Autore Manuel Castells
CoautoreTomás Ibáñez
Titolo Dialogo su anarchia e libertà nell'era digitale
Edizioneeleuthera, Milano, 2014 [2007], caienna , pag. 68, cop.fle., dim. 11x18x0,6 cm , Isbn 978-88-96904-48-0
OriginaleEl Neoanarquismo, la libertad, y la sociedad contemporánea [2006]
PrefazioneAndrea Staid
TraduttoreLuisa Cortese
LettoreGiorgia Pezzali, 2014
Classe sociologia , movimenti , comunicazione , informatica: sociologia , informatica: reti












 

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Indice


Dialogo su anarchia e libertà                    9

Postfazione di Andrea Staid                     53

Bibliografia essenziale sul neoanarchismo       65


 

 

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TOMÁS IBÁÑEZ — Ovviamente, non tutto il tessuto produttivo presenta le stesse caratteristiche, non tutta la sfera economica sta cambiando con gli stessi ritmi, ma è evidente che una parte crescente sta adottando le nuove forme organizzative e relazionali proprie dell'era digitale.

Se ci fermiamo a riflettere sui cambiamenti in corso nel modo di produzione e nel modello di sviluppo, potremmo giungere alla conclusione che persino questi stanno favorendo, o propiziando, il recupero di impostazioni che, in qualche misura, hanno a che vedere, pur se solo a livello organizzativo, con alcune delle formulazioni e delle intuizioni proprie del pensiero anarchico. Ma se le cose stanno davvero così, allora sembra ragionevole affermare che questa rinascita dell'anarchismo non avviene soltanto perché trova eco nelle caratteristiche dei nuovi movimenti sociali, ma anche perché si trova ad avere una qualche sintonia con alcune delle esigenze attuali del capitalismo, il quale necessita per la propria efficacia di strutture reticolari al posto di strutture verticali...

MANUEL CASTELLS — Verissimo, però non userei il termine capitalismo quanto l'espressione nuova struttura produttiva.

TOMÁS IBÁÑEZ – Va bene, tuttavia mi sembra palese che questa nuova struttura produttiva è di tipo capitalista...

MANUEL CASTELLS – Certo, oggi è capitalista, ed è assolutamente possibile che in questo momento in tale struttura non ci sia altro che capitalismo. Ma proprio come non c'è necessità storica, non c'è neppure determinismo, nel senso che la nuova struttura produttiva non deve necessariamente essere capitalista: può esserlo o non esserlo. La società industriale non era esclusivamente capitalista, ma capitalista e statalista al tempo stesso, ossia non si identificava con un modello unico. Ma a un certo punto qualcosa è successo se oggi non esiste, all'interno di un singolo paese o in vaste zone del mondo, un'organizzazione produttiva rilevante che non sia capitalista. Oltretutto, il capitalismo è costituito da reti, reti produttive globali che connettono ciò che ha valore e disconnettono ciò che non ha valore.

Ciò detto, non escludo affatto, e credo che sarebbe dogmatico farlo, che dalle lotte sociali e dall'evoluzione produttiva innescate dal processo informazionale in atto possano sorgere forme di produzione non capitaliste, anche se ancora non sappiamo cosa siano. Naturalmente sarebbe un grave errore analitico voler divinare ciò che verrà, tuttavia possiamo già vedere all'opera alcune forme produttive, all'interno del capitalismo, che non si costruiscono come relazioni sociali gerarchizzate, né come relazioni produttive tipicamente capitaliste, benché in alcuni casi vendano i propri prodotti sul mercato capitalista.

Il caso più ovvio ed evidente è il cosiddetto software open source, a volte chiamato software libero, anche se a volte è libero e a volte non lo è. Chiamiamolo quindi software open source. Attenzione, questo tipo di software non è assolutamente un fenomeno marginale. Le persone che non hanno seguito da vicino la rivoluzione tecnologica non sanno, per esempio, che due terzi dei server del World Wide Web, almeno due terzi, usano il sistema Apache, un sistema cooperativo, composto da volontari, non commerciale e non gerarchico (o meglio, tecnologicamente gerarchico, ma non socialmente gerarchico), che a differenza di quelli prodotti da Microsoft non è un sistema proprietario, non si acquista, è totalmente libero e aperto a chiunque...

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TOMÁS IBÁÑEZ — È chiaro che anche nell'ambito delle attività lavorative non tutti gli incentivi e non tutte le gratificazioni sono esclusivamente di ordine materiale o monetario. Certe attività offrono una ricompensa di per sé, vale a dire per il fatto stesso di realizzarle, ma questo vale soltanto per certe attività.

MANUEL CASTELLS — Certamente. Il mio amico Pekka Himanen , un giovane filosofo finlandese molto brillante e ora piuttosto famoso, con il quale collaboro, ha sviluppato l'idea di etica hacker, vale a dire l' etica della creatività. Non quindi quella degli hacker «cattivi» che distruggono (anche se a volte bisogna vedere che cosa distruggono: potrebbe non essere così male), ma appunto l'etica finalizzata a creare, quella all'opera, per esempio, nell'Artificial Intelligence Laboratory del MIT o in altri luoghi analoghi, che sta alla base della creatività, dell'innovazione e della produttività caratteristiche della nostra società. Ma questa etica hacker è radicalmente diversa dall' etica protestante legata all'ascesa del capitalismo industriale, ovvero quella che affidava la salvezza delle nostre anime allo sforzo profuso nell'accumulare denaro.

Sono quindi pienamente d'accordo con il tuo punto di vista e ho citato questi esempi per avallare l'idea che al cuore del nostro sistema produttivo c'è una creatività libera che non è prioritariamente motivata dal lucro capitalista. Però è anche evidente che, nell'ambito di una struttura economica e sociale capitalista, c'è un ritorno economico di tipo capitalista, così come in strutture differenti ci possono essere ritorni di altro tipo. Per esempio, oggi molte persone utilizzano l'innovazione tecnologica esistente e i relativi software che mette a disposizione per le cose più svariate, come scaricare brani musicali da internet e così vivere la musica in piena libertà, o persino creare musica di tipo diverso e così via. Una cosa è certa: all'interno del sistema tecnologico attuale convivono relazioni sociali capitaliste e gerarchiche accanto a relazioni sociali cooperative, non gerarchiche e centrate sul valore d'uso più che sul valore di scambio.

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MANUEL CASTELLS – No, no, sai già che non parlo mai del futuro, e credo nemmeno tu: le persone serie non parlano del futuro, costruiscono il futuro, ma non ne parlano. La tua posizione è giustissima: tentiamo di approfondirla insieme.

Ci sono due aspetti che bisogna esplicitare preventivamente per sgombrare il campo da equivoci. Per un verso, va detto che non c'è determinismo tecnologico: deve essere ben chiaro che la tecnologia non può essere concepita come un determinante, bensì come una mediazione. Ma per un altro verso, la tecnologia è indiscutibilmente essenziale, ha una propria specificità ed è assolutamente indispensabile tenerne conto per capire come funziona la società. È del tutto evidente che, a seconda del tipo di tecnologia che utilizziamo, sono molte le cose che cambiano nella società. La tecnologia esprime la società. La esprime e organizza le relazioni sociali di potere, le interazioni che avvengono nella società.

Di fatto, la tecnologia è malleabile, e la tecnologia dell'informazione lo è ancora di più, è flessibile, e questo fa sì che le tecnologie come internet, vale a dire di comunicazione elettronica orizzontale, proprio perché sono tecnologie di individualizzazione e di autonomia, sono tecnologie di libertà... Il che non significa che le tecnologie, di per sé, producano libertà, producano autonomia. Oltretutto, come hai fatto bene a evidenziare, in questo processo che mira a integrare tutto il mondo nelle reti di comunicazione elettronica, la sorveglianza digitale offerta da queste reti dà una capacità di controllo e di intervento sui flussi della comunicazione che non ha precedenti nella storia.

È dunque un dato di fatto che si producano movimenti che vanno in entrambe le direzioni. Per esempio, la straordinaria tecnologia militare degli Stati Uniti ha elaborato le famose «bombe intelligenti», grazie alle quali i bombardamenti dovrebbero produrre meno morti tra la popolazione civile. Tranne che ogni tanto queste bombe sbagliano e uccidono i civili. E quando questo accade, i danni collaterali sono enormi. Dunque, non solo non sono così intelligenti come dicono, ma l'ideologia che ci sta dietro, convinta di poter condurre guerre «chirurgiche», in realtà porta a guerre ancora più devastanti.

Pertanto, bisogna immediatamente abbandonare l'idea che le nuove tecnologie della comunicazione siano tecnologie che promuovono, di per sé, un cambiamento sociale positivo. O, per essere più precisi, è vero che consentono un tale cambiamento, ma sono i processi sociali e le decisioni politiche a dettare le regole circa la direzione da imboccare e le modalità da seguire. È un dato di fatto, però, che tali tecnologie possano essere utilizzate per una cosa o per l'altra, che consentano al contempo più autonomia per un verso e più sorveglianza per l'altro.

Questo, come appare ovvio, è un ragionamento facile, improntato al senso comune; ma su un piano più serio e analitico è necessario spingersi oltre. La domanda che dobbiamo porci è la seguente: qual è la tendenza dominante? Qui sì che mi azzardo a dire qualcosa di più e ad affermare che la tendenza dominante si muove in direzione della libertà. E perché? Perché, pur essendo vero che esiste un sistema di controllo, tuttavia la specificità tecnologica di tale controllo ci mostra che il sistema non è poi così onnipotente come la gente crede.

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Ma in definitiva, com'è cambiata la situazione? In pratica è chiaro che controllano e reprimono. Tuttavia, avendo a che fare con tecnologie di libertà, quello che effettivamente accade è questo: a meno che non disconnettano internet – cosa molto costosa in termini economici per le imprese e in termini politici per i governi – l'unica cosa che possono fare è sopprimere il messaggero, ma non il messaggio. Certo, se sei il messaggero il fatto ti pone un problema molto serio, ma se sei il messaggio, vivi e continui a diffonderti intellettualmente in tutto il mondo. Dunque c'è repressione, certo, ci sono vittime della repressione, altrettanto certo, ma il messaggio passa sempre.

D'altronde, in tutta la storia c'è sempre stato il controllo della comunicazione e dell'informazione come base del potere. È questa la regola aurea della storia. Perché? Perché il potere sta nella mente delle persone, e se controlli il modo in cui la gente si informa e comunica, allora controlli il potere. Se non controlli il modo di pensare e di comunicare, gli apparati repressivi e gli stessi eserciti finiscono per sfaldarsi: non possono vincere, perché non dispongono di un potere sufficiente da contrapporre a quello delle menti. Non vi è alcun dubbio: la battaglia cruciale è la battaglia delle menti.

Questa struttura di comunicazione orizzontale, autonoma, fornita dalle nuove tecnologie aumenta la capacità di autonomia delle menti rispetto alla capacità di manipolazione del potere. Tutto qui. Io non sto qui sostenendo che tale struttura ci porti la libertà, o che sia la libertà, dico semplicemente che questa accresce le nostre possibilità di difendere ed espandere l'autonomia e la libertà.

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MANUEL CASTELLS — È simile a quello che constatavo in Cile nel periodo che ha preceduto il golpe, quando i miei amici cileni, che poco dopo sarebbero stati decimati, mi dicevano: «Bisogna disarmare l'esercito», e io ribattevo: «Sì? E con quali armi disarmi l'esercito?».

Concludendo l'osservazione preliminare, quello che volevo chiarire è che un apparato di potere, anche se tenta di adeguarsi alla logica dell'autonomia, della rete e della libertà, ha una struttura, una cultura e degli interessi che non gli lasciano molto margine di manovra. Può in parte modificarsi, ma fondamentalmente le strutture di dominio operanti nel mondo continuano a essere gerarchiche. Pertanto, lungi dall'affermare che se eliminiamo la gerarchia eliminiamo anche il dominio, perché in questo la tua analisi è assolutamente corretta, possiamo però ritenere che se eliminiamo le gerarchie si apre tutto un campo di possibilità per cambiare anche i rapporti di potere.

Tornando ora al problema che hai posto prima, cioè alla necessità di rinnovare il pensiero anarchico sul potere, vediamo se colgo l'essenziale del tuo pensiero. A tuo avviso, la riflessione anarchica sul potere era focalizzata sulla distruzione delle gerarchie e degli apparati verticali di dominio, ma adesso risulta evidente che il dominio si esercita anche mediante altri tipi di configurazioni organizzative, per cui bisogna abbandonare lo schema secondo cui bisogna combattere solo le strutture di potere verticale e assumerne un altro più articolato.

Ho già detto di essere d'accordo. Ma in che senso sono d'accordo con questa impostazione? Tornerei qui al mio tema centrale, e cioè che il dominio degli apparati è solo l'espressione di un dominio più profondo: il dominio delle menti. Infatti, per accettare la delega, ovvero per accettare che la libertà e la democrazia consistano nello scegliere ogni quattro anni, tramite il voto, quale tra due persone sia quella che propone la formula migliore, tra formule che generalmente non soddisfano nessuno, occorre che le persone abbiano interiorizzato quella riduzione del valore della democrazia alla semplice democrazia parlamentare. E questa è una condizione preliminare. Perché se la gente non fosse convinta che la democrazia sia proprio quella cosa lì, allora il sistema semplicemente non funzionerebbe.

Pertanto, la lotta per l'egemonia, per utilizzare un termine gramsciano, è assolutamente primordiale. Antonio Gramsci è rimasto comunista perché lo hanno chiuso in galera, ma tutto ciò che funziona in Gramsci, come i temi della libertà e del dominio culturale, o appunto il tema fondamentale dell'egemonia, va ben oltre le posizioni classiche del comunismo. In ultima istanza, egemonia significa che si è vinta la battaglia delle menti, cioè la battaglia cruciale.

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TOMÁS IBÁÑEZ – Certamente le questioni che rimandano alla libertà, al potere e alle forme non gerarchiche di organizzazione sociale sono aspetti fondamentali dell'anarchismo. Ma c'è un'altra questione che occupa un posto centrale nella sensibilità anarchica, ed è la questione dell'etica. Vale a dire, per esempio, l'attenzione data alla relazione tra mezzi e fini, o alla necessità di far coincidere il dire e il fare, ossia la teoria e la pratica, anche nell'ambito della vita concreta, quotidiana. Si tratta di un insieme di considerazioni, alcune delle quali trovano probabilmente le proprie radici nel contesto giudaico-cristiano, che mette in evidenza l'importanza dell'etica per l'anarchismo. Se sei d'accordo, potremmo concludere questo dialogo con alcune brevi riflessioni sull'etica anarchica. Partiamo dall'azzeccata espressione metaforica da te coniata che abbiamo citato prima: «Le reti baciano o uccidono, non hanno problemi personali»...

MANUEL CASTELLS — Ovvero non hanno pregiudizi, sono neutrali.

TOMÁS IBÁÑEZ – Ma che significa questo? Significa che ci sono mezzi più efficaci di altri, indipendentemente dalle finalità che si vogliono raggiungere. Se si arriva alla conclusione che certi mezzi, in questo caso le reti, possono essere usati per qualunque fine, allora si spezza quel rapporto mezzi/fini fondamentale per la dimensione etica del pensiero anarchico. Nella misura in cui il progressivo configurarsi dell'era digitale vanifica l'esistenza di una determinazione reciproca e di una mutua dipendenza tra mezzi e fini, si fa immediatamente strada la domanda se «l'esperienza presente» stia davvero portando acqua al mulino dell'anarchismo, favorendone la rinascita, oppure se quello che sta facendo è costringerci a creare un sistema di idee completamente nuovo, a margine di quelli elaborati nel diciannovesimo secolo.

MANUEL CASTELLS — È impossibile, in questo contesto, sviscerare il tema in profondità, ma vorrei almeno abbozzare un'indicazione di massima. Storicamente l'anarchismo ha sempre respinto l'idea di costruire uno Stato per farla finita con lo Stato, perché il mezzo utilizzato, la costruzione di uno Stato, era contraddittorio con il fine perseguito, l'abolizione dello Stato. E questa è stata, in termini operativi, la debolezza storica dell'anarchismo, anche se, per un altro verso, la trovo di una bellezza tragica: in nome dell'etica rinunciare alla politica...

TOMÁS IBÁÑEZ – Anche Jean-Paul Sartre ha in parte affrontato questioni simili in opere come Le mani sporche o Il diavolo e il buon Dio...

MANUEL CASTELLS — Certamente Sartre poneva la questione in termini molto più profondi e filosofici, ma il contenuto è pur sempre lo stesso dell'assai più prosaica considerazione di Stalin: «Per fare la frittata, bisogna rompere le uova». D'altronde, il più coerente leader del marxismo-leninismo è stato proprio Stalin. Ma tornando al nostro argomento, nella misura in cui è accertato che le reti autonome e auto-configurabili sono reti di libertà, tecnologie di libertà, il nuovo rapporto mezzi/fini può eliminare, nel migliore dei casi, il dilemma che poni. Certo, ciò non esclude che queste stesse tecnologie di libertà, sovvertite da una logica di dominio, consentano agli apparati di potere di essere ancora più potenti perché usano la tua libertà per controllarti. Ma in sostanza non si deve rinunciare a uno strumento, a un mezzo, solo perché questo rende possibile più di una finalità ed è ambivalente rispetto ai suoi effetti. Non bisogna poi dimenticare che le reti si auto-configurano in rapporto al tipo di evoluzione che hanno i valori della società. Se dunque operiamo affinché tali valori vadano nella direzione della libertà, allora si tratta semplicemente di lasciare che le reti si espandano senza coartare la loro libertà e di lasciare che i mezzi di costruzione autonoma funzionino senza ingerenze.

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