Copertina
Autore Juan-Ramón Capella
Titolo La nuova barbarie
SottotitoloLa globalizzazione come controrivoluzione conservatrice
EdizioneDedalo, Bari, 2008, Strumenti/Scenari 72 , pag. 270, cop.fle., dim. 14x21x1,7 cm , Isbn 978-88-220-5372-5
OriginaleEntrada en la barbarie [2007]
TraduttoreAlberto Rotondo
LettoreRiccardo Terzi, 2008
Classe politica , globalizzazione , sociologia
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Indice


PARTE PRIMA

Capitolo primo
Tempo di progresso: Gramsci                          9

Introduzione                                         9
Lo sfondo storico                                   11
«Rivoluzione passiva»                               17
Americanismo e rivoluzione passiva                  18
La «demografia razionale»                           21
Salari e finanziamento dell'industria; lo stato     24
I lavoratori: taylorismo e moralità                 27
Gramsci, tra due socialismi                         31
Il patto sociale storico                            34
Un corollario                                       37

Capitolo secondo
Il tempo messianico. L'ultimo Benjamin              39

Introduzione                                        39
Le Tesi                                             42
La difficoltà della proposta                        45
Il punto di vista emancipatore di Benjamin          47
La concezione del tempo del progresso in Benjamin   49
Il tempo del Messia                                 52
Progresso e storia                                  55
Concezione «progressista» della cultura e barbarie  56
La tecnica e il progresso                           58
Il progressismo nel movimentio operaio              60
Tempo-adesso                                        64
L'Angelo volge le spalle al futuro                  67
Il presente bloccato                                68

Capitolo terzo
Tempo di sradicamento: Simone Weil                  71

Introduzione                                        71
La sacralità dell'essere umano                      75
Democrazia e legittimità                            81
Il primato dei doveri                               89

Capitolo quarto
Il tempo del consumo: Pasolini                      95

Introduzione                                        95
Gli intellettuali                                   96
Pasolini come intellettuale                        100
Fuori dal Palazzo                                  103
Il marxismo di Pasolini                            108
Il «mutamento antropologico»                       111
La reificazione aggravata                          112
Il Potere e l'autonomia personale                  116

PARTE SECONDA

Capitolo quinto
Tempo di «prima della rivoluzione»                 121

Introduzione                                       121
Le eredità del XIX secolo:
Rivoluzione, Progressismo, Escatologia             123
La matassa dell'Ottobre Rosso                      126
Il socialismo nel dopoguerra                       134
«Guerra di posizione» durante la guerra fredda     136
Il doppio fallimento del 1968                      142
I nuovi problemi                                   144
Eurocomunismo                                      147

Capitolo sesto
Tempo di controrivoluzione                         151

La Grande Restaurazione                            151
La terza rivoluzione industriale                   153
Il rinnovamento organizzativo imprenditoriale      160
La controrivoluzione politica                      168
La sovranità diffusa sovrastatale                  178
Il progetto globalizzatore                         182
Materializzazione del progetto                     185
Il progetto restauratore consolidato               190

Capitolo settimo
Tempo di barbarie                                  193

Socialismo o barbarie                              193
Urgenze                                            198
Nella caverna mediatica                            203
Rovine sociali                                     208
Imbarbarimento della produzione                    213
Paralisi delle istituzioni pubbliche               216
Militarizzazione                                   219
L'imbarbarimento del Nomos della Terra             225
Alla luce del giorno                               232

Capitolo ottavo
Tempo di resistenza                                233

Resistenza alla barbarie                           233
Dall'esterno                                       237
La situazione dell'avanguardia                     238
Sulla ripugnanza verso la politica                 239
Digressione sulla politica e il potere             241
Politica e politica di palazzo                     246
Il terreno di gioco della politica di palazzo      248
Potere economico e potere sovrastatale             253
Internazionalismo e conquista dei poteri           255
Princìpi                                           257

Nota dell'autore                                   262

Indice dei nomi                                    263


 

 

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Pagina 9

Capitolo primo

Tempo di progresso: Gramsci


Introduzione

A chi legge Gramsci oggi, le pagine di Americanismo e fordismo creano, senza dubbio, alcune difficoltà. Si tratta di uno dei testi di Gramsci più in anticipo sui tempi e, proprio per questo, siamo in grado di leggerlo soltanto oggi, quando sembra essersi esaurito il processo che egli è stato in grado di prevedere. Che significato può assumere, quindi, una lettura ex post?

La mia pretesa nel concentrarmi su questo topos, che costituisce ormai un classico del pensiero emancipatore, è quella di far luce sui problemi del passato affinché possiamo, attraverso la loro comprensione, contrastare efficacemente i problemi del presente e quelli che ci riserva il futuro.

Innanzi tutto la collocazione storica. Nei primi anni '30 del secolo XX, con il trionfo del fascismo e l'ascesa del nazismo che ponevano un freno al movimento operaio – tempi difficili, quindi – Gramsci aveva compreso qualcosa che espresse con metafore militari, tratte dalla tragedia della Grande Guerra, la Prima guerra mondiale: l'epoca degli «attacchi a sorpresa» del movimento emancipatore, come la stessa Rivoluzione d'Ottobre e anteriormente la Comune di Parigi, era terminata. Ora il capitale era disposto a ricorrere ai peggiori regimi politici immaginabili per impedire qualsiasi successo politico significativo del movimento emancipatore moderno. Si entrava in un'epoca presumibilmente lunga di «guerra di posizione», nella quale il movimento avrebbe dovuto tener duro, raggiungendo e difendendo conquiste sociali parziali in un lungo scontro «di trincea». Questo periodo avrebbe potuto cedere il passo a un'epoca diversa, con classi lavoratrici diverse e con l'egemonia delle idee socialiste – vere e proprie soluzioni per i problemi della vita – non solo tra i lavoratori dell'industria ma, in maniera molto più incisiva, nella maggior parte della società.

In Americanismo e fordismo Gramsci avrebbe analizzato con precisione i tratti caratteristici di un periodo del secolo XX – il periodo della citata «guerra di posizione» – proprio nel momento in cui tale periodo si stava aprendo. La nostra lettura contemporanea guarda ad esso come a un fenomeno apparentemente concluso. Anticipiamo i tre gruppi di avvenimenti che posero fine a quel mondo. In primo luogo, la crisi dell'interventismo, delle politiche economiche keynesiane e dello «stato del benessere» (chiamato con il nome che riuscì a imporre l'apologetica capitalista), che si giustapponevano in maniera insufficiente alle rinnovate domande sociali, sebbene né quello stato né il capitale le potessero soddisfare. In secondo luogo una grande controrivoluzione politico-sociale che, attraverso l'adozione delle cosiddette politiche «neoliberiste», ha risolto la crisi dell'interventismo. Il che ci conduce al terzo gruppo di cambiamenti, cioè a una nuova rivoluzione industriale, che ha posto fine al periodo rendendo possibile la controrivoluzione.

Questo amalgama unico di rivoluzione tecnologica e controrivoluzione politica avrebbe potuto costituire di per sé una «fine dei tempi». Poi però si è aggiunta la manifestazione di un'ulteriore crisi, benché di altra natura: la crisi ecologica, ossia l'incompatibilità di fondo della civilizzazione industriale così come la conosciamo con i fondamenti biologici della vita della specie sul pianeta Terra. Una crisi non risolta che, però, nei primi anni del secolo XXI ha già originato tragedie – le guerre per il petrolio – che venticinque anni prima, nel momento iniziale della grande controrivoluzione, erano solo cattivi auspici.

Ma torniamo a Gramsci, incarcerato a Turi, in un altro dei momenti di grave sconfitta del movimento emancipatore moderno. Una mente che osserva e ragiona. Che ancora poteva credere nel progresso.

«Americanismo e fordismo» è costituito da un insieme di testi fra i più rappresentativi del suo modo di pensare e delle sue speranze. Tuttavia balzano agli occhi non poche oscillazioni del punto di vista a partire dal quale sono stati scritti. Ciò è dovuto solo in parte alla discontinuità della loro redazione, realizzata sulla scia di letture diverse e rielaborata in momenti successivi, e al fatto di affrontare problemi le cui soluzioni risentono necessariamente delle «condizioni contraddittorie della società moderna», per dirlo con le sue stesse parole. Nonostante tutto, però, questa spiegazione è insufficiente. A mio modo di vedere, è l'autocensura della scrittura carceraria a impedire la manifestazione nitida delle diverse preoccupazioni dell'autore, che di conseguenza sembrano quasi scomparse, sebbene siano la causa principale delle variazioni del suo punto di vista.

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Pagina 151

Capitolo sesto

Tempo di controrivoluzione


La Grande Restaurazione

Nell'ultimo ventennio del XX secolo si è consolidato un processo di cambiamento sociale autentico che ha poi finito per interessare il mondo intero e che costituisce una vera e propria «fine del mondo»: una controrivoluzione totalizzante, riferita a numerosi aspetti dell'esistenza sociale, di dimensioni non meramente nazionali ma piuttosto internazionali e in non piccola misura «globali». Si tratta di un processo di restaurazione del capitalismo che ha posto le basi per una rinnovata espansione. Questo processo sarà chiamato qui la Grande Restaurazione. Ha inizio un tempo rivoluzionario di controrivoluzione.

La Grande Restaurazione capitalista è vista spesso come un processo di globalizzazione o di mondializzazione delle relazioni sociali e non è poco ciò che sinora si è scritto a proposito di essa partendo proprio da questa prospettiva. Tuttavia tale prospettiva, che ha fatto fortuna a partire da una descrizione in larga misura indiretta dovuta a sociologi ed economisti anglosassoni – cominciando col suo più efficace propagandista, Giddens – tende a lasciare in ombra aspetti fondamentali del medesimo processo o a considerare la parte per il tutto, privilegiandone solo il lato economico o, meglio ancora, soltanto alcuni dei fattori che lo contraddistinguono.

Inoltre, nell'accostarsi ai temi della Grande Restaurazione, intendendola come semplice «globalizzazione» spontanea, si tende a includervi processi sociali paralleli che presentano una genesi e una logica proprie, modellate soltanto in modo laterale dal fenomeno principale, come nel caso dell'irrompere del femminismo e del movimento antipatriarcale internazionale, che Giddens aggiunge al suo modello presentandolo come il volto amabile della «globalizzazione».

Il punto di vista globalista, soprattutto, trascura la genesi causale della Grande Restaurazione e la svincola da fenomeni di potere, cioè prescinde dal suo lato politico.

Qui si sosterrà che la Grande Restaurazione è il risultato di due grandi processi di diversa natura, uno dei quali ha reso possibile l'altro, e che hanno finito per fondersi. La Grande Restaurazione del capitalismo è stata possibile grazie alla concomitanza di una rivoluzione industriale, cioè di un rinnovamento profondo delle tecniche e dell'organizzazione dell'attività produttiva, e di una controrivoluzione politica internazionale, mirante a liberare da vincoli e limiti di qualsiasi tipo il capitale – i capitali – e ad ampliare gli ambiti della vita in società capaci di generare occasioni di lucro privato. La fusione di entrambi i processi, orientandoli verso una medesima direzione strategica, ha dato luogo a una logica sociale neoliberale che sembra autoconvalidarsi o, come diceva Bourdieu, autoverificarsi.

Il carattere internazionale della Grande Restaurazione ne rende difficile una descrizione dettagliata: la stessa diversità delle società interessate – dalle società opulente o «centrali» ai paesi più poveri – l'asincronia della messa in moto dei processi di cambiamento e le loro differenti velocità, così come la stessa interdipendenza di molti dei suoi fattori, ne rendono praticamente impossibile una descrizione analitica dettagliata in uno spazio limitato. Non può neanche ritenersi facile valutare l'importanza dei dati quantitativi quando questi non derivano da fonti più attendibili (le organizzazioni internazionali pubbliche, alcuni «osservatori» non governativi), o quando le categorie analitiche che servono per catalogarli risultano più che dubbie. Quindi la descrizione della Grande Restaurazione sarà qui inevitabilmente qualitativa, sebbene non per questo indifferente all'interrelazione dei processi sociali di cui porrà in rilievo le linee di tendenza.


La terza rivoluzione industriale

La base tecnologica della Grande Restaurazione è la cosiddetta terza rivoluzione industriale, vale a dire un cambiamento qualitativo importante nei processi produttivi.

La seconda rivoluzione industriale creò la fabbrica fordista, che concentrava il lavoro simultaneo di migliaia di operai, faceva uso di tecniche tayloriste di scomposizione analitica delle attività produttive e ne assegnava gli elementi parcellizzati a lavoratori diversi. In tal modo si riuscì a elevare notevolmente la produttività del lavoro e si ottenne, per via delle continue innovazioni tecnologiche, un incremento non soltanto dei benefici imprenditoriali ma anche della massa dei beni-salario e dei salari indiretti. Svolse un ruolo essenziale il patto sociale tra lo stato, l'imprenditoria e le istituzioni dei lavoratori, finalizzato a garantire le condizioni necessarie alla realizzazione di quell'enorme processo di crescita economica, che per decenni rese possibile l'avvicinamento al pieno impiego e la crescita e concentrazione delle imprese in grandi entità multinazionali. luttavia a metà degli anni '70 del secolo XX questo modello si era esaurito: non era più capace di soddisfare la nuove richieste dei lavoratori né di mantenere i tassi di guadagno imprenditoriali.

Tuttavia durante il decennio precedente si erano messe a punto nuove tecnologie, che in via di principio risultava possibile introdurre nel processo produttivo, sebbene quest'ultimo esigesse grandi e nuovi investimenti in mezzi di produzione nonché una trasformazione delle proporzioni dei capitali assegnati ai differenti fattori produttivi.

Queste tecnologie erano l'informatica, la chimica industriale e la biotecnologia – per l'ottenimento di nuovi materiali – e innanzi tutto la pubblicità di massa. A tutto ciò si aggiunga un esperto e rinnovato sapere organizzativo che si sarebbe rivelato decisivo per l'innovazione tecnologica e politica.

È necessario ricordare che i cambiamenti tecnologici non sono mai puramente tecnici, dato che alla base tecnologica bisogna sempre aggiungere una strumentazione politica più o meno efficace, affinché il cambiamento già verificatosi nell'universo delle idee tecno-scientifiche si concretizzi nella realtà. Per questo motivo, nella descrizione delle nuove tecnologie, s'imporranno inevitabilmente riferimenti meta-tecnologici.

Esamineremo propedeuticamente i cambiamenti tecnologici in maniera più dettagliata. Il rinnovamento organizzativo imprenditoriale meriterà tuttavia una trattazione a parte, poiché da un lato dipende dalle possibilità aperte dall'informatica, ma dall'altro è un effetto della stessa controrivoluzione politica. Si tratta, insomma, del cambiamento o dell'insieme di cambiamenti più strettamente connesso a fattori propriamente politici. Il sapere organizzativo in senso stretto è soltanto una delle sue componenti. Il rinnovamento organizzativo imprenditoriale sarà esaminato con speciale attenzione, giacché spesso, nelle considerazioni abituali sul cambiamento tecnologico e sulla «globalizzazione», la sua importanza passa inosservata. Qui invece si sosterrà che si tratta di una componente essenziale della Grande Restaurazione.

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Pagina 170

Chiusura delle imprese pubbliche

Nonostante la sua irrazionalità, in un'epoca di crisi energetica (sebbene alcuni paesi contassero congiunturalmente su fonti energetiche rinnovabili), l'abbandono in massa dell'estrazione del carbone, statalizzata o sovvenzionata in molti paesi, ebbe la funzione di esemplificare da parte delle istituzioni pubbliche l'offensiva contro i posti di lavoro creati al seguito delle tecnologie anteriori. I grandi rami dell'in dustria del carbone, della siderurgia e della costruzione navale furono oggetto di un taglio generalizzato o addirittura chiusi. Con questo le istituzioni pubbliche mettevano in evidenza che la disoccupazione aveva cessato di essere una calamità per l'economia capitalista. Il patto sociale si era rotto.


Meno garanzie per i lavoratori

Il senso generale della politica del lavoro neoconservatrice è consistito nel trasferire sulle spalle dei lavoratori una serie di oneri che sino ad allora avevano sopportato gli imprenditori.

Fu ridotto il costo dei licenziamenti mediante norme che diminuivano il valore degli indennizzi ai lavoratori e moltiplicavano le condizioni perché si potesse ricorrere a tale mezzo. Furono modificate le condizioni della contrattazione del lavoro, per ammettere e generalizzare il lavoro a tempo parziale, il lavoro discontinuo, il lavoro stagionale e il lavoro in periodo di prova; fu ammessa la sub-assunzione dei lavoratori (che precedentemente era arrivata ad essere configurata come reato), furono accettate e incentivate forme speciali di assunzione con minori garanzie legali per i giovani (contratti a tempo, salari bassi) e furono sovvenzionate le imprese che vi facevano ricorso. Inoltre venne ridotta la durata dei sussidi di disoccupazione, furono ristrette le condizioni per acquisire il diritto alla pensione di anzianità, il cui ammontare fu conteggiato con criteri meno vantaggiosi per i lavoratori. Il costo pubblico dei farmaci iniziò a trasferirsi parzialmente sugli utenti; le prestazioni mediche a carico del sistema sanitario pubblico conservarono le limitazioni già esistenti e ne acquisirono di nuove, mentre in alcuni paesi il sistema sanitario pubblico fu eliminato e subentrarono assicurazioni mediche private. Numerosi lavoratori videro vanificare il proprio diritto al lavoro con l'abbassamento dell'età del pensionamento obbligatorio e mediante pensionamenti anticipati. Il diritto all'abitazione si trasformò in carta straccia per l'assenza di interventi pubblici idonei a renderlo effettivo.

Lo stesso diritto di sciopero dei lavoratori risultò vanificato in varia misura per il concorso di diversi fattori. La diminuzione del numero di lavoratori per impresa e la loro parcellizzazione contrattuale, la possibilità di delocalizzare le imprese, e perfino il controllo a distanza dei centri di lavoro da parte di imprese multinazionali distanti: tutto ciò rese in molti casi opachi e irraggiungibili i centri decisionali. Gli scioperi operai sempre più spesso cessarono di avere come destinatario diretto il padronato e si convertirono poco a poco in azioni di boicottaggio pubblico, principalmente delle comunicazioni, al fine di ricercare la mediazione delle autorità politiche nei conflitti, nonostante l'accresciuto disordine della vita quotidiana.

Si incentivò la figura del «lavoratore autonomo», che realizza in regime di mercato determinate opere o servizi prima prestati in regime di lavoro subordinato. Questa tendenza, mentre crea le condizioni politiche per l' esternalizzazione dei costi imprenditoriali, contribuisce a cancellare o sfumare la coscienza di classe dei lavoratori.

Una simile politica del lavoro comporta in fin dei conti l'indebolimento indotto delle stesse istituzioni dei lavoratori, sindacati e partiti (calo del tasso di affiliazione sindacale, sfiducia e divisione, mancanza di militanza e alla fine rifiuto elettorale).

Gli indici di disoccupazione salirono vertiginosamente agli inizi degli anni '80 del secolo passato. Negli ultimi venticinque anni sono scesi di qualche punto percentuale nonostante la propaganda costante sulla «creazione di posti di lavoro» (ma si tratta in realtà del rinnovo di contratti a termine).

In Spagna le politiche sul lavoro neoliberali furono introdotte dal primo governo del Partito socialista dopo la morte di Franco, facilitate dai «Patti della Moncloa», sottoscritti negli anni precedenti, e confermati dai successivi governi.

Si incentivò persino l'uso ufficiale di un linguaggio nuovo per indicare le relazioni di lavoro: la disoccupazione cominciò ad essere chiamata «non impiego»; i sussidi divennero «prestazioni»; il personale di fabbrica «risorse umane»; i contratti-spazzatura «incentivi alla contrattazione»; facilitare i licenziamenti si dice «flessibilizzare»; la perdita di potere di acquisto del salario, «moderazione salariale»; la subcontrattazione organizzata si trasforma in «imprese di lavoro temporale», e via dicendo.

La diminuzione numerica dei lavoratori, la loro frammentazione in categorie mercantili differenziate, la loro perdita di forza negoziatrice e di prestigio sociale, mostrata dall'incremento delle differenze di reddito, è la base dell'«autoconvalida» dei postulati del neoliberalismo.

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Pagina 177

La deregulation

Le politiche di deregulation hanno come obiettivo quello di liberare il capitale da obblighi e vincoli. «Deregolamentare» significa eliminare pregiudizialmente i doveri del padronato, al fine di ottenere un funzionamento «spontaneo» del mercato. Da un altro punto di vista, deregulation significa togliere protezioni e garanzie alle persone nel loro status di cittadini, di utenti o di lavoratori. L'assenza di regolamentazione è in realtà la regolamentazione di un'assenza.

Le politiche di deregulation significano in pratica il funzionamento senza alcun ostacolo dell'attività imprenditoriale. Si completano nell'indebolimento, quando non nella paralisi, dei servizi pubblici di ispezione, che teoricamente vegliano per la corretta applicazione delle regole che ancora resistono (sul piano della sicurezza nel lavoro, della somministrazione di energia e comunicazioni, dell'urbanismo e la costruzione, dell'istruzione, della salute, ecc.). La deregulation, come si vedrà più avanti, è fondamentale per descrivere l'aspetto internazionale della Grande Restaurazione.


Ricapitolazione

La controrivoluzione politica si aggiunge quindi al cambiamento tecnologico, per produrre una vera e propria «fine del mondo». Il radicamento del progetto di restaurazione capitalista fu facilitato dall'azione «capillare», in tutti gli aspetti dell'attività produttiva tondamentale, del cambiamento tecnologico. Il suo elemento essenziale è l'offensiva politica contro i lavoratori come classe sociale, che in pochi anni diluì la loro coscienza politica di classe e ne indebolì le maggiori istituzioni rappresentative. Tale offensiva fu portata avanti per mezzo della precarizzazione e dell'insicurezza generalizzate del lavoro esistente. Il capitale è riuscito a stabilire un'alleanza oggettiva con le «classi medie» delle società opulente, mediante l'incitamento a consumare del nuovo megameccanismo pubblicitario. Le ideologie nazionaliste hanno contribuito al black out politico, la spoliticizzazione effettiva, preconizzata dalla Commissione Trilaterale. Sul piano sociale la novità più rilevante nei paesi opulenti è la formazione di un nuovo proletariato o sottoproletariato rappresentato da migranti, che devono abbandonare in massa i propri paesi di origine come conseguenza del versante internazionale della Grande Restaurazione.

Gli stati hanno trasferito al mercato tutti i beni e i servizi che hanno potuto, per ampliare il campo delle attività lucrative imprenditoriali, che sono state liberate dai vincoli mediante le politiche di deregolamentazione fiscale e sociale. Lo stato, come altre istituzioni pubbliche, si è ristretto nella sua attività economica, senza cessare di essere forte sul piano burocratico, militare e poliziesco, giacché deve amministrare costantemente la deregulation e l'adattamento sociale al cambiamento.

Queste, tuttavia, non sono tutte le trasformazioni operate dalla Grande Restaurazione: ancora non si è fatto riferimento al suo progetto internazionale globalizzatore né alle nuove istituzioni di potere sorte o all'adattamento del funzionamento di quelle preesistenti, necessario per la realizzazione di tale progetto. Vediamo prima queste ultime, giacché questo faciliterà la comprensione di quella che suole essere chiamata «la globalizzazione».


La sovranità diffusa sovrastatale

Gli «stati-nazione», queste entità «sovrane» che costituiscono le istituzioni politiche caratteristiche della modernità, sono diventate, con la Grande Trasformazione, porose: oltre a perdere porzioni o aspetti importanti della loro antica sovranità, ammettono di essere penetrate e determinate nelle loro politiche da un potere superiore.

La cessione di porzioni di sovranità e la porosità o recettività adattativa degli stati al potere superiore ha luogo in forme diverse, tra le quali forse l'associazione di stati è la meno importante, benché possa diventare molto diffusa e penetrante. L'Unione Europea ne è un esempio emblematico attraverso l'istituzione di un superpotere che determina molte delle politiche pubbliche degli stati associati, senza che i loro cittadini riescano a influenzare la volontà degli apparati istituzionali comuni. Il potere effettivamente normativo di questa risiede in istanze come i consigli dei capi di stato e di governo, formati da enti carenti di potere legislativo negli stati membri, essendo l'istituzione parlamentare dell'Unione poco più che un'assemblea consultiva e decorativa, con scarse competenze legislative nonostante la sua denominazione. Nel caso della politica monetaria, la sovranità degli stati è stata ceduta a un'istituzione qualificata come «indipendente», la Banca Centrale Europea, che resta al margine di ogni controllo politico formale. Non esistono ancora vie di accesso perché la volontà popolare penetri significativamente nelle istituzioni europee. C'è di più: quando le popolazioni di alcuni stati hanno espresso un voto negativo in occasioni significative, come il referendum sulla cosiddetta «costituzione» europea, i poteri sono riusciti a ricondurre le popolazioni all'obbedienza.

La cessione di sovranità degli stati si è realizzata anche in modi meno formali, ma molto più efficaci, a beneficio di istituzioni internazionali pubbliche diverse, con enorme influenza sulle politiche economiche: la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale, l'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) e l'Organizzazione Mondiale del Commercio. Altre istituzioni internazionali, come il Gruppo dei Paesi più Industrializzati, possiedono un potere determinante, praticamente irresistibile per gli stati singoli, per ciò che riguarda le politiche economiche e industriali, le quali condizionano a loro volta molte altre politiche.

Ci sono altri due ambiti nei quali la maggior parte degli stati hanno cessato di essere enti non superiores recognoscentes, per fare riferimento al principale tratto della sovranità secondo Althusius. Uno è l'ambito militare: l'esistenza di un potere militare imperiale, le forze armate degli Stati Uniti d'America, con basi in tutti i continenti e alleanze multilaterali e complesse. Si tratta di un potere militare superiore a qualsiasi altro, stanziato in tutto il globo. Questo potere mette in discussione la stessa idea di sovranità degli stati ma ha garantito come ultima ratio la Grande Restaurazione e lo spiegamento internazionale delle sue politiche. Il secondo ambito nel quale gli stati, o le associazioni di stati come l'Unione Europea, si mostrano permeabili a un potere superiore, è quello costituito dal potere delle grandi compagnie multinazionali e dei conglomerati finanziari. I loro accordi strategici, la loro lex mercatoria privata e opaca, la loro pressione «capillare» sulle rimanenti istanze di potere, informa il contenuto delle politiche pubbliche.

Per questo si può parlare, accanto alla porosità o penetrabilità delle istanze statali, di un sovrano sovrastatale diffuso e policentrico che rappresenta la novità politica più rilevante della Grande Restaurazione. Un sovrano diffuso e policentrico, formato dalle nuove istituzioni sovrastatali, la lex delle imprese multinazionali e dei conglomerati finanziari, le istituzioni economiche internazionali penetrate da questi ultimi e sensibili alle politiche delle grandi potenze, e il potere militare e politico nordamericano.

Il sovrano sovrastatale diffuso mal si definisce in termini di «impero», come hanno preteso alcuni autori, ai quali sfuggono le caratteristiche specifiche, soprattutto quelle culturali, del nuovo sistema di potere: si tratta piuttosto di una serie di istanze istituzionali, formali e informali, nelle quali si definiscono e articolano le politiche «globalizzatrici» o generalizzanti della Grande Restaurazione.

L'enfasi retorica con cui si celebra la bontà del sistema rappresentativo finisce solo per rafforzare il governo tecnocratico del mondo. In realtà, le operazioni che effettivamente lo governano, vale a dire le decisioni del sovrano sovrastatale diffuso, sono costituite - che si tratti dell'amministrazione delle grandi industrie, della manipolazione dell'opinione pubblica, o più in generale della determinazione degli assetti economici, politici e militari — dal complesso militar-industriale, dai dirigenti delle grandi multinazionali e dagli esperti nel trattamento dei capitali finanziari.

Un'altra tecnocrazia imprenditoriale, militare e politica finisce per svolgere nel governo di una Repubblica che si vuole globalizzata, il ruolo che Platone aveva attribuito al Re filosofo e al suo Consiglio notturno.

Questo nuovo potere non è democratico. Cerca legittimazione non tanto nel consenso formale del demos quanto in una efficacia i cui parametri autodefinisce e pubblicizza esso stesso.

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Persino la scuola è un'appendice di questa cultura mediatica, poiché l'istruzione informale tende a imporsi su quella formale e a corromperla. La scuola non inculca altri valori che quelli del conformismo. Gli insegnanti sono privi dell'aura sacra che circonda le icone televisive; più che insegnare – la perdita di contenuti intellettuali dell'insegnamento va di pari passo con la moltiplicazione delle discipline – cercano di intrattenere quelli che non sono più i loro discepoli. I cosiddetti «libri di testo» contengono sempre meno informazioni e sempre più illustrazioni, ma continuano a interessare meno dei videogiochi. Nei paesi opulenti non vi è mai stata così tanta gente scolarizzata come oggi e mai l'istruzione scolastica è stata tanto povera e impotente, in corrispondenza con la crescita esponenziale dell'impiego con basso livello di qualificazione a partire dal 1990, quando le politiche neoliberiste si sono consolidate. La perdita di priorità delle politiche pubbliche è parte essenziale della controrivoluzione conservatrice. Per questo l'istruzione tende a cessare di essere un bene pubblico e a trasformarsi in un servizio commercializzabile, in un prodotto lucrativo. Forse un esempio paradigmatico dei cambiamenti in atto è stato in Spagna l'espansione del cosiddetto insegnamento «concertato», grazie al quale una parte della massa salariale del personale docente delle scuole private è finanziata pubblicamente, mentre i centri pubblici vivacchiano in condizioni di scarsità di mezzi economici.

Ma l'imbarbarimento si può constatare anche nelle università pubbliche. Queste istituzioni erano state create come uno spazio libero di ricerca, di trasmissione di conoscenze avanzate e loro diffusione nella società; perciò è necessario distinguerle nettamente dai centri di insegnamento superiore privati, chiamati solo impropriamente «università», poiché in essi non c'è traccia di attività di ricerca né di socializzazione dei suoi risultati, componenti tipiche di un'università. Le università sono entrate in una crisi sempre più grave da quando il sovrano sovrastatale, nella persona della Banca Mondiale, ha deciso che i servizi di istruzione e ricerca sono una merce come qualsiasi altra, e sostiene politiche indirizzate a inserire la produzione delle università nel mercato mondiale dei servizi. Tali politiche cercano di adattare l'insegnamento superiore alla volatile domanda di personale qualificato da parte del mercato, e la ricerca o la generazione di pensiero nuovo alle richieste imprenditoriali; si prescinde dalla funzione sociale di diffusione. Gli accordi sugli obiettivi da raggiungere nel mercato della conoscenza sono negoziati nell'ambito dell'Organizzazione Mondiale del Commercio. Il criterio di base è l'applicazione delle conoscenze, non il modo in cui si ottengono, e i criteri secondo cui vengono giudicati rilevanti i progetti di ricerca devono risultare da un compromesso tra ricercatori e utenti, chiamando con questo nome, nell'ambito delle politiche neoliberiste, gli enti del mondo imprenditoriale.

Naturalmente, l'istituzione universitaria, da istituzione classista qual era, non mancava di difetti, i più gravi dei quali erano senz'altro l'accessibilità socialmente selettiva e la burocratizzazione e irresponsabilità del suo funzionamento. Adesso il primo si è aggravato, giacché si tende alla commercializzazione integrale di servizi per gli studenti universitari, abbassandone il livello ed escludendo l'attività di diffusione delle conoscenze. La docenza si trasforma in un «profilo» formale dove la vendita ai diplomati di servizi commerciali, la partecipazione a congressi e il pubblicare per pubblicare sono considerati meriti che soppiantano il vero lavoro di ricerca e di trasmissione della conoscenza. Lo spazio di relativa libertà e di elaborazione critica che erano le università tende a scomparire, e l'università come tale finirà per trasformarsi in un'azienda, se non riesce a creare una linea di resistenza agli sconquassi neoliberisti mediante l'adattamento della sua attività alla risoluzione dei problemi globali.

La barbarie ha generato una nuova religione nei paesi opulenti: la religione del Denaro, del Successo e della Fama.

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Militarizzazione

I credenti (non c'è un altro modo per qualificarli) nel «libero mercato» dovrebbero chiedersi se la militarizzazione del mondo è una realtà. E se lo è, che funzione svolge, poiché come è risaputo il mercato esclude tutto ciò che non è prestazione o controprestazione. La configurazione politica di alcuni mercati, determinata dalle regole del sovrano sovrastatale, è risultata insufficiente senza il prolungamento di questo appoggio politico con mezzi militari.

Il XX secolo ha assistito a due guerre di dimensioni mondiali nelle quali trovarono una regolamentazione manu militari gli interessi coloniali ed egemonici delle potenze più industrializzate, cioè, l'appoggio politico di cui necessitavano gli interessi dei loro rispettivi capitali, ancora chiusi dentro i confini nazionali, soprattutto in materia di accesso alle materie prime. In seguito il capitale ha saputo internazionalizzarsi alle condizioni dettate dalle potenze vincitrici. Ma anche così si entrò in una «guerra fredda», in una corsa agli armamenti segnata da diversi conflitti locali, tra il mondo del capitalismo privato e quello del capitalismo burocratico di stato.

Le due grandi guerre del XX secolo apportarono cambiamenti fondamentali nella natura della guerra. La Prima guerra mondiale fu essenzialmente uno scontro di trincea – in realtà la prima guerra senza movimento dall'epoca di Napoleone Bonaparte – nella quale furono sacrificati milioni di soldati coscritti; ma fu anche una guerra industriale, con l'apparizione delle armi aeree, dei blindati, dell'artiglieria pesante e dei gas tossici. La Seconda guerra mondiale fu sin dal principio una guerra industrializzata grazie alla corsa al riarmo che la precedette, nella quale i centri industriali si trasformarono in obiettivi militari. Ma fu anche una guerra dove andò perduta la distinzione tra combattenti e popolazione civile: i bombardamenti di Londra e di Coventry, di Amburgo, Dresda e moltissime altre città tedesche, avevano come oggetto la distruzione dello spirito di resistenza delle popolazioni. Tale politica militare culminò nei bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki, e nel bombardamento intensivo di Tokyo quando ormai il governo nipponico aveva offerto la resa incondizionata. Da questo momento in poi la popolazione civile diventa un obiettivo militare; venti anni dopo, in Vietnam, i paesi di campagna saranno bombardati con il napalm, un prodotto della chimica industriale.

La «guerra fredda» non fu solo uno scontro politico: fu anche una tappa dell'«accumulazione militare-industriale». Datano proprio dagli anni della «guerra fredda» la produzione e l'immagazzinamento di bombe nucleari e termonucleari capaci di distruggere la vita in tutto il pianeta varie volte, come se una non bastasse; lo sviluppo dapprima di proiettili balistici intercontinentali per scaricare tali armi sui loro obiettivi e, dopo, di armi nucleari chiamate «pulite», per operare in quelle che gli strateghi hanno chiamato «guerre di teatro», localizzate in uno «scenario» limitato (quello europeo) ma non mondializzate, oltre a svariati armamenti «minori» (gas tossici, bombe chimiche e biologiche, navi da guerra, forze aeree, missili a corto o medio raggio, ecc.). Il potere degli interessi militar-industriali era tale che già alla fine degli anni '50 del secolo passato il presidente nordamericano Eisenhower, nel discorso finale della sua presidenza, mise in guardia contro gli «interessi del complesso militar-industriale» che minacciavano la libertà di decisione del governo degli Stati Uniti. Cinquant'anni dopo il complesso militar-industriale costituisce l'autentico governo-ombra che dà continuità alla politica nordamericana. Progetti militari sono sottintesi allo sviluppo dell'industria spaziale, elettronica e informatica, così come Internet, una rete multicentrica creata originariamente per conservare la possibilità di mantenere i collegamenti anche nel caso di distruzione del principale centro di comando o di comunicazione militare. La potenza dell'industria militare è tale che ha prodotto molti benefici civili indiretti, stimolando determinate produzioni a margine delle domande del mercato, attraverso una domanda a carico del bilancio pubblico. Gli Stati Uniti scatenarono la «guerra fredda», nella quale ebbero sempre l'iniziativa: per questo la loro «accumulazione militare» fu sempre superiore, e la «guerra fredda» ebbe termine con la resa dell'Urss in questa escalation; un peso terribile per la sua economia poco versatile, quando il presidente nordamericano Reagan progettò di condurla nello spazio, con il collocamento di bombe nucleari nell'orbita terrestre e la creazione di uno «scudo missilistico» per gli Stati Uniti.

La fine della «guerra fredda» doveva comportare la fine della storia secondo la propaganda nordamericana. Ma il disarmo non si realizzò, sebbene gli armamenti e le installazioni obsolete fossero smantellati. L'industria militare è rimasta relativamente al riparo dalle politiche neoliberiste. I dati sono incontestabili: le spese militari, scomparsa la «guerra fredda», sono aumentate del 34 per cento nel breve arco di tempo che va dal 1995 al 2005. A questa data la spesa militare mondiale ammontava a 885.700.000 euro, ossia a un miliardo e centoventi milioni di dollari. Il 48 per cento di tale spesa si deve agli Stati Uniti. La spesa militare mondiale equivale a 137 euro per ciascun abitante del pianeta. La tecnologia militare nordamericana include oggi, oltre a numerose varietà di bombe nucleari, «bombe intelligenti» e aerei teleguidati, capaci di colpire l'obiettivo con precisione millimetrica e di trasportare qualsiasi tipo di carica esplosiva; bombe a penetrazione, che distruggono i bunker sotterranei profondi; sistemi di vigilanza orbitale che arrivano a leggere con nitidezza la targa di un autoveicolo e sistemi di intercettazione di ogni tipo di comunicazione. Si suppone che ci siano anche armi chimiche e biologiche, poiché furono fornite dagli Stati Uniti al dittatore iracheno Saddam Hussein in occasione della guerra contro l'Iran. Alla spesa militare diretta bisogna aggiungere la ricerca civile orientata militarmente.

La finalità di questo insensato dispiegamento di mezzi di distruzione, oltre a garantire la supremazia militare nordamericana su qualsiasi altro stato militarista, consiste nell'assicurare il controllo dei grandi giacimenti di petrolio e gas e delle rotte di rifornimento. Questo comporta che il Medio Oriente, dove sono situate le maggiori riserve, e il Caucaso, con i suoi oleodotti, siano zone speciali permanentemente sede di conflitti (e se non lo sono, devono esserlo per giustificare la presenza dei militari americani e delle loro basi militari).

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È prevedibile che il mantenimento delle politiche militariste allarghi le dimensioni delle guerre del XXI secolo rafforzando alleanze e generando complicità: questo rientra nella logica dell'asimmetria. Ma la guerra industriale e tecnologica sembra radicarsi fermamente nel mondo, come anche l'indistinzione tra obiettivi civili e militari. È parte della nostra barbarie.

L'etologo Eibl-Eibesfeldt descrisse anni fa come si presentavano le guerre endemiche tra le popolazioni arcaiche, studiando alcune società tradizionali africane: erano guerre molto ritualizzate, simili a rappresentazioni, nelle quali gli uomini si avvicinavano al campo di battaglia e si insultavano lungamente, da lontano; quindi, si sceglieva un combattente, che brandiva delle armi primitive, e incontrava un avversario parimenti eletto: alla prima goccia di sangue o al primo colpo serio, il ferito si ritirava con i suoi mentre i combattenti riprendevano posizione, ancora tra gli insulti reciproci, per il giorno seguente. La guerra terminava se ci scappava il morto: i perdenti recuperavano il corpo masticando odio, per preparare con il tempo la vendetta; i vincitori si ritiravano costernati di fronte alla prospettiva degli scontri futuri.

Questa scoperta antropologica ci fornisce la misura esatta del percorso storico che porta allo sterminio di massa.

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