Copertina
Autore Roberto Bolaņo
Titolo L'ultima conversazione
EdizioneSUR, Roma, 2012, Sur 5 , pag. 126, cop.ril., dim. 13x20x1,5 cm , Isbn 978-88-97505-07-5
OriginaleThe Last Interview & Other Conversations [2012]
PrefazioneMarcela Valdes, Nicola Lagioia
TraduttoreIlide Carmignani
LettoreRenato di Stefano, 2012
Classe narrativa cilena , storia letteraria , critica letteraria
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Indice


Introduzione. Solo tra i fantasmi
    di Marcela Valdes                                    5

La letteratura non è fatta solo di parole
    Intervista di Héctor Soto e Matías Bravo            33

Leggere è sempre più importante che scrivere
    Intervista di Carmen Boullosa                       40

Le posizioni sono le posizioni e il sesso è il sesso
    Intervista di Eliseo Álvarez                        51

L'ultima conversazione
    Intervista di Mónica Maristain                      68

Appendice 1
Io non ho mai avuto paura della morte
    Intervista di Raul Schenardi                        91

Appendice 2
Uno scrittore per il ventunesimo secolo
    di Nicola Lagioia                                  107


 

 

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Pagina 5

INTRODUZIONE SOLO TRA I FANTASMI

di Marcela Valdes


La parte dell'autore

Poco prima di morire per insufficienza epatica nel luglio 2003, Roberto Bolaņo dichiarò che avrebbe preferito essere un detective invece che uno scrittore. All'epoca, Bolaņo aveva cinquant'anni ed era ampiamente considerato il più importante autore latinoamericano dopo Gabriel García Márquez. Tuttavia, quando Mónica Maristain lo intervistò per l'edizione messicana di Playboy, Bolaņo fu inequivocabile. «Mi sarebbe piaciuto fare l'investigatore della omicidi, molto più che lo scrittore», disse alla giornalista, «di questo sono assolutamente sicuro. Uno sbirro della omicidi, uno che può tornare da solo, di notte, sulla scena del delitto, senza aver paura dei fantasmi».

I romanzi polizieschi, e i commenti provocatori, sono sempre stati due grandi passioni di Bolaņo: una volta dichiarò che James Ellroy era uno dei migliori scrittori viventi di lingua inglese, ma il suo interesse per i gialli andava al di là delle questioni di trama e stile. Nella loro essenza, i polizieschi sono indagini sulle origini e sulle dinamiche della violenza e Bolaņo, che si era trasferito in Messico l'anno del massacro di Tlatelolco, il 1968, e raccontava di aver trascorso un breve periodo in carcere durante il golpe militare in Cile, suo paese natale, nel 1973, era ossessionato da questo genere di argomenti. Il tema centrale della sua opera è il rapporto fra arte e scelleratezza, fra maestria e crimine, fra scrittore e stato totalitario.

Di fatto, tutti i romanzi maturi di Bolaņo indagano le reazioni degli scrittori a regimi oppressivi. Stella distante (1996) si cimenta con la storia cilena, gli squadroni della morte e i desaparecidos rievocando la figura di un poeta che diviene serial killer. I detective selvaggi (1998) esalta una banda di giovani poeti che combattono gli scrittori sovvenzionati dallo stato durante gli anni della guerra sporca in Messico. Amuleto (1999) ruota attorno a una poetessa di mezza età che scampa, nascondendosi in un bagno, all'occupazione da parte della polizia dell'Università Autonoma del Messico. Notturno cileno (2000) descrive un salotto letterario in cui gli scrittori fanno festa nella stessa casa in cui dei dissidenti vengono torturati.

Anche 2666, l'ultimo romanzo di Bolaņo, pubblicato postumo, nasce da agghiaccianti fatti di cronaca: l'assassinio, a partire dal 1993, di oltre 430 donne e bambine nello stato messicano del Chihuahua, in particolare a Ciudad Juárez.

Le vittime spesso scompaiono mentre vanno a scuola o tornano a casa dal lavoro o sono fuori a ballare con gli amici. Giorni o mesi dopo vengono rinvenuti i cadaveri: abbandonati in una fossa, in mezzo al deserto o in una discarica. La maggior parte delle donne sono state strangolate; alcune sono morte accoltellate o bruciate o per colpi di arma da fuoco. Un terzo mostra segni di stupro. Alcune, segni di tortura. Le vittime più vecchie hanno una trentina d'anni, le più giovani sono bambine delle elementari. Dal 2002 a oggi, questi omicidi hanno ispirato un film di Hollywood (Bordertown con Jennifer Lopez), diversi saggi, un certo numero di documentari e una marea di dimostrazioni di protesta in Messico e fuori. Secondo Amnesty International, oltre la metà dei cosiddetti femminicidi restano impuniti.

Bolaņo era rimasto affascinato da questi delitti irrisolti ben prima che diventassero un caso. Nel 1995 inviò una lettera dalla Spagna a una sua vecchia amica di città del Messico, la videoartista Carla Rippey (la bella Catalina O'Hara dei Detective selvaggi), dicendo che lavorava da anni a un romanzo intitolato I dispiaceri del vero poliziotto. Benché avesse altri manoscritti in lettura presso editori, questo libro, scriveva Bolaņo, «è IL MIO ROMANZO». Ambientato nel Messico del Nord, in una città chiamata Santa Teresa, I dispiaceri del vero poliziotto ruotava attorno a un professore di letteratura che aveva una figlia diciassettenne. Il manoscritto era di «ottocentomila pagine», si vantava Bolaņo, con «una trama demenziale che nessuno può capire».

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Pagina 37

Nonostante questo, però, sei uno scrittore estremamente «letterario».

Be, se mai dovessi scegliere fra le due cose, Dio non voglia, sceglierei la letteratura. Se mi offrono una grande biblioteca o un biglietto dell'Interrail per andare a Vladivostok, io, senza il minimo dubbio, prendo la grande biblioteca. Con la biblioteca, oltretutto, il viaggio durerebbe molto di più.


Come Borges, hai vissuto i tuoi libri.

In un modo o nell'altro, siamo tutti legati a un libro. Una biblioteca è come una metafora dell'essere umano o della parte migliore dell'essere umano, così come un campo di concentramento può essere una metafora della parte peggiore. La biblioteca è la generosità assoluta.

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Pagina 50

Nicanor Parra dice che i migliori romanzi sono scritti in metrica. E Harold Bloom dice che la migliore poesia del Novecento è scritta in prosa. Sono d'accordo con entrambi. Eppure trovo difficile considerarmi un poeta in attività. Per quanto ne so, un poeta in attività è uno che scrive poesie. Io ti ho mandato le ultime che ho scritto ed erano pessime, temo, anche se naturalmente, per gentilezza e tatto, mi hai mentito. Non lo so. C'è qualcosa nella poesia. In ogni caso, l'importante è continuare a leggerla. Č più importante che scriverla, non credi? A dire la verità, leggere è sempre più importante che scrivere.

(Da Bomb, Brooklyn, inverno 2002)

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Pagina 56

Cosa pensavi dell'esperimento della via cilena al socialismo?

Quando tornai in Cile, poco prima del golpe, credevo nella lotta armata, credevo nella rivoluzione permanente e credevo che fosse già iniziata. Tornai laggiù pronto a combattere e poi a continuare a combattere in Perù, in Bolivia.


Allende, per voi, doveva essere una specie di nonnino conservatore.

Sì, Allende in quegli anni ci appariva abbastanza conservatore. Č che per me la sua figura è cambiata moltissimo nel tempo. Ricordo l'11 settembre: stavo aspettando che mi dessero un'arma per andare a combattere quando sento che Allende nel suo discorso dice o quasi, fra le righe: tornate a casa, passerà il tempo e un giorno si apriranno di nuovo i grandi viali su cui camminerà l'uomo libero. In quel momento mi sembrò terribile, quasi un tradimento nei confronti di noi giovani che eravamo pronti a lottare per lui. Negli anni, invece, questa è una delle cose che hanno nobilitato la sua figura: Allende voleva evitare la nostra morte, accettava la morte per sé ma voleva evitarla a noi. Credo che questo l'abbia reso immensamente grande.


Ma ti arrestarono.

Mi arrestarono, però un mese e mezzo dopo, nel Sud. Quest'altra cosa era successa a Santiago.


E dei compagni ti aiutarono a scappare.

Dei compagni di liceo. Rimasi in carcere otto giorni, anche se poco tempo fa, in Italia, mi hanno domandato: «Che cosa le successe? Ci può raccontare dei suoi sei mesi di prigione?», per via di un malinteso creato da un libro tedesco che diceva sei mesi. All'inizio scrivevano meno tempo. Č il tipico tango latinoamericano. Nel primo libro che mi pubblicano in Germania mi attribuiscono un mese di prigione; nel secondo, visto che il primo libro non ha venduto molto, me li aumentano a tre mesi; nel terzo me li aumentano a quattro, nel quinto a cinque. Se continua così, mi ritroverò ancora in carcere.


Hai mai dubitato di poter vivere di scrittura?

Certo che ho dubitato e in effetti ho fatto altri lavori. Dubbi economici, sempre economici, mai di vocazione, ormai da molti anni. A me, a vent'anni, più che scrivere poesia, perché scrivevo anche poesia (in realtà scrivevo solo poesia), quello che mi interessava, quello che davvero volevo, era vivere da poeta, anche se adesso non saprei dirti cosa significasse, per me, vivere da poeta. Per me, essere un poeta voleva dire, allo stesso tempo, essere rivoluzionario e restare completamente aperto a qualsiasi manifestazione culturale, a qualsiasi espressione sessuale, insomma aperto a tutto, a qualsiasi esperienza con le droghe. Era una tolleranza... Più che tolleranza, parola che non ci piaceva molto, era una fratellanza universale, una cosa totalmente utopica.


Con la prosa non si può approfondire questa sensibilità?

La prosa ha sempre richiesto più lavoro. Noi eravamo contro il lavoro. Eravamo instancabilmente pigri. Nessuno riusciva a farci lavorare, io lavoravo solo quando non mi restava altra scelta. Accettavamo di vivere con pochissimo. Non avendo mezzi, eravamo molto spartani, ma al tempo stesso eravamo ateniesi e sodomiti perché ci godevamo i piaceri della vita, eravamo poveri ma lussuriosi. Era tutto legato al modello statunitense degli hippy, al maggio del '68 in Europa, insomma a tante cose.


La tua formazione sentimentale la devi al Messico?

Io al Messico devo soprattutto la mia formazione intellettuale. La formazione sentimentale la devo di più alla Spagna, credo. Quando arrivai in Spagna avevo ventitré o ventiquattro anni. Arrivai pensando di essere un uomo fatto e di sapere già tutto del sesso, e per me educazione sessuale è quasi sinonimo di educazione sentimentale, ma in realtà non sapevo un bel nulla e me ne resi conto appena andai con una ragazza. Conoscevo molte posizioni, ma le posizioni sono le posizioni e il sesso è il sesso.

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Pagina 63

E poi è comparsa La letteratura nazista in America Latina.

...in America: in tutto il continente. Ci sono svariati autori statunitensi. Te lo assicuro.


Ne sono convinto.

Č che spesso ho visto scritto La letteratura nazista in America Latina, non nazista in America. Però non c'è nessun autore canadese. Avevo pensato a uno del Québec, ma alla fine è rimasto fuori, non meritava di entrarci.


Scrivendo questo libro hai sentito l'influenza di Cervantes?

Credo che ogni autore che scrive in spagnolo senta o dovrebbe sentire l'influenza di Cervantes. In misura maggiore o minore siamo tutti debitori di Cervantes, gli dobbiamo tutti qualcosa. Stavolta, però, la genealogia è diversa. Te la ricostruisco all'indietro: La letteratura nazista in America è un libro che deve moltissimo alla Sinagoga degli iconoclasti, di Rodolfo Wilcock , che pur essendo uno scrittore argentino quel libro lo scrisse in italiano.


Č quasi uno scrittore di culto.

Wilcock è uno scrittore eccezionale, grandissimo. Uno scrittore che da quando è morto ha conosciuto una continua crescita. La sinagoga degli iconoclasti deve a sua volta moltissimo alla Storia universale dell'infamia di Borges, cosa per niente strana perché Wilcock fu amico e ammiratore di Borges. A sua volta, la Storia universale dell'infamia di Borges deve molto a uno dei maestri di Borges, cioè Alfonso Reyes, lo scrittore messicano che ha un libro intitolato Retratos reales e imaginarios - almeno credo, ormai ho una memoria pessima - un vero gioiello. Il libro di Alfonso Reyes deve a sua volta molto a Vite immaginarie, di Marcel Schwob, che è l'inizio di tutto. Ma, a sua volta, Vite immaginarie deve molto alla metodologia degli enciclopedisti e al loro modo di servire certe biografie su un piatto d'argento. Credo che siano questi gli zii, i genitori e i padrini del mio libro, che è senza dubbio il peggiore di tutti, ma ormai è lì.

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Pagina 80

Fra tutto quello che i lettori le hanno detto dei suoi li bri, che cosa l'ha commossa di più?

Mi commuovono i lettori tout court, quelli che hanno ancora il coraggio di leggere il Dizionario filosofico di Voltaire, che è una delle opere più amene e moderne che io conosca. Mi commuovono i giovani di acciaio che leggono Cortázar e Parra, così come li ho letti io e come cerco di continuare a leggerli. Mi commuovono i giovani che si addormentano con un libro sotto la testa. Un libro è il miglior cuscino che ci sia.

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Pagina 82

Che cosa la annoia?

Il discorso vuoto della sinistra. Il discorso vuoto della destra lo do per scontato.


Che cosa la diverte?

Veder giocare mia figlia Alexandra. Far colazione davanti al mare, in un bar, e mangiare un croissant leggendo il giornale. La letteratura di Borges. La letteratura di Bioy. La letteratura di Bustos Domecq. Fare l'amore.


Scrive a mano?

La poesia sì. Per tutto il resto, uso un vecchio computer del 1993.


Chiuda gli occhi. Di tutti i paesaggi dell'America Latina che ha conosciuto, qual è il primo che le torna alla mente?

Le labbra di Lisa nel '74. Il camion di mio padre in panne su una strada in mezzo al deserto. Il reparto tubercolosi di un ospedale di Cauquenes e mia madre che dice a me e mia sorella di trattenere il fiato. Un'escursione sul Popocatépetl con Lisa, Mara e Vera e qualcun altro che non ricordo, anche se ricordo bene le labbra di Lisa, il suo straordinario sorriso.


Come è fatto il paradiso?

Come Venezia, spero, un posto pieno di italiane e italiani. Un posto che si usa e si consuma, un posto che sa che nulla dura per sempre, nemmeno il paradiso, e che in fin dei conti non importa.


E l'inferno?

Č come Ciudad Juàrez, che è la nostra maledizione e il nostro specchio, lo specchio inquieto delle nostre frustrazioni e della nostra infame interpretazione della libertà e del desiderio.

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Pagina 97

Tu sei cileno, vivi da molti anni in Spagna, hai scritto un grande romanzo messicano, ti muovi a tuo agio in quella che un tempo si chiamava «Patria grande», ma il tuo atteggiamento è molto diverso da quegli intellettuali latinoamericani che ricercano quasi uno statuto da «scrittore nazionale», sorta di «papi laici» pronti ad assumere funzioni ufficiali, istituzionali...

Io credo che fondamentalmente sia soprattutto per paura che García Márquez si vede sempre più come il più grande scrittore colombiano di tutti i tempi, o Vargas Llosa come il miglior scrittore peruviano. Tutti gli scrittori latinoamericani, e penso anche gli spagnoli, in fondo hanno molta paura e cercano di assicurarsi il pantheon post mortem. Io non ho mai avuto paura della morte e inoltre non credo nel pantheon. Io credo che la vita... guarda, quando finisce è finita e non resta niente, perciò io sto con Borges quando disse: Dopo la morte, verrà l'oblio, e molte teste di cazzo gli dicevano: Ma no, Maestro, dopo la sua morte resteranno i suoi libri. Lui li ascoltava e doveva pensare: che bel branco di imbecilli! Perché lui alludeva all'oblio nel senso più ampio del termine, vale a dire: la Terra finirà, il Sole finirà, tutto finirà... L'oblio è un destino comune di tutto, non solo degli esseri umani, e in questo senso gli scrittori latinoamericani che si pongono sempre questo obiettivo che sta fra il clericalismo e la vigliaccheria, be', cercano di assicurarsi il pantheon post mortem, e il modo migliore per farlo è diventare lo scrittore nazionale di un paese. Carlos Fuentes è un esempio chiarissimo. Se a Carlos Fuentes dicessero ora che alla sua morte non lo seppelliranno nel pantheon degli uomini illustri... Esiste davvero, nel cimitero di città del Messico c'è un'area speciale chiamata pantheon degli uomini illustri, dove vengono sepolti grandi politici, grandi pittori, grandi scrittori, qualche calciatore, grandi allevatori di bestiame, grandi toreri... be', se dicessero a Carlos Fuentes che alla sua morte non lo seppelliranno nel pantheon degli uomini illustri, sarebbe capace di fare causa per danni al governo messicano... A me sembra una bestialità. Io invece credo nella povertà intrinseca dell'essere umano. Un animale come siamo noi, provvisto di viscere e muscoli, pochi, ossa debolissime, privo di esoscheletro... Avere lo scheletro dentro invece che fuori mi sembra una cazzata assoluta. Guarda, si muore e finisce tutto, fanculo, non credo nel pantheon degli uomini illustri, e non voglio essere lo scrittore nazionale di nessun posto, e in questo senso non mi preoccupano e non mi hanno mai preoccupato la nazionalità o cose del genere. L'unica cosa di cui mi preoccupo quando scrivo è di salvaguardare una certa verosimiglianza negli idiomi che impiego. Voglio dire: quando parla un peruviano, dev'essere un peruviano che sta parlando, e quando parla un messicano o un centroamericano, dev'essere un messicano o un centroamericano.

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Pagina 107

APPENDICE 2

UNO SCRITTORE PER IL VENTUNESIMO SECOLO

di Nicola Lagioia


                            Quando Roberto Bolaņo scrive I detective selvaggi,
                            quello che fa è dire a Fuentes, a García Márquez, a
                            Vargas Llosa: «Voi credevate di avere scritto i
                            grandi romanzi latinoamericani? Ebbene, vi siete
                            sbagliati, questo è il grande romanzo
                            latinoamericano». E mi pare che qui ci sia come il
                            momento «teppistico» di Bolaņo.



A parlare è lo scrittore argentino Alan Pauls durante una tavola rotonda dedicata a Bolaņo, tenutasi il 18 novembre del 2008 in occasione del Festival Internazionale di Letteratura di Buenos Aires. Questa, che potrebbe dare l'impressione di una dichiarazione d'intenti per interposta persona, nasconde un paradosso della tradizione letteraria che giusto un autore come Bolaņo è capace di sciogliere in un tutto coerente.

[...]

La prima freccia all'arco di Bolaņo, da questo punto di vista, è il suo autentico cosmopolitismo. In Nord America, la generazione di Philip Roth è fino ad ora l'ultima a essersi presa l'impegno (e soprattutto ad aver provato un genuino desiderio) di confrontarsi con culture che non fossero la propria. L'intervista di Roth a Primo Levi del 1986 è forse l'ultimo grande omaggio di uno scrittore statunitense verso un collega straniero che non abbia fatto di tutto per ottenere attenzione sull'altra sponda dell'oceano. Č pur vero che alcuni dei rapporti più fecondi con le altre culture gli Stati Uniti li hanno intrattenuti per molto tempo in casa propria, grazie al fatto di essere stati la destinazione degli immigrati e degli esuli di mezzo mondo (per fermarci solo alla letteratura e al cinema basti pensare all'arrivo di Nabokov , all'influsso della cultura ebraica e di quella italiana, da Bellow a Coppola a Scorsese, da Henry Roth prima di Philip agli squarci italoamericani di Underworld , alla lezione di Billy Wilder che a sua volta aveva imparato da Lubitsch, per non parlare della lost generation a Parigi e di chi, arrivato in Europa infilato in una divisa militare, trova nel buco nero della seconda guerra mondiale - Salinger , Kurt Vonnegut a Dresda - l'intrico con cui iniziare a fare i conti appena tornati a casa). A partire dai nati dopo la guerra, però, assimilata sempre più rapidamente la diversità culturale nei tessuti della Star-Spangled Banner - e diventati sempre più stanziali gli intellettuali statunitensi (con alcune magnifiche eccezioni quali quella di William Vollmann), poco disposti a visitare altri paesi per ragioni diverse da quelle semituristiche offerte da una fellowship o da un premio letterario - questo gioco di contaminazioni si fa sempre più debole. Inizia l'era di scrittori dotatissimi i quali, al momento di risalire ai classici della letteratura non statunitense, sembrano sempre un po' impacciati o posticci (lo stesso David Foster Wallace quando si mette a disquisire di Franz Kafka ), fino a giungere ai primi casi in cui questo isolazionismo grava pesantemente sulla loro produzione, come succede per esempio a Jonathan Franzen , in un certo senso l' Isabel Allende di Western Springs, sconsolante quando confessa la propria ignoranza su tutto ciò che accade nel resto del mondo, ma mai quanto può esserlo l'aver lanciato (con Libertà ) il romanzo seriale d'autore, capace di trasporre su carta con enorme successo il meglio delle serie tv, costruendo, grazie all'impiego di fatica e talento notevoli, un'aura intorno al concetto dell'inutile perfetto.

La cultura di Bolaņo, al contrario, è talmente sterminata (e così chiaramente il risultato di un desiderio appagato di continuo, e in piena libertà) da pesare nei suoi libri quanto un taglio di zavorra su una mongolfiera. Da Petronio a Pascal a Voltaire a Cervantes a Valéry a Tito Livio a Sterne a Kafka a Perec a Zanzotto a Montale a Blake a Pasolini a Villon a Sanguineti a Ungaretti a Majakovskij al «finocchione» Chlebnikov (indimenticabile, in bocca a Ernesto San Epifanio nei Detective, la distinzione dei poeti - dediti a un genere prevalentemente omosessuale - nelle correnti di finocchioni, finocchie, finocchietti, pazze, busoni, velate, ninfi e fileni), Bolaņo sembra trovarsi completamente a proprio agio scendendo e risalendo a piacimento lungo la scala della cultura occidentale. In certi casi smembra e nasconde e utilizza al proprio fine ciò che ha letto o visto in modo così sentito e personale da renderlo quasi irrintracciabile - in «Giorni del 1978», per esempio, un dolentissimo racconto contenuto in Puttane assassine, due esuli cileni in Spagna dopo il golpe di Pinochet (uno dei due ha appena tentato il suicidio e sembra posseduto mesmericamente dal proprio malessere) si raccontano, forse a mo' di esorcismo, la trama di un film «bellissimo» che solo la molta memoria e il molto amore del lettore riescono incidentalmente a inchiodare a un titolo e a un autore: Andrej Rublëv di Andrej Tarkovskij. In un passo della celebre intervista con la Maristain, Bolaņo citerà Vittorio Gassman. Nei Dispiaceri del vero poliziotto Rosa Amalfitano spedisce a un suo lontano spasimante una cartolina con sopra raffigurata una vignetta di Tamburini e Liberatore. Per non parlare di quali insospettate latitudini sia capace di lambire la cultura (inter)nazionalpopolare dello scrittore cileno. In «Joanna Silvestri», uno struggente racconto ambientato nel mondo del porno e contenuto in Chiamate telefoniche, una pornostar che assiste un semidistrutto king of porn «Jack» Holmes, ormai stanco e malato di Aids, attraversa in automobile le strade di Los Angeles e osserva il cielo pensando a Nicola Di Bari. E allora ti domandi: come fa Roberto Bolaņo a conoscere persino Nicola Di Bari?

[...]

A questo si può forse aggiungere il fatto che la crisi (non solo economica) che sta scuotendo l'Occidente, più che con solidi per quanto calunniati professori universitari come Silk Coleman, più che con geniali per quanto problematici studenti del college incastonati nel futuro prossimo del neo-neoliberismo (l'Hal Incandenza di David Foster Wallace), ci porta a empatizzare con dei veri outsider, dei perdenti fatti e finiti come sono molti personaggi di Bolaņo. Abbiamo probabilmente l'impressione, cioè, che questi ultimi riescano a capirci meglio di quanto possa fare uno Svedese uscito da Pastorale americana, il quale, per quanto si trovi ad avere la vita distrutta, è comunque un integrato quale noi rischiamo di non essere più.

Perché è vero, tante sono le novità che sconvolgono il pianeta nel passaggio da un secolo all'altro, dalla crisi delle democrazie a quella economica, dall'esplosione di internet e dei social network ai fantasmi della finanziarizzazione globale, dall'allargamento della forbice tra ricchi e poveri all'oligarchizzazione dei centri decisionali, ma pensare che questi siano dei grandi misteri di per sé e non gli accidenti attraverso i quali l'eterno mistero del mondo si trova a venire rimescolato per l'ennesima volta rischierebbe di rivelarsi un terribile errore. Così, da un certo momento in poi, avere ad esempio la pretesa di raccontare una storia d'amore attraverso la descrizione dei flussi telematici che intercorrono tra l'invio e la ricezione delle mail dei protagonisti, potrebbe voler dire fare il gioco del nemico. Forse bisogna cambiare ancora una volta strategia. Roberto Bolaņo, da questo punto di vista, ha avuto il merito di convertire la fredda e ubiqua immaterialità del mondo globalizzato in una calda vicenda di uomini e donne, ragazze e ragazzi le cui sconfitte, i cui deragliamenti, la cui dispersione e sparizione sotto il rullo compressore della Storia non impediscono loro di intraprendere e anzi di credere in un autentico - autentico perché, finalmente, pur nell'era del fake che gioca continuamente alle tre carte col suo opposto, non ha più nulla di apocrifo - viaggio esistenziale e addirittura spirituale. In questo modo, restituisce a loro (e a noi che leggiamo) una piena dignità.

E ancora, a proposito di rovesciamenti di strategia: si pensi a come i tantissimi personaggi che popolano romanzi come 2666 o I detective selvaggi non siano più legati tra di loro da rapporti familiari o genealogici (come avveniva nei romanzi di Faulkner o di García Márquez) né da oggetti materiali (la pallina da baseball di Underworld) o di consumo (il film di James Incandenza in Infinite Jest) ma, nell'epoca di internet (non perché l'ambientazione delle loro storie necessariamente vi appartenga, ma perché vi appartiene il tempo in cui sono state scritte), sembrano essi stessi dei cervelli misteriosamente interconnessi tra di loro; c'è quasi l'impressione certe volte che si mandino continuamente messaggi usando delle proprie e fino a quel punto ben occultate facoltà telepatiche, in barba ai sistemi «ufficiali»; come se insomma - in maniera antitetica alla paranoia pynchoniana dell' Incanto del lotto 49 - avessero brevettato la propria personale forma di Trystero.

Proprio inserita in questa strategia, la vocazione cosmopolita, globale, delle storie di Bolaņo si dimostra capace di rompere gli steccati autarchici a stelle e strisce e, contemporaneamente, di ignorare i più inutili e fastidiosi scampoli di arroganza eurocentrica o di folklore latinoamericano, lasciando gli infiniti rivoli che le compongono liberi di scorrere (o meglio, di scatenarsi) da un continente all'altro - da città del Messico a Milano, a Parigi, a Londra, alle spiagge californiane, a Tijuana - in assoluta naturalezza, giocando in modo finalmente spiazzante persino con gli elementi del mondo globalizzato (una Coca-Cola bevuta a Milano ha, nei romanzi di Bolaņo, un sapore completamente diverso da una Coca-Cola bevuta nel deserto di Sonora, eppure l'identità di marchio crea un impalpabile, oscuro, inquietante, affascinante legame tra i due contesti). L'incredibile sensazione finale è simile a quella di chi - come l'Artaud strafatto di peyote in Messico non a caso amato da Bolaņo - dopo aver assunto un fungo allucinogeno ha l'impressione che persino gli ultimi ritrovati tecnologici (ieri la radio o la tv, oggi un iPhone o un laptop) abbiano qualcosa di ancestrale se non addirittura di pre-preistorico, appartenendo - prima ancora che alle multinazionali che credono di averli concepiti - alla materia antichissima dell'universo, come del resto ogni cosa e, proprio come qualunque altra cosa, siano portatori di un mistero che va oltre un'invenzione tecnologica, o una ricerca di mercato, o una battaglia sindacale. Una vita anteriore e successiva alla vita come crediamo di conoscerla: forse il «cimitero del 2666» di cui, citando Amuleto, parla ancora Marcela Valdes in apertura di questo volume.

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