Copertina
Autore Francesco Cammisa
Titolo Il tempo di Caino
EdizioneTullio Pironti, Napoli, 2007 , pag. 508, cop.fle., dim. 14x21x2,8 cm , Isbn 978-88-7937-420-0
LettoreRiccardo Terzi, 2009
Classe narrativa italiana
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Indice


PARTE PRIMA
DIETRO LE QUINTE                      9

PARTE SECONDA
L'INCUBO DEL FOSSO                   65

PARTE TERZA
AFFARI DI CUORE                     179

PARTE QUARTA
UN ALTRO MONDO                      205

PARTE QUINTA
CAVALLO DI RITORNO                  353

PARTE SESTA
LE CORDE DEL DESTINO                373

PARTE SETTIMA
FINE DI UN AMORE                    499


 

 

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Pagina 11

1



Qualche anno fa, nel mezzo di un'estate fredda e piovosa, destinata a spiccare per lungo tempo nel novero delle anomalie meteorologiche – l'Elba e la Moldava strariparono e a Dresda e Praga si sarebbe potuto praticare lo sci acquatico – mi svegliai di buonora, pervaso da una strana e inspiegabile agitazione. Avevo dormito sodo e non ero afflitto da problemi di particolare gravità, a parte le piccole seccature che scandiscono la vita dei comuni mortali. Non sapevo imputare ad una causa precisa la morsa allo stomaco, il battito leggermente accelerato del cuore ed il tremito della palpebra destra, sebbene intuissi la presenza nella mia scatola cranica di congegni non perfettamente oliati, bisognosi di una sistemata. Il silenzio era rotto dal respiro pesante di Clara, segno inconfondibile di un copione invariato da più di un lustro: si addormentava a notte fonda, dopo massacranti letture filosofiche che mettevano a dura prova un equilibrio mentale già fragile. Era la sua maniera di combattere l'insonnia. Mia moglie, virago complicata oltre ogni dire, amava le vie traverse. Non voleva saperne dei sonniferi. Si sarebbe fatta monaca piuttosto che sopportare l'onta della dipendenza farmacologica. Credo, tuttavia, che, di là da questa motivazione ufficiale, il suo obiettivo fosse di non perdere il malumore indotto dai brevi sonnellini (poiché la sveglia suonava implacabilmente alle sette e trenta) in modo da poter manifestare nei miei riguardi un'ostilità pertinace e asfissiante. È un'ipotesi bislacca, e, proprio per questo, di sicuro fondamento.

Dopo essermi levato dal letto, decisi di consumare anzitempo la prima colazione. In cucina, mangiai un vomitevole yogurt naturale, supplizio impostomi dal mio medico per render più effervescente un intestino pigro, restio a svolgere le proprie funzioni come ogni organo che si rispetti. Sollevai il coperchio del bidone dell'immondizia per gettarvi dentro il recipiente vuoto. Un ratto di grosse dimensioni sortì dai rifiuti e con un guizzo andò a rintanarsi nell'adiacente stanzino della lavanderia. Chiusi immediatamente la porta per impedire che la bestiaccia se ne andasse in giro. Disgustato da quella orribile visione e con le gambe tremanti per lo spavento, svegliai Clara per comunicarle la lieta novella.

«Ammazzalo», comandò, perentoria, dopo esser uscita dal torpore.

Picchiai l'indice sulla mia fronte: «Sei matta? Mi fanno schifo i topi».

«Sei un coniglio. Ora ci penso io».

«Non sarebbe meglio chiamare un'impresa di derattizzazione?».

«Mi chiedo come abbia fatto a sposarti. Sei una nullità».

Si vestì con calma e, mentre eseguiva i suoi lenti movimenti, continuò a dirmene di tutti i colori, quasi che quella congiuntura fosse l'occasione a lungo aspettata per la resa dei conti. Prese le mosse dalla mia pavidità, per poi passare in rassegna altre innumerevoli pecche: la misantropia, che a poco a poco l'aveva costretta ad un isolamento insopportabile, perché lei, al contrario di me, era una creatura solare, amante della compagnia e sempre disponibile al dialogo; le ormai inesistenti pulsioni sessuali, che le imponevano un'astinenza intollerabile, cui avrebbe posto fine al più presto con un amante focoso, in grado di soddisfare il suo eros debordante, allontanando per sempre il brutto ricordo di una convivenza mai ravvivata da slanci, carezze e baci; l'inettitudine per gli aspetti pratici della vita, che l'obbligava ad occuparsi di tutto, dal pagamento delle bollette all'acquisto delle lampadine. Non replicai, allo scopo di evitare urla e strepiti che in più di una circostanza avevano suscitato le proteste dei vicini di casa e la segreta insofferenza degli altri condomini verso una coppia male assortita, incapace, tra le mura domestiche, di mettere la mordacchia al carico d'odio dissimulato all'esterno della magione.

Clara uscì, senza chiudere alle sue spalle la porta d'ingresso. Dopo qualche minuto rientrò con un pezzo di cartone, che mi agitò sotto il naso.

«Colla per topi. Me l'ha data la signora Scotti. Visto come si fa? Basta non perdersi d'animo, mio caro superman».

Estrasse dal frigorifero quel poco che restava di una piccola caciotta e lo tagliò in quattro parti, che depose sul pezzo di cartone. Dischiuse appena la porta dello stanzino e collocò la trappola accanto allo spiraglio.

«Ora non dobbiamo far altro che aspettare», mi annunciò con aria tronfia.

M'incuriosivano i dettagli della caccia grossa: «E se resta attaccato, che si fa?».

«Non riesci ad immaginarlo?».

Non aggiunse altro, persuasa che non valesse la pena di mettermi al corrente delle sue mosse future.

Clara andò a farsi una doccia, mentre io m'accomodai sul divano del salotto, ingannando l'attesa con la lettura di una rivista illustrata. Dopo quasi mezz'ora, udii un suono stridulo. Richiamata dal raccapricciante segnale, Clara entrò nel salone. Indossava slip e reggiseno ed aveva il capo coperto da un asciugamano avvolto a mo' di turbante. Sembrava felice di potermi dare una lezione di coraggio: «Sei pronto per lo spettacolo?».

La seguii, tenendomi a debita distanza. Il topo si dibatteva come un forsennato. Feci uno sforzo inaudito per non vomitare. Devo ammetterlo: Clara fu molto in gamba. Con la scopa spinse il topo incollato al cartone sulla paletta usata per raccogliere la polvere, provvista di una lunga asta, e scaraventò il tutto in una busta di plastica. Poi, finì il lavoretto con il ferro da stiro, assestando colpi così violenti che provai pietà per il malcapitato sorcio, nonostante poco prima mi avesse procurato la nausea ed una tremenda fifa.

Clara dovette cogliere nel mio sguardo uno stupore estatico e avvertì, pertanto, l'irresistibile esigenza di allietarmi con un altro affondo: «E tu saresti un uomo? Ma non hai vergogna? Te la fai sotto per un topo. È incredibile. Neanche si trattasse di una vipera o di un drago che sprizza fiamme. È stata una scena ridicola. Tu dietro di me, pallido come un cencio, rannicchiato in un angolo con gli occhi sbarrati. Peggio di un bambino. Avrei voluto filmarti per far vedere alla tua adorata sorellina, che ti considera un eroe invincibile, quanto sei buffo e patetico. E pensare che toccherebbe a te proteggermi dalle insidie e dai pericoli. Sì, figuriamoci, questo è un bel sogno. La verità è che sono io quella che porta i pantaloni, mentre tu, invece, vuoi sapere che cosa sei? Non dico uno zero, ma quasi. Che fine ho fatto! Mi sono legata ad uno smidollato, io, che ho sempre reputato mio uomo ideale quel magnifico ed intrepido matto di Bob Capa, che aveva due coglioni grandi così, al punto che si unì alle prime ondate di truppe d'assalto nel D-Day, non so se rendo l'idea...».

«Bob Capa? E chi è?».

Il mio quesito l'esasperò. Sciolse dalla sua testa l'asciugamano, me lo scaraventò in faccia e si ritirò sdegnata nel suo piccolo rifugio, un soppalco ingombro di carte e libri.

Dopo circa un anno, io e Clara ci separammo. In compenso, colmai la mia imperdonabile lacuna sul fotografo magiaro. Nella vita, c'è sempre da imparare.

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8



L'incontro con Pino Giuliani e l'impatto con le sue vicissitudini contribuirono a diradare la nebulosità che ancora avvolgeva parzialmente i miei personaggi. Lo so, mi giudicherete cinico. Invece di compiangere le angustie della sua favola triste d'attore mancato, prendevo spunto da quello smacco per attizzare uno sterile e inconcludente cerebralismo. Non c'è rimedio. È più forte di me. Per quanto mi sforzi di osservare le cose così come sono, non posso fare a meno di scorgere dietro di esse suggestioni idonee a stimolare la mia creatività. Ci casco sempre. È una deformazione professionale. Per me, tutto fa brodo.

Secondo una vulgata dura a morire, gli scrittori prima attingono alla realtà e poi stravolgono quanto hanno visto e sentito con una storia intrisa di simbolismi e allegorie. Un classico esempio di questo meccanismo creativo sarebbe rappresentato dai romanzi di Hemingway. Le diverse fasi della sua vita si riflettono, sia pure distorte da opportuni depistaggi e camuffamenti, nell'elaborazione delle trame. La Parigi della generazione perduta confluisce in Fiesta, il primo conflitto mondiale in Addio alle armi, la guerra civile spagnola in Per chi suona la campana e così via. Permettetemi d'esser franco e diretto: questa è una stronzata bell'e buona. Non è possibile che Hemingway (e, come lui, tanti altri grandi della letteratura) abbia conosciuto soltanto individui straordinari o per lo meno abbastanza interessanti da fornire materiale a sufficienza per l'ideazione di creature fantastiche, dal momento che queste figure fuori dell'ordinario non esistono e non esisteranno mai in carne ed ossa. Prendiamo, ad esempio, gli artisti eccelsi che hanno dato lustro al genere umano. Separati dalle loro opere, sono monocordi, scialbi, rozzi e piatti.

Picasso si estraniò da tutti, preso dai propri rovelli pittorici, fino al 1937, quando troverà il suo colore brillante e leggero che reca in sé anche le tracce dei suoi vecchi grigi. Dopo la consacrazione planetaria lavorò sempre come un matto. Se ne stava sempre rinchiuso in uno studio dalla mattina alla sera, alle prese con vernici e pennelli. Fu un grande scopatore, nessuno lo mette in dubbio, ma se è per questo anche il garzone del mio salumiere si dà molto da fare. Secondo fonti attendibili, nel vicolo dov'è ubicata la pizzicheria non c'è una sola ragazza che sia riuscita a sfuggire alla sua bramosia predatrice. Ci sarebbe ben poco da edificare sulle giornate tetragone e monotone del pittore andaluso.

Samuel Beckett, quando non s'ubriacava con i suoi amici irlandesi, biascicava a malapena qualche parola. Dopo che fu baciato dal successo, sfuggì il mondo con un'ostinazione pertinace e patologica. Era schiantato dalla depressione. Sempre più spesso cominciò a rintanarsi in un'orrenda casetta a Ussy. La sua devota Suzanne, che pure lo amava follemente, pian piano decise di non seguirlo più in quel pizzo sperduto sulla Marna. Non doveva esser divertente stargli accanto. In una lettera del 27 novembre 1954, indirizzata a Pamela Mitchell, con la quale aveva avuto una tresca, Beckett scrive: «La parola felicità non ha più nessun senso per me. Tutto quel che voglio è restare nel silenzio». In un'altra lettera del 22 novembre 1957, inviata a Ethna MacCarthy-Leventhal, una sua vecchia fiamma, descrive la sua giornata tipo nell'eremo di Ussy. Se ne sta fermo e immobile, in una quiete interrotta soltanto dal passaggio dei carri zeppi delle ultime bietole. Per il resto, «non più vette, non più abissi, calma piatta». L'immenso Sam, pilastro della narrativa moderna, potrebbe essere oggetto di uno studio psichiatrico ma non di una fantasia letteraria.

Qualcosa mi dice che il povero Kafka (oscuro impiegato con l'hobby della letteratura, la cui opera non avremmo mai conosciuto se l'esecutore testamentario avesse rispettato le sue ultime volontà) camminasse radente i muri, ossessionato da incubi spaventosi e annichilito dall'angoscia di sentirsi straniero non solo tra i cechi ma anche tra i tedeschi, di cui pur condivideva il linguaggio. I suoi libri sono meravigliosi, su questo non ci piove, ma non si poteva certo definire un compagnone o uno zuzzurullone particolarmente spumeggiante.

L'anno scorso vidi un'intervista televisiva rilasciata dal vecchissimo pescatore cubano accreditato come l'alter ego dell'epico Santiago, che lotta impavido contro i pescicani, sorretto dalla forza e profondità delle proprie meditazioni metafisiche. Sinceramente, quel coglione incartapecorito che, serrando tra le labbra un grosso sigaro, sparava cazzate a raffica, mi diede l'impressione che non avesse nulla a che vedere con Santiago, a parte l'attività ittica, peraltro presto abbandonata per assumere le sembianze più comode di un fenomeno da baraccone. E per restare sempre ad Hemingway, è ancora vivido a Parigi il ricordo di quando lo scrittore americano entrò nella libreria di Sylvia Beach e commentando in termini negativi il Finnegans Wake disse che non bisognava essere troppo duri col vecchio Joyce perché l' Ulisse l'aveva stancato. Neanche la più pettegola ed invidiosa delle servette a mezzo servizio potrebbe eguagliare con la medesima grossolanità la bassezza d'animo di un buffone talmente accecato dalla supponenza da non rendersi conto d'essere soltanto una caccola rispetto al narratore irriso.

Avrei potuto allungare questa rassegna con molti altri esempi, ma l'impresa sarebbe stata pleonastica. Ormai, ero convinto che le celebrità, fatta la tara della loro peculiare valentia, fossero soltanto delle merde, o, per essere meno prosaici, delle rape da cui non si può cavar sangue. Borges, in una conversazione con Osvaldo Ferrali, dichiarò che quand'era giovane voleva essere Raskòl'nikov o Amleto, ma poi si era rassegnato alla sua condizione di uomo poco interessante e alquanto insipido.

Se i protagonisti di spicco del globo terraqueo vestivano questi panni, figuriamoci quale imbeccata potevano darmi quei tanti poveri diavoli che campavano alla meglio, lontano dai riflettori della gloria e dalle scansioni epocali della storia. Era facile arrivare ad una conclusione abbastanza evidente: non c'erano in giro modelli che potessero ispirare il lavoro sia di un grande autore sia di un umile artigiano della penna. Non ero stato il primo a pensarla così. Altri mi avevano battuto sul tempo. Per esempio, Nathan Zuckerman, uno che in materia di tecniche narrative la sapeva lunga. Egli sosteneva che dal punto di vista di uno scrittore le persone non hanno i crismi di personaggi letterari. Si può fare ben poco con le loro storie e dopo la prima impressione non servono a un tubo. L'originalità non contraddistingue né il romanziere stesso, né i suoi parenti, amici e conoscenti.

E Pino Giuliani, per tornare al punto da cui sono partito, ne era una conferma lampante. Non soltanto lui, per la verità. Anche Francesco Kivel Mazuy e tutti gli altri che avevano fatto una capatina nel suo microcosmo.

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Nel frattempo, il mio umore, già pessimo, divenne addirittura bilioso quando il direttore mi diede un incarico indecente, che rese più intollerabile del solito la mia abietta attività. Mancavano pochi giorni al primo anniversario dell'attentato alle torri gemelle di New York. Tutti i mezzi d'informazione si stavano preparando a ricordare l'evento. L'orgia retorica sarebbe stata propinata con un fiume di parole ed un bombardamento d'immagini televisive. La ferita arrecata dall'inaudito atto terroristico era fresca e l'impressione ancora viva. Non si era trattato della solita bomba che dissemina arti spappolati sulla strada. Un paio di aerei che vanno a schiantarsi contro due colossi d'acciaio, provocandone rapidamente il crollo, non poteva considerarsi un avvenimento ordinario. Il Male aveva manifestato la sua genialità con effetti speciali così strabilianti da turbare persino un pubblico dallo stomaco forte, abituato a visioni raccapriccianti. Com'era scontato, anche la nostra redazione si stava preparando a far echeggiare la propria piccola voce nel coro assordante delle chiacchiere. Ora, secondo voi, quell'imbecille del mio direttore, nel fervore di preparativi messi a punto con il medesimo dilettantismo che informa la preparazione di un giornalino scolastico, quale incombenza pensa di affidarmi? Un'analisi approfondita dei rapporti tra l'Occidente e l'estremismo islamico? Una disamina delle cause che avevano determinato lo sconvolgimento dei vecchi scenari geopolitici? No, neanche per sogno. Non ero mica una grande firma che poteva permettersi il lusso di mettere per iscritto qualunque stronzata gli passasse per la testa. Io ero un manovale ed il mio compito doveva essere adeguato alla qualifica. Avrei dovuto interpellare i nomi più illustri della cultura cittadina per porre la seguente domanda: lei al momento dell'attentato dove si trovava e cosa pensò a caldo di quell'immane tragedia? Per un attimo, ebbi la tentazione di mandare al diavolo il direttore. Neanche la mente più fervida avrebbe potuto immaginare una scemenza di simili proporzioni. Poi, dopo aver contato fino a dieci, gli chiesi di affidare il servizio ad un altro redattore più giovane, ma lui fu irremovibile. Soltanto io avevo l'esperienza necessaria per fare un lavoro coi fiocchi. Non si fidava degli altri.

Ero senza casa, i miei benedetti personaggi non quagliavano ed ero appena reduce da una separazione che, sebbene non amassi più Clara, mi aveva pur sempre buttato giù, poiché la nostra non era stata una storiella passeggera. Venti anni insieme, pur con tutti i loro bassi, non si cancellano dall'oggi al domani. Ed io, in questa situazione non certo rosea, dovevo acciuffare degli idioti per sentire ovvietà vomitevoli oppure fandonie dettate dal buon gusto, perché mai avrebbero potuto dire, ammesso che la loro memoria non perdesse colpi, che in quel fatidico frangente stavano defecando, scopando l'amante o pulendosi il naso con le dita. Ero ancora seduto dinanzi al direttore, quando il mio cuore cominciò a sobbalzare in modo pauroso. Mi spaventai terribilmente. Temetti che stessi per avere lì per li un infarto fulminante. Mi portai le mani al petto. Il sudore scendeva copioso dalla mia fronte. Il direttore, allarmato dalla mia espressione dolorante, mi fece portare subito un bicchier d'acqua. Intorno a me si accalcarono molti colleghi. Qualcuno gridava "aprite la finestra, porca miseria", qualcun altro urlava agli altri di non starmi addosso, perché in questo modo mi toglievano l'aria, una giovane volontaria mi sventagliava con una vecchia copia del giornale. Dopo una decina di minuti, il mio battito cardiaco tornò ad esser normale. Ringraziai i colleghi per la loro premura. Schermendosi, uscirono alla spicciolata dallo studio del direttore. Questi m'invitò a consultare un medico. Strizzando l'occhio, mi pregò di non combinare scherzi. Io ero una colonna del giornale. Senza di me, si sarebbe trovato in grosse difficoltà. Feci le corna e quell'uccello di malaugurio, ridendo, sottolineò l'inutilità del mio gesto apotropaico. Lui portava bene come un gobbo. Potevo chiedere in giro, se non ci credevo.

E lei dov'era quel giorno Professor Cacciatore e quale fu il primo pensiero che ebbe dopo aver appreso la notizia? Mi accingevo ad entrare nell'ufficio del Rettore, per discutere col Magnifico ed il Ministro degli effetti della recente riforma universitaria, quando l'usciere mi comunicò sconvolto che c'era stata quella catastrofe ed io, immediatamente, mi resi conto che il mondo non sarebbe più stato uguale a prima. E lei, avvocato Garofalo? Compulsavo, distrutto dalla fatica, i voluminosi incartamenti di un processo, e, superato l'iniziale choc determinato dal ferale annunzio, capii che i nostri parametri di giudizio non potevano più essere gli stessi. E lei (mio Dio, ancora lui, quel pervertito d'un regista) Antonio Molfesi? Stavo facendo un bagno a Capri, vicino ai Faraglioni, per vedere se potevo sfruttare quel luogo meraviglioso come location del mio prossimo film, quando un gruppo d'amici mi si avvicinò a bordo di uno yacht per informarmi su quanto era successo ed io chiesi loro di gettarmi una maschera e feci una lunga immersione, affinché la mia anima straziata trovasse conforto nel silenzio incantato e nella variopinta flora degli abissi marini. Osservando le malcelate incertezze e ascoltando il tono esitante della voce, compresi che gli intervistati, di là dalla cortina fumogena delle risposte ufficiali, non si ricordavano nulla di quel giorno e che la prima reazione fu d'averla scansata, di non trovarsi lassù, nelle trappole svettanti nel cielo, insieme a quei poveri disperati che preferirono lanciarsi nel vuoto piuttosto che finire arrostiti dalle fiamme.

Quando l'anniversario si concluse in bellezza con un dibattito televisivo protratto fino alle due del mattino sulla principale rete di Stato, incamerai un'altra certezza molto utile ad inquadrare ancor meglio i miei personaggi. Qualche volta la realtà, per quanto noiosa possa essere, è in grado di riservare sorprendenti spunti di riflessione. Tutti i commentatori, i cosiddetti uomini della strada, i governanti e gli esponenti politici di spicco avevano ripetuto all'unisono un concetto di una banalità sconcertante: l'evento era stato talmente eccezionale, inimmaginabile, che da qual momento in poi la storia futura dell'umanità non sarebbe stata più la stessa. Questo sottintendeva che in passato non si fossero mai verificate stragi paragonabili per efferatezza all'attentato realizzato nel cuore della Grande Mela. Io la pensavo esattamente all'opposto, tanto per non cambiare. L'oblio distingueva ormai i nostri tempi e l'assenza di memoria storica era negativa non perché fossero venuti meno gli ammaestramenti per l'avvenire, dal momento che la storia non è magistra vitae e la credenza nel nesso causale è mera superstizione (per dirla con Wittgenstein), ma perché l'ignoranza del passato tendeva ad ingigantire presunte novità che in fondo altro non erano che repliche in scala superiore di episodi pregressi. Essere informati che qualcosa, anche l'accadimento in apparenza più clamoroso, è già accaduto, favoriva un esame razionale e ponderato dei fatti ed evitava il pericolo di contraccolpi emotivi. Naturalmente, questa consapevolezza non avrebbe mutato il corso storico o lenito l'orrore e lo sgomento, ma avrebbe almeno impedito il frignio delle comari ciarliere, e questo sarebbe stato un effetto di non poco conto. Nei secoli andati (anche prima che Cristoforo Colombo venisse alla luce e i coloni inglesi s'insediassero nella terra dove la felicità sarebbe stata il primo comandamento politico) la guerra santa islamica negli avamposti estremi del Mediterraneo si manifestava all'improvviso, senza minacciosi preavvisi, e con micidiali scorribande sulle coste. Le cronache del sedicesimo secolo attestano che nel Regno di Napoli le incursioni delle bande islamiche causavano ogni anno trentamila morti. Altre migliaia di persone cadevano prigioniere nelle mani dei seguaci di Maometto ed erano vendute come schiavi nei mercati nordafricani, facendo la fine che si può immaginare. Questo stato di continuo pericolo durò fino all'Ottocento. Il calcolo delle vittime, a partire dal Medioevo, è spaventoso. Dopo ci fu un'inversione di tendenza. Gli europei si presero la rivincita con un colonialismo famelico e brutale. La nazione che sbandierava il valore storico del suo Code Napoléon calpestò i principi della propria civiltà giuridica, torturando a morte gli indipendentisti algerini. Nasser nazionalizzò il canale di Suez e per un soffio non esplose la terza guerra mondiale. Il contrasto religioso, politico, economico tra il mondo cristiano e islamico è una delle principali costanti della storia moderna e il jihad non ha ancora perso il suo richiamo fascinoso perché la cultura araba, pur avendo dato al cattolicesimo frutti meravigliosi, non conobbe qualcosa di simile alla rivoluzione scientifica del diciassettesimo secolo, che pose fine a qualsiasi aspirazione teocratica. Il terzetto d'attacco formato da Bacone, Galileo e Cartesio scombussolò le carte, costringendo i baciapile a tramare nell'ombra, senza poter più mettere il becco nelle questioni secolari e nella lettura del gran libro della natura, composto non più di lettere ma di numeri e figure geometriche. Come si vede, nulla di nuovo sotto il cielo. Cambia solo la tecnologia. Ieri, navi leggere e veloci, oggi aerei dirottati e scagliati come siluri contro l'epicentro nevralgico del ricco ed infedele emisfero occidentale.

Ritenevo che una rinfrescatina storica non avrebbe guastato. C'erano in giro troppi Pangloss, che creavano la falsa illusione secondo cui le repentine esplosioni di barbarie fossero, tutto sommato, delle anomalie nella civiltà delle buone maniere, dove da sempre regna la pace, la tolleranza ed il rispetto per il prossimo. Il mondo era sempre stato un concentrato di merda, abitato da pazzi assetati di sangue e da manigoldi che equiparano la vita ad un soldo bucato. Questa era la verità. I miei personaggi, in qualche modo, non sapevo ancora come, avrebbero dovuto percorrere un lungo pezzo di storia. Le loro vicende personali non sarebbero mai state disgiunte dai disastri collettivi. Lo spettacolo sarebbe stato istruttivo. Se qualcuno di fronte ad un accidente presentato come un caso eclatante avesse smesso di stupirsi una buona volta per tutte, sarei stato contento. Avrei dato il mio piccolo contributo alla razionalizzazione delle paure immotivate, delle angosce primordiali. Incredibile a dirsi, ma nella nostra società moderna, che si vantava di dominare la natura con una spregiudicata epistemologia, il primitivismo resisteva con tenacia, rivestendosi con cangianti sembianze totemiche.

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Pino si accarezzò la fronte e saltò di palo in frasca, impedendomi di approfondire l'argomento.

«Qualche giorno fa, in ufficio, ho pensato ad un possibile tema del tuo prossimo libro», disse. «Certo, è ambizioso, talmente impegnativo da far tremare le vene ai polsi, però ti consentirebbe di tessere una trama grandiosa e notabile. Il tradimento».

«Il tradimento?».

«Già. È un tema che mi ha sempre affascinato. L'intera storia dell'umanità, dai primordi ai giorni nostri, è corrosa dal tradimento. Si parte da Adamo e si arriva al palestinese che collabora col Mossad. Dalla culla alla tomba, ognuno di noi tradisce ed è vittima di tradimenti. L'uomo è marcio perché incapace di osservare il comandamento della lealtà. Tutto il Novecento rappresenta l'apoteosi del tradimento e non a caso è stato il periodo più sanguinario che si ricordi. Ecco, tu potresti tracciare un profilo epico del ventesimo secolo secondo la prospettiva del tradimento, impastando vite private e tragedie sociali e politiche. Così come la Bibbia è sostanzialmente un testo sul tradimento, così il tuo libro potrebbe essere la versione laica dello stesso tema, isolato in un frammento temporale che non teme confronti col passato per quel che concerne l'abiezione e la ferocia».

«È un'idea interessante, ma non credo di essere così bravo da poter realizzare questo progetto».

«Io al tuo posto ci proverei».

«Mi sopravvaluti, Pino».

«Può darsi, ma la tua tenacia mi lascia ben sperare. Trovami in giro un altro folle come te che, a cinquantacinque anni suonati, si ostina a scrivere romanzi senza poter vantare al suo attivo la pubblicazione di un solo rigo. Tu sei picchiato e questo è il miglior viatico per un'impresa così ostica».

«Non penso di potercela fare».

«Ce la puoi fare invece. Ne sono sicuro».

«Va' a finire che m'impantano».

«Non accadrà. Non mi avevi detto che i tuoi personaggi dovrebbero essere dei figli di puttana mostruosi? Una sorta di bestie perverse?».

«Sì».

«E allora quale migliore tema per questi mascalzoni se non il tradimento? È perfetto. Gli calza a pennello. Hai voglia di sbizzarrirti. Fa' di loro dei traditori e mettili in azione».

«Mah! Non so che dire. Dimmi un po', così, giusto per capire meglio, tu da quale periodo partiresti?».

«Dalla Grande Guerra, certamente. Quella carneficina segna l'inizio di una discesa verso gl'inferi che non conoscerà più soste. Ho davanti ai miei occhi l'attacco. La storia ha inizio con un bambino che viene alla luce in casa, come si usava un tempo, quando suo padre combatte sul fronte, pieno di rancore, come tutti gli altri commilitoni, per un'Italia estranea alla guerra, dove ci si diverte nei caffè e tabarins, dove circolano luridi imboscati e pescicani che s'arricchiscono con le frodi delle forniture militari, dove i negozi di lusso non riescono ad esaudire le richieste di spendaccioni rammolliti. Emette il suo primo vagito in una notte di tempesta, proprio nello stesso istante in cui suo padre marcisce in una trincea e si brucia lo stomaco portando più volte alle labbra una borraccia contenente del cognac schifoso».

«Dì la verità Pino, da quanto tempo questa storia ti frulla per la testa?».

«Da quindici anni».

«E perché non l'hai scritta?».

«Te l'ho già detto. Non ho stoffa».

«Quando dovrebbe concludersi l'intera faccenda?».

«Anni settanta e ottanta, nel clima torbido del terrorismo e della massima corruzione politica, ma, volendo, puoi spingerti anche oltre, facendo entrare in scena altri personaggi».

«Sceglieresti la prima o la terza persona?».

«Adesso mi chiedi troppo. Questi sono problemi di struttura che ignoro del tutto».

«Ti do un cazzotto sul naso se non mi rispondi subito».

«È indifferente. Va bene così?».

«E dove dovrebbe essere ambientata l'azione?».

«Ma guarda che domanda! Sei tu lo scrittore, non io».

«Vuoi rispondere sì o no?».

«Ovunque il tradimento si manifesti con particolare evidenza».

«Per esempio?».

«Ma che ne so, dove ti pare».

«Quindi, anche all'estero?».

«Se occorre, sì».

«Dovrei leggere e rileggere parecchie monografie storiche, non trovi?».

«Perché?».

«Non vorrei incorrere in qualche errore marchiano».

«Fammi un piacere, prendi l'acribia, buttala nel cesso e tira lo scarico».

«Che significa?».

«L'immaginazione è molto più efficace della conoscenza. È sufficiente aver presente i dati generali, ma questi tu li possiedi già. Se adotti il registro di un realismo fedele ai fatti e possibilmente vicino alla verità storica, sei bell'e fottuto. La memoria umana fa acqua da tutte le parti. Una situazione accaduta non potrà mai essere restituita. Se domani uno di noi due racconterà a qualcun altro questo nostro colloquio, farà un resoconto zeppo d'omissioni ingiustificate e di sottolineature indebite, insomma, verrà fuori tutta un' altra storia».

«Dov'è lo zucchero?».

«Lascia stare. Lo prendo io».

Pino si alzò e apri un'anta sopra il frigorifero. Ficcò la mano dentro e tirò fuori una zuccheriera, che pose sul tavolo. Mi squadrò a lungo prima di dire: «Ce la devi fare. Ora o mai più».

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Il postino, in sella alla bicicletta, attraversò la piccola piazza di Càmpora e prese il sentiero per San Lazzaro, delimitato da grandi querce. Il vento gelido che da più di tre giorni soffiava sull'altopiano gli entrò nelle ossa, facendolo tremare dalla testa ai piedi. Gli alberi stormivano e la ruota anteriore fendeva numerosi vortici di foglie secche. L'inverno era arrivato all'improvviso, dopo un autunno particolarmente mite. Il postino oltrepassò una chiesa e discese fino alla Punta, dove si concesse una sosta. Era stanco. Quella mattina aveva fatto molte consegne e sentiva il bisogno di riposarsi per qualche minuto. Poggiò la bicicletta sulla staccionata, mise a terra la borsa e accese una sigaretta. Il suo sguardo spaziò sull'orizzonte limpido, dai Faraglioni ai monti del Cilento. Il mare era mosso, punteggiato dal biancore della schiuma. Si sentiva triste e malinconico, senza sapere il perché. Tirò le boccate, cercando di respingere la mestizia dalla sua mente. Schiacciò col piede la cicca e si rimise in sella, allietato dall'idea che di lì a poco avrebbe assaporato il tepore della sua cucina e la pasta e fagioli con la cotica preparata a dovere da sua moglie. Con poche vigorose pedalate guadagnò la discesa e dopo qualche curva giunse ad una misera casupola di laterizi non intonacati. Nell'aia c'era Tonino, un marmocchio di otto anni, che inseguiva le galline. Il postino, senza scendere dalla bicicletta, lo salutò e Tonino gli rispose con un cenno della mano. Estrasse dalla borsa una cartolina precetto e suonò il campanello fissato sul manubrio. Filomena comparve sull'uscio, asciugandosi le mani con uno strofinaccio.

«Buon giorno, Domenico», disse, avvicinandosi alla bicicletta.

«Buon giorno. C'è Pasqualino? Ho una lettera per lui», annunziò il portalettere, sottacendo il sinistro contenuto della burocratica comunicazione.

«Sta mungendo le vacche».

«Allora gliela darai tu».

Il postino le porse la cartolina.

«Vi posso offrire un bicchiere di vino?», domandò Filomena.

«No, grazie. Non mi posso trattenere. Devo andare a Pianillo. Magari un'altra volta, volentieri. Salutami Pasqualino».

«Va bene».

Filomena attese che il postino si allontanasse prima di rientrare in casa. Depose la cartolina sulla credenza della cucina e riprese a pulire i broccoli. Tonino continuava a tallonare le galline.

All'imbrunire, dopo una dura giornata di lavoro, Pasqualino si sedette a tavola, addentò un pezzo di pane e lesse la cartolina precetto, mentre Filomena versava nei piatti la zuppa di broccoli e lenticchie e Tonino guardava incantato i ceppi che ardevano nel camino.

Pasqualino non riuscì a mandar giù il boccone. Era stato congedato due anni prima e adesso lo richiamavano alle armi, per spedirlo al fronte, come tanti altri poveri disgraziati. Doveva presentarsi al distretto militare di Capua dopo tre giorni. Lasciò cadere sul tavolo la cartolina. Filomena gli portò il piatto, ma lui si alzò ed uscì. Aveva le gambe molli e respirava a fatica. Fece qualche passo e scaricò la sua rabbia sferrando un calcio contro il tronco di un fico. Non voleva abbandonare la sua famiglia. Lui non c'entrava nulla con le decisioni prese da quei figli di puttana che stavano a Roma. Perché non andavano loro a combattere contro gli austriaci? Filomena, seguita da Tonino, gli si avvicinò.

«Che c'è?», chiese.

«Devo andare in guerra», rispose.

Filomena restò per un attimo in silenzio. Poi, l'abbracciò ed entrambi scoppiarono in lacrime. Tonino, turbato da quella scena, corse nella sua stanza e si rannicchiò sul letto, col capo chino, fissando un punto della coperta.

Pasqualino si coricò senza toccare cibo. Non riusciva a prender sonno. Rimuginava al buio pensieri cupi e angosciosi. Era convinto che ben presto sarebbe crepato. Soltanto un prodigio avrebbe potuto salvarlo, ma lui non credeva più ai miracoli, da quando sua madre, due anni prima, straziata dai dolori alla pancia che il dottore non riusciva a placare, si lanciò dalla Punta, sfracellandosi sulle rocce. Dava per scontato che ci avrebbe rimesso le penne sul campo di battaglia e l'ineluttabilità di questa premessa lasciava prevedere un futuro penoso per i suoi cari. Filomena sarebbe stata una vedova inconsolabile. Probabilmente, se la sarebbe cavata con gli animali, l'orto e il limoneto perché era giovane e forte, ma la solitudine l'avrebbe immalinconita, rendendo le sue serate lunghe e insopportabili. E che dire del povero Tonino? Sarebbe venuto su senza padre, e questa doveva considerarsi una iattura, dal momento che gli sarebbe mancata una guida indispensabile per schivare le insidie e le trappole dell'esistenza. Filomena e Tonino sarebbero rimasti soli, senza un cane che potesse aiutarli a superare qualche improvvisa difficoltà. Non sempre tutto filava liscio. Spesso, la natura faceva brutti scherzi. Bastava una gelata o una malattia delle bestie per ritrovarsi nei guai. E se ciò fosse accaduto, sarebbe riuscita a sfangarsela Filomena? Gli unici parenti rimasti in vita, suo fratello Gennaro ed il cognato Vincenzo, si erano trasferiti in America a cercar fortuna. Non stavano dietro l'angolo. Certo, non avevano perso i contatti, di tanto in tanto si scrivevano e di sicuro loro due avrebbero fatto il possibile per dare una mano a Filomena, ma da quel che aveva arguito dalle loro lettere non se la passavano troppo bene. Dicevano che a New York la vita era molto più dura di quanto si fossero aspettati. Non si poteva contare su di loro, almeno fino a quando non fossero riusciti a farsi una posizione. Comunque, per quanto misero fosse il loro stato, stavano sempre meglio di lui, perché per lo meno non dovevano andare al macello. Aveva sentito dire che dopo lo scoppio della guerra anche gli emigrati ricevevano la chiamata alle armi, ma se uno si trovava a migliaia di chilometri di distanza poteva anche sbattersene dell'autorità. I carabinieri non andavano a New York per prendere i renitenti alla leva e poi scaraventarli in prima linea, ammesso che potessero trovarli in un paese straniero così grande. Se fosse partito anche lui per l'America, a quest'ora sarebbe stato più felice. Forse, laggiù, non era tutto rose e fiori come si decantava, ma almeno lui avrebbe conservato la sua pellaccia, senza schiattare per una patria che non gli era mai stata a cuore. Lui conosceva soltanto il bar della piazza, la scoscesa bastionata a terrazze, i gradini scavati nella roccia che conducevano al mare, la stalla dove teneva le vacche e i maiali. Questo era il suo mondo, al di fuori del quale c'erano soltanto forestieri che parlavano una lingua di difficile comprensione. Quando, in tempo di pace, aveva fatto il servizio militare a venti chilometri da Torino, sotto il monte San Giorgio, capiva a fatica quello che gli dicevano i superiori e i compagni di brigata. La babele dei dialetti gli faceva venire un gran mal di testa. Non era incuriosito dal paesaggio circostante. La sera non usciva mai dalla caserma. Si distendeva sulla branda, afflitto dalla nostalgia di Filomena e Tonino, contando i giorni che lo separavano dal congedo. Che diavolo volevano da lui? Fosse stato solo, al limite avrebbe potuto accettare il sacrificio, ma aveva una moglie ed un figlio. Chi avrebbe pensato a loro dopo la sua morte? Lo Stato italiano? Macché! Quello era buono soltanto a succhiare il sangue dei contadini.

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