sviluppata da un potente fascio laser. I primi esperimenti hanno dato risultati positivi. Nel 2001 una micro-astronave da 12 cm di diametro si è sollevata da terra con la spinta esercitata da un raggio laser che, puntato verso un anello posto sulla parte posteriore, riscaldava l'aria a 30.000 °C. Questa, esplodendo, spingeva verso l'alto il velivolo. Responsabile di queste ricerche è Leik Myrabo della Renselaer Polytechnic Institute, secondo il quale l'obiettivo iniziale è quello di usare il Lighcraft per porre nello spazio microsatelliti. In un secondo tempo si potranno costruire sonde interplanetarie che funzioneranno allo stesso modo. Nello spazio si utilizzerà l'idrogeno, invece dell'aria, e il laser di spinta potrà essere costruito a bordo della sonda, quand'essa è in orbita attorno alla Terra, utilizzando come sorgente energetica il Sole. Con questo sistema si potrebbero raggiungere velocità dell'ordine delle centinaia di km al secondo. Il primo Lighcraft ha già toccato i 71 metri di quota. Secondo Myrabo, se tutto andrà come sperato, entro il 2003 verrà lanciata una microsonda a 1 km d'altezza.

Un'altra strada che si sta percorrendo è quella di usare come propulsore il Sole. A questo scopo la NASA sta studiando lo sviluppo dell'M2P2 (Mini-Magnetospheric Plasma Propulsion), un generatore di plasma. Il plasma origina un campo magnetico di una ventina di km di raggio che si apre dietro un'astronave come una gigantesca vela. Questa, raccogliendo il vento solare, può spingere l'astronave fino a 280.000 km all'ora, più di sette volte la velocità delle sonde Voyager e più di dieci volte quella degli Shuttle. Anche l'M2P2 tuttavia, è ancora in fase di sperimentazione in laboratorio e secondo Hoppy Price, responsabile delle tecnologie delle vele solari del Jet Propulsion Laboratory della NASA, le prime applicazioni si potranno avere tra non meno di un decennio.

In ogni caso — con i motori ad antimateria, nucleari, o laser — se si desidera andare e tornare a Terra nell'arco di una vita, le distanze percorribili saranno assolutamente limitate in termini cosmologici.

Per i viaggi intergalattici bisogna andare ben oltre. È necessario trovare qualcosa che permetta di superare il limite di velocità della luce. È possibile? C'è chi ha trasformato questo problema apparentemente insuperabile in una sfida. Tra questi Marc Millis, il quale si è posto tre obiettivi precisi: eliminare, se possibile del tutto, l'uso di propellenti, scoprire un sistema per muovere una navicella alla massima velocità consentita dalle leggi della fisica attraverso lo spazio (e, se possibile, attraverso lo spazio-tempo) e trovare un modo del tutto innovativo per produrre enormi quantità di energia.

Gli wormhole (letteralmente "cunicoli di vermi") potrebbero essere la soluzione: un'idea a cui sta lavorando Millis per centrare i tre obiettivi in un sol colpo. Gli wormhole sono cunicoli "spaziotemporali" ipotizzati dalle leggi della Relatività generale che, almeno in teoria, possono unire due regioni distanti anche milioni di anni-luce, grazie a curvature gravitazionali dello spazio-tempo. Se ne esistesse uno nel nostro sistema solare si potrebbe usare come "porta d'entrata", per uscire dopo un minuto, per esempio, nella galassia di Andromeda. Non sapendo se questi tunnel esistono già belli e pronti nell'universo, Millis ipotizza di costruirli artificialmente e ne ha anche studiato il sistema. Per i punti d'entrata e d'arrivo, è necessario raccogliere una grande quantità di materia super-densa, come quella che forma una stella a neutroni. Ne sarebbe necessaria almeno tanta da formare un anello dalle dimensioni dell'orbita della Terra attorno al Sole. Ma c'è un problema: ammesso che il wormhole di partenza si possa produrre vicino a noi, quello d'uscita sarebbe necessario costruirlo là dove si vuole arrivare. Qualcuno cioè, deve aver già compiuto il viaggio. In ogni caso, sempre in base alle ricerche di Millis, occorrerà far ruotare a velocità prossima a quella della luce i dischi di materia ultradensa e perciò bisognerà sottoporli a un campo elettromagnetico di grandissima intensità. Solo allora lo spazio si piegherebbe e i due punti da connettere arriverebbero a toccarsi.

Sulla scrivania di Millis c'è un altro progetto allo studio: applicare a una vera astronave la tecnologia dell'Enterprise, la nota astronave dei telefilm Star Trek, che nei suoi spostamenti deforma lo spazio-tempo davanti e dietro a sé. Creare cioè, i "warp drive", un fenomeno, teorizzato da Miguel Alcubierre dell'Università del Galles, nel 1994. Secondo leggi fisiche rigorosamente scientifiche, è possibile comprimere lo spazio davanti a un'astronave, riducendo in tal modo la distanza da un luogo che si desidera raggiungere. Ma l'unica possibilità che oggi è nota agli scienziati per deformare lo spazio è l'uso di enormi quantità di massa (paragonabili a quelle stellari, che non siamo in grado di "manipolare e ciò, ovviamente, rende i warp drive un sogno di là da venire.

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7.8 Il principio antropico

La storia dell'astronomia degli ultimi tre secoli registra la progressiva e inarrestabile tendenza a decentrare la posizione della Terra, e quindi dell'uomo, nell'ambito dell'universo; questo lungo processo è avvenuto in fasi successive.

Il primo passo, fondamentale, fu l'affermazione del sistema cosmologico proposto da Nicolò Copernico , secondo il quale è la Terra a orbitare attorno al Sole e non viceversa. Tale ipotesi, pubblicata nel 1543, fu accettata correntemente solo molto più tardi, dopo il processo per eresia a Galileo (1633), il quale si era dichiarato convinto sostenitore del sistema copernicano, avversando decisamente quello geocentrico, di tradizione aristotelica. Il dibattito sul moto della Terra, che può sembrare una mera speculazione di meccanica celeste, in realtà cela la questione sostanziale della centralità dell'uomo: in qualità di essere pensante – così sosteneva energicamente la Chiesa – l'uomo doveva trovarsi in una posizione in qualche modo privilegiata, al centro dell'universo. Con il modello eliocentrico spariva l'Uomo per il quale l'universo stesso era stato pensato, lasciando il posto a un uomo-quasi-evento-casuale dell'evoluzione del cosmo, la cui presenza si deve a una serie di condizioni favorevoli che accidentalmente si sono verificate sul nostro pianeta.

Il processo di decentramento dell'uomo ha ricevuto nuovo impulso in tempi più recenti, quando si è constatato che il Sole, stella dalle caratteristiche fisiche del tutto medie, si trova all'interno di un sistema vastissimo di centinaia di miliardi di astri detto Galassia, non al centro di questa, ma in posizione fortemente periferica.

L'ultimo capitolo della vicenda è stato scritto intorno al 1930, quando alcuni astronomi (primo tra tutti Edwin Hubble) si accorsero che l'universo è popolato da miliardi di galassie simili alla nostra: dunque la Galassia non solo è una tra le tante galassie, ma si trova in una posizione del tutto non privilegiata. Ciò sembrava porre definitivamente fine all'ipotesi di centralità dell'uomo nell'universo; parallelamente, veniva meno un argomento scientifico a favore dell'ipotesi che l'universo fosse stato creato per ospitare l'uomo. Questa sorta di estensione della concezione copernicana alle sue estreme conseguenze ha dominato il pensiero del mondo scientifico fino all'inizio degli anni ottanta.

Negli ultimi vent'anni, invece, si è assistito a una sorta di ribaltamento delle posizioni conseguite. Alla luce dei risultati conseguiti da alcuni scienziati, si è cominciato a obiettare che l'uomo non può considerarsi del tutto estraneo all'universo che lo circonda. Non si tratta solo di un'estensione del principio fisico d'indeterminazione formulato da Werner Heisenberg già nel 1927, secondo il quale, in pratica, lo sperimentatore modifica in modo sostanziale il risultato delle misure che sta compiendo per il solo fatto di osservare, quanto piuttosto di una reintegrazione dell'uomo in una posizione di privilegio, non più basata su speculazioni filosofiche o religiose, ma su osservazioni scientifiche.

Esistono infatti, in astronomia e in fisica, due classi di grandezze, che è possibile misurare con estrema cura. Alla prima classe appartengono le grandezze che descrivono l'universo e la sua evoluzione: la costante di espansione (che misura la velocità con cui l'universo si dilata), il tempo di vita delle stelle e dell'universo stesso, l'età del Sole, della Terra e così via. Queste grandezze sono state misurate, con una precisione sempre migliore, senza porre tuttavia il problema del perché avessero proprio i valori che hanno; perché, per esempio, l'universo abbia circa 13 miliardi di anni e non molti di meno o molti di più.

Alla seconda classe appartengono invece le costanti fisiche fondamentali vere e proprie: la velocità della luce nel vuoto, la costante di gravitazione universale, la costante di Planck (caratteristica dei fenomeni quantistici), la carica e la massa delle particelle fondamentali (elettrone, protone ecc.), le costanti delle interazioni forte e debole, e così via.

Secondo la formulazione più blanda della teoria che va sotto il nome di "Principio antropico" , i valori dei parametri cosmologici che appartengono alla prima classe sono proprio quelli misurati dagli astronomi perché altrimenti la vita non avrebbe potuto svilupparsi. Per esempio, se l'universo fosse molto più giovane, se avesse cioè un'età di pochi miliardi di anni o meno ancora, non ci sarebbe stato il tempo perché si sviluppassero le condizioni che hanno portato all'evoluzione della vita in tutte le sue forme; infatti non avrebbero potuto, in particolare, formarsi gli elementi chimici sui quali la vita si basa. Viceversa, se fosse molto più vecchio, se avesse cioè un'età di molte decine di miliardi di anni, le stelle come il Sole avrebbero compiuto il loro ciclo evolutivo e non garantirebbero più le condizioni energetiche e la stabilità indispensabili per la vita.

Il Principio antropico nella sua versione debole, in sostanza, sostiene che l'universo è quello che è perché dev'essere compatibile con l'esistenza di esseri intelligenti e quindi di osservatori (noi stessi e forse qualcun altro in angoli sperduti del cosmo) in grado di contemplarlo e studiarlo. Semplicemente, se i parametri cosmologici fossero molto diversi, noi non saremmo qui a porci queste domande. Inoltre è molto interessante notare come, forse per la prima volta, si cerchi di dare un'interpretazione dei dati numerici osservativi, senza semplicemente limitarsi a misurazioni tecnicamente sempre più precise.

Esiste poi una versione forte del Principio antropico, secondo la quale anche i parametri fisici che appartengono alla seconda classe esposta sopra, "devono" avere proprio quei valori (o comunque dei valori estremamente prossimi a essi). Oggi si sa, per esempio, che se la carica dell'elettrone fosse differente da quella misurata, neanche di molto, le stelle o sarebbero impossibilitate a far avvenire le reazioni nucleari che le sostengono o non potrebbero esplodere alla fine della loro esistenza, rilasciando gli elementi chimici sintetizzati al loro interno, con il risultato, in entrambi i casi, d'impedire lo sviluppo della vita. Lo stesso vale per le costanti delle interazioni fondamentali e per le masse delle particelle.

Perché si è verificata questa catena apparentemente inspiegabile di casi? Possiamo tentare di rispondere in due modi.

Il primo è quello di supporre che esistano infiniti universi, ciascuno differente da tutti gli altri, con le proprie leggi fisiche e le proprie costanti fondamentali. Nella maggior parte di questi universi, però, le condizioni sono tali da impedire che vi siano esseri viventi che lo osservano e che si pongono domande sulla propria esistenza; questa possibilità è sostenuta da molti scienziati di oggi. D'altra parte è in un certo modo "seccante" pensare che esistano infiniti universi separati dal nostro, dei quali noi non potremo mai avere una neppure minima conoscenza e che esistono tutti senza che vi sia nessuno ad abitarli.

L'altra possibilità è, semplicemente, che l'universo sia unico, e che si sia evoluto in modo estremamente accurato e preciso in modo da permettere l'evoluzione di esseri pensanti. Anche questa seconda possibile risposta pone delle questioni non trascurabili, dato che dal punto di vista scientifico è estremamente arduo pensare di ritrovarsi oggi con un universo ad hoc. Secondo la teoria del Big Bang, è infatti estremamente improbabile che, tra tante possibilita iniziali, si sia evoluto proprio l'universo "giusto" per noi, a meno di non pensare che, infinite e diverse possibilità iniziali, non possano per qualche motivo condurre a risultati finali molto simili. La teoria dell'universo "inflazionario", sviluppata all'inizio degli anni ottanta, va verso questa direzione, ipotizzando che l'espansione dell'universo, nelle sue primissime fasi dopo il Big Bang, sia stata talmente rapida da "omogeneizzare" e cancellare differenti condizioni iniziali.

La versione forte del Principio antropico, molto più stringente, afferma perciò la possibilità che l'universo non solo sia compatibile con l'esistenza dell'uomo, ma addirittura sia concepito in funzione di esso. La centralità (e il privilegio) che ne deriva all'uomo è senz'altro molto maggiore di quella dell'aristotelismo originario.

D'altra parte, quest'affermazione è difficile da accettare. Non si capisce, per esempio, che bisogno ci sia di centinaia di miliardi di stelle nella nostra Galassia e di cento miliardi di galassie nell'intero universo conosciuto; ancora una volta però potremmo rispondere "antropicamente", dicendo che, se non ci fossero, non potremmo ammirare lo spettacolo del cielo stellato nelle notti serene.

La ricerca della vita nel cosmo forse porterà, prima o poi, a risultati concreti. Ma se questo non dovesse accadere, se scopriremo di essere davvero soli in questo sterminato universo, la nostra responsabilità sarà ancora più grande.

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