Copertina
Autore Gianni Canova
CoautoreMarco Toscano, Vincenzo Buccheri, Riccardo Caccia, Roy Menarini, Luisella Farinotti, Ivan Moliterni
Titolo Robert Zameckis
EdizioneMarsilio, Venezia, 2008, Elementi , pag. 140, ill., cop.fle., dim. 13,5x18,5x0,9 cm , Isbn 978-88-317-9394-0
CuratoreGianni Canova
LettoreElisabetta Cavalli, 2008
Classe cinema
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Indice


  7 Il cinema di Robert Zemeckis.
    Per un'immagine ibrida e meticcia
    di Gianni Canova

 25 Chi ha incastrato Roger Rabbit
    di Marco Toscano

 47 Ritorno al futuro
    di Vincenzo Buccheri

 63 Forrest Gump
    di Riccardo Caccia

 79 Cast Away
    di Roy Menarini

 97 Le verità nascoste
    di Luisella Farinotti

111 Note al testo

123 Biografia
    a cura di Ivan Moliterni

127 Filmografia
    a cura di Ivan Moliterni

137 Bibliografia


 

 

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Pagina 7

Il cinema di Robert Zemeckis.

Per un'immagine ibrida e meticcia

di Gianni Canova


Robert Zemeckis, forse, non è un autore. Non lo è, verrebbe da dire, perché il suo lavoro di cineasta non rientra nei canoni dell'autorialità messi a punto dalla critica e dalla teoria del cinema almeno a partire dai tempi in cui i giovani turchi dei «Cahiers du cinéma» teorizzavano la cosiddetta politique des auteurs. Ma in modo analogo, in secondo luogo, Zemeckis risulta complessivamente estraneo anche a quelle nuove forme di autorialità debole e mediatica che si sono andate delineando all'interno del cinema postmoderno: non si può dire di lui che sia un' auctoritas, come possono esserlo, ad esempio, David Lynch o David Cronenberg; ma non è neppure un brand, come il suo amico e sodale Steven Spielberg; e non è neanche un narciso che galleggi sui flutti della comunicazione mediatica, diventando «il personaggio di una delle tante narrazioni che il cinema può raccontare», come sono — almeno in parte — tanto Lars von Trier quanto Nanni Moretti o Quentin Tarantino. Zemeckis, ancora, non è un autore perché anche in sede critica stenta ad affermarsi l'idea che lo sia: la maggior parte dei critici e dei recensori ostenta anzi, nei suoi confronti, un sussiego spesso venato di diffidenza, e il successo commerciale di molti suoi film, assieme ai numerosi riconoscimenti ricevuti dall'establishment hollywoodiano (si pensi anche solo ai sei Oscar andati a Forrest Gump, 1994), non facilitano la sua canonizzazione presso gli adepti del culto esoterico della cinefilia. La bibliografia che lo riguarda, non a caso, è tuttora relativamente esigua: a fronte dell'interesse suscitato dai suoi film e documentato da una mole significativa di interventi e recensioni, risultano invece limitati e spesso scarsamente significativi i contributi e gli studi che prendono in esame il complesso della sua opera, come avviene invece per altri "autori" riconosciuti, sia classici che moderni o postmoderni. E tuttavia, paradossalmente, Robert Zemeckis risulta interessante proprio per questo: se è vero che nel campo degli studi cinematografici – come denunciava Leonardo Quaresima già più di dieci anni fa – si assiste a un'ingiustificata e tenace persistenza della nozione di autore, «malgrado le trasformazioni radicali di questi ultimi anni, che hanno portato a un "oggetto cinema" totalmente nuovo e diverso rispetto a quello del passato», Zemeckis sembra sottrarsi in modo deciso a questa tendenza. Come se il suo lavoro di cineasta fosse costruito in modo tale da impedire o – quanto meno – da sconsigliare la reiterata applicazione della categoria dell'autorialità. Come se il suo cinema non tollerasse e anzi respingesse l'arretratezza dello stato dei "discorsi sul cinema", e svelasse la scarsa produttività di un approccio che continua a usare una strumentazione obsoleta anche di fronte a dispositivi filmici, linguistici e tecnologici che non hanno quasi più nulla a che vedere con quelli su cui tale strumentazione si è a suo tempo formata.

Zemeckis, insomma, risulta interessante per la resistenza che oppone alla possibilità di essere assunto dentro le vecchie categorie dell'istituzione critica: benché nei suoi film siano ravvisabili uno stile, un'estetica e forse finanche una poetica, c'è qualcosa nel suo cinema – nei suoi modi di produzione, nei suoi statuti comunicativi, nel legame che intrattiene con l'immaginario collettivo – che impedisce (o sconsiglia) di riconoscere a chi ne è "regista" lo statuto di "autore". Lo stesso Zemeckis, non a caso, da un certo momento in poi espunge il suo nome dai titoli di testa di tutti i suoi film, rinunciando in modo esplicito e quasi ostentato – come nota Luisella Farinotti nel saggio contenuto in questo volume – a rivendicare la propria paternità autoriale sulle singole opere e delegando casomai al logo della casa di produzione il compito di "marcare la soglia" e di firmare il film.

La ragione di questa refrattarietà, o di questa inassimilabilità, è probabilmente duplice. Da un lato, nel cinema di Zemeckis si rivela, quasi epifanicamente, quell'idea di «intelligenza distribuita e cooperativa», quell'approccio collaborativo che moltiplica le entità creatrici e si avvale delle possibilità offerte di volta in volta dalla tecnologia per mettere a punto nuovi modi di produzione dell'immagine artificiale che finiscono per decostruire (o per rendere impraticabile) la nozione tradizionale di autorialità. Dall'altro lato, nel suo rendersi generosamente disponibile alle ragioni e alle esigenze mutevoli dell'industria culturale in una fase di vorticosa trasformazione, nel suo lavorare deliberatamente sui generi nella fase della loro deriva, nel suo essere sempre dentro l'industria ma mai banalmente al suo servizio, Zemeckis si differenzia tuttavia anche da quegli alfieri della neo-spettacolarità hollywoodiana che come lui lavorano con grandi budget e su progetti kolossal (Jan De Bont, Paul Verhoeven, Michael Bay, lo stesso James Cameron) per la radicalità con cui non rinuncia a fare di ogni film un'operazione a suo modo sperimentale, volta a spingere il cinema fino al suo limite estremo, a sottoporre a verifica le sue categorie fondative (il tempo, lo spazio, il personaggio) e a mettere a punto nuove modalità di costruzione del visibile. Il tutto operando però non per via ideologica o estetica (se così fosse, probabilmente, sarebbe già stato accolto con tutti gli onori nel club degli Autori), ma per via tecnologica. Ed è proprio il suo rapporto privilegiato ed esclusivo con la tecnologia che non solo denuncia una volta per tutte il retroterra tardo-romantico e vetero-umanistico su cui si fondano, ancora oggi, molte delle più diffuse e celebrate teorie dell'autorialità, ma che offre anche una possibile chiave, empirica ed euristica, per provare a definire il nuovo tipo di operatività – al contempo spettacolare e sperimentale – che i film di Zemeckis cercano di attuare.

Di fatto, Zemeckis si muove nell'industria hollywoodiana dello spettacolo secondo un progetto volto a mettere a punto, attraverso una sperimentazione prima di tutto tecnologica, una ridefinizione dello statuto dell'immagine filmica che vada nella direzione del meticciato e dell'ibridazione. Questa sperimentazione viene agita a più livelli: materico, scopico, diegetico, iconico, intertestuale. Vediamo di esaminare più analiticamente, ricorrendo di volta in volta agli esempi più opportuni, i vari livelli su cui si articola questa plurima e pervasiva tensione all'ibridismo che percorre e sostanzia i film realizzati da Robert Zemeckis, determinando la loro peculiare e inconfondibile ossimoricità.

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Pagina 47

Ritorno al futuro

di Vincenzo Buccheri


1. UNA TRILOGIA

Back to the Future (Ritorno al futuro, 1985), con i due sequels Back to the Future Part II (Ritorno al futuro parte II, 1989) e Back to the Future Part III (Ritorno al futuro parte III, 1990), forma una delle saghe più celebri della storia del cinema. Prodotta da Steven Spielberg, scritta dallo stesso Zemeckis con il cosceneggiatore di fiducia Bob Gale, è la storia dei folli viaggi nel tempo compiuti dal teenager americano Marty McFly (Michael J. Fox, all'epoca star della sit-com televisiva Family Ties - Casa Keaton), in compagnia di un bizzarro mad scientist, Emmett "Doc" Brown (Christopher Lloyd), inventore di una macchina del tempo ricavata da un'auto DeLorean ("Emmett" deriva dalla parola "time" letta al contrario). Nel corso dei tre episodi, i protagonisti si trovano a dover risolvere diversi problemi per evitare che si verifichino pericolosi paradossi temporali: il mancato congiungimento dei genitori (primo episodio), la morte del padre (secondo episodio), la morte di Doc (terzo episodio).


2. UN'ESTETICA POSTMODERNA

La trilogia di Zemeckis, mix di fantasy e di commedia, si iscrive in un'estetica che, dando per scontata una definizione da problematizzare, si potrebbe chiamare postmodernista. Tutto, nel film, è operazione di secondo grado, che si sostanzia di cinema, di mass culture e di un'ideologia del passato come spazio mitico dell'euforia e dell'innocenza perduta. Ecco per sommi capi i caratteri di questa estetica:

a. l'effetto-nostalgia (che il teorico Jameson indica come uno dei tratti primari della sensibilità postmoderna): gli anni cinquanta sono rappresentati con affetto e ironia come luogo originario del sogno americano middle-class, tra villette unifamiliari, televisori che trasmettono le prime serie televisive (The Honeymooners), balli del liceo, auto d'epoca, canzoni di Patti Page e Nat King Cole;

b. il gioco con i prodotti del mercato e dell'immaginario pop, a cavallo tra anacronismo comico, product placement e una poetica degli oggetti da romanzo di Bret Easton Ellis, che porta a un'identificazione tra personaggi e oggetti di consumo ("siamo ciò che acquistiamo"), versione, appunto, euforica della reificazione consumistica. Tutto, nella trilogia, è rassegna di marche, marchi, prodotti glamour, a partire dal nome, Calvin Klein, che la Lorraine del 1955 affibbia a Marty per averlo letto sulla sua biancheria intima (nel doppiaggio italiano diventa Levi Strauss perché il marchio CK negli anni ottanta non era abbastanza conosciuto fuori dagli Usa), per finire con il videogioco Wild Gunman che nel terzo episodio servirà a fare di Marty un provetto pistolero. E poi Pepsi, Nike (nel terzo episodio si crede sia una parola in dialetto indiano!), Mattel, Pizza Hut, Black & Decker, AT&T, il frisbee, la break dance che Marty balla nel saloon ecc.;

c. l'(auto)citazionismo cinematografico: Marty che nella Hill Valley del 2015 vede l'ologramma pubblicitario di Jaws 19 (Lo squalo 19), diretto da Max Spielberg [ill. 1], o il travestimento da Darth Vader per spaventare George McFly, o il mitico monologo allo specchio («You're talking to me?») da Taxi Driver di Scorsese, o Per un pugno di dollari mostrato nel secondo episodio e stracitato nel terzo (dal dolly che si alza sulla Hill Valley del Far West al nome che Marty si attribuisce – Clint Eastwood –, all'espediente della piastra metallica sotto il poncho per proteggersi dalle pallottole);

d. la presenza di una sorta di ipertestualità: quello di Ritorno al futuro è un racconto "forte" (si veda la strutturazione in tre atti nelle sinossi del paragrafo precedente) che subisce un sovradimensionamento, una iper-ramificazione. Tra i film della trilogia si instaura una rete di richiami, citazioni, riferimenti incrociati che li rende interdipendenti (impossibile capire il terzo episodio senza aver visto gli altri due...) e che per una corretta fruizione fa appello alla conoscenza enciclopedica dello spettatore;

e. il carattere "plastico" della messa in scena, con inquadrature che, dal décor alle posture degli attori (le smorfie di Biff, gli occhi strabuzzanti di Doc [ill. 2], hanno un taglio da fumetto, e personaggi che, come in un racconto di Coover, possiedono la consistenza del cartoon (poetica che Zemeckis condivide con il primo Spielberg, e che sfocerà in Who Framed Roger Rabbit, Chi ha incastrato Roger Rabbit, 1988);

f. un'esplicitazione dei nodi concettuali (ad esempio il tema del futuro, del destino e dell'autodeterminazione), che invece di agire nel sottotesto del film, come sensi impliciti da inferire attraverso l'analisi, diventano presenze esplicite, quasi "personaggi" del racconto, come in una riedizione della pratica dell' allegoria (anche questa tipicamente postmoderna: si pensi ai mille simboli del tempo che punteggiano le immagini e i dialoghi – gli orologi di Doc che rintoccano nella prima sequenza, la fissazione del preside Strickland per la puntualità, la torre dell'orologio che torna in tutti gli episodi ecc.);

g. un effetto di "spazializzazione" del tempo, che sempre secondo Jameson costituisce uno dei tratti principali dell'episteme postmoderna. In Ritorno al futuro non solo si viaggia nel tempo con frenesia, eccitazione, per scoprire che – paradossalmente – non si ha mai abbastanza tempo, che il tempo sta per scadere, che tutto può crollare se si arriva in ritardo anche di un solo secondo («Perché dobbiamo sempre ridurci all'ultimo minuto?» si lamenta Marty nel terzo episodio). Nella trilogia si viaggia avanti e indietro nel tempo come sulla mappa di un gioco da tavolo e tutto, i paradossi temporali, i cortocircuiti della memoria, tutto sembra essere contemporaneamente presente su uno schermo, una lavagna, uno spazio bidimensionale («Pensa in modo quadridimensionale!» dice sempre Doc a Marty...). Come nell'Atlante di Aby Warburg, tutti i tasselli del passato, del presente e del futuro sono compresenti, tutta la Storia è lì, davanti a noi, e noi possiamo percorrerla liberamente;

h. un universo narrativo non di tipo gnoseologico, ma ontologico, per usare l'etichetta che lo studioso Brian McHale utilizza per distinguere la narrativa modernista da quella postmodernista:

Il tratto dominante della narrativa postmodernista è ontologico. Tipiche domande postmoderne riguardano sia l'ontologia del testo letterario sia l'ontologia del mondo che esso rappresenta, sul modello: Che cosa è un mondo? Quali tipi di mondo ci sono, come sono costituiti e in che modo differiscono? Che cosa succede quando tipi diversi di mondo vengono posti a confronto o quando i confini fra i mondi vengono violati?

Ma le categorie estetiche del postmoderno schiudono solo un aspetto della comprensione del film. Perché Ritorno al futuro è molto più di questo. È un film che mette in discussione proprio il nodo della soggettività postmoderna, facendosi portatore di un "imperativo etico" ideologicamente conservativo, o perlomeno ambiguo: la nostalgia dell'Edipo...

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Pagina 97

Le verità nascoste

di Luisella Farinotti


L'uomo non deve potersi guardare in volto, perché è la cosa più terribile che esista. La Natura gli ha dato il dono di non poter fissare i suoi stessi occhi. Soltanto nell'acqua dei fiumi e dei laghi egli poteva fissare il suo volto. E perfino la posizione che doveva prendere era simbolica. Doveva curvarsi, abbassarsi per commettere l'ignominia di vedersi. L'inventore dello specchio ha avvelenato l'animo umano.
FERNANDO FESSOA, Il libro dell'inquietudine


LO SPAZIO LIQUIDO (EMERSIONI)

Su uno sfondo blu scuro mosso da un leggero movimento compaiono in bianco i nomi delle case di produzione (Twentieth Century Fox e Dreamworks, seguite da ImageMovers Production). Le scritte, in un lettering essenziale e sottile, sono poste al centro del quadro, mentre lo sfondo si viene via via definendo grazie a un movimento incessante, come di un incresparsi di onde. Una nebbia sottile vela a tratti l'immagine mentre sulla superficie scura dell'acqua, agitata da un lento respiro, emerge il titolo, che sembra provenire dalla profondità dei fondali. La scritta What Lies Beneath, sempre in bianco, sembra galleggiare, "ondeggia" lentamente prima di scomparire nell'oscurità dello spazio liquido [ill. 1].

La scelta di integrare il titolo allo sfondo rendendolo quasi parte del profilmico e, più ancora, l'assenza di altri elementi paratestuali (fino alla fine non verranno presentati i credits), segnalano la volontà di non marcare la soglia di entrata nel testo, eludendo quella sorta di «zona franca» tra il mondo della realtà e quello della finzione che sono i titoli di testa. Questa scelta di un confine "fluido", luogo di un passaggio inavvertito più che di una separazione, rafforza quanto dichiara già il titolo: l'occultamento diventa l'ordine del discorso tanto quanto della storia. Zemeckis non «smaschera la finzione», non designa il film in quanto tale ("un film di"), nasconde il carattere artificiale e arbitrario del limite introducendoci in un mondo i cui confini — tra realtà e apparenza, tra verità e immaginazione, tra vivi e morti — non sono affatto definiti. Il movimento successivo della macchina da presa che si immerge sotto la superficie dell'acqua, rende visibile ciò cui il titolo allude: qualcosa effettivamente "giace sul fondo", portarlo a galla sarà compito di Claire e di noi spettatori, invitati a districarci nel labirinto di false apparenze e di segni rivelatori disseminati nel corso del film.

«Una soglia non può che essere attraversata», scrive Genette in chiusura del suo volume dedicato ai fenomeni paratestuali, dichiarando che ogni discorso sulle frange del testo non può che essere un discorso sul testo stesso. Se la soglia è uno spazio di transizione fondamentale all'ordine del racconto, è però anche il luogo della transazione all'ordine della scrittura: spazio di messa in forma dei processi di significazione, in cui si istruisce il nostro sguardo, vengono predisposte le nostre attese e i nostri saperi. Così Zemeckis non solo dichiara da subito il meccanismo che governa l'intreccio, ma introduce nelle primissime immagini un elemento chiave del film, un elemento fisico e simbolico insieme, la cui qualità fluida e sfuggente ben rappresenta l'universo messo in scena. L'acqua è al centro de Le verità nascoste: luogo di soluzione dell'enigma e di risoluzione narrativa, ma anche, più sottilmente, referente simbolico delle contraddizioni e dei mutamenti incessanti della storia. Il tema dell'acqua si lega sia all'immaginario del mistero – l'acqua come forza segreta e insondabile – sia all'idea del dinamismo delle trasformazioni, al flusso come elemento di congiunzione, di "attraversamento", di rivelazione e scoperta. L'acqua porta via, ma anche porta a, nasconde e rivela, congiunge e trascina, lega e isola. Se nelle prime immagini è massa oscura e profonda, spazio misterioso di occultamento, via via si offrirà come cornice scenografica della quieta bellezza del paesaggio o come superficie riflettente, specchio di una visione insostenibile.

Zemeckis sfrutta la "fluidità semantica" dell'acqua: la sua ricchezza evocativa e metaforica, ma anche la sua qualità plastica, la varietà fisica di un elemento capace di continue trasformazioni, che sembra sfidare le leggi cui sono sottoposte molte realtà naturali. Nel corso del film l'acqua è presente in forme e stati diversi: come superficie liquida estesa, apparentemente calma e immobile; come nebbia che avvolge, isola e rende invisibile il contorno delle cose; come nuvola di vapore in cui sembrano prendere corpo i fantasmi; come pioggia battente che riempie lo spazio e, infine, nell'ultima scena, come neve che ricopre il piccolo cimitero, manto protettivo che concede riposo alla vita. Al di là dell'immediata valenza simbolica dei diversi stati fisici – l'acqua come fondo segreto e impenetrabile, come ostacolo e isolamento, o, al contrario, elemento di congiunzione tra mondi, materia "trasparente" di rivelazione e purificazione, forma evanescente dell'impercettibile – più importante ci sembra il processo generale per cui la concretezza della materia si converte in pura astrazione, diviene forma e figura di una dimensione mentale. In linea con tutta una tradizione del cinema fantastico e di fantascienza, Zemeckis elegge l'acqua a spazio dell'"altro": incarnazione cangiante di qualcosa di inafferrabile, abisso mentale prima ancora che fisico, in cui prende corpo il fluire e il perdersi senza posa della coscienza.

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