Copertina
Autore Giovanni Boniolo
CoautoreBedau, Di Fiore, Ferraguti, Floridi, Giaimo, Lorusso, Mameli, Minelli, Pigliucci, Testa
Titolo Filosofia e scienze della vita
SottotitoloUn'analisi dei fondamenti della biologia e della biomedica
EdizioneBruno Mondadori, Milano, 2008, Sintesi , pag. 386, ill., cop.fle., dim. 14,5x21x2 cm , Isbn 978-88-6159-246-9
CuratoreGiovanni Boniolo, Stefano Giaimo
LettoreRenato di Stefano, 2009
Classe epistemologia , biologia , medicina , filosofia , scienze cognitive
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Indice

 XI Prefazione

    Prima parte.
    Fondamenti concettuali della biologia evoluzionistica


    1. Il concetto di 'gene'

  3  1. Introduzione
  4  2. Il problema dell'ereditarietà dei caratteri
  4     2.1 Darwin
  5     2.2 Galton
  6     2.3 Mendel
  8     2.4 Weismann
  8  3. La nascita del concetto
 10     3.1 Johannsen
 11  4. Unità di funzione e ricombinazione
 11     4.1 La teoria cromosomica dell'ereditarietà
 14     4.2 Il 'gene' nelle popolazioni
 15  5. Lo sguardo molecolare sul 'gene'
 15     5.1 Dal fenotipo morfologico al fenotipo metabolico
            e cellulare
 17     5.2 DNA, RNA e informazione
 20     5.3 Il gene come entità: una proposta
 23  6. Gene-P e Gene-D
 25  7. Conclusioni

    2. Evoluzione e selezione

 27  1. Introduzione
 28  2. Evoluzione
 29     2.1 Che cosa evolve?
 40     2.2 Teorie dell'evoluzione
 45  3. Selezione
 45     3.1 Selezione ed evoluzione
 50     3.2 Selezione naturale e selezione sessuale
 53     3.3 Unità della selezione
 57  4. Conclusioni

    3. Fitness e adattamento

 59  1. Introduzione
 60  2. Fitness
 62     2.1 Fitness come misura
 81  3. Adattamento
 82     3.1 Funzione e storia nell'adattamento come processo
 84     3.2 Il problema dell'adattamento come risultato
 88     3.3 Livelli di selezione e adattamento
 89  4. Conclusioni

    4. Omologia e analogia

 91  1. Introduzione
 92  2. Omologia
 93     2.1 Archetipo e omologia
 95     2.2 Antenato comune e omologia
 96     2.3 Tre concetti di 'omologia'
106  3. Analogia
106     3.1 Analogia non è non-omologia
107     3.2 Analogia non è omoplasia
110  4. Omologia, analogia e teoreticità dell'osservazione
112  5. Conclusioni

    5. Vincoli ed epigenesi

113  1. Fenomeni epigenetici
113  2. Vincoli epigenetici e stabilità fenotipica
115  3. Epigenetica: chiarifichiamo
117  4. Fenomeni epigenetici
117     4.1 Eredità strutturale
118     4.2 Marcatura della cromatina
122  5. Lepigenesi e il vincolo intergenerazionale
124  6. La trasmissione degli stati epigenetici
125  7. Fenomeni epigenetici ed evoluzione
126  8. Implicazioni concettuali

    6. La ricostruzione della filogenesi

128  1. Introduzione
129  2. Un po' di sistematica
132     2.1 Cladogrammi e alberi filogenetici
136  3. L'interpretazione del passato
138  4. L'analisi filogenetica
139     4.1 La verosimiglianza
142     4.2 Il principio di parsimonia
145     4.3 Il principio dell'evidenza totale
146  5. Conclusioni

    7. Il problema della specie

148  1. Introduzione
151  2. Il problema epistemologico del concetto di 'specie'
151     2.1 Il concetto morfologico di 'specie'
153     2.2 Il concetto biologico di 'specie'
155     2.3 Il concetto ecologico di 'specie'
156     2.4 Il concetto filogenetico di 'specie'
158     2.5 I concetti di 'specie' a confronto
160     2.6 Verso una (dis)soluzione del problema epistemologico?
162  3. Il problema ontologico del concetto di 'specie'
163     3.1 Individui
165     3.2 Insiemi
166     3.3 Generi naturali
168  4. Conclusioni


    Seconda parte. Questioni metodologiche
    ed epistemologiche delle scienze della vita


    8. Caso, necessità, probabilità

173  2. Monod e il caso e la necessità
174  3. Determinismo, casualità, probabilità e libero arbitrio
180  4. Per una tassonomia degli eventi casuali
181  5. Il problema della necessità
182  6. La probabilità
187  7. Riesaminando l'ambito biologico considerato da Monod
193     7.1 Da 'caso e necessità' a 'minori e maggiori probabilità'
195  8. Appendice sul termine gratuité

    9. L'informazione biologica

198  1. Introduzione
199  2. Che cos'è l'informazione
201     2.1 Teorie dell'informazione
203  3. Ambiti biologici dell'informazione
205     3.1 L'informazione entra nella biologia molecolare
208  4. 'Informazione': valore euristico o sostanziale?
209     4.1 Eliminativismo
212     4.2 Informazione, fenotipo ed evoluzione
215     4.3 Dalla metafora alla teoria
216  5. Verso un concetto di 'informazione genetica'
217     5.1 Una giustificazione etica
218  6. Conclusioni

    10. Il problema delle leggi

220  1. Introduzione
222  2. Esistono leggi nelle scienze della vita?
222     2.1 Argomenti contro
229     2.2 Argomenti a favore
235  3. Il dibattito classico sulle leggi di natura
235     3.1 Il problema di Schlick
237     3.2 L'approccio post-positivista
238     3.3 Dalla controfattualità alla pragmatica
239     3.4 Tra modalità e metafisica
240     3.5 Un approccio kantiano

    11. La spiegazione nelle scienze della vita

244  1. Introduzione
245  2. Che cosa significa spiegare?
247  3. I contesti e la scelta del corretto modello esplicativo
248     3.1 Contesti e relazioni causali
259     3.2 Contesti e relazioni non-causali
259  4. Per un approccio contestualizzato alla spiegazione
        nelle scienze della vita

    12. Carattere e funzione

261  1. Introduzione
265  2. Funzione e scopo
268  3. L'approccio eliminativista
269  4. L'approccio storico
272  5. L'approccio disposizionale
274  6. Verso una soluzione pluralista

    13. Riduzione ed emergenza

277  1. Introduzione
278  2. Riduzionismo
278     2.1 Approcci alla riduzione
282     2.2 Il dibattito sul riduzionismo in biologia
284  3. Il problema dell'emergenza
286     3.1 Tre tipi di emergenza
290  4. Riduzionismo ed emergenza
293  5. Conclusioni

    14. Sulla definizione di 'vita' e 'morte'
        (anche in vista di un dibattito etico)

295  1. Introduzione
298  2. L'approccio metabolico
299     2.1 'Essere vivo', 'essere morto' e metabolismo
301     2.2 La debolezza dell'approccio metabolico
305  3. L'approccio genetico
307     3.1 'Essere vivo' ed 'essere morto' nel regno della
            genetica
311  4. Un punto di partenza per il dibattito etico
313     4.1 Le molte facce della morte clinica
316     4.2 Vita ed esistenza
317  5. La questione dell'embrione
320  6. Conclusioni

    15. Innato o acquisito?

321  1. Introduzione
322  2. L'influenza genetica sui fenotipi
327  3. L'evoluzione darwiniana dei fenotipi
329  4. La robustezza nello sviluppo dei fenotipi
330  5. L'influenza dell'apprendimento sui fenotipi
333  6. La modularità dei fenotipi
335  7. Innatezza come agglomerato omeostatico di proprietà?

341 Bibliografia
375 Gli autori
377 Indice dei nomi

 

 

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Pagina XI

Prefazione


Dalla metà del Novecento le scienze della vita si sono imposte perentoriamente all'attenzione sia del grande pubblico che degli specialisti. E non solo: a poco a poco hanno cominciato a catturare anche l'attenzione della comunità filosofica internazionale, la quale, a partire dalle speculazioni del movimento neopositivista europeo e post-positivista americano, aveva, fino a quel momento, privilegiato invece la fisica come scienza di riferimento.

Seppur gradualmente, i grandi risultati biologici e biomedici hanno spostato il fuoco della riflessione epistemologica. Prova ne sia la comparsa di riviste dedicate precipuamente alla filosofia delle scienze della vita, come "Biology and Philosophy", "History and Philosophy of the Life Sciences" e "History and Philosophy of Biological and Biomedical Sciences", o il sempre maggior numero di articoli dedicati a questi temi che via via sono comparsi sulle riviste generaliste più accreditate, come "The British Journal for the Philosophy of Science", "Philosophy of Science", "Erkenntnis" e "Synthese". A ciò si aggiunga che negli ultimi meeting della Philosophy of Science Association i contributi dedicati alle scienze della vita hanno via via sorpassato in numero quelli dedicati alla fisica.

Ulteriore segno della vivacità del dibattito epistemologico sulle scienze della vita è certamente la sua progressiva differenziazione. Nell'interesse della comunità filosofica, inizialmente assorbito quasi per intero da temi di biologia evoluzionista, sono sempre più entrati argomenti che spaziano dalla biologia molecolare, innegabilmente un campo di scottante attualità anche per le ricadute sulla vita quotidiana e per le implicazioni etiche e sociali, all'etologia, all'ecologia, alle neuroscienze ecc.

Ecco allora il bisogno di proporre un quadro generale che, presentando lo stato dell'arte della discussione filosofica ma proponendo pure prospettive originali, intende offrire al lettore un'introduzione alle varie questioni sul tappeto per indurlo a comprenderne la profondità, la ricchezza e l'importanza del portato teorico. Tuttavia, in tal modo vorremmo anche mettere a disposizione una solida e necessaria base epistemologica da cui poi partire per le riflessioni etiche e sociologiche.

Abbiamo diviso il lavoro in due parti. La prima è dedicata ai Fondamenti concettuali della biologia evoluzionistica. Scelta inevitabile dettata tanto dal fatto che questa disciplina rappresenta il punto di partenza necessario di ogni riflessione biologica e biomedica, quanto che è stata il primo importante terreno di discussione filosofica. Inoltre è anche importante mostrarne il volto reale dopo gli inusitati, e non di rado sconcertanti, attacchi ideologici che ha dovuto subire sia negli Stati Uniti sia in molte nazioni europee. Attacchi che sono cifra di quell'oscurantismo ideologico, privo di conoscenze scientifiche e orfano di nozioni epistemologiche, che già impediva di guardare dentro il cannocchiale per non confutare l'idea della perfezione delle sfere celesti.

Questa prima parte comincia con un capitolo sul concetto di 'gene'. D'altronde, oggi come oggi è impensabile riflettere sul sapere biologico senza avere una chiara comprensione di che cosa sia questo pezzetto di DNA e quale siano la sua struttura e la sua funzione. Non è però nostra intenzione introdurre subdolamente una visione gene-centrica delle scienze della vita. Come si chiarirà nei capitoli successivi, ora esplicitamente ora implicitamente, il gene-centrismo non è percorribile né scientificamente né filosoficamente perché cade in posizioni fallaci come il determinismo genetico o il riduzionismo forte.

La seconda parte del libro è, invece, dedicata alle Questioni metodologiche ed epistemologiche delle scienze della vita. Qui si incontreranno capitoli centrati su aspetti che investono questioni che, pur mantenendola sullo sfondo, trascendono la biologia evoluzionista e riguardano tematiche di pertinenza ora di tutti i campi delle scienze della vita, come quelli inerenti il problema delle leggi e quello della spiegazione, ora di campi particolari, come quelli dedicati alle nozioni di vita e morte.

Abbiamo voluto chiudere questa seconda parte, e con essa il libro, con un capitolo sul classico, ma non per questo obsoleto, tema dell'innatezza. Una chiusa che, da un certo punto di vista, fa da contrappeso all'apertura sul gene. Come vi è talvolta una discussione piuttosto scorretta sulla natura e sulla funzione del gene, così talvolta vi è una discussione piuttosto imprecisa e superficiale su che cosa si debba considerare innato.

Come si può facilmente desumere scorrendo l'indice, ogni capitolo di questo libro è stato pensato per offrire un'analisi concettuale della nozione alla quale è dedicato. Ciò non significa che l'aspetto storico sia stato trascurato. Semplicemente non è il più importante. La storia della biologia e della biomedicina è stata introdotta lì dove necessitava, tenendo fermo lo scopo principale di offrire una riflessione eminentemente filosofica. Questo non è, quindi, un libro di storia, né tanto meno di divulgazione. D'altronde la filosofia delle scienze della vita non è né storia, anche se necessita di conoscenza storica, né divulgazione scientifica, pur se nell'affrontare le varie tematiche abbiamo cercato di offrire quanto basta di scientifico per capire il problema.

Ora tocca al lettore giudicare se i nostri sforzi sono andati a buon fine.

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Pagina 23

6. Gene-P e Gene-D

Recentemente, Lenny Moss (2003) ha proposto di distinguere due concetti di 'gene', che risultano da matrici storiche differenti e che si prestano a usi diversi. Il Gene-P è il gene di cui è possibile parlare in termini di 'gene-per-qualcosa', come se determinasse una certa caratteristica fenotipica. L'uso di questo concetto è del tutto strumentale, subordinato alla consapevolezza che il gene non determina realmente alcun tratto del fenotipo, ma è come se lo facesse dato il suo valore predittivo per quel tratto. L'origine del Gene-P è preformistica: a un gene corrisponde una certa caratteristica dell'organismo. Ciò non vieta, ovviamente, che possa essere identificato con una entità molecolare. Nel caso, per esempio, di BRCA1, ossia del gene correlato alla predisposizione di sviluppare il carcinoma mammario, un Gene-P può essere rilevato da opportune analisi della sequenza di DNA e avere valore sia clinico che epidemiologico indicando una probabilità maggiore per i soggetti che lo portano di sviluppare la patologia a esso associata. Nel Gene-P non è però insita alcuna conoscenza della biologia che porta alla presenza del tratto fenotipico. Analogamente, parlare di gene per gli occhi azzurri significa far uso del Gene-P. Dal momento che gli occhi azzurri sono il risultato fenotipico di una mancanza di pigmentazione, qualsiasi locus cromosomico che comporti questa mancanza andrà, secondo Moss, sotto il nome di "gene per gli occhi azzurri".

Diversamente dal Gene-P, il Gene-D è anzitutto una sequenza molecolare. È una risorsa per lo sviluppo che serve da stampo per la produzione di RNA o di proteine, ma che è «indeterminata rispetto al fenotipo» (Moss, 2003, p. 46). Il Gene-D è rintracciato sulla base dei prodotti che possono essere sintetizzati a partire da uno stampo di DNA, e ha un ruolo causale paritario a quello degli altri attori delle dinamiche cellulari con cui interagisce. Un esempio di Gene-D è la sequenza di DNA usata come stampo per produrre un'intera classe di proteine come le N-CAM, molecole di adesione tra cellule neuronali espresse a stadi differenti dello sviluppo che danno luogo a un ampio spettro di caratteristiche fenotipiche.

Per Moss, un esempio paradigmatico della differenza tra Gene-P e Gene-D risulta evidente nel caso della fibrosi cistica. È utile da un punto di vista prognostico parlare di un gene (Gene-P) per la fibrosi cistica, ma ciò non aggiunge molto alla comprensione della malattia, mentre il segmento di DNA che corrisponde al locus del gene per la fibrosi cistica (Gene-D) è semplicemente una sequenza nucleotidica che serve da stampo per la produzione di proteine deputate alla regolazione della conduzione di ioni nelle cellule epiteliali che rivestono i condotti polmonari e pancreatici. Di per sé, quindi, il cosiddetto "gene per la fibrosi cistica" non è affatto un gene per il corretto funzionamento dei polmoni o del pancreas, ma è una risorsa di sviluppo che contribuisce alla loro architettura e quindi al loro funzionamento.

La distinzione di Moss tra due diversi concetti di 'gene' ha certamente il pregio di riconoscere contesti di spiegazione differenti all'interno dei quali operano concetti di 'gene' distinti. Ma, a uno sguardo attento, non si rivela esaustiva. Esistono 'geni' che operano in ulteriori ambiti operativi e concettuali:

• gene sperimentale: una pratica quotidiana nei laboratori di biomedicina consiste nell'uso di vettori che permettono l'introduzione all'interno di organismi modello di sequenze di DNA di interesse scientifico. Per controllare se queste sequenze vengono realmente trascritte dall'organismo nel quale sono state introdotte, il vettore trasporta di solito anche un gene reporter, che codifica per una proteina chemiluminescente o fluorescente biologicamente inattiva, come la luciferasi o la Green Fluorescent Protein, che è regolata dallo stesso promotore della sequenza studiata. Con l'ausilio di semplici tecniche, è possibile stimolare la caratteristica luce di queste proteine in quelle popolazioni cellulari in cui la sequenza è attivamente trascritta. Non c'è dubbio che i geni reporter siano risorse di sviluppo (Gene-D) o predittori fenotipici (Gene-P) negli organismi in cui sono stati per la prima volta rinvenuti, come la GFP per la medusa Aequorea. Ma una volta estratti e adottati dall'ingegneria genetica, essi sono diventati strumenti di laboratorio come altri per gli esperimenti delle scienze biomediche.

• gene evoluzionistico: la biologia evoluzionistica costruisce modelli di selezione e deriva genetica per spiegare la distribuzione di certi caratteri nelle popolazioni naturali. Qui il concetto di 'gene' non è impiegato né come stampo per le proteine o la sintesi dell'RNA (Gene-D), né in senso predittivo dei fenotipi individuali (Gene-P). Prendiamo il modello di selezione sessuale ideato da Ronald Fisher (1930), che ancora oggi è oggetto di test sperimentali (Houde, 1988; Houde e Endler, 1990), per spiegare la presenza di marcati attributi sessuali secondari nei maschi di certe specie, come la coda lunga negli uccelli, che mostrano di essere preferiti dalle femmine. Se tra i geni per la lunga coda e i geni per la preferenza femminile per tale attributo si produce una covarianza, allora il carattere "coda lunga" si diffonderà rapidamente nella popolazione e alla fine si fisserà. Anche se non è perfettamente adattativo sotto il profilo ecologico. Per esempio, i maschi con la coda lunga sono verosimilmente più visibili dai predatori o hanno maggiori difficoltà nella fuga. Si potrebbe obiettare che qui si è davanti a un Gene-P, dal momento che stiamo parlando di "geni per la coda lunga" o di "geni per la preferenza femminile". Ma in realtà è la distribuzione del carattere nella popolazione e il modello matematico invocato per spiegarla che sono predittivi piuttosto dei geni, ai quali non è richiesto altro che essere fedeli meccanismi ereditari che ricombinano in meiosi (e che magari mutano, in base al modello evolutivo considerato). Chiaramente, tale modello venne concepito da Fisher all'inizio del Novecento e non prende in considerazione forme di trasmissione ereditarie diverse da quella genica. Oggigiorno sappiamo che ci sono altre dimensioni dell'ereditarietà nell'evoluzione (Jablonka e Lamb, 2005), ma i geni continuano a esserne veicoli primari. Specialmente ora che stiamo conoscendo in profondità i loro meccanismi molecolari.


7. Conclusioni

È certamente un errore leggere la storia del 'gene' come un progressivo avvicinamento a un concetto unitario che possa rendere conto di ognuno dei significati attribuiti al concetto dalle diverse discipline biologiche che lo hanno adottato nel corso della loro evoluzione.

È invece opportuno riconoscere l'esistenza di più concetti di 'gene', raramente riconducibili l'uno all'altro, portatori di diversi carichi teorici e chiamati a giocare un ruolo distinto all'interno di differenti contesti di spiegazione e di descrizione. E il seguente quadro compendia, almeno prima facie, i diversi concetti di 'gene' emersi dall'analisi disciplinare fin qui condotta:

_____________________________________________________________________

concetto     ambito         contesto        correlato    esempio
di 'gene'    disciplinare   spiegazione/    biologico
                            descrizione
_____________________________________________________________________

mendeliano   genetica       ereditabilità   componente   gene per il
             classica       di tratti       citologica   colore degli
                            fenotipici                   occhi in
                                                         Drosaphila

evoluzioni-  biologia       modelli di      entità       gene per la
stico        evoluzioni-    selezione per   teorica e    coda lunga
             stica          caratteri in    poi anche
                            popolazioni     sequenza
                            naturali o      di DNA
                            sperimentali

Gene-P       clinica ed     quantificazione alleli e     BRCA1 umano
             epidemiologia  del rischio     polimorfismi
             molecolare     per condizioni  (sequenza di
                            patologiche     DNA)

Gene-D       biologia       espressione e   sequenza     N-CAM
             dello sviluppo funzione di     nucleotidica
                            proteine o
                            acidi nucleici

sperimentale ingegneria     biologia        'manufatto"  costrutto
             genetica       sperimentale                 con sequenza
                                                         per proteina
                                                         chemilumi-
                                                         scente
_____________________________________________________________________

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7.1 Da 'caso e necessità' a 'minori e maggiori probabilità'

Questa rapida ricognizione sia delle mutazioni dovute a modificazioni della struttura primaria del DNA o a errori nella sua duplicazione, sia degli errori nel processo che porta alla sintesi proteica non può non portarci a concludere che ciò che avviene entro la cellula non solo è stupefacente ed enormemente complesso, ma anche che non può essere affrontato se non in modo probabilistico, segnatamente in un modo probabilistico che tenga conto delle osservazioni che effettivamente si sono fatte. Ossia i processi intracellulari, nella fattispecie quelli che soggiaciono alle modificazioni della struttura del DNA, alla sua duplicazione e alla sua espressione, possono essere affrontati correttamente solo con metodi probabilistici a posteriori. Si noti che questo non significa affatto abbandonare la causalità: gli eventi biologici che abbiamo considerato sono eventi causali: i raggi UV causano modificazioni del DNA, l'agitazione termica causa modificazione del DNA, agenti chimici causano modificazioni del DNA ecc. Solo che essi devono essere interpretati entro un quadro di causalità probabilistica la cui espressione quantitativa è forzatamente ancorata alle osservazioni cui abbiamo accesso. Tuttavia – si badi bene – questo significa che possiamo sempre incorrere nella fallacia della generalizzazione indebita evidenziata precedentemente.

Ritorniamo ora a una frase di Monod:

una volta inscritto nella struttura del DNA, l'avvenimento singolare, e in quanto tale essenzialmente imprevedibile, verrà automaticamente e fedelmente replicato e tradotto, cioè contemporaneamente moltiplicato e trasposto in milioni o miliardi di esemplari. Uscito dall'ambito del puro caso, esso rientra in quello della necessità, delle più inesorabili determinazioni.

Ma questo esito necessitarista forse non è proprio corretto. Da quanto visto, ciò varrebbe solo se accadesse quanto segue:

1) quel gene (o quella parte di gene) effettivamente codifica per una sequenza aminoacidica;

2) tutti i meccanismi di controllo che portano alla sintesi proteica funzionano alla perfezione, o funzionano alla perfezione i meccanismi di "correzione di bozze";

3) non vi è escissione alternativa non patologica, altrimenti la stessa sequenza di preRNA permetterebbe più sequenze diverse di mRNA che codificherebbero per proteine diverse;

4) tutti i meccanismi di duplicazione funzionano alla perfezione, o funzionano alla perfezione i meccanismi di "correzione di bozze";

5) non vi è alcuna ulteriore modificazione della sequenza primaria del DNA in questione, o funzionano alla perfezione i meccanismi di riparazione.

Tuttavia nessuno garantisce che tutto ciò accada sempre. Invece, come visto, tutto ciò deve essere inserito in un quadro probabilistico. Ne segue che così scompare ogni richiamo alla necessità. Infatti, anche se sapessimo – cosa che però non sappiamo – che cos'è, sarebbe scorretto parlare degli eventi che hanno come punto terminale la sintesi della proteina matura come di eventi necessari; in realtà dovremmo parlare di eventi che hanno un'alta probabilità di realizzarsi.

Inoltre, possiamo anche ammettere che la selezione operi su effetti di modificazioni divenute mutazioni con controparte fenotipica rilevante dato quel certo ambiente. Ma nemmeno essa è così "necessaria" come si sostiene usualmente a partire da Monod. Non solo nell'evoluzione biologica è all'opera un processo casuale come la deriva, ma anche la selezione naturale ha una certa probabilità di risultato: dipende da qual è l'ambiente selezionante e dipende da come il fenotipo interagisce con quell'ambiente (cfr. cap. 2). Nulla, dunque, neppure qui, è "necessario". Va notato, inoltre, che qualsiasi affermazione riguardo lo stretto dualismo tra caso e necessità nell'evoluzione biologica non solo è scorretta, o per lo meno ingenua, ma è resa del tutto anacronistica da quando il grande genetista di popolazione Sewall Wright ha affermato chiaramente, tre anni prima della pubblicazione de Il caso e la necessità di Monod, che «il processo darwiniano di continua interazione di un processo casuale con uno selettivo non è qualcosa di intermedio tra il puro caso e il puro determinismo, ma è nelle sue conseguenze completamente diverso da entrambi dal punto di vista qualitativo» (Wright, 1967, p. 117).

In conclusione, non è molto corretto sostenere che l'evoluzione avviene attraverso il caso e la necessità, sia perché il termine 'caso' è ambiguo data la sua polisemanticità, sia perché non è molto facile capire che cosa significhi il termine 'necessità'. Sarebbe più corretto (anche biologicamente e non solo filosoficamente) affermare che l'evoluzione avviene grazie a meccanismi probabilistici, ossia quantificabili grazie alla teoria della probabilità, aventi a che fare sia con comparsa di nuove mutazioni sia con ricombinazioni geniche e riassortimenti cromosomici. E questi meccanismi creano la base su cui, poi, agiscono la deriva e la selezione; dove quest'ultima è un meccanismo non necessario ma probabilistico la cui alta o bassa probabilità di incidenza dipende sia dal tipo di ambiente selezionante sia dalla particolare correlazione fra questo e il fenotipo selezionando, mentre la prima è un meccanismo casuale nei significati 1), 4), 5) e 6) che abbiamo precisato nel paragrafo 4 riguardo il termine 'causale'.

Insomma, mentre non sappiamo bene che cosa sia il caso e non sappiamo affatto che cosa sia la necessità, sicuramente sappiamo che cosa voglia dire probabilità. E questo è sufficiente, se non cadiamo nella fallacia della generalizzazione indebita.

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9. L'informazione biologica


1. Introduzione

Ormai da qualche decina d'anni, 'informazione' è uno dei termini più ricorrenti nel linguaggio con cui si tratta di argomenti biologici. Sfogliando le pagine di un qualsiasi testo di biologia molecolare si scopre che molti dei capitoli sono dedicati alla "codifica" o alla "trascrizione" dell'"informazione" veicolata dal DNA. Ci si imbatte in una situazione analoga consultando un libro di neuroscienze, dove si trovano descritti gli "scambi di informazione" tra neuroni collocati nelle aree diverse del cervello e impegnati nelle più disparate attività nervose. Ciò non stupisce più di tanto. Proprio attingendo direttamente al gergo scientifico della teoria dell'informazione e dell'informatica, il nostro lessico quotidiano si è appropriato da tempo di locuzioni come per esempio "scritto nel DNA" o "informazione registrata e immagazzinata nel cervello". Con la prima, si può dare l'idea che quelle caratteristiche fisiche o psicologiche che sentiamo intimamente nostre, o che si manifestano comunque a prescindere dalla nostra volontà, sono incise profondamente nella nostra natura biologica. La seconda locuzione, invece, cerca di spiegare comuni fenomeni mentali e cerebrali in analogia con quanto avviene all'interno di un computer.

La prepotenza e l'importanza con cui il concetto di 'informazione' si è imposto nelle scienze della vita e nella loro divulgazione lo rendono certamente un interessante oggetto di analisi filosofica. Potremmo domandarci, infatti, se sia possibile fare e parlare di biologia oggi senza menzionare questo concetto, la rete dei suoi rimandi, o tutti quei termini che appartengono allo stesso campo semantico. Potremmo chiederci, inoltre, sotto quali accezioni è possibile parlare di "informazione biologica" in maniera non vuota, non meramente analogica, e fuori di metafora. È chiaro che per poter dare una risposta a queste domande bisogna aver ben compreso il significato, o meglio i significati, di 'informazione' e le loro relazioni con le scienze della vita.

In questo capitolo, illustreremo i rapporti tra 'informazione' e biologia. In particolare, ci concentreremo sull'uso di questa nozione in biologia molecolare, escludendo dalla nostra analisi altre discipline appartenenti alle scienze della vita che pur utilizzano tale concetto, e alle quali ci limiteremo ad accennare.

Anzitutto tenteremo di analizzare isolatamente il concetto di 'informazione' alla luce delle teorie filosofiche e matematiche che lo hanno posto al centro della loro indagine. In seguito, illustreremo brevemente il processo storico e culturale che ha portato all'adozione del termine 'informazione' nella disciplina che studia i processi cellulari sotto il profilo molecolare. Vedremo, quindi, come in alcuni casi sia possibile, o addirittura doveroso, rinunciare al concetto di 'informazione', per lo meno in alcuni dei significati con cui questo è inteso oggi. Cercheremo, infine, di rendere preciso il senso in cui questo termine potrebbe trovare un impiego idoneo e non ambiguo all'interno di questa disciplina alla luce dell'iniziale indagine condotta sul concetto di 'informazione' al di fuori dal contesto biologico. Mostreremo, così, come questo possa assumere una rilevanza etica oltre che epistemologica.


2. Che cos'è l'informazione

Senza dubbio una buona esplicazione del concetto di 'informazione' è preliminare a qualsiasi analisi filosofica seria che desideri chiarire che cosa si intenda per 'informazione biologica'. Produrre tale esplicazione è l'obiettivo di una recente linea di ricerca filosofica, la filosofia dell'informazione (Floridi, 2002), ed è principalmente ai risultati finora ottenuti da questa che qui ci rifaremo.

Cominceremo con il ricordare che l'informazione consiste di uno o più dati, a condizione, però, che tali dati siano "ben formati", che obbediscano cioè a quell'insieme di regole che chiamiamo sintassi, le quali governano il sistema, il codice o il linguaggio considerati. I dati possono quindi essere "significativi", a dire conformi alla semantica adottata e ai suoi significati.

Ovviamente, a questo punto ci serve una buona definizione di 'dato'. Per 'dato' si intende una qualsiasi differenza o mancanza di uniformità all'interno di un qualche contesto. Tale definizione ci permette di comprendere sotto il concetto di 'dato' non solo mancanze di uniformità tra due simboli, come per esempio tra due diverse lettere dell'alfabeto come A e B, ma anche la differenza tra due diversi stati di cose. Possiamo considerare una sorgente di dati, dunque, pure un punto bianco su di uno sfondo nero, o le diverse intensità di luce di una spia luminosa. È chiaro che ciò ci conduce a una concezione di 'informazione' piuttosto ampia, e non necessariamente legata al solo linguaggio e all'attività linguistica. Per orientarci, sarà utile adottare la seguente tassonomia, ormai comune, che distingue tre diversi tipi di informazione che si raccolgono sotto íl più generico concetto di 'informazione':

1) informazione sulla realtà: si ha quando si è in presenza di un contenuto semantico veridico. È la forma di informazione con cui abbiamo maggiore confidenza. Si tratta di informazione che è vera (o falsa, se si tratta di disinformazione) e che riguarda un qualche aspetto della realtà. Ha, dunque, un chiaro valore epistemico. L'orario del treno è un tipico esempio di informazione semantica di questo tipo. Per esempio, un enunciato come "la spia luminosa della benzina sul cruscotto della mia macchina è accesa", nel caso in cui si abbia del contenuto semantico falso, è un caso di malinformazione (Fox, 1983; Fantini, 1988), la quale, se deliberatamente prodotta come falsa, va sotto il nome più appropriato di disinformazione.

2) informazione per la realtà: in una parola, istruzioni. Le ricette o gli algoritmi fanno parte di questa categoria. L'informazione istruttiva non ha lo scopo di rappresentare o descrivere correttamente il mondo, ma piuttosto punta ad apportare qualcosa a esso, a modificarlo. Usualmente si presenta nella forma di ordini, oppure di enunciati in forma condizionale del tipo "se si è verificato x, allora bisogna procedere con y". A differenza della precedente informazione sulla realtà, questa informazione non può essere qualificata come vera o falsa. Difficilmente un ordine o un comando, una ricetta, un'istruzione o un algoritmo possono dirsi veri o falsi. Il loro carattere è piuttosto performativo. Funzionano o non funzionano. L'informazione per la realtà deve però essere sia sintatticamente che semanticamente corretta, pena la sua incomprensibilità o l'erronea interpretazione e messa in atto dell'istruzione.

3) informazione come realtà: anche nota come informazione ambientale, si considera composta di "dati naturali". I cerchi concentrici che troviamo tracciati sul piano della sezione dei tronchi degli alberi rappresentano uno dei casi più tipici di informazione ambientale. Va però ricordato che l'informazione come realtà è sempre relativa a un qualche osservatore. Infatti, è necessario qualcuno con le adeguate conoscenze per poter interpretare il fenomeno, pur del tutto naturale, degli anelli degli alberi come informativo sull'età dell'albero. Affinché si dia informazione come realtà è richiesto che due sistemi a e b funzionino di pari passo, di modo che l'essere di a in uno stato o del tipo F sia correlato con l'essere di b nello stato o del tipo G (cfr. Barwise e Seligman, 1997). La correlazione tra i due sistemi a e b è fonte di informazione per l'osservatore, il quale inferisce dallo stato, o dal tipo di stato di a, lo stato, o il tipo di stato, di b. Per questa classe di informazione la semantica non è sempre necessaria. L'informazione ambientale, infatti, può consistere di dati correlati intesi come mere differenze nella realtà. Le piante, per esempio i girasoli, o gli animali, come l'ameba, mettono in atto processi di risposta a stimoli che li rendono senza dubbio capaci di far uso di informazione ambientale, anche in assenza di qualsiasi significato.

Possiamo riassumere in uno schema la tassonomia fin qui delineata per il concetto di 'informazione'.

                    informazione
                          |
      ____________________|___________________
     |                    |                   |
come realtà         per la realtà        sulla realtà
(ambientale)        (istruttiva)         (semantica)
                                              |
                                      ________|________
                                     |                 |
                                    vera             falsa
                                                disinformazione
                                               (malinformazione)

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4.2 Informazione, fenotipo ed evoluzione

Come abbiamo affermato, il linguaggio informazionale è adottato anche in discipline contigue alla biologia molecolare, come la genetica molecolare e la biologia evoluzionistica, che attribuiscono al DNA caratteristiche informazionali. Purtroppo, qui non abbiamo un'esplicita definizione di 'informazione' come per la biologia molecolare. Cercheremo, quindi, di evincere il significato di questo concetto a partire dalle espressioni in cui occorre.

Consideriamo la prima di queste discipline: la genetica molecolare. A volte, è facile imbattersi in locuzioni che riguardano la codifica di un carattere fenotipico da parte di una sequenza di DNA, un gene (cfr. cap. 1), che sarebbe depositario dell'informazione per la costruzione di quel carattere. In altre parole, delle istruzioni per lo sviluppo. Il contributo causale di altri processi o entità cellulari alla formazione del carattere considerato, dunque, si potrebbe considerare limitato alla pura esecuzione del 'progetto' contenuto nella sequenza nucleotidica.

Possiamo pensare che queste espressioni abbiano due possibili formulazioni, una forte e una debole, rispettivamente:

(FF) la sequenza a di DNA contiene tutta l'informazione per il carattere fenotipico k

(FD) la sequenza a di DNA contiene parte dell'informazione per il carattere fenotipico k

Analizziamo (FF). Sebbene non ci sia dubbio che alcuni caratteri anormali del fenotipo si originino da modificazioni puntiformi della sequenza di DNA di un gene, o che molti polimorfismi derivino dalle diverse sequenze di acido nucleico che si possono trovare in un certo locus cromosomico (alleli), lo sviluppo del fenotipo avviene in una interazione talmente stretta tra genotipo e ambiente che, nella maggior parte dei casi, è quasi impossibile scindere il contributo dell'uno e dell'altro e difficilmente si può attribuire un carattere fenotipico alla sola azione di una sequenza nucleotidica (Lewontin, 1998).

Non è necessario, però, discutere la complessa ontogenesi dell'organismo adulto per rendersi conto della debolezza dell'idea secondo cui le informazioni alla base dello sviluppo sono tutte contenute nel suo DNA. È sufficiente, infatti, fare solo un passo oltre il concetto di 'informazione' proposto da Crick. Egli, infatti, proponeva di considerare come 'informazione' la specificazione della sequenza aminoacidica della proteina sulla base della sequenza nucleotidica del DNA. Una concezione piuttosto modesta di 'informazione' se comparata con (FF).

Ebbene, consideriamo ciò che avviene immediatamente dopo la sintesi di un polipeptide e assumiamo, solo al fine di mostrare la debolezza epistemologica di (FF), che la sequenza nucleotidica di cui il DNA si compone determini veramente la catena polipeptidica della proteina corrispondente.

Sappiamo che per poter assumere un ruolo biologico funzionale questa ultima non può rimanere così com'è, cioè una semplice catena polipeptidica più o meno lunga. Una proteina, infatti, deve le sue caratteristiche, oltre che alla composizione aminoacidica, soprattutto alla sua conformazione strutturale nelle tre dimensioni. La sola sequenza aminoacidica rappresenta unicamente la struttura primaria della proteina, la quale, per poter divenire funzionale, deve andare incontro a diversi eventi di ripiegamento:

1) raggiungimento della struttura secondaria grazie alla formazione localizzata di &alfa; eliche, foglietti β e giri a U e mantenuta da interazioni soprattutto di tipo non covalente tra aminoacidi;

2) passaggio alla struttura terziaria, che si genera da un ulteriore ripiegamento della secondaria ottenuto attraverso le interazioni idrofobiche tra gruppi non polari e legami idrogeno tra gruppi polari;

3) creazione della struttura quaternaria con l'aggregazione delle diverse subunità delle proteine multimeriche.

Questi passaggi sono facilitati da particolari proteine dette chaperon e chaperonin. In loro assenza, è molto improbabile che una proteina assuma il ripiegamento corretto, cioè quello che la rende funzionale. Spesso, è questa la causa principale della difficoltà che si incontra nel tentativo di ottenere una apprezzabile produzione di proteine eucariotiche inserendo la corretta sequenza di DNA nel genoma di batteri. La mancanza degli appropriati chaperon e chaperonin nei procarioti, infatti, rende estremamente improbabile il corretto ripiegamento della sequenza polipeptidica eucariotica che permette alla proteina di possedere una conformazione funzionale.

Questo, che è solo il primissimo e il più semplice evento molecolare ad avvenire dopo la specificazione del polipeptide, ci dà bene un'idea della distanza che separa un filamento di acido nucleico da un carattere fenotipico ben formato. Anche sotto l'assunzione che il passaggio dalla catena nucleotidica a quella polipeptidica sia strettamente deterministico. Possiamo affermare, dunque, che (FF) è certamente erronea.

Passiamo ora a (FD), che, oltre a essere più debole di (FF), sembra consistente con quanto appena affermato, e cioè che la sola sequenza nucleotidica non contiene tutta l'informazione per un carattere fenotipico.

Se riteniamo che (FD) sia vera possiamo percorrere due alternative. O sommiamo che parte dell'informazione per un carattere fenotipico k è contenuta nella sequenza di DNA considerata e l'informazione restante è contenuta nelle altre sequenze di DNA che compongono il genoma dell'organismo, tra cui quelle che specificano per proteine come chaperon e chaperonin. Oppure possiamo riconoscere che l'informazione per la costruzione di un carattere fenotipico risiede anche in attori cellulari diversi dal DNA. Le due alternative non si escludono, certo, vicendevolmente. Possiamo, dunque, mantenerle entrambe.

Quest'ultima sembra proprio la strada da percorrere. La composizione del resto del genoma è estremamente influente sul coinvolgimento non solo di una determinata sequenza di DNA nella sintesi proteica, ma anche della sua corrispondente proteina nel metabolismo. E le proteine che intervengono in tali processi (polimerasi, ribosomi, chaperon ecc.) sono comunque frutto dell'espressione di una qualche sequenza nucleotidica. L'informazione per lo sviluppo della maggior parte dei tratti fenotipici, dunque, si troverebbe "sparsa" su tutto il genotipo, sebbene in alcuni punti appare maggiormente concentrata.

Va tenuto conto, però, del fatto che alla formazione di molti caratteri prendono parte in maniera determinante dei fattori epigenetici, non legati alle sequenze di DNA di cui è composto il genoma, ma alle modificazioni biochimiche della cromatina (cfr. cap. 5; Jablonka e Lamb, 2002).

Ammettendo come vera (FD), dunque, ne concludiamo che se desiderassimo mantenere il concetto di 'informazione' in genetica molecolare per parlare dello sviluppo fenotipico, allora dovremmo rinunciare a considerarlo in riferimento esclusivo alle sequenze di DNA. Ma diverrebbe un termine utile a coprire il ruolo di tutte le entità e i processi causalmente coinvolti in maniera rilevante nello sviluppo del fenotipo (cfr. Griffiths, 2001).

Dobbiamo notare, infine, che, data l'ereditabilità delle diverse modificazioni epigenetiche, neanche la nozione di 'informazione' adottata in biologia evoluzionistica per parlare della trasmissione dei caratteri nel corso della filogenesi può riguardare il solo DNA.

In entrambe le discipline, dunque, l'uso del concetto di 'informazione' non è giustificato ontologicamente, cioè sulla base di una presunta supremazia nel ruolo causale del DNA nell'ontogenesi o nella trasmissione dei caratteri. Il concetto non ha ruolo sostanziale, ma può essere mantenuto soltanto in virtù di una stipulazione, in base alla quale 'informazione' si usa per distinguere convenzionalmente il ruolo causale giocato dall'acido desossiribonucleico nello sviluppo e nell'ereditarietà dei caratteri all'interno di un processo più ampio, il quale vede la partecipazione di altri attori non meno importanti.

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10. Il problema delle leggi


1. Introduzione

Non di rado, quando si parla dello statuto epistemologico della biologia e della biomedicina, la parola 'scienza' si accompagna all'aggettivo 'morbida'. Si tratta di un tentativo che alcuni mettono in atto per "addolcire" il sostantivo affinché possa calzare anche a queste scienze e non rimanga appannaggio solo della fisica o della chimica. Scienze 'dure', appunto; scienze nelle quali sembra esserci un fondamento estremamente solido che taluni non vedono all'interno delle scienze della vita.

Dietro questa surrettizia distinzione tra 'scienze dure' e 'scienze morbide', che fa spesso capolino quando si compara lo studio della materia inanimata con quello del vivente, si cela quasi sempre l'idea che la biologia o la biomedicina non siano provviste, a differenza della fisica e della chimica, di ciò che di volta in volta viene chiamato leggi di natura, leggi scientifiche, enunciati nomologici. La gravitazione, l'interazione tra cariche elettriche, il comportamento dei gas, infatti, sono fenomeni che sembrano essere perfettamente catturati da quelle eleganti relazioni matematiche che vanno sotto il nome di legge di Newton, legge di Coulomb e leggi di Boyle, Gay-Lussac e Dalton. Ma c'è qualcosa di equivalente all'interno delle scienze della vita? Molti rispondono negativamente, anche se occorre dire che talvolta tale risposta è frutto solo di un'analisi affrettata e superficiale. Eppure, a ben guardare, nella biologia possiamo trovare le "leggi" di Mendel, che riguardano la proporzione dei diversi possibili genotipi nella progenie di individui diploidi, oppure la "legge" di Hardy-Weinberg, che stabilisce le frequenze geniche in una popolazione diploide sotto certe condizioni dopo un certo numero di generazioni. Tanto le prime quanto la seconda hanno anche una chiara formulazione matematica. Ed è proprio per questo che altri le considerano leggi, rivendicando così anche in questo ambito l'esistenza di veri e propri enunciati nomologici. Tuttavia, chi osteggia tale posizione sostiene che queste, sebbene colgano correttamente certe regolarità che si producono in alcune parti del mondo biologico, non debbano andare sotto il nome di 'legge', che invece andrebbe riservato a quelle relazioni che valgono in tutto l'universo e per ogni tempo, e non esclusivamente in una sua piccola parte e solo per un certo periodo temporale, come pare essere per le generalizzazioni biologiche e biomediche. Insomma, sarebbe solo un incidente nella storia della scienza senza alcun fondamento epistemologico il fatto che le rappresentazioni matematiche delle proporzioni mendeliane o dell'equilibrio tra due varianti di uno stesso gene in una popolazione siano state chiamate 'leggi', al pari della legge di Newton.

Vi è anche da sottolineare che vi è un numero considerevole di studiosi che non entrano affatto nella questione relativa alla rappresentazione matematica di certe relazioni biologiche o biomediche, ma ritengono semplicemente che qui non vi siano leggi e che, anzi, tale assenza sia da salutare positivamente. Tra questi vi è Mayr, il quale sostiene che non solo la biologia non ha leggi, ma che queste nemmeno si dovrebbero cercare. D'altro canto, perché cercarle se non ci sono? Insomma, il biologo non dovrebbe cercare ciò che non c'è e così perdere tempo, ma lavorare come Darwin, autore di un capolavoro teorico privo di matematica, formalismi e formulazioni universali (Mayr, 1982a, pp. 37 e 846).

Insomma, il problema della nomologicità delle scienze della vita presenta soluzioni piuttosto discordanti che in questo capitolo cercheremo di vedere da vicino per capire se abbia senso la ricerca delle leggi in questo ambito e quali possano essere i problemi epistemologici che si debbono superare. Così, dopo aver passato in rassegna criticamente alcune proposte paradigmatiche, tanto degli scettici quanto di coloro che pur in maniera diversa sostengono che vi sono leggi, ricondurremo, seppur brevemente, la questione all'interno del dibattito più generale sul tema della distinzione fra enunciati nomologici ed enunciati accidentali. Così facendo mostreremo come non sia semplice affermare che cosa sia una legge scientifica e decidere se un certo enunciato sia o meno una legge.

Delineeremo, infine, una possibile soluzione al problema generale delle leggi, a comprendere dunque anche quelle più strettamente pertinenti le scienze della vita, sul solco della tradizione kantiana, spesso trascurata nel corso sia del dibattito classico sulla nomologicità sia nel dibattito sulle leggi biologiche e biomediche.

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15. Innato o acquisito?


1. Introduzione

La distinzione tra 'innato' e 'acquisito' fa parte tanto della psicologia popolare (folk psychology) quanto della biologia popolare (folk biology). Si tratta di un modo "naturale", vale a dire spontaneo e ovvio, per classificare i caratteri biologici e psicologici degli organismi viventi che è in uso anche presso civiltà diverse dalla nostra (Atran et al., 2001; Astuti, Solomon e Carey, 2004). Ma la distinzione tra innato e acquisito trova impiego anche tra biologi, psicologi e altri ricercatori nel campo delle neuroscienze e nelle scienze cognitive. È legittimo, dunque, chiedersi se vi sia, in campo scientifico, un adeguato fondamento teoretico alla base di questa distinzione. Il sospetto, infatti, è che il suo uso nella scienza si debba non alla sua utilità teoretica, ma piuttosto al fatto che tale distinzione costituisce un modo talmente ovvio, dal punto di vista del senso comune, per classificare le proprietà degli organismi viventi da essere stato acquisito senza un adeguato vaglio. Possiamo chiederci, quindi, se questa distinzione non costituisca piuttosto un impedimento per il progresso sia delle scienze che studiano i caratteri biologici e psicologici degli organismi viventi che delle scienze che ne studiano il loro sviluppo individuale e la loro evoluzione nel tempo (Bateson, 1991; Griffiths, 2002; Mameli e Bateson, 2006).

In campo scientifico, il concetto di 'carattere innato' è spesso definito facendo ricorso (esplicitamente o implicitamente) a fattori come 1) il ruolo dei geni nel processo di sviluppo del carattere, 2) il ruolo dell'evoluzione darwiniana nel modellare il processo di sviluppo del carattere, 3) il mancato coinvolgimento dell'esperienza o dell'apprendimento nello sviluppo del carattere, 4) la robustezza (o meno) del processo che conduce allo sviluppo del carattere, 5) la modularità del carattere. Analizzeremo queste possibilità una per una e mostreremo che sono tutte, in un modo o nell'altro, insoddisfacenti.

Il problema fondamentale però non è solamente la loro inadeguatezza, ma piuttosto il fatto che l'attuale uso scientifico del concetto di 'innato' presuppone (implicitamente) che molte proprietà dei caratteri biologici e psicologici (come quelle indicate e riguardanti il ruolo dei geni, dell'esperienza e dell'apprendimento, dell'evoluzione darwiniana, oppure la robustezza e la modularità) siano fortemente correlate l'una all'altra e che, conseguentemente, la presenza dell'una possa essere inferita dalla presenza dell'altra. Mostreremo che questa presupposizione non solo non è affatto ovvia, ma che, per quanto se ne sa al momento, potrebbe ben essere falsa. In ogni caso, è solamente tramite studi approfonditi e dati empirici adeguati che potrebbe essere risolta la questione della correttezza di tale presupposizione. Purtroppo questi studi approfonditi e questi dati empirici adeguati sono in larga misura ancora inesistenti. Probabilmente, la "naturalità" e l'"ovvietà" della distinzione tra innato e acquisito ha generato in molti l'illusione che questi studi e questi dati non siano veramente necessari. Da questo punto di vista, sarebbe allora interessante proporre una moratoria sull'uso della distinzione innato/acquisito, almeno fino a quando studi più approfonditi e dati più dirimenti non saranno disponibili.


2. L'influenza genetica sui fenotipi

Molti autori danno per assunto che la categoria dell'innato abbia qualcosa a che fare con i geni (cfr. Tooby e Cosmides, 1992; Chomsky, 2000; Fodor, 2001; Pinker, 1998, 2002; Buss, 2003; Marcus, 2003; Marler, 2004). In alcuni casi, questa supposizione è basata su modi imprecisi di concepire i fattori genici nello sviluppo. Per esempio, affermare che un fenotipo è innato se e solo se i geni, e nient'altro che i geni, sono richiesti per il suo sviluppo è troppo semplicistico. Non esiste, infatti, un solo carattere fenotipico per il cui sviluppo siano sufficienti unicamente i geni. Un'interazione tra l'organismo e il suo ambiente, infatti, è richiesta a tutti gli stadi ontogenetici (cfr. cap. 5). Una formulazione alternativa, ma ugualmente naif, anche se per ragioni opposte, asserisce che un carattere è innato se e solo se i geni hanno una qualche influenza sul suo sviluppo. Se questa formulazione fosse accettata, allora tutti i fenotipi verrebbero classificati come innati, poiché i geni partecipano (in un modo o nell'altro) allo sviluppo di ogni carattere fenotipico. Una formulazione più soddisfacente affermerebbe che i caratteri innati sono quelli influenzati dai geni in un qualche modo particolare, diverso dal modo in cui i geni esercitano la loro influenza sui caratteri non innati. Il problema, però, diventa quello di specificare che cosa potrebbe essere questo modo particolare. E non si tratta di un problema banale.

È facile sottovalutare il ruolo dei fattori ambientali nello sviluppo dei caratteri fenotipici. Questo è vero in particolar modo per quei fattori ambientali che normalmente non variano da individuo a individuo e non sono perciò causa di differenze fenotipiche (Mameli, 2005). Fattori ambientali che rimangono costanti in un dato insieme di condizioni possono tuttavia essere molto importanti nel determinare le caratteristiche precise di un fenotipo. Per esempio, studi sulla microgravità hanno dimostrato che il valore dell'accelerazione gravitazionale ha un'influenza importante sulla struttura muscoloscheletrica (Klein-Nulend et al., 2003). Se un essere umano crescesse su un pianeta con un'accelerazione gravitazionale simile a quella esistente sulla Luna o sul pianeta Giove non necessariamente morirebbe, ma la sua struttura muscoloscheletrica sarebbe diversa da quella che normalmente caratterizza la nostra specie sul pianeta Terra.

Si può argomentare che per ogni fenotipo è possibile trovare alcuni fattori ambientali i cui mutamenti producono cambiamenti fenotipici. L'ambiente non è solamente una fonte indistinta di energia e materia per i processi dello sviluppo, ma specifici fattori ambientali sono spesso cruciali per l'attivazione o la disattivazione di specifici geni e del modo in cui i prodotti della loro trascrizione e traduzione sono trasformati e usati nei processi di sviluppo dei fenotipi, come ben mostrato dal lavoro di Jacob e Monod (1961a) sul lac operon, che ha rivelato le strette interazioni tra fattori genetici e fattori ambientali nel metabolismo dei batteri. Purtroppo, però, solo un ristretto numero di autori sembra aver afferrato interamente le implicazioni di questo fenomeno (cfr. Lewontin, 1998; Gilbert, 2001; Gottlieb, 2003; Meaney, 2003). Ancora meno sono coloro che hanno apprezzato le implicazioni dell'inscindibile connubio tra geni e ambiente per ogni definizione della distinzione innato/acquisito che si basi sulla distinzione tra genetico e ambientale (Mameli e Papineau, 2006).

Un modo molto comune di provare a definire l'innato riferendosi a fenomeni genetici è quello che fa appello alle presunte proprietà "informazionali" dei geni. Secondo questa proposta, il fenotipo innato è quello codificato nei geni, nel senso che tutta l'informazione richiesta per il suo sviluppo è contenuta in sequenze genomiche. Questa proposta distingue tra fattori causali che contribuiscono allo sviluppo di un fenotipo fornendo informazione e fattori che contribuiscono in altri modi. I fattori ambientali sono sì coinvolti (in un modo o nell'altro) nello sviluppo dei fenotipi ma nel caso specifico dei fenotipi innati i fattori ambientali giocano solo un ruolo non-informazionale. Questo è, per esempio, il modo in cui Jacob e Monod ridelinearono la distinzione innato/acquisito alla luce delle loro scoperte sull'esistenza di regioni genomiche la cui attività dipende dalla presenza di specifici fattori ambientali (Fox Keller, 2000).

I problemi di questo tipo di proposta sono legati al fatto che non è per nulla chiaro come si debba intendere 'informazione' in ambito di scienze della vita (cfr. cap. 9). Tuttavia, per quanto riguarda il tema che stiamo esaminando, una possibile proposta è che un gene G rappresenti o codifichi un fenotipo F se e solo se G e F sono statisticamente correlati e G contribuisce allo sviluppo di F (Dawkins, 1982; Sterelny e Kitcher, 1988). Un'altra proposta è che G rappresenti/codifichi F se e solo se vi è stata selezione naturale a favore di G dovuta al fatto che G contribuisce allo sviluppo di F; in altre parole, G è stato selezionato per contribuire allo sviluppo di F (Maynard Smith, 2000; Sterelny et al., 1996). Entrambe le proposte, però, sono inadeguate. Riguardo alla prima, si può mostrare che esistono svariati fattori ambientali che contribuiscono allo sviluppo di specifici fenotipi o che sono correlati con questi. In merito alla seconda, invece, è possibile indicare diversi fattori ambientali che sono stati selezionati (per selezione naturale) per contribuire allo sviluppo di specifici fenotipi (Griffiths, 2001). In assenza di una teoria che distingua in modo teoreticamente giustificabile tra fattori genetici "portatori d'informagione" e fattori ambientali "privi d'informazione" è improbabile che l'equazione "innato = geneticamente codificato" possa risultare teoreticamente utile.

Un'altra possibile definizione è quella secondo cui un carattere è innato se e solo se il suo sviluppo non implica alcuna "estrazione d'informazione" dall'ambiente. Questa proposta è molto simile alla precedente, eccetto per il fatto che invece di far appello alla "presenza di informazione" genetica fa appello all'"assenza di informazione" ambientale. Questa proposta fornisce un'interpretazione plausibile del modo in cui Chomsky usa i suoi famosi argomenti sulla povertà dello stimolo in supporto della tesi secondo cui la competenza linguistica è innata (Chomsky, 1959; 1975; 1987).

L'opera di Chomsky è probabilmente la principale responsabile dell'attuale popolarità della distinzione innato/acquisito nelle scienze cognitive. Comprendere il modo in cui Chomsky delinea la distinzione è perciò rilevante per stabilire se l'uso scientifico della distinzione è utile o meno. Secondo le teorie chomskiane, lo stimolo linguistico ricevuto dagli esseri umani nel breve periodo in cui sviluppano la capacità di comprendere e parlare la lingua della loro comunità – la competenza sintattica – è troppo povero perché sia possibile che lo sviluppo di questa competenza avvenga tramite l'estrazione di informazione dallo stimolo linguistico ricevuto su quali trasformazioni sintattiche siano permissibili e quali non lo siano. Pertanto, secondo Chomsky, la competenza linguistica (sintattica) deve essere innata.

Chomsky usa spesso le espressioni "determinazione genetica" e "dotazione genetica" quando scrive sull'innatezza della competenza linguistica (cfr. Chomsky, 2000). L'assunzione sembra essere quella secondo cui, se l'informazione necessaria per lo sviluppo di strutture sintattiche non è estratta dallo stimolo linguistico, allora deve essere necessariamente estratta dalle sequenze genomiche. Ma l'equazione tra "geneticamente codificato" e "sviluppatosi non tramite estrazione d'informazione da fattori ambientali" sembra superflua in questo contesto. Data la natura degli argomenti usati, è più utile ricostruire la posizione di Chomsky riguardo alla distinzione tra innato e acquisito in termini di assenza o di presenza di "estrazione d'informazione" (di conoscenza) dagli stimoli ambientali (cfr. Khalidi, 2002). E questa distinzione può essere facilmente ricostruita in termini di assenza o di presenza di apprendimento nel processo di sviluppo. Analizzeremo fra un po' questa distinzione e la sua relazione con la distinzione innato/acquisito. Vedremo anche come le affermazioni di Chomsky sull'innatezza possano essere interpretate in modi che differiscono significativamente dall'interpretazione appena data.

Vogliamo concludere questo paragrafo con uno sguardo a un altro tipo di approccio che fa appello ancora una volta ai geni, anche se in un modo diverso da quelli finora considerati. Questa proposta utilizza la connessione presente nelle intuizioni generate dal senso comune tra l'idea che un carattere è innato e l'idea che lo stesso carattere è ereditario. La proposta è che un carattere è innato se e solo se è altamente ereditabile. Nel gergo scientifico, l'ereditabilità è un concetto statistico che si applica alla variazione di un carattere fenotipico esistente in una data popolazione e in un dato momento. In realtà, il termine 'ereditabilità' si riferisce non a un singolo concetto ma piuttosto a una famiglia di concetti (Falconer e Mackay, 1996). Per gli scopi della presente discussione, ci concentreremo sulla cosiddetta "ereditabilità in senso lato" (broad heritability), poiché è questa la nozione di ereditabilità che di solito viene associata con la categoria dell'innato (Herrnstein e Murray, 1994). Anche se gli argomenti che presentiamo qui possono essere facilmente generalizzati ad altre nozioni di ereditabilità.

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