Copertina
Autore Hans Blumenberg
Titolo Concetti in storie
EdizioneMedusa, Milano, 2004, Argonauti 9 , pag. 286, cop.fle.sov., dim. 120x210x22 mm , Isbn 978-88-88130-50-7
OriginaleBegriffe in Geschichten
EdizioneSuhrkamp, Frankfurt am Main, 1998
PrefazioneLaura Boella
TraduttoreMartino Doni
LettoreCorrado Leonardo, 2006
Classe filosofia , teoria letteraria
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Indice

Introduzione, Laura Boella                7
Nota del traduttore                      21

Concetti in storie

Una storia del concetto                  25
"Tolleranza dell'ambiguità"              27
Alla caccia sottile dell'anamnesi        29
"Agitazione"                             31
Parole del mondo-della-vita:
    il ritorno delle "fibre"             33
"Forza probatoria"                       36
"Mutamento di coscienza"                 39
"La cultura è ciò che resta"             41
Criterium veritatis                      43
L'esserci                                46
Il datum                                 47
Delega                                   49
Distanza                                 51
Passaggi: setaccio stretto, rete larga   53
"Proposizioni elementari"                55
"Ιlite"                                  57
"Emancipazione"                          58
"Esperienza"                             59
"Compimento"                             61
"Ricordo, dimenticanza"                  63
"Epistemologia"                          65
"Esperienza vissuta"                     68
C'è da pensare. Tentativo di smaltire la
    sbornia della "cura" di Heidegger    70
"Interpretazione e distanza"             75
"Futurologia"                            77
Pacatezza                                79
"Fare storia"                            80
Sicurezza di gusto                       83
"Giudizio di gusto"                      86
"Astro"                                  87
"Salute"                                 89
"Gettatezza"                             91
La casa battello                         99
"L'io" (I)                              101
"L'io" (II)                             103
"Identità"                              105
Libera variazione sul tema: identità    107
Infezione come metafora assoluta        111
"Intersoggettività" (I)                 114
"Intersoggettività" (II)                116

[...]


 

 

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Pagina 25

Una storia del concetto



                                         Eterno sogno che qualcosa
                                    non venga fatto, ma si generi.
                                                    GOTTFRIED BENN
                                                a Kδthe von Porada
                                                     9 luglio 1933



Mio padre era un fotografo di grande passione e con scarsi esiti. Rimediava invertendo questo squilibrio in altri campi. Quando ci ripenso mi sembra quasi un pioniere della fotografia anche se, per questo ruolo, era in ritardo di un buon mezzo secolo. Ma sono davvero lo sguardo e l'espressione della fatica a fare il pioniere, sono il peso dell'equipaggiamento, il sudore versato in trasporti e allestimenti, o forse gli ostacoli posti dalle circostanze? La macchina fotografica doveva essere per forza tanto pesante? E il treppiede tanto cocciuto da tirar fuori ogni volta dal nulla la sua zampa e colpire ovunque all'improvviso come un insetto col suo aculeo?

Le escursioni alla ricerca della preda ottica mi rallegravano al solo pensiero di che cosa sarebbe accaduto di lì a poco. Mio padre sviluppava le fotografie da sé. Aveva una camera oscura con la luce rossa, bottiglie e bacinelle di ogni genere, con le quali venivano preparati dei "bagni", che secondo il mio punto di vista avrebbero dovuto dare risultati eccellenti. Mi era permesso di aiutarlo, soprattutto lavando e risciacquando accuratamente le lastre di vetro in piatte bacinelle rettangolari, stando bene attento a muovermi con cautela, che certo non prendevo dalla mia connaturata ostinazione. Non di rado succedeva che la lastra si colorasse di un nero uniforme; e altrettanto spesso che rimanesse chiara e trasparente, come se non fosse accaduto nulla. Erano insomma i casi limite delle esposizioni sbagliate e, tra i due estremi, c'era il "mondo" del più o meno irrilevante.

Quelli che mio padre considerava dei buoni risultati mi interessavano meno. Mi affascinava piuttosto il processo: come dal nulla potesse sorgere qualcosa che prima non c'era mai stato. Le lezioni di chimica paterne – aveva abbandonato il ginnasio dopo la quarta e non toccò mai più un libro, se non per venderlo: di mestiere era libraio – le sue pseudo-iniziazioni alchemiche, insomma, non mi diedero molto. Fu così che si formò il primo articolo del mio Credo: sapevo, lo avevo visto con i miei occhi, come era andata il giorno della creazione del mondo. Prima il nulla, poi qualcosa – soltanto perché prima ci si era preoccupati della luce. Dal punto di vista fotografico la procedura biblica mi sembrava tecnicamente corretta, e la camera oscura era per me l'imitazione dello stato dell'universo prima dell'inizio della creazione. Se non si fosse fatto buio, non si sarebbe potuto fare nulla dal nulla, e la luce [Licht] era dunque la più importante condizione per poter parlare di una corretta esposizione [Belichtung]. Tra le mie mani, facendo oscillare con cautela le lastre nei bagni, il mondo veniva alla luce – certo non con quell' aplomb e tutta la baraonda dell' incipit biblico, ma in linea di massima mediante lo stesso metodo.

Non mi si perdonerà di essere uno che non crede alla creazione, ma che comunque ne comprende il concetto così come lo produceva, plasticamente, da sé, nella camera oscura.

Ma da allora, se non altro, ho intuito come nascono i concetti.

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Pagina 41

"La cultura è ciò che resta"



Le definizioni sono opere d'arte. Quella del vetro oltremodo mi affascina: Il vetro è un fluido sopraffuso dalla viscosità estremamente elevata e dalla velocità di scorrimento praticamente nulla (Gustav Tamman, 1903). Si vede subito che cosa è in gioco in una definizione: deve tenersi il più lontana possibile dalla tautologia. Essa traccia delle rappresentazioni, nel cui limite definisce ciò che il fenomeno non descrive. Chi si troverà davanti al vetro di una finestra non penserà certo alla sua descrizione in termini di "fluido" o di "velocità di scorrimento".

Da ciò deriva anche l'insuperabile inclinazione delle definizioni a trasformarsi in parodia. Per esempio: Salute è lo stato precario da cui non ci si aspetta niente di buono. Oppure: Rumore è un'informazione acustica indesiderata. O la sorprendente formula di Ernest Renan: La nazione è quello che una nazione vuole essere. E infine: Mondo è il luogo geometrico di tutti i punti. La parodia chiarisce che cosa fanno le definizioni e suggerisce che le si sottovaluta quando le si definisce a loro volta regole per la sostituzione di parole.

Le definizioni si possono dimenticare. Solo una non andrebbe dimenticata, benché la dimenticanza le sia essenziale. La si deve a uno dei tanti primi ministri francesi, uno che sarebbe ingiusto dimenticare: Edouard Herriot. Egli disse che la cultura è ciò che resta quando si è dimenticato tutto.

Oltre che ammirati, ci si sente riconoscenti per il fatto di poter dimenticare. Anzi, di averne diritto.

Questa definizione non si prende gioco di quelli che esternano la loro "cultura" in formule evocative. "Ah, sì, questo mi ricorda...". Va tutto bene. Ma è una fase transitoria. Bisogna potersi ricordare di molte cose, per avere la licenza di dimenticare tutto. Poiché l'oblio di cui stiamo parlando non è altro che l'omogenea indeterminatezza della memoria.

Il mondo si è riempito di riferimenti e di referenze, e non ha più bisogno che si estragga questa o quella distinzione particolare. Dal "significato" che si deve apprendere lungo il cammino verso cultura, il cui sistema di coordinate garantisce che nulla abbia a che vedere con nulla, deriva lo stato di aggregazione della "significatività". In esso tutto ha a che vedere con tutto. Tuttavia la follia dei riferimenti non ha nessuna chance. Ci si è difesi dallo stare a guardare a bocca aperta le singolarità. E se a qualcuno sembra troppo poco, provi a far meglio!

Se qualcuno volesse aggiungere a quanto detto qualcosa di più altisonante, allora direi: La cultura non è un arsenale, la cultura è un orizzonte.

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Pagina 55

"Proposizioni elementari"



Platone ha insegnato ai posteri a non tenere in nessuna considerazione i sofisti, e ha fatto ricorrere il vecchio Socrate, che non aveva mai ceduto totalmente su questo punto, a tutte le arti per negare loro ogni diritto di attenzione.

Del sofista più famoso, il siciliano Gorgia da Lentini, che cercò di fare scalpore ad Atene con un'opera Sul non essere, proprio come devono fare i "filosofi praticanti", non sappiamo quasi nulla.

Tuttavia egli è diventato famoso per tre proposizioni che ci sono state trasmesse dallo scettico Sesto Empirico. Esse suonano, in modo abbastanza laconico, così:

— Niente è.

— Se qualcosa ci fosse, sarebbe inconoscibile.

— Se fosse conoscibile, non potremmo comunicarlo.

Platone ha dimostrato, certo a ragione, che la "filosofia" dei sofisti si richiama alla scuola di Elea e che i suoi "principi" derivano dai paradossi con i quali già Zenone di Elea dimostrò che il mondo non può essere come ci appare.

Si potrebbe dire che Platone, nella sua polemica contro la sofistica, faccia una parodia delle tre proposizioni di Gorgia, anche se pare che non le abbia conosciute. Queste proposizioni, attribuite al tentativo dei sofisti di dare una legittimazione alla retorica e alla sua verità, si possono formulare così:

— Niente è.

— Dunque anche il niente esiste.

— Dunque è vero anche ciò che su di esso si dice.

La propensione alla terna, alla "regola del tre", piace particolarmente alla filosofla, e non solo fino alla tavola delle categorie di Kant. Non è un caso, credo, e Gorgia ha dimostrato proprio questo.

Si può forse ridurre ogni disputa filosofica a tre proposizioni "elementari"? O forse la disputa è solo su questo: se ci siano proposizioni "elementari". Il dibattito potrebbe essere dunque questo:

— Non esistono proposizioni elementari.

— Se esistessero le proposizioni elementari, non le potremmo verificare.

— Se fossero verificabili, non sapremmo che farcene.

Sono convinto che in queste tre proposizioni sia ben descritto il percorso di Wittgenstein dal Tractatus ai "giochi linguistici".

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Pagina 70

C'è da pensare
Tentativo di smaltire la sbornia
della "cura" di Heidegger



Il caso storico-linguistico vuole che la copula, che è in grado di coordinare il soggetto della frase con tutti i suoi predicati, spogliandoli di tutto il resto — nell'ostentata nudità che lascia in sospeso tutto ciò che questo soggetto potrebbe essere, e che in ogni caso è —, sia anche un predicato esistenziale che significa "c'è" [es gibt]. Non è un arbitrio incalzare lo spirito della lingua per interrogarlo su che unità di "essere" sia quella che circonda e su cui si regge questo margine di manovra semantica. Nel contempo bisogna mettere in conto che così, in questo luogo apparentemente insignificante, si lascia campo libero alla speculazione metafisica.

Seguendo il filo conduttore del linguaggio parlato, non ci si può non stupire di fronte all'equazione semantica tra "è" [es ist] e "c'è" [es gibt]. Ciò che è, dà a pensare che sia, e non piuttosto che non sia. Ecco che si porta alla più acuta esasperazione il fatto sorprendente che una cosa "è", davanti all'ardita domanda se ci sia un motivo sufficiente a che essa invece non sia.

Nel "c'è" [es gibt, lett.: esso dà] colui che dà è, in modo difficilmente percepibile, scomparso o messo da parte. Dimenticato o timidamente omesso, egli e il suo dato vengono abbandonati in una rudimentale relazione, dalla quale è come se un relatum venisse estirpato; così ciò che c'è [es gibt] sopporta a malapena l'obbligo grammaticale dell'oggetto all'accusativo. Il linguaggio scientifico ha mitigato l'indeterminatezza di questo stato di cose anche mediante la trasformazione del dare in essere dato - dell'attivo, che è quasi un controsenso, nel passivo dell'essere-stato-dato. Nessuno dà nell'esser-dato di qualche cosa ("chi dà?" è una domanda da non fare, come nel gioco delle carte).

L'impersonale è un capolavoro della lingua per lasciare in sospeso chi o che cosa è all'opera, e questo dà a pensare: sospeso non è solo chi dà [wer gibt], ma è sospeso pure colui al quale si è dato [wem gegeben wird]. Gli si dà "solo" a pensare, oppure nel "c'è" [es gibt] si insinua il rudimento di un legame tra datità e dono, che sollecita, più che al pensare [Denken], al ringraziare [Danken]?

Sviluppando tutto ciò in una serie di associazioni linguistiche, ci si accorge di quanto si sia vicini al linguaggio dello Heidegger della "svolta". Nel 1927 in Essere e tempo Heidegger aveva definito l'essere dell'esserci come cura, e una delle implicazioni di questa propedeutica per un'ontologia fondamentale era quella di restituire al pensiero la sua pienezza originaria, pienezza che pare avesse perso nella riduzione dell'assunzione teoretica degli oggetti. Posto che l'esserci sia essenzialmente cura, deve essere il rimedio originario della mancanza di ciò che gli è dato, l'esistenza formale dell'ente deve essere genuinamente quel "c'è" riferito alla cura: il virtuale prendersi cura dell'esserci come quintessenza di ciò che c'è nel mondo.

A questo punto ci si può chiedere che ne sarà del pensiero o che ne è già stato, se deve soddisfare questo riferimento alla cura prima di ogni riduzione al teoretico; così "si dà" [ergibt sich] la precisa correlazione dell'essere, nell'originario "c'è" [es gibt], con il pensiero, in quanto risposta originaria a un dono che nessuno dà e che tuttavia, per un esserci retrocesso alla sua fatticità e sprovvisto di cura, deve essere il ringraziabile per antonomasia. Non c'è nessuno a cui si possa dire grazie: in tal senso il grazie non viene detto, viene "pensato".

L'esserci si comprende perché non riesce a trovare in nessuna riflessione su di sé il motivo sufficiente per non essere, e si comprende come puro debito, senza destinatari, senza rituale, senza i parametri per estinguerlo. Così esso stesso diventa in tutto e per tutto, senza limite, un ringraziamento per il fatto che c'è il "c'è", anche se l'analitica esistenziale ha sottratto alla tematica dell'essere la dipendenza dalla cura di ciò che rimedia alla mancanza di cura. Ciò che è spacciato per "svolta" dell'ontologia, sembra piuttosto la successione lineare del procedere dell'argomentazione, dalla quale sono state estratte delle parti così grandi, da sminuirne la consistenza. Si porta via il buon filo conduttore del "c'è" dal semplice esercizio del pensiero.

Θ possibile indirizzare lo sguardo sulla cura, o su ciò che le offre un rimedio; sul gesto dell'auto-accudimento, o su ciò che ne soddisfa i fabbisogni fino a "sazietà". Nella doppia chiesa di San Flaviano a Montefiascone, sulle rive del lago di Bolsena, a nord di Roma, si trova un'antica lapide funeraria con un'iscrizione ormai in parte illeggibile, che rivela con i suoi pochi frammenti – IO... DE FU... – il nome di chi riposa in quel luogo: Johannes Fugger, dunque un membro della famiglia Fugger, originaria di Augusta, conosciuta in tutto il mondo già dal quindicesimo secolo per la sua attività commerciale. L'inscrizione latina non presenta nessuna data ma lascia intendere, nonostante le sue lacune, il motivo della morte: a causa del troppo EST EST EST. Qui l'ontologia fondamentale sembra mostrare il suo lato migliore, benché mortale.

La tradizione aneddotica spiega così l'epigrafe: il prelato di Augusta stava facendo uno dei suoi viaggi a Roma impostigli dal suo ufficio. Ogni giorno mandava avanti il suo servitore perché gli scovasse di volta in volta i posti dove si poteva gustare il vino migliore, nei paesi in cui avrebbero trascorso la notte. Il perlustratore per non perdersi tracciava un EST sulle porte o sui muri delle osterie, a guisa di giudizio sul vino ivi disponibile. In quel di Montefiascone il vino dovette sembrare all'assaggiatore senza dubbio il più buono che avesse mai bevuto, tanto che appose il simbolo della sua approvazione per ben tre volte di seguito. Il prelato condivise pienamente la valutazione, non riuscì più ad allontanarsi dalla città, e trovò così morte e sepoltura in loco.

Come era prevedibile una simile storia non poteva sfuggire alla pubblicità turistica, ed eccola nei dépliant. In questo caso però, cosa quanto meno azzardata, la si trova anche a tutt'oggi sull'etichetta del vino prodotto a Montefiascone come un segno d'esorcismo: EST! EST!! EST!!! Tutto ciò sarebbe rimasto solo una leggenda locale se l'aneddoto non fosse entrato, nell'anno 1735, nell'autorevole Universal-Lexikon di Zedler. Perché ciò che si trovava là esisteva veramente, almeno per i contemporanei. In fin dei conti lo "Zedler" è sullo stesso piano della critica storica del Dictionnaire di Bayle, che aveva insegnato a distinguere una volta per tutte tra storia e leggenda.

In questo aneddoto si può cogliere nel modo più bello la scarsa corrispondenza della traduzione di EST con "è" [Es ist]. Il passaggio all'esclamazione "c'è!" [Es gibt!], in una situazione che, considerata l'ovvietà dell'oggetto ambito, non necessita di nessun ulteriore chiarimento, coglie il significato ontologico nascosto: si serve ben altro che la cura.

Tornando a Heidegger, dopo questo piacevole racconto di una bella morte, si vede facilmente che l'intera "storia dell'essere" diventa possibile solo lasciando da parte un soggetto. Il suo anonimato può essere mascherato con vaghe connotazioni, mentre lascia aperti tutti i predicati nella forma dell'impersonale grammaticale o logico, comunque non li sottopone a interdetto. Così non c'è più l'ente, ma soltanto l'essere, perché l'ente viene abbandonato o gettato in balia di un'altra potenza, di cui non c'è più bisogno di occuparsi.

Le omissioni sono il mezzo del pensiero, là dove esso sia stato prodotto mediante il concatenarsi dell'associazione. Il "c'è" [es gibt] è il mezzo della comprensione, propriamente là dove si ha bisogno di ciò che "c'è". Perciò la cura non riguarda solo ciò che c'è, ma anche il "C'è" in quanto tale, nella lingua dell'iscrizione tombale, quell'EST! EST!! EST!!!

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Pagina 214

"Teoria"



Si può sempre tentare di definire, in modo corretto o prolisso, che cos'è una teoria; ma non veniamo a capo di nulla. Possiamo comprendere meglio una teoria grazie all'intuizione e alla libera variazione, che fanno uscire allo scoperto il nocciolo duro della questione. Θ presumibile che la storia delle teorie abbia già eseguito una gran parte del lavoro relativo alla libera variazione. Ora si tratta di esaminare i modelli.

Gli Ateniesi non hanno scoperto la filosofia, e ciò fu un grave colpo per il loro orgoglio.

Alle due estremità del mondo greco, sulla costa ionica dell'Asia Minore e nel sud dorico dell'Italia, la Magna Grecia, si erano sviluppate due culture della teoria pura. Esse erano note come gli antipodi dell'incompatibilità. E qui stava la chance degli Ateniesi: darsi da fare elaborando la conciliazione di quanto sembrava incompatibile: la teoria genetica della natura degli Ioni e la logica statica dell'essere degli Eleati. Naturalmente non doveva trasparire che si trattava solamente di un'elaborazione successiva di un reperto senza speranza. Bisognava allora scoprire, inventare un proto-filosofo che fosse proprio ateniese. Poiché non era mai vissuto, doveva portare un nome pieno di significato, secondo la fonte della sua ispirazione. E lo si chiamò Museo. Di lui sappiamo poco, quanto basta per non coinvolgerlo nei conflitti fra le varie scuole. L'enunciato più importante a lui attribuito e tramandato dalla tradizione, è come il distillato di una teoria, come il risultato di un lungo processo di ottimizzazione e di riduzione all'essenziale. Così è pervenuto fino a noi il metro di una teoria completa, come se l'autore si fosse reso conto della sua grande estensione: una cosmologia, una rappresentazione totale, spaziotemporale, dell'universo. La teoria sorvolava sul fatto che così, con poco, si poteva essere più bravi di entrambi i rivali.

Il solo e unico assioma di Museo recita: «Dall'uno nasce tutto, e tutto torna all'uno».

Di altro non abbiamo bisogno, e ogni teoria che non ha bisogno di altro, è valida: quella dei neoplatonici, dei cristiani, quella delle più moderne cosmologie basate sul Big Bang e l'implosione che determinerà il prossimo universo. Il mondo è vicino, sempre e solamente, a tutto ciò che è intermedio. Non è il caso di parlarne.

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Pagina 220

"Trivialità"



Husserl ha definito la sua fenomenologia la scienza delle trivialità. Ma è necessaria una scienza per questo? Non è pretendere un po' troppo, visto che già nel titolo "Fenomenologia" è implicito che si debba solo descrivere, non spiegare? Il plurale di "trivialità" è sorprendente, nella sua connessione con il postulato della descrizione. Quindi ogni singola trivialità verrà scelta separatamente, descritta e inventariata, come il campione di un catalogo merceologico? Basta questo per costruire una scienza?

Wittgenstein nel 1930 si è espresso in maniera molto analoga, e ha evitato il termine "scienza": La filosofia non è altro che uno sguardo d'insieme sulle trivialità. Dal plurale, le trivialità, si capisce che si tratta di un compendio, non di una trattazione individuale dei singoli elementi, ma dell'orientamento della loro posizione, collocamento, disposizione. Questa definizione di filosofia si accorda con la concezione di Wittgenstein relativa alla sua origine: l'inizio della saggezza è il disagio. Il principio è accettato anche da Locke, che però non lo pone nella sua teoria della conoscenza e dei fattori di incertezza. Poiché l'immagine associata al disagio non è l'istituzione, il fondamento, ma è come il riordino di una stanza. La stessa indeterminazione: una cosa non va a genio così com'è. Tutto dev'essere toccato con mano. L'attività del riordino, questo è la filosofia. Se si fosse heideggeriani, ci faremmo trascinare con intensità nell'approfondimento del concetto di "spazio" insito in quello di "riordino": riordinare significa ciò che è possibile fare in campo logico per superare il disagio, il malessere. E qui ha luogo il Pensiero. Poiché pensare significa pianificare. Anche dove il riordino è solo furia selvaggia, pronta a farla finita con il disagio del presente e di quanto sta intorno, esiste il desiderio di pianificare.

La grande difficoltà della filosofia consiste nel fatto che il nostro disagio spirituale non è messo in disparte, anche se abbiamo guadagnato uno sguardo d'insieme su tutte le diverse trivialità.

Cominciamo, direbbe il fenomenologo (ma Wittgenstein non lo è) con il più semplice fondatore del disagio, con la "cosa"! Essa si fa conoscere meno come oggetto visto dall'alto che non come visione dal basso, circolare, poiché definisce intorno a sé tutte le situazioni che danno in preda "la cosa" alla visione dal basso. La visione dall'alto vieta a qualcuno l'accesso alla "cosa", ma non proprio a tutti.

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