Autore Noam Chomsky
Titolo Tre lezioni sull'uomo
EdizionePonte alle Grazie, Milano, 2017 , pag. 124, cop.fle., dim. 14x20,5x1 cm , Isbn 978-88-6833-632-5
OriginaleWhat Kind of Creatures Are We?
EdizioneColumbia University Press, New York, 2016
TraduttoreMassimiliano Manganelli
LettoreLuca Vita, 2017
Classe linguistica , filosofia , epistemologia , evoluzione , scienze cognitive , politica , lavoro , beni comuni












 

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Indice


    1.   Che cos'è il linguaggio?                  7

    2.   Che cosa possiamo conoscere?             41

    3.   Che cos'è il bene comune?                83


 

 

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Capitolo primo
Che cos'è il linguaggio?



L'interrogativo generale che vorrei affrontare in questo libro è antico: che genere di creature siamo? Non sono così ingenuo da pensare di poter fornire una risposta soddisfacente, tuttavia mi sembra ragionevole credere che almeno in certi ambiti, in particolare rispetto alla nostra natura cognitiva, esistano idee di qualche interesse e rilievo, alcune delle quali nuove, e che dovrebbe essere possibile togliere di mezzo alcuni degli ostacoli che impediscono ulteriori indagini, per esempio certe dottrine universalmente accettate dotate di fondamenta molto meno solide di quanto spesso si immagini.

Prenderò in considerazione tre questioni in particolare, progressivamente più oscure. Che cos'è il linguaggio? Quali sono i limiti dell'intelletto umano (se esistono)? E qual è il bene comune per il quale dovremmo lottare? Inizierò con la prima, cercando di spiegare in che modo, quando sono perseguite con precisione, quelle che a prima vista potrebbero apparire questioni piuttosto limitate e tecniche possano condurre a conclusioni di ampia portata di per sé significative, e comunque assai diverse da quello che in genere si crede — e spesso si ritiene fondamentale — nelle relative discipline: le scienze cognitive in senso lato, comprese la linguistica e la filosofia del linguaggio e della mente.

Analizzerò quindi quelle che ai miei occhi paiono di fatto delle ovvietà, anche se di un tipo curioso. In genere vengono rifiutate. E questo pone un dilemma, almeno per me. E forse anche voi sarete interessati a risolverlo.

Parliamo del linguaggio. È stato studiato in maniera intensiva e fruttuosa per 2500 anni, senza però una chiara risposta rispetto alla questione di cosa sia il linguaggio stesso. Più avanti citerò alcune delle principali proposte. Dovremmo chiederci quanto sia importante colmare questa lacuna. Per lo studio di ogni aspetto del linguaggio la risposta dovrebbe essere chiara. Soltanto nella misura in cui esiste una risposta a questo interrogativo, per lo meno implicita, è possibile intraprendere delle serie ricerche sulle questioni relative al linguaggio, tra cui quelle concernenti l'acquisizione e l'uso, l'origine, il mutamento, la diversità e le proprietà comuni, il linguaggio nella società, i meccanismi interni che mettono in atto il sistema, tanto il sistema cognitivo in sé quanto i suoi svariati usi, funzioni distinte ancorché tra loro collegate. Nessun biologo oserebbe descrivere lo sviluppo e l'evoluzione dell'occhio, per fare un esempio, senza raccontarci qualcosa di piuttosto definito riguardo a che cos'è un occhio, e le stesse ovvietà si applicano alle indagini sul linguaggio. O dovrebbero. Stranamente non è così che in genere si sono affrontate le questioni, circostanza sulla quale tornerò più avanti.

Esistono tuttavia ragioni ancor più essenziali per cercare di determinare con chiarezza che cos'è il linguaggio, ragioni direttamente collegate alla questione di che genere di creature siamo. Darwin non fu il primo a pervenire alla conclusione che «Gli animali inferiori differiscono dall'uomo solo per il potere infinitamente maggiore che l'uomo ha di associare i suoni alle idee più diverse»; «infinitamente» è un'espressione tradizionale che oggi va interpretata alla lettera. Tuttavia Darwin fu il primo a esprimere questo concetto tradizionale nel quadro di un incipiente racconto dell'evoluzione umana.

Ian Tattersall , uno dei maggiori specialisti dell'evoluzione umana, ne ha fornito una versione contemporanea. In una recente rassegna delle prove scientifiche di cui disponiamo attualmente, Tattersall osserva che un tempo si credeva che l'evoluzione avesse prodotto

i primi precursori del nostro io successivo. La realtà però è un'altra: l'acquisizione della singolare sensibilità [umana] moderna è avvenuta all'improvviso e molto di recente. [...] L'espressione di questa nuova sensibilità è stata quasi certamente favorita dalla cruciale invenzione di quella che è la caratteristica più notevole del nostro io moderno: il linguaggio.


Se le cose stanno così, allora una risposta all'interrogativo «che cos'è il linguaggio?» è importantissima per chiunque sia interessato alla comprensione del nostro io moderno.

Tattersall colloca quell'evento brusco e repentino in un ristrettissimo arco temporale probabilmente compreso tra 50.000 e 100.000 anni fa. Le date esatte non sono chiare, e non sono rilevanti per quello che ci interessa in questa sede, tuttavia lo è la repentinità della comparsa. Ritornerò sull'ampia e fiorente letteratura dedicata all'argomento, che in genere adotta un punto di vista molto diverso.

Se l'ipotesi di Tattersall è sostanzialmente precisa, come indicano le prove empiriche assai limitate di cui disponiamo, in quel breve arco di tempo comparve la capacità infinita di «associare i suoni alle idee più diverse», secondo le parole di Darwin. Questa capacità infinita risiede evidentemente in un cervello finito. La nozione di sistemi finiti dotati di capacità infinita è stata intesa appieno a metà del Novecento, il che ha reso possibile formulare con chiarezza quella che secondo me dovrebbe essere riconosciuta come la proprietà più fondamentale del linguaggio, che chiamerò semplicemente Proprietà fondamentale: ogni lingua offre una serie illimitata di espressioni strutturate in maniera gerarchica le cui interpretazioni danno luogo a due interfacce, sensomotoria per l'espressione e concettuale-intenzionale per i processi mentali. Ciò consente una concreta formulazione dell'infinita capacità di Darwin o, risalendo molto più indietro, della classica affermazione di Aristotele secondo cui il linguaggio è suono dotato di senso, anche se le ricerche recenti mostrano che «suono» è troppo limitato, e ci sono buoni motivi, su cui ritornerò, per ritenere che la formulazione classica sia fuorviante rispetto ad alcuni aspetti importanti.

Alla base, dunque, ogni linguaggio incorpora una procedura computazionale che risponde alla Proprietà fondamentale. Pertanto una teoria del linguaggio è per definizione una grammatica generativa, e ogni lingua costituisce ciò che in termini tecnici si chiama I-lingua, dove la «I» sta per interna, individuale e intensionale: noi siamo interessati a scoprire l'effettiva procedura computazionale, non un certo insieme di oggetti che enumera, ciò che, in termini tecnici, «genera con forza», più o meno analogo alle prove generate da un sistema assiomatico.

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[...] Dovremmo peraltro tenere in mente che l'ormai citatissimo aforisma di Wilhelm von Humboldt , cioè che il linguaggio implica l'uso infinito di mezzi finiti, si riferisce appunto all' uso. Più compiutamente, Humboldt ha scritto:

Il linguaggio è infatti la vera e propria controparte di un ambito infinito e davvero illimitato, ossia dell'insieme di tutto il pensabile. Esso deve pertanto fare un uso infinito di mezzi finiti ed è in grado di far ciò in virtù dell'identità che sussiste tra la facoltà che produce il pensiero e quella che produce il linguaggio.


Il filosofo tedesco si collocava così nella tradizione di Galileo e di altri, che associavano strettamente il linguaggio al pensiero; tuttavia si spinse ben oltre, formulando una variante della concezione tradizionale del linguaggio quale «caratteristica più notevole del nostro io moderno», secondo la recente espressione di Tattersall.

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Nel campo delle scienze cognitive computazionali c'è una piccola attività che cerca di mostrare che queste proprietà del linguaggio si possono apprendere con l'analisi statistica dei cosiddetti Big Data. Si tratta in effetti di una delle pochissime proprietà rilevanti del linguaggio che sia stata affrontata seriamente in questi termini. Si è dimostrato che ogni tentativo sufficientemente chiaro per essere indagato è irrimediabilmente fallito. Tuttavia la cosa più significativa da sottolineare innanzi tutto è che questi tentativi sono fuori luogo. Se si rivelassero fruttuosi, circostanza pressoché impossibile, lascerebbero intatto l'interrogativo iniziale, l'unico serio: perché il linguaggio utilizza invariabilmente la complessa proprietà computazionale della minima distanza strutturale, mentre ignora regolarmente la più agevole opzione della minima distanza lineare? L'incapacità di cogliere questo punto è il segno di una mancanza di quella disponibilità a farsi sconcertare di cui ho parlato prima, primo passo verso una seria ricerca scientifica, come si riconosce nelle scienze dure per lo meno a partire da Galileo.

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Benché la questione non sia risolta, prove considerevoli indicano che la tesi più generale è di fatto corretta: l'architettura fondamentale del linguaggio ignora l'ordine e altre disposizioni esterne. In particolare, nei casi essenziali l'interpretazione semantica dipende dalla gerarchia, non dall'ordine che si rinviene nelle forme espresse. Se le cose stanno così, la Proprietà fondamentale non è esattamente come l'ho formulata prima, né come è formulata nella produzione scientifica recente, compresi i miei articoli. Piuttosto, la Proprietà fondamentale è la generazione di una serie illimitata di espressioni gerarchicamente strutturate che corrispondono all'interfaccia concettuale-intenzionale, che costituiscono una sorta di «linguaggio del pensiero», molto probabilmente unico nel suo genere, anche se qui sorgono interrogativi interessanti.

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In primo luogo è curioso che si attribuisca una finalità alla lingua. Le lingue non sono utensili progettati dagli esseri umani, bensì oggetti biologici, come l'apparato visivo, il sistema immunitario o quello digerente. Talvolta si dice che questi organi hanno delle funzioni, che servono a qualcosa. Tuttavia anche questa idea è tutt'altro che chiara. Prendiamo la colonna vertebrale. Ha la funzione di tenerci eretti, di proteggere i nervi, di produrre cellule sanguigne, di accumulare il calcio o tutto questo insieme? Domande simili emergono allorché ci interroghiamo riguardo alla funzione e all'architettura del linguaggio. Qui normalmente entrano in gioco delle considerazioni di ordine evolutivo, ma non sono proprio di scarso rilievo; e lo stesso vale per la colonna vertebrale.

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Sono molti i casi simili. Nella misura in cui sono comprese, le strutture derivano dal libero funzionamento delle regole più semplici, che generano difficoltà di percezione ed elaborazione del linguaggio. Di nuovo, ove la facilità di elaborazione e l'efficienza comunicativa contrastano con l'efficienza computazionale nell'architettura del linguaggio, in ogni circostanza nota sono le prime a essere sacrificate. Ciò dà ulteriore sostegno all'idea del linguaggio quale strumento del pensiero, per molti aspetti perfettamente concepito, in cui l'espressione, e a maggior ragione la comunicazione e gli altri usi del linguaggio esternato, sono processi secondari. Come spesso accade, i fenomeni osservati concretamente forniscono un'immagine fuorviante dei principi soggiacenti. L'arte essenziale della scienza sta nel ridurre, secondo le parole del premio Nobel per la chimica Jean Baptiste Perrin, «il visibile complicato all'invisibile semplice».

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Capitolo secondo
Che cosa possiamo conoscere?



Nel capitolo precedente ho analizzato la domanda «Che cos'è il linguaggio?» e ho riflettuto su ciò che un'indagine approfondita su questa proprietà umana può insegnarci riguardo al tipo di creature che siamo. Molto, credo io, come ho cercato di illustrare. Adesso vorrei passare alle questioni concernenti più in generale le nostre capacità cognitive, e in particolare al modo in cui influenzano portata e limiti della nostra comprensione.

Esiste un concetto denominato «nuovo misterianesimo», coniato da Owen Flanagan, che lo ha definito come un atteggiamento postmoderno concepito per «infilare un grosso chiodo nel cuore dello scientismo», e ha affermato che la coscienza non si può mai spiegare completamente. Il termine è stato esteso a questioni più ampie che riguardano la portata e la natura delle spiegazioni accessibili all'intelligenza umana. Qui sotto utilizzerò il termine nell'accezione più vasta, che mi sembra più giusta.

Mi si accusa di essere uno dei responsabili di questa strana eresia postmoderna, alla quale preferisco però dare un nome diverso: ovvietà. Era quello che pensavo quarant'anni fa, quando proposi una distinzione tra problemi, che rientrano nelle nostre capacità cognitive, e misteri, che non vi rientrano. Nei termini che ho preso in prestito dall'abduzione (come descritta da Charles Sanders Peirce ), la mente umana è un sistema biologico che dispone di una serie limitata di «ipotesi ammissibili», le quali costituiscono i fondamenti dell'indagine scientifica umana e, in base allo stesso ragionamento, dei risultati cognitivi in genere. Per ragioni puramente logiche, il sistema deve escludere altre ipotesi e altre idee perché del tutto incomprensibili per noi, oppure perché troppo lontane in una gerarchia della comprensione per essere davvero comprensibili, anche se magari potrebbero esserlo per una mente strutturata in maniera diversa; ma questa forse non è l'opinione di Peirce. La GU esercita un ruolo più o meno analogo rispetto alla lingua, e l'osservazione essenziale si estende a tutte le capacità biologiche.

Talvolta si interpreta la nozione di abduzione di Peirce come un'inferenza alla migliore spiegazione, ma per quanto non sviluppata, tale nozione va ben oltre. Peirce insisteva con forza sui limiti delle «ipotesi ammissibili», che riteneva piuttosto ristretti, prerequisito per «immaginare teorie corrette». Se lui era interessato all'accrescimento del sapere scientifico, la stessa logica si applica all'acquisizione delle conoscenze comuni, in particolare all'acquisizione della lingua.

Lo stesso dovrebbe valere per le domande che possiamo formulare; la nostra struttura innata fornisce una grande varietà di domande formulabili, mentre ne esclude altre che una mente diversa potrebbe riconoscere come quelle giuste da porre. Ho anche citato le idee per certi versi simili di Hume , il quale ammetteva che, proprio come per le «bestie», la «maggior parte del sapere umano» dipende da «una specie di istinti naturali», che derivano «dalla mano originale della natura», cioè il patrimonio genetico, secondo la nostra terminologia. Si applicano le medesime conclusioni.

Tutto questo mi sembra piuttosto prossimo alla semplice ovvietà, anche se forse non per le ragioni che hanno condotto molte figure eminenti a conclusioni abbastanza simili. Se siamo organismi biologici, e non angeli, le nostre facoltà cognitive sono simili a quelle che si chiamano «capacità fisiche» e dovrebbero essere studiate di più come lo sono gli altri sistemi del corpo.

Prendiamo per esempio il sistema digerente. I vertebrati dispongono di «un secondo cervello», il «cervello intestinale», cioè il sistema nervoso enterico, «sede indipendente di integrazione ed elaborazione neurale». La struttura e le cellule che lo compongono sono «più simili a quelle del cervello di quelle di qualsiasi altro organo periferico». Ci sono più cellule nervose nell'intestino che nella spina dorsale, di fatto più «che in tutto il resto del sistema nervoso periferico», 100 milioni nel solo intestino tenue. Il cervello intestinale è «un grande deposito di sostanze chimiche, all'interno del quale è rappresentata ciascuna delle classi di neurotrasmettitori che si trova nel cervello», mentre la comunicazione interna è «ricca e simile a quella del cervello nella sua complessità». L'intestino è «il solo organo a contenere un sistema nervoso intrinseco in grado di mediare i riflessi in completa assenza di input dal cervello o dal midollo spinale». «Il cervello dell'intestino si è evoluto al passo con quello della testa». È diventato «un centro di elaborazione dati moderno e pieno di vita che ci consente di portare a termine alcuni compiti molto importanti e spiacevoli senza alcuno sforzo mentale»; e quando siamo fortunati lo fa «in modo efficace e al di fuori della nostra consapevolezza». È possibile inoltre che «abbia le proprie psiconevrosi», tanto che oggi alcuni ricercatori sostengono che è soggetto a patologie cerebrali come l'Alzheimer, il Parkinson e l'autismo. Possiede dei propri trasduttori sensoriali e un apparato regolatore, di cui è attrezzato per affrontare i compiti specifici imposti dagli organi con i quali interagisce, escludendo gli altri.

Indubbiamente «la mano originale della natura» determina ciò che il cervello intestinale può fare o non fare, i «problemi» che può risolvere e i «misteri» al di fuori della sua portata. Indubbiamente portata e limiti sono legati: le proprietà strutturali che generano la portata stabiliscono anche i limiti. Nel caso del cervello intestinale, non esiste alcun dibattito riguardo a una oscura «ipotesi dell'innatismo», che invece si condanna spesso nel caso del linguaggio ma non si difende mai, perché un'ipotesi del genere non esiste, a parte varie idee sulla componente genetica. Nessuno si lamenta perché dopo tutti questi anni la componente genetica del cervello intestinale non è del tutto compresa, esattamente come per gli altri sistemi. Lo studio del cervello intestinale è internalista. E non esistono critiche di carattere filosofico basate sul fatto che ciò che accade nel sistema digerente dipende sostanzialmente da questioni esterne a esso, provenienti da altre parti dell'organismo o dall'esterno della pelle. Si studiano la natura del sistema interno e le sue relazioni con l'esterno, senza dilemmi filosofici.

Si ritiene che interessi analoghi pongano seri dilemmi allo studio del cervello principale e delle sue capacità, in particolare il linguaggio umano.

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L'ultimo decennio del Novecento è stato definito «il decennio del cervello». Nell'introduzione a una raccolta di saggi in cui se ne passavano in rassegna i risultati, il neuroscienziato Vernon Mountclastle ha inquadrato il tema conduttore della tesi della nuova biologia, secondo la quale «Gli oggetti mentali, anzi le menti, sono le proprietà emergenti del cervello [, anche se] tali manifestazioni sono [...] il prodotto di principi che [...] ancora non comprendiamo». Si ribadiscono così ancora una volta, quasi con le stesse parole, le intuizioni settecentesche.

Tuttavia la frase «ancora non comprendiamo» dovrebbe essere considerata con una certa cautela. Dovremmo ricordare un'osservazione di Bertrand Russell , che nel 1927 scriveva che le leggi chimiche «al momento non si possono ridurre a leggi fisiche», circostanza che spinse alcuni scienziati eminenti a considerare la chimica soltanto come una modalità di calcolo che poteva predire dei risultati sperimentali, non come una vera scienza. Come si scoprì ben presto, l'osservazione di Russell, ancorché esatta, era parziale: in effetti le leggi chimiche non erano riducibili a leggi della fisica per come la si conosceva allora, anche se in seguito questa scienza sarebbe andata incontro a dei mutamenti radicali, con la rivoluzione della teoria quantistica, e avremmo assistito alla sua unificazione con una chimica pressoché immutata.

Forse qui le neuroscienze e la filosofia della mente avrebbero qualcosa da imparare. Le neuroscienze contemporanee non sono affatto solide come lo era la fisica un secolo fa. Anzi, i loro assunti fondamentali sono sottoposti a critiche ai miei occhi persuasive. L'opinione comune secondo la quale lo studio della mente costituisce le neuroscienze a livello astratto potrebbe rivelarsi fuorviante quanto le affermazioni sulla chimica di novant'anni fa, se cioè pensiamo alle neuroscienze attuali.

Si noti che le questioni che nascono riguardo a questo argomento non impediscono affatto di concepire la mente come il cervello considerato a un certo livello di astrazione, come nella presente analisi.

In un'opera recente particolarmente controversa, Thomas Nagel scrive:

Temo che la mente non sia un evento fortuito e inspiegabile né un anomalo dono divino, bensì un aspetto essenziale della natura che non comprenderemo fino a quando non oltrepasseremo i limiti impliciti dell'ortodossia scientifica contemporanea.


Se questo fosse vero, non ci si allontanerebbe troppo dalla storia della scienza, anche se ritengo che l'evocazione dell'«incredulità» e del «senso comune» potrebbe fare la fine di prospettive analoghe che furono abbandonate già dalla fine del XVII secolo, allorché fu assimilata la portata delle scoperte di Newton e si restrinsero in maniera notevole e implicita le finalità della ricerca scientifica, come si è detto in precedenza.

Alla luce di queste scoperte, nonché delle loro implicazioni, Hume scrisse che il grande merito di Newton stava nel fatto che toglieva «il velo da alcuni misteri della natura» e al contempo restituiva «gl'intimi secreti a quell'oscurità nella quale rimasero e rimarranno mai sempre». Per lo meno per gli uomini. Ancora una volta una forma di misterianesimo impegnato, per ragioni sostanziali.

All'incirca nello stesso periodo, nel discorso della filosofia moderna fece il proprio ingresso la coscienza. Nel suo recente studio, esauriente ed erudito, su questo insieme di argomenti, Udo Thiel scopre che il primo filosofo inglese a fare un ampio uso del sostantivo coscienza, in senso filosofico, fu Ralph Cudworth, attorno al 1670; tuttavia soltanto cinquant'anni dopo la coscienza divenne un oggetto d'indagine a sé stante. In seguito la coscienza venne identificata con il pensiero, come aveva già fatto Cartesio , secondo alcune interpretazioni. E per alcuni pensatori, come Humboldt, il pensiero si identificò ulteriormente con il linguaggio, il che diede luogo alla nozione di linguaggio del pensiero, tutte idee che in parte si possono riformulare in termini contemporanei, come ho illustrato nel capitolo precedente.

In età moderna, l'identificazione del pensiero con la coscienza riappare in svariati modi, per esempio nella tesi di Quine , secondo cui l'osservanza di una regola si riduce o a una «conformità», come nel caso dei pianeti il cui moto è conforme alle leggi di Keplero , oppure a un «orientamento» da parte del pensiero cosciente. Oppure nel «principio di connessione» di Searle , il quale afferma che le operazioni della mente devono essere in qualche modo accessibili all'esperienza cosciente, [...]

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Rispetto alle origini del linguaggio, un dato lo conosciamo con una certa sicurezza, mentre disponiamo di un'altra ipotesi plausibile. Il fatto è che, dal momento in cui i nostri antenati lasciarono l'Africa, tra 50.000 e 80.000 anni fa, non c'è stata alcuna evoluzione rilevabile. Lo stesso sembra valere per quanto riguarda le capacità cognitive in genere. L'ipotesi plausibile è di Tattersall, che ho citato nel capitolo precedente: abbiamo qualche motivo per supporre che il linguaggio esistesse già all'incirca 50-100.000 anni prima di questa migrazione.

Ogni discorso sull'origine del linguaggio umano dovrà riconoscere tale circostanza, e per lo meno prestare attenzione all'ipotesi plausibile. E dovrà fornire qualche proposta credibile riguardo all'origine di quella che ho definito Proprietà fondamentale. Che io sappia, non ne esiste alcuna, a parte quella che ho citato nel capitolo precedente, ritenuta eretica, se non peggio.

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Un esempio dei difetti della teoria referenzialista è il concetto di persona, abbondantemente studiato fin dall'epoca classica, e in particolare dal XVII secolo. Perciò quando si dice che il nome Jones denota chi lo porta, ci si può chiedere in cosa consista esattamente chi lo porta. Non può essere semplicemente il corpo materiale. Come osserva Locke , non è affatto assurdo pensare che la stessa persona potrebbe avere due corpi differenti, se la medesima coscienza «può essere trasferita da una sostanza pensante ad un'altra, sarà possibile che due sostanze pensanti formino una sola ed unica persona». Ci sono poi moltissime altre complicazioni. L'identità personale consiste dunque in (almeno) una sorta di «identità di coscienza» in continuità psichica. Locke aggiunge che il termine persona (o io, oppure anima) è peraltro «un termine forense, inteso ad attribuire le azioni e il loro merito; e perciò appartiene solo agli agenti intelligenti, suscettibili di una legge, e di felicità e infelicità».

Non è questa la sede per analizzare le ricche e acute indagini sull'argomento passate in rassegna di recente nell'opera di Udo Thiel che ho citato in precedenza. Tuttavia potrebbe essere utile ricordare brevemente l'interessante storia giuridica del concetto «forense» di persona.

Il Quinto Emendamento della Costituzione americana garantisce i diritti cruciali della «persona» affermando che non deve essere privata «della vita, della libertà o delle proprietà senza un regolare procedimento legale», norme che risalgono alla Magna Carta. Ma il concetto di persona era fortemente circoscritto: chiaramente non includeva i nativi americani né gli schiavi. Né le donne. Sotto la common law britannica, adottata dalle colonie, le donne erano in sostanza proprietà dei padri, che le consegnavano ai mariti. L'idea dominante la espresse Kant alcuni anni dopo: le donne non hanno «personalità civile» perché nella loro esistenza dipendono «dai comandi degli altri», al pari di apprendisti e servi, ugualmente privi di «personalità civile».

Il Quattordicesimo Emendamento estese lo statuto di persona agli schiavi liberati, almeno in linea di principio. In realtà, alcuni anni dopo un patto tra Nord e Sud consentì agli Stati che possedevano schiavi di istituire nuovamente una forma di schiavitù, criminalizzando di fatto i neri, circostanza che fornì una forza lavoro disciplinata e a buon mercato alla rivoluzione industriale. Questo sistema durò finché la Seconda guerra mondiale non creò la necessità di manodopera libera. Quella brutta storia sarebbe ritornata nella brutale «guerra alla droga» della generazione passata, lanciata da Reagan.

Quanto alle donne, soltanto nel 1975 la Corte Suprema riconobbe loro la «parità», con il diritto di svolgere il ruolo di giurate nei tribunali federali, accordando loro pertanto il pieno statuto di persona. Recenti sentenze della Corte hanno esteso tale diritto che era già stato concesso alle imprese, mentre hanno escluso dalla categoria gli stranieri clandestini. Non sarebbe una gran sorpresa se si concedessero i diritti della persona prima agli scimpanzé che agli immigrati clandestini.

Insomma, interpretare «persona» come termine forense ha molte conseguenze tanto complesse quanto nefaste sul piano umano.

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[...] Galileo sosteneva che le teorie sono intelligibili soltanto a una condizione assai restrittiva: soltanto se possiamo «rappresentar da noi un simile effetto», «per qualunque artifizio si adoperi», concezione che fu mantenuta da Cartesio, Leibniz, Huygens, Newton e altre grandi figure della rivoluzione scientifica.

Di conseguenza, le scoperte di Newton resero il mondo inintelligibile, mentre venivano liquidati i presupposti teologici. La soluzione raggiunta, come ho detto in precedenza, fu quella di ridurre gli obiettivi della scienza, abbandonando la ricerca dell'intelligibilità del mondo a favore di qualcosa di meno ambizioso: l'elaborazione di teorie intelligibili per noi indipendentemente dall'intelligibilità dei loro postulati. Pertanto fu del tutto naturale, per Bertrand Russell, liquidare la stessa idea di mondo intelligibile come «assurda», non più obiettivo ragionevole dell'indagine scientifica.

[...]

Mentre l'elenco dei misteriani è lungo e composto di nomi eminenti, la loro posizione appare in contrasto con la tesi fin troppo ottimistica secondo cui la prima rivoluzione scientifica e l'Illuminismo hanno dato agli uomini una capacità esplicativa illimitata, dimostrata dal rapido sviluppo della scienza moderna. Una figura di rilievo che abbracciò tale opinione fu David Hilbert. Nella sua conferenza finale del 1930, non molto tempo prima che la piaga nazista distruggesse il suo circolo di Gottinga, il matematico tedesco ricordò «il magnifico modo di pensare e la visione del mondo che risplendono» nelle parole del grande matematico Jacobi, il quale aveva ammonito Fourier perché aveva affermato che scopo della matematica è quello di spiegare i fenomeni naturali. Al contrario, insisteva Hilbert, «scopo unico di tutta la scienza è l'onore dello spirito umano», perciò «un problema di teoria dei numeri vale quanto un problema di applicazioni pratiche». Chiunque colga tale modo di pensare, continuava Hilbert, si renderà conto che «non esiste alcun ignorabimus», né in matematica né nelle scienze naturali. «Non esistono affatto problemi irrisolvibili. In opposizione allo sciocco ignorabimus io offro il nostro slogan: noi dobbiamo sapere, noi sapremo», parole che furono incise sulla lapide di Hilbert.

Nella matematica, il pronostico non si è rivelato poi tanto azzeccato, come dimostrò presto Kurt Gödel con grande impressione nel mondo matematico. E malgrado la nobiltà del pensiero, il ragionamento non aveva grande forza per le scienze naturali.

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[...] Peirce sosteneva che l'istinto abduttivo che stabilisce delle ipotesi ammissibili e ci permette di scegliere tra di esse si era sviluppato attraverso la selezione naturale: le varianti che producevano verità sul mondo fornivano un vantaggio nella selezione e si conservavano nella discendenza con modificazioni, mentre le altre scomparivano. Nondimeno tale opinione è del tutto indifendibile. Al contrario, la teoria dell'evoluzione colloca gli esseri umani saldamente all'interno del mondo naturale, e li assume quali organismi biologici al pari degli altri, dunque dotati di capacità che hanno una portata e dei limiti, anche in ambito cognitivo. Perciò chi accetta la biologia moderna dovrebbe aderire al misterianesimo.

Abbandonato l'insostenibile ricorso alla selezione naturale, ci resta una seria e impegnativa ricerca scientifica: determinare le componenti innate della nostra natura cognitiva nel linguaggio, nella percezione, nella concettualizzazione, nell'elaborazione di teorie, nella creazione artistica e in tutti gli altri ambiti della vita. Un ulteriore compito sta nel determinare la portata e i limiti dell'intelletto umano, ammettendo che un'intelligenza strutturata in maniera diversa potrebbe considerare i misteri-per-gli-umani quali problemi elementari e stupirsi che non riusciamo a risolverli, così come noi possiamo constatare l'incapacità dei topi di uscire da un labirinto strutturato secondo i numeri primi, a causa della stessa architettura della loro natura cognitiva.

Invece di lamentarci per l'esistenza di misteri-per-gli-umani, dovremmo piuttosto essere riconoscenti. Senza limiti all'abduzione, le nostre capacità cognitive non avrebbero nemmeno alcuna portata, come se il patrimonio genetico non imponesse vincoli alla crescita e allo sviluppo di un organismo che potrebbe diventare soltanto una informe creatura ameboide, che reagisce per riflesso agli eventi fortuiti di un ambiente non analizzato. Le condizioni che impediscono a un embrione umano di diventare un insetto svolgono un ruolo cruciale nel determinare che possa diventare un essere umano, e lo stesso vale in ambito cognitivo. La teoria estetica classica riconosceva lo stesso rapporto tra portata e limiti. Senza regole, non può darsi un'autentica attività creativa, anche quando il lavoro creativo contesta e corregge le regole dominanti.

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Capitolo terzo
Che cos'è il bene comune?



Nei due capitoli precedenti ho trattato argomenti strettamente connessi come il linguaggio e il pensiero. A mio avviso l'indagine ravvicinata rivela che essi presentano molte proprietà sorprendenti, in gran parte impossibili da osservare direttamente e, per alcuni dei loro aspetti importanti, inaccessibili alla coscienza. Tra queste proprietà vi sono la struttura e l'architettura di base del soggiacente sistema computazionale del «linguaggio del pensiero», costituito dalla lingua interna, l'I-lingua, che ogni individuo padroneggia e la cui portata, ampia ma comunque limitata, è determinata dalla nostra natura essenziale. Inoltre gli atomi della computazione, i concetti atomici del linguaggio e del pensiero, appaiono un'esclusiva fondamentale degli esseri umani, il che solleva problemi ardui riguardo alle origini, problemi che non si possono esplorare efficacemente senza tener conto delle proprietà del fenotipo. A mio avviso l'indagine rivela anche che la portata del pensiero umano è a sua volta ristretta dai «limiti alle ipotesi ammissibili» che ne fanno la ricchezza e la profondità; restano così dei misteri che resisteranno a quella forma di conoscenza a cui ambivano i creatori della rivoluzione scientifica della prima modernità, com'è stato riconosciuto dalle grandi figure del pensiero sei e settecentesco, e si aprono al contempo delle possibilità di ricerca su questioni affascinanti che sono state esplorate troppo poco.

Fin qui mi sono limitato a determinati aspetti cognitivi della natura umana e ho considerato gli esseri umani in quanto individui. Gli uomini sono però degli esseri sociali, naturalmente, e il tipo di creature che diventiamo dipende essenzialmente dalle circostanze sociali, culturali e istituzionali della nostra vita. Questo ci porta dunque a esplorare quelle forme di organizzazione sociale che contribuiscono al riconoscimento dei diritti e al benessere degli individui, affinché realizzino le proprie aspirazioni: in sostanza, al bene comune.

Ho guardato inoltre in larga misura a quelle che mi appaiono come vere e proprie ovvietà, ancorché di un tipo singolare, dal momento che in genere vengono rifiutate. In questo capitolo vorrei indicarne altre, anch'esse segnate da caratteristiche singolari. E con la più ampia portata delle questioni che cercherò di affrontare, queste presunte ovvietà riguardano una particolare categoria di principi etici: quelli che non sono semplicemente universali, perché quasi tutti li professano, bensì doppiamente universali, giacché sono allo stesso tempo pressoché universalmente rifiutati nei fatti. Si va dai principi davvero generali, come il luogo comune secondo il quale dovremmo applicare a noi stessi i criteri che applichiamo agli altri, se non addirittura più rigidi, fino a dottrine più specifiche, come l'impegno nel promuovere la giustizia e i diritti umani, proclamato pressoché universalmente, persino dai peggiori mostri, ma la cui situazione reale è cupa, da una parte all'altra dello spettro.

Un buon punto di partenza è il classico di John Stuart Mill , Saggio sulla libertà. In epigrafe sta scritto: «Il grande principio, cui direttamente convengono tutti gli argomenti sviluppati in queste pagine, è l'assoluta e essenziale importanza dello sviluppo umano nella sua più ricca diversità». Le parole sono tratte da Wilhelm von Humboldt , il quale, tra le sue tante imprese, vanta quella di essere uno dei fondatori del liberalismo classico. Ne consegue che le istituzioni che limitano questo sviluppo umano sono illegittime, se non sono in grado di giustificare la propria esistenza.

Humboldt esprimeva opinioni piuttosto diffuse all'epoca dell'Illuminismo. Un altro esempio è l'aspra critica di Adam Smith contro la divisione del lavoro, e in particolare le ragioni che adduce. Scrive Smith: «L'intelletto della maggior parte degli uomini è necessariamente formato dalle loro occupazioni ordinarie», perciò

chi passa tutta la sua vita a eseguire alcune semplici operazioni, i cui effetti sono inoltre sempre gli stessi o quasi, non ha occasione di esercitare l'intelletto [...] e generalmente diventa tanto stupido e ignorante quanto può diventarlo una creatura umana. [...] Ma in ogni società progredita e civile questo è lo stato in cui i poveri che lavorano, cioè la gran massa del popolo, devono necessariamente cadere a meno che il governo si prenda qualche cura di impedirlo.


La preoccupazione per il bene comune dovrebbe spingerci a trovare il modo di superare i terribili effetti di queste politiche disastrose, che toccano tanto il sistema educativo quanto le condizioni di lavoro, allo scopo di offrire la possibilità di esercitare l'intelletto e coltivare lo sviluppo umano nella sua massima diversità.

L'aspra critica di Smith nei confronti della divisione del lavoro non è nota quanto la sua smaccata lode dei grandi benefici. Anzi, nell'edizione accademica del bicentenario approntata dall'università di Chicago, non è nemmeno inserita nell'indice. Eppure si tratta di un esempio istruttivo di quegli ideali illuministici che stanno alla base del liberalismo classico.

Probabilmente Smith riteneva che non dovesse essere troppo difficile mettere in atto politiche umanitarie di quel tipo. La sua Teoria dei sentimenti morali si apre con la seguente osservazione:

Per quanto egoista si possa ritenere l'uomo, sono chiaramente presenti nella sua natura alcuni principi che lo rendono partecipe delle fortune altrui, e che rendono per lui necessaria l'altrui felicità, nonostante da essa egli non ottenga altro che il piacere di contemplarla.


Malgrado la forza della «vile massima dei padroni dell'umanità» – «Tutto per noi e niente per gli altri» –, tale patologia potrebbe essere compensata dalle «passioni originarie della natura umana».

Il liberalismo classico è naufragato sulle secche del capitalismo, ma l'umanesimo di cui era portatore con le sue aspirazioni e il suo impegno non sono morti. In tempi più vicini a noi idee analoghe furono ribadite per esempio da un importante pensatore politico, il quale mise in evidenza quella che chiamava «una tendenza definita nello sviluppo storico dell'umanità», che lotta per «il libero e incontrastato dispiegarsi di tutte le forze sociali e individuali nella vita». L'autore era Rudolf Rocker , importante pensatore e attivista anarchico novecentesco, il quale tracciava un profilo della tradizione anarchica che, a suo avviso, culminava nell'anarco-sindacalismo, o, secondo la terminologia europea, una variante del «socialismo libertario». Rocker sosteneva che queste idee non raffigurano affatto «un sistema fisso, chiuso», dotato di una risposta precisa a tutti i problemi e a tutte le molteplici questioni della vita umana, bensì una tendenza dello sviluppo umano che lotta per la realizzazione degli ideali illuministici.

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