Copertina
Autore Felice Cimatti
Titolo Il senso della mente
SottotitoloPer una critica del cognitivismo
EdizioneBollati Boringhieri, Torino, 2004, Saggi , pag. 232, cop.fle., dim. 145x220x15 mm , Isbn 978-88-339-1565-4
LettoreCorrado Leonardo, 2005
Classe filosofia , scienze cognitive , scienze umane , linguistica , psicologia , psicanalisi , sensi , natura-cultura , mente-corpo
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Indice


         Il senso della mente


  9      Introduzione. La natura della mente


 35 1.   Skinner e Chomsky sulla natura del linguaggio

    1.1. Dal linguaggio al comportamento verbale, 37
    1.2. La mente grammaticale, 51
    1.3. Tipi di riduzionismo, 58

 78 2.   Il problema di Fodor.
         Riempire la mente senza metterci nulla

    2.1. Preambolo sul concetto di «informazione»:
         ossia, prendi due e paghi uno, 81
    2.2. Geometrie della mente: il linguaggio del pensiero, 85
    2.3. Rinunciare al senso: la condizione di formalità, 98
    2.4. Contrordine, riempire la mente: cause per i pensieri, 102
    2.5. La vendetta del senso: quale mente è riducibile al
         non mentale?, 110

117 3.   L'arroganza delle cause e il disagio delle ragioni.
         Per una teoria biologica dell'ambiente umano,
         cioè dell'ambiente del linguaggio

    3.1. Sono le «cause», le cause delle «ragioni»?, 117
    3.2. Vera o falsa purché funzioni, 123
    3.3. Se è tutto qui, tanto vale farne a meno, 132
    3.4. Né cause né ragioni, ma spiegazioni, 141

148 4.   Il cerchio della vita e il linguaggio del cerchio.
         Il senso come problema biologico

    4.1. Il senso delle carote, 148
    4.2. Cos'è la vita? La fallacia del riduzionista, 153
    4.3. Al di qua del senso: nel cerchio del linguaggio, 158
    4.4. Quando il dopo precede il prima: la vita del segno, 162
    4.5. Il mulino di Leibniz, 171

176 5.   Né interno né esterno:
         il test di Turing e la natura della mente

    5.1. Un problema grammaticale: può, il cervello,
         rappresentarsi qualcosa?, 176
    5.2. Macchine che calcolano, 181
    5.3. Materialismo squisito: le stanze (cinesi) non parlano, 187
    5.4. Non io penso, bensì noi pensiamo, 192

200 6.   Vita e «giochi linguistici»

    6.1. C'è un'essenza del linguaggio?, 200
    6.2. Grammatica della «cosa», 201
    6.3. «Si parla di cause in molti sensi», 205
    6.4. Forme di vita e «cassetta degli utensili», 211
    6.5. «Come un che di animale», 218

223      Bibliografia

 

 

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Pagina 9

Introduzione

La natura della mente


    Dobbiamo sapere che cosa significa spiegazione. È un rischio permanente
    voler usare questa parola in logica in un senso desunto della fisica.
                                Wittgenstein, The Big Typescript, XII, § 16



Di un particolare tipo di domande si occupa questo libro, ad esempio: quanto pesa un pensiero? Di che colore è? Dove sta? Si tratta di domande che dobbiamo prendere alla lettera, così come chi ci chiede quali siano gli ingredienti del sugo all'amatriciana si aspetta una risposta come: guanciale, pepe e pecorino (e, se non ci curiamo della filologia culinaria, pomodoro). Per questo ci può essere chiesto quale sia il suo (del pensiero, non del sugo) colore: perché se un pensiero viene annoverato fra le entità materiali — questo significa chiedersi dove sta, perché soltanto le cose stanno da qualche parte - allora è sensato interrogarsi anche sul suo colore, o il suo peso, o addirittura il suo odore. E attenzione, non fa nessuna differenza se il nostro interlocutore crede che i pensieri siano entità di tipo speciale, in qualche modo più astratte rispetto alle cose di tutti i giorni. Si prenda, ad esempio, la descrizione del dolore come «stato funzionale» (così come propone il funzionalismo, una delle principali correnti della scienza cognitiva)) Uno «stato funzionale», si sostiene, non è proprio una cosa (perché i pensieri, come detto, sono entità astratte), ma comunque una proprietà astratta di entità materiali. Si pensi alla proprietà astratta del «tracciare segni» che puo appunto essere realizzata materialmente da cose diverse, come un gessetto, un chiodo, un pennarello, un pennello, e così via. Se il pensiero è uno stato funzionale, allo stesso tempo è qualcosa di astratto (e quindi diverso dalle cose, così come la mente è diversa dal cervello) ma anche di concreto, ché quella proprietà, per essere reale (per lasciare fisicamente dei segni su una superficie), deve potersi realizzare in entità materiali assolutamente concrete (come a dire, senza cervello una mente è soltanto una vuota astrazione). Il punto fondamentale di questa teoria è che quella entità astratta, il pensiero, se vuole essere qualcosa di reale deve diventare concreta, deve cioè diventare una cosa. Come a dire, in quanto pensiero e basta non è (ancora) nulla. Ma una mente umana è una mente che pensa pensieri; questa teoria sostiene che quei pensieri esistono non in quanto tali, in quanto pensieri, ma solo se diventano cose, cioè non pensieri. La mente esiste, in questo modo di studiarla, solo come non mente, come cervello ad esempio, ossia come cosa. Pertanto questa teoria si basa comunque sull'idea che uno stato mentale sia qualcosa che esiste realmente se e soltanto se ha un qualche ruolo causale (brutalmente, se può muovere qualche ingranaggio della macchina cerebrale):

Il dolore può essere analizzato funzionalmente come uno stato che: è tipicamente causato da un danno arrecato al corpo o agli organi interni; induce (causa) un organismo a ritrarsi, gridare o prendersi cura dell'area lesionata; causa una gamma di reazioni che vanno dal semplice fastidio alla sofferenza intensa; causa la credenza di provare dolore e (normalmente) il desiderio di sbarazzarsene.

Il dolore, cioè, anche in questa parafrasi cognitivista rimane un tipo, per quanto speciale, di cosa, perché solo le cose possono avere poteri causali su altre cose, come ad esempio un braccio che si massaggia una parte dolente del corpo oppure un apparato vocale che articola i suoni che compongono la parola «aiuto!». [Maraffa 2002]

Bene, secondo il libro che avete fra le mani una descrizione come questa non ha nulla di interessante da dirci sul dolore di una mente umana (e nemmeno di una mente non umana, peraltro). Diremo di più: consideriamo questa che avete appena letto come una descrizione scientificamente non corretta dell'esperienza umana del dolore. Perché in questa descrizione si parla soltanto di ciò che a un corpo accade, e di come questo accadere inneschi meccanicamente ulteriori sequenze causali. Questo non è il dolore, perché il dolore non è qualcosa che accade, qualcosa che semplicemente è, bensì qualcosa che significa per un essere umano. E una cosa (anche una cosa enormemente complicata come il cervello) non significa nulla, in quanto cosa. Se si crede che considerare un pensiero non direttamente una cosa ma uno stato funzionale ci permetta di salvare l'autonomia del mentale (questo sarebbe l'obiettivo del cognitivismo), una descrizione come quella che abbiamo letto non raggiunge questo scopo: in quella descrizione troviamo soltanto sequenze di effetti (e cause) fisici. In quella descrizione lo stato funzionale è ridotto a una cosa, ma le cose non hanno senso, e il dolore, come il pensiero in generale, è senso, non è nient'altro (il che non vuol dire che si ritenga che i pensieri siano entità immateriali, ma che non è la loro materialità a rendere quelle eventuali cose dei pensieri).

Domande come queste sono alla base di un vasto e importante progetto di ricerca che ha conosciuto, negli ultimi decenni, una progressiva e crescente adesione da parte di scienziati e, sorprendentemente, psicologi e, ancora più sorprendentemente, filosofi (i prossimi capitoli in fondo, non mirano ad altro che a dare conto di questo avverbio). Questo progetto di ricerca è complessivamente noto come scienza cognitiva. Una scienza, quella cognitiva, che come dice il suo stesso nome, intende essere appunto scienza della cognizione, ossia della conoscenza umana, della mente. Io credo che questo progetto sia sbagliato. E non perché, ovviamente, della mente umana non sia possibile dare una descrizione scientifica — anche questo libro, a suo modo, cerca di fornire degli strumenti in vista di una descrizione scientifica e materialistica della mente — ma perché i presupposti fondamentali della scienza cognitiva rendono impossibile, in linea di principio ci permettiamo di suggerire, raggiungere i suoi stessi obiettivi: la scienza cognitiva, paradossalmente, ha molto da dirci sul cervello, ma nulla sulla mente.

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Wittgenstein ci dice che l'estetica, ma anche l'esperienza religiosa o quella etica, hanno a che fare con la mente (più precisamente, con quelle che lui chiama «ragioni»), non con il cervello. E non si obietti con la giusta ma banale osservazione che senza cervello non c'è mente, perché non si sta negando questo; il punto è che in questo caso tutto quel che ci interessa è concentrato nella mente, mentre dal cervello non possiamo ricavare nessuna risposta. In sostanza, per Wittgenstein ciò che ci caratterizza come animali rispetto agli altri animali non si può indagare con gli strumenti concettuali, e quindi con le domande, che sono invece adatte per altri problemi, come ad esempio: qual è la massa di un neutrone? Quali sono le sostanze chimiche che si scambiano i neuroni in una sinapsi? Da quanto tempo esiste l'universo? Da questo punto di vista domande come quelle con cui abbiamo aperto questa Introduzione sono logicamente, prima ancora che fattualmente, insensate.

Un pensiero non è una cosa, quindi non sta da nessuna parte, non ha colore né peso. I pensieri vivono, letteralmente, nelle pratiche umane in cui compaiono, quelle pratiche che Wittgenstein chiama «giochi linguistici». E siccome un discorso non si pesa, ma al più ci convince oppure no, così i pensieri non hanno peso né collocazione spaziale.

Da questo punto di vista tutto il fervore con cui ci si affanna a indicare il luogo fisico di una certa presunta capacità mentale (l'area cerebrale dell'arte, o della religione, ad esempio), poggia su un radicale equivoco logico, prima che scientifico. Logico, perché si applicano a un certo genere di entità — i pensieri — dei predicati che non gli spettano; scientifico, perché in realtà non ci dicono nulla di significativo sul fenomeno che vorrebbero spiegare. In effetti, se quel che ci interessa è conoscere le forme e l'articolazione dell'esperienza estetica umana, per tornare all'esempio di Wittgenstein, sapere quale pezzetto del cervello si accenda quando vediamo un'immagine sembra di scarsa utilità.

La posta in gioco, allora, è principalmente sulle nozioni connesse di naturalizzazione della mente e di natura umana. Più in particolare, si tratta di individuare un modello di descrizione scientifica dell'umano che eviti tanto la naturalizzazione in senso riduzionistico — per cui il concetto di natura coincide con quello di materia, di cosa — tanto lo schema che, proprio per evitare questa deriva, ritagli per l'umano uno spazio residuale che sfuggirebbe all'ambito naturale. A fini puramente esemplificativi (che quindi non pretendono di individuare con precisione le rispettive posizioni teoriche), ci riferiremo alla prima proposta come al riduzionismo, e alla seconda come all'antinaturalismo. La tesi fondamentale di questo libro sarà allora la seguente: una descrizione scientifica della mente umana non può essere né riduzionistica, perché in questo modo quel che si spiega non è la mente, né peraltro antinaturalistica, progetto che salvaguarda l'autonomia della mente solo al prezzo di trasformarla in una entità misteriosamente separata dal mondo naturale: la mente è naturale ma non è una cosa.

Il punto di partenza del riduzionismo è il seguente: la mente, se non si vuole abbandonare il mondo della natura, deve alla fine coincidere con un qualche strato di materia, perché soltanto a questo livello, quello delle cose, la mente può muovere il corpo. Un pensiero può muovere una cosa, ad esempio un muscolo, soltanto se è esso stesso una cosa: «Un oggetto astratto non può avere proprietà causali. Sono gli stati fisici sottostanti a essere causalmente efficaci, consentendo in tal modo allo stato mentale [...] di soddisfare il suo ruolo causale». L'idea, infatti, secondo cui uno stato mentale è individuato dal suo ruolo funzionale, cioè dal suo potere causale rispetto ad altri stati mentali, è — nonostante pretenda, curiosamente, d'essere il contrario - nient'altro che una forma di riduzionismo. In effetti è riduzionistico ogni progetto di ricerca per il quale è sensata (logicamente e scientificamente) una domanda come questa: cosa è un pensiero? Siccome, come vedremo nella prima parte di questo libro, è proprio a questa domanda che la scienza cognitiva vuole dare una risposta, allora si tratta di un progetto di ricerca riduzionistico. Sia chiaro, non c'è nulla di male nel riduzionismo: il punto è che, una volta che si sia ridotto un pensiero a una cosa, quello che abbiamo fra le mani o sul vetrino del microscopio semplicemente non è più un pensiero. E siccome la mente vive finché vivono i pensieri, quando i pensieri siano stati fossilizzati e ridotti a cose anche alla mente tocca lo stesso destino.

Analizziamo le principali implicazioni teoriche dell'equazione mente = cervello (qui il termine «cervello» deve essere inteso come esempio paradigmatico di entità materiale):

1) La mente, rispetto al cervello, è una sorta di fenomeno accessorio, poco più (o meno) di un fantasma. Se infatti naturalizzare la mente significa ricondurla al livello delle cose e delle interazioni fra cose, «dato che ogni evento fisico che ha una causa ha una causa fisica, com'è possibile che esista una causa mentale [ossia una causa diversa da quella fisica]?» Se naturale equivale a materiale, e naturalizzare una entità mentale significa ricondurla a entita materiale, la mente potrà avere effetti causali solo se verrà intesa come entità essa stessa materiale. Tutto bene, solo che, in questo modo, nota con rigore Kim, «pensare di poter essere un fisicalista [cioè, nei nostri termini, un riduzionista] serio e allo stesso tempo godere della compagnia di cose e fenomeni che sono non-fisici, credo sia un sogno futile. Il fisicalismo riduzionistico salva il mentale ma solo come parte del fisico», cioè, appunto, come non mentale.

2) Il concetto di natura e quello di materia di fatto coincidono. Per questo la mente, per il riduzionismo, è una entità affatto naturale, nel senso in cui sono entità naturali oggetti materiali come le sveglie e i semi di zucca. Come vedremo questa equazione non è affatto ovvia, e anzi molti equivoci nascono proprio dal fatto che non ci si rende conto che il campionario delle entità naturali è assai più ampio del campionario di quelle materiali (per non fare che un esempio: un numero immaginario è reale ma non materiale). Una teoria scientifica della natura umana dovrà pertanto - come primo compito - elaborare una teoria non riduzionistica del concetto di natura.

3) Se valgono 1) e 2) le scienze del mentale non potranno non essere le scienze che studiano il cervello, come le neuroscienze, la psicologia nel senso paradossale di scienza delle rappresentazioni mentali, l'intelligenza artificiale.

La psicologia che trova posto all'interno del progetto della scienza cognitiva si occupa della mente come sistema che elabora informazioni, ossia elabora rappresentazioni interne dei fenomeni del cosiddetto mondo extramentale (una rappresentazione mentale è un segno interno che rimanda a oggetti del mondo esterno). Una psicologia siffatta sembra avere molto poco da dire sulla mente di un essere umano reale, di carne e sangue. Quella che a Felice, e a chi gli vuole bene (o male, da questo punto di vista non fa differenza), pare essere la sua mente - ossia i suoi pensieri e le sue speranze, le sue paure e le sue fantasie, e così via - per un seguace della scienza cognitiva appare come una mera apparenza: i cognitivisti sono infatti interessati ai cosiddetti processi profondi. Con il paradossale risultato di considerare del tutto inessenziale proprio quello - la mente ossia, nei loro termini, la superficie - che pretendono invece di spiegare. Come a dire, si può spiegare la mente solo a patto di rinunciarvi.

Veniamo ora all'antagonista, si fa per dire, del riduzionismo, l' antinaturalismo, una cura per molti versi peggiore della malattia che vorrebbe curare. La formula generale dell'antinaturalismo è, schematicamente, la seguente: la mente non è una entità naturale. Da notare, preliminarmente, che l'antinaturalismo adotta esattamente la stessa nozione di natura del riduzionismo, secondo il quale natura e materia, come visto, sostanzialmente coincidono. Proprio perché in fondo la pensa allo stesso modo del riduzionismo, l'antinaturalismo è costretto alla mossa disperata di staccare la mente dal mondo naturale. Solo in questo modo, infatti, pare possibile salvaguardare l'autonomia del mentale, perché, come impietosamente ci ricorda Kim, «tutte le strade che si diramano dal fisicalismo» sembrano «convergere in definitiva nello stesso punto, l'irrealtà del mentale», con il risultato che «un dualismo radicale» sembra offrire «un'alternativa più realistica per salvare il mentale».

Più in dettaglio, le implicazioni dell'antinaturalismo sono:

1) La mente rappresenta un livello di realtà distinto e autonomo dal cervello, per quanto in qualche modo (spesso del tutto oscuro) vi sia connesso. La confusione in cui precipita questa posizione, che pretende di far coesistere contemporaneamente una nozione meramente materialistica di natura con l'esigenza di mantenere l'autonomia del mentale, è, data la premessa, inevitabile.

2) La mente, dal momento che deve essere qualcosa di completamente diverso dalla materia, è una entità culturale. Questo è un corollario dell'equazione materia = natura. Il mondo della cultura, infatti, ossia il mondo tipicamente umano, deve essere radicalmente distinto da quello naturale.

3) Le vere scienze del mentale non saranno neuroscienze, psicologia, intelligenza artificiale, perche queste studiano soprattutto il cervello; se quindi la mente non è una entità naturale allora altre dovranno essere le scienze del mentale, in particolare quelle specificamente legate all'ermeneutica, le scienze dell'interpretazione.

Il compito che ci si pone è allora quello di provare a pensare in modo diverso le stesse premesse (come tali nascoste al nostro sguardo, tanto più coercitive quanto meno consapevolmente percepite come premesse) che intrappolano la nostra riflessione sulla mente umana, costringendola a imboccare due strade teoriche egualmente insoddisfacenti, il riduzionismo materialistico e il riduzionismo antinaturalistico (ché di riduzionismo si tratta, a tutti gli effetti, anche in quest'ultimo caso). Deve essere chiaro, infatti, che le derive antinaturalistiche dell'ermeneutica non si correggono adottando una qualche forma di riduzionismo; in questo modo non si fa che spostare il pendolo da una parte, ma accettando implicitamente, come terreno di confronto, quello dell'avversario, e accettando anche che, inevitabilmente, prima o poi il pendolo torni dall'altra. La vera posta in gioco, in sostanza, è quella del concetto di «natura».

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Se le nostre attività più naturali, in senso biologico (aristotelico), nel senso che fanno parte, come dice Wittgenstein, della «nostra storia naturale», sono quelle culturali, allora la natura umana consiste nella sua cultura. A questo punto si ribalta l'accusa del riduzionista all'antinaturalista, in quello che potremmo chiamare «il paradosso del (falso) naturalista»: chi pretende di naturalizzare la mente umana escludendo il linguaggio e la cultura, in realtà assume un atteggiamento antinaturalistico, perché trascura proprio la natura di ciò che sta studiando, la sua specificità biologica. Un naturalismo e un materialismo genuini, nello studio della mente umana, implicano l'attenzione agli elementi culturali della mente umana; uno studio che lasci da parte queste dimensioni e che pertanto si concentri soltanto sugli aspetti che l'animale umano condivide con gli altri animali, non è un naturalismo reale, ma rischia di essere un naturalismo che non ha nulla di «naturale».

In questo contesto il progetto delle scienze cognitive segna un evidente passo indietro rispetto alla questione che ci interessa, la naturalizzazione della mente. Un passo indietro, ad esempio, già rispetto alla critica hegeliana della frenologia, l'antecedente settecentesco della attuale teoria modulare della mente. Secondo la frenologia, osserva infatti Hegel, «l'essere dello spirito è un osso». Ora, in questa fossilizzazione della mente — per usare la terminologia contemporanea — si perde proprio il carattere essenziale della mente stessa, il suo vivere semplicemente nelle pratiche in cui compare, nelle pratiche del senso. Quell'osso che dovrebbe essere la più esplicita testimonianza dello spirito, oppure — come vuole il cognitivista — quel cervello rispetto alla mente, non significano nulla in quanto cose, appunto perché, di per sé, non sono altro che mute e ottuse cose. Così come un segno è segno non perché fatto di un determinato materiale, ma perché è considerato, da una mente preesistente, segno di qualche altra cosa:

Con la scatola cranica non si ruba, non si uccide ecc. [...]. Questo "essente", inoltre, non ha nemmeno il valore di "segno". I tratti del viso, il gesto della mano, il tono della voce, persino una colonna, un palo piantato su un'isola deserta, rinviano subito a qualcos'altro da ciò che essi "sono soltanto" immediatamente; si annunciano subito come segni, in quanto contengono una determinazione che, non essendo loro peculiare, rimanda ad altro. Ora, è vero che anche un cranio può suscitare in noi, come quello di Yorick in Amleto, ogni sorta di meditazioni; di per sé, però, il cranio è solo una cosa cruda e indifferente, nella cui immediatezza non è possibile scorgere né assumere altro che il cranio stesso. Esso ci ricorda certamente il cervello e la relativa determinatezza, ci ricorda pure il cranio di un'altra formazione animale, ma non ci fa pensare affatto a un movimento cosciente. [Hegel, 1807]

Il passo indietro, dalla mente all'«osso», si manifesta con particolare evidenza nel modo in cui la scienza cognitiva ha completamente rimosso la distinzione di Frege (per altri versi considerato all'origine di quel movimento di pensiero, la filosofia analitica, poi sfociato almeno in parte nelle scienze cognitive) fra «rappresentazione» e «senso». La prima, per Frege, è «intrisa di sentimenti e la nitidezza delle singole parti è diseguale e fluttuante. Neppure per una stessa persona la stessa rappresentazione è sempre associata allo stesso senso. La rappresentazione è soggettiva: quella dell'uno è diversa da quella dell'altro», mentre il secondo «non è parte o modo della psiche individuale; e infatti nessuno vorrà disconoscere che l'umanità ha un tesoro comune di pensieri che si tramanda di generazione in generazione». La distinzione di Frege solleva un problema formidabile per ogni riduzionismo che voglia provare a rendere conto anche delle più semplici - apparentemente - manifestazioni mentali. Come spiegare, infatti, in termini riduzionistici, lo scambio comunicativo? Quando Francesco pensa a Frege nella sua mente si formeranno tutta una serie di rappresentazioni che, proprio per il vincolo materialistico imposto dal riduzionismo, saranno in qualche modo connesse al suo cervello, o - per usare l'efficace immagine di Hegel - al suo «osso». Poniamo che Francesco stia parlando a Felice, il quale formerà, nel suo «osso», delle rappresentazioni diverse, appunto perché - brutalmente - la materia del cervello di Felice è diversa da quella del cervello di Francesco. Ma allora, quel che pensa Francesco sarà diverso, e non potrà non esserlo, da quello che pensa Felice. Risultato, non potranno mai capirsi, o meglio, secondo la teoria cognitiva della mente la comprensione reciproca è impossibile. La soluzione di Frege a questo problema, peraltro, non ha affatto la forma di una spiegazione causale; secondo Frege, infatti, è necessario postulare l'esistenza di un terzo regno, oltre quello delle cose e delle rappresentazioni, un terzo regno di pensieri oggettivi; per Frege Francesco e Felice si comprendono perché entrambi, nel loro parlare, afferrano gli stessi pensieri oggettivi, che appunto risiederebbero in questo spazio logico diverso, soprattutto, da quello delle mutevoli e soggettive rappresentazioni. Chiaramente questa non è la risposta che un riduzionista si aspetta, e infatti per le scienze cognitive questa è una vera e propria «mitologia». In realtà l'idea del terzo regno è utile e anzi indispensabile per delimitare il campo del mentale - ossia lo spazio logico del senso - rispetto allo spazio logico degli ossi, del cervello, delle domande che vanno alla ricerca di cause.

La scienza cognitiva, invece, rifiutando come mera mitologia il terzo regno (che essendo quello in cui comunichiamo è anche quello in cui viviamo, peraltro), si autorelega nella curiosa e scomoda posizione di non poter dire nulla di significativo sulla mente umana. Con il paradosso di una psicologia scientifica che programmaticamente non si interessa del suo stesso oggetto: «con "psicologia" - è opportuno ripetere questa sconcertante dichiarazione d'intenti - non designerò lo studio soggettivo dei sentimenti, delle emozioni, degli "stati" interiori» - ossia tutto ciò che, in quanto esseri umani, ci interessa, e ci interessa perché la nostra mente vive proprio e soltanto in quei sentimenti, in quelle emozioni, in quegli «stati» interiori - «bensì lo studio oggettivo dei fenomeni mentali considerati come fenomeni naturali». Colpisce soprattutto l'aggettivo finale di questa citazione, quel minaccioso «naturali», come se gli altri fenomeni mentali invece non lo fossero (e cosa sono, allora, artificiali?), mentre lo sarebbero quelli che nessun essere umano vivente prova né sente, perché nessuno prova le «rappresentazioni». E siccome sentimenti, emozioni e «stati» interiori non sono naturali, e siccome dalla mente sono stati anche espunti, insieme a Frege, i «pensieri», nella nostra mente rimane in effetti ben poco; non stupisce, pertanto, che Wittgenstein potesse sostenere, nel Tractatus, che «noi sentiamo che, persino nell'ipotesi che tutte le possibili domande scientifiche abbiano avuto risposta, i nostri problemi vitali non sono ancora neppure sfiorati».

In effetti suona sinceramente paradossale che si chiami naturale una scienza della mente che non si interessi di tutto ciò che, per quella mente, c'è di importante e biologicamente significativo, dalla dimensione politica a quella estetica, da quella morale a quella religiosa. Come se la nostra umanità, ossia la nostra natura, non fosse in quello che ci caratterizza proprio come animali - ad esempio la dimensione religiosa, o quella estetica — ma in quelle attività che condividiamo con tutti gli animali non umani (e che quindi non definiscono la nostra natura, ma semmai quella dei cercopitechi o delle lumache). Occuparsi di natura umana significa allora cercare la specificità biologica della nostra specie nelle pratiche del senso, nei «giochi linguistici». Fra queste pratiche assegneremo un ruolo padigmatico, in questo libro, alla psicoanalisi, intesa come cura mediante la parola, e quindi cura in senso umano. In effetti la cura dell'unica malattia specifica dell'animale umano, il disagio mentale dalla nevrosi fino alle forme estreme della follia, non può essere soltanto farmacologica, perché il farmaco agisce sul cervello, e il disagio mentale ha invece a che fare con il senso di una esistenza, e l'unico modo che noi animali umani abbiamo per cercare il senso di quel che facciamo e siamo è provare a raccontarcelo: per questo la psicoanalisi è una pratica che definisce in senso antropologico il modo umano di essere un animale. Da questo punto di vista non ci interessa stabilire se la psicoanalisi rientri fra le scienze della natura oppure fra quelle umane, se si occupi di cause oppure di ragioni; ci interessa, invece, usare la psicoanalisi come una sorta di laboratorio teorico in cui mostrare come il concetto di natura umana sia inseparabile da quello di «gioco linguistico».

Siccome — per capire la mente umana, la sua natura — dobbiamo quindi interessarci al senso, e non al suo peso o al suo colore, e siccome quel senso vive solo nelle pratiche naturalmente culturali (ossia, nei «giochi linguistici»), allora una biologia dell'umano non può non coincidere con la sua cultura, ché, appunto, l'umano è naturalmente artificiale. Per questo, infine, ci interessa il senso della mente, che è ciò che la rende viva: senza di esso rimane solo il triste e spento «osso dello spirito». Ma un osso, per quanto cognitivo, rimane appunto un osso. Il nostro posto, allora, il posto dell'umano in un mondo di ossi è quello che ci ritagliamo fra di essi, in quanto animali del senso, animali che pensano e sentono. Se ci tolgono questo — come vuole fare la scienza cognitiva e il riduzionismo in genere — ci viene letteralmente tolta la vita.

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