Copertina
Autore Marcello Cini
Titolo Dialoghi di un cattivo maestro
EdizioneBollati Boringhieri, Torino, 2001, Saggi Scienze , pag. 328, dim. 148x220x18 mm , Isbn 978-88-339-1337-7
LettoreRenato di Stefano, 2001
Classe fisica , epistemologia , scienze naturali , biografie , universita'
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Indice


  7     Introduzione

        Dialoghi di un cattivo maestro

 15  1. Le certezze

        1. Le cose o le persone?, 15
        2. La famiglia, 21
        3. La guerra, 33
        4. Cosa farai da grande?, 49
        5. Il mestiere del fisico, 53

 66  2. L'utopia

        1. L'impegno politico, 66
        2. Quale socialismo?, 79
        3. Il '68, 94
        4. Scienza e capitalismo, 101

136  3. La conoscenza critica

        1. Conoscenza oggettiva?, 136
        2. La scienza e la sua storia, 148
        3. Ritorno alla fisica, 166

182  4. I cammini della conoscenza

        1. Guardarsi dentro, 182
        2. L'ecologia della mente, 195
        3. Il pensiero evoluzionista, 206
        4. Il mondo della complessità, 226

242  5. La conoscenza e i saperi

        1. Scienza e valori, 242
        2. Le ragioni del cuore, 265
        3. Il linguaggio del sacro, 270
        4. La politica: oltre la destra e la
           sinistra.?, 281
        5. Arrivederci, 318

325     Indice dei nomi

 

 

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Pagina 7

Introduzione


Lo spunto per il primo dialogo fra me e mia nipote Alice risale a quattro anni fa. Aveva allora quattordici anni. Alice è stata una gran lettrice fin da piccolissima. Anzi, prima che imparasse a leggere abbiamo passato ore e ore insieme a sfogliare tutti i libri possibili per l'infanzia, da quelli per i bambini di un anno con una parola per pagina alle filastrocche di Rodari. Crescendo, Alice, figlia di madre italiana e di padre francese, che i frequenti viaggi della famiglia avevano fatto crescere tanto parigina quanto cosmopolita, ha cominciato a divorare libri nelle due lingue, e poi non solo in quelle, con una voracità impressionante, e non ha dubbi su quello che farà da grande: si occuperà, in un modo o nell'altro, di letteratura.

Anch'io non avevo dubbi sulla sua vocazione, ma ero curioso di conoscere le ragioni del suo scarso interesse per le scienze in generale e per la fisica in particolare (che non era dovuto a difficoltà di comprensione, visto che anche in queste materie a scuola aveva sempre avuto ottimi voti) e un giorno le ho chiesto di spiegarmele. Mi interessava, cinquant'anni dopo il famoso pamphlet di C.P. Snow sulle due culture, un parere di prima mano di una ragazza del Duemila su questo vecchio tema. Ma, dopo le prime battute iniziali, è stata lei a rimandarmi la palla, domandandomi a sua volta perché e fino a che punto la fisica avesse avuto una parte così importante nella mia vita.

Non era facile rispondere su due piedi, perché il rapporto con quella che è stata la mia professione ha subito molti cambiamenti nell'arco di sessant'anni - tanti ne sono trascorsi dal primo folgorante incontro nel 1940 con il mio vero e unico maestro, Eligio Perucca, allora professore di Fisica sperimentale al biennio di ingegneria del Regio Politecnico di Torino - intrecciandosi in fasi alterne con le numerose altre passioni della mia vita. Così, l'ho presa alla larga, e ho cominciato dall'infanzia, dai genitori, dalla scuola. Poi, via via, la guerra, la politica, la famiglia.

Era partita come una cosa destinata a restare fra Alice e me - anzi fra Alice, Jérémie e me, visto che di nipotini ne ho anche un altro, anche lui simpatico, caro e intelligente, ma di cinque anni più piccolo, e dunque non ancora in grado di partecipare al nostro dialogo, per lo meno all'epoca in cui ho cominciato a scriverlo - ma presto mi accorsi che non sapevo come andare avanti, e soprattutto a che scopo. Mi rendevo conto infatti, man mano che i ricordi venivano a galla, che molte delle cose che avrei voluto rievocare erano non solo ammuffite, ma soprattutto estranee alla cultura e agli interessi della mia interlocutrice. Anche il linguaggio stava cambiando mentre procedevo. Non avrebbe avuto senso continuare un discorso che sarebbe suonato falso non solo a lei, ma a chiunque altro. A chi stavo parlando? Se volevo continuare a raccontare quello che è stato importante per me nelle successive fasi della mia vita dovevo scegliermi altri interlocutori più credibili.

È cominciato così il secondo dialogo, con un altro ragazzo, Carlo, questa volta immaginario, che, animato da curiosità diverse da quelle di Alice, mi avrebbe rivolto le domande alle quali avevo in mente di rispondere. E poi, ancora un altro, Davide, nel terzo dialogo, sarebbe intervenuto da un punto di vista ancora differente. In questo modo, pensavo, facendo intervenire ora l'uno, ora l'altro, si sarebbero potuti distinguere meglio i diversi argomenti, e il lettore avrebbe scelto più agevolmente quello che poteva interessargli, saltando il resto.

Già, ma quale lettore? E poi, perché dovrebbe esserci un lettore? Per quali ragioni qualcuno dovrebbe interessarsi alle vicende della mia vita? Capisco i miei nipoti, ma ho già spiegato che sarebbero bastate cinquanta pagine per soddisfare la loro curiosità. Magari un'altra ventina di persone, fra parenti e amici avrei potuto trovarle. Ma gli altri, che gliene importa?

Non sono queste le memorie di una celebrità né di un protagonista della vita pubblica. Non ho rocambolesche avventure da raccontare, né ho vissuto esperienze fuori del comune. Una sola cosa dunque può giustificare questo tentativo di allargare la cerchia dei lettori al di là di quella dei parenti e degli amici: forse è proprio la normalità della mia vita. Le pagine che seguono ricostruiscono le tappe di uno qualsiasi dei cammini percorsi da tante persone normali che si sono trovate a condividere le vicende burrascose del secolo appena concluso. La mia storia personale può forse ridestare in loro echi di esperienze vissute, ravvivare il ricordo di speranze e delusioni simili, rievocare sentimenti e ragionamenti, emozioni e rimpianti comuni.

Non c'è però solo questo. Nelle mie intenzioni i veri destinatari di queste pagine - e non è un caso che abbia scelto tre interlocutori della generazione dei miei nipoti - dovrebbero essere i giovani che si affacciano su un XXI secolo denso di scenari inquietanti e di interrogativi drammatici. Il mio è stato il secolo nel quale la civiltà umana ha appreso, portando a termine il cammino iniziato nei due secoli precedenti, a trasformare la materia inerte in modo da riuscire a progettare e costruire un mondo artificiale destinato a soddisfare sempre meglio i suoi crescenti bisogni di beni e di strumenti materiali. Il dramma del nostro secolo è stato però il fallimento dei tentativi di riversare sull'umanità intera i benefici di questo accresciuto potere. Se è vero infatti che esso ha permesso a una minoranza di condurre una vita più lunga, più sicura e più ricca di beni materiali e culturali, è altrettanto vero che è aumentata drammaticamente la distanza che separa questa minoranza da una maggioranza di diseredati costretti a sopravvivere nella miseria e negli stenti. Senza contare che questo potere si è anche tradotto in nuove forme di violenza e di distruzione, non solo sugli individui e sulle popolazioni ma sull'intero ecosistema terrestre.

Il nuovo secolo si apre con una svolta epocale: sarà infatti il secolo del dominio dell'uomo sulla materia vivente e del controllo sui fenomeni mentali e sulla coscienza. Il potere dell'uomo sulla natura e su se stesso crescerà dunque ancora a dismisura. Cresceranno ancora, con il benessere di pochi, anche violenze e disuguaglianze? Arriverà la specie homo sapiens a usare questo potere per autodistruggersi?

Può dunque non essere inutile cercare di trasmettere a chi vivrà sfide così impegnative, non solo la memoria delle nostre illusioni e delle nostre delusioni, dei nostri successi e dei nostri fallimenti, delle emozioni esaltanti che abbiamo vissuto e degli orrori mostruosi ai quali abbiamo assistito, ma anche la testimonianza di una testarda determinazione a cercare di lasciare alle generazioni che verranno un mondo migliore di quello che abbiamo avuto in eredità.

Ci sono però altre due ragioni, personali, che mi hanno spinto a indirizzarmi particolarmente a loro. La prima è il bisogno di trasmettere a chi ha ancora davanti la vita intera la mia semplice ricetta: il sale della vita è la curiosità. La curiosità per il mondo attorno a sé e dentro di sé, per l'altro e per gli altri. Attenzione però. Non è possibile essere curiosi per dovere, o per ambizione o per raggiungere uno scopo determinato: si perde tutto il gusto. Dalla curiosità non si va in pensione: finché sei curioso sei vivo, quando non hai più curiosità smetti di vivere.

La seconda ragione è più intima. Chi è credente pensa che la sua vita sarà giudicata dalla Giustizia divina. Ma chi non lo è deve rinunciare a essere giudicato? Certo, ognuno ha dentro di sé un giudice al quale è difficile, nonostante tutti i sotterfugi, sfuggire. Ma, in mancanza di meglio, sottoporre a una giuria più ampia di quella costituita da chi ci ha voluto bene un resoconto il più possibile sincero delle proprie azioni, può aiutare a tirare le somme. Gli esami non finiscono mai, diceva Eduardo De Filippo. Mi piacerebbe superare anche questo.

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Pagina 44

A. E come arrivò la fine della guerra?

N. Nell'autunno 1944 la Francia era stata quasi completamente liberata dopo lo sbarco in Normandia e i tedeschi si trovarono a sostenere l'urto degli eserciti alleati che incalzavano a ovest e dell'Armata rossa che avanzava a est. Nel novembre tentarono una controffensiva a Bastogne che mise per un momento in seria difficoltà il fronte occidentale, ma gli americani riuscirono a tappare la falla. Fu l'ultimo tentativo dei nazisti di evitare la disfatta che si stava avvicinando. Ormai si cominciava a intravedere la fine del tunnel.

In Italia gli Alleati erano fermi alla linea gotica, che tagliava la penisola sull'Appennino tosco-emiliano. Da noi la Resistenza si preparava a organizzare l'insurrezione che doveva liberare il Nord alla vigilia dell'arrivo degli anglo-americani. Era l'obiettivo finale per il quale tutte le forze che avevano partecipato alla lotta di liberazione si erano battute. In primo luogo per salvare dalla distruzione i gangli del tessuto economico e produttivo del paese. I tedeschi infatti, prima di ritirarsi, facevano terra bruciata dietro di sé. Facevano saltare ponti e strade, ferrovie e depositi, capannoni industriali e macchinari. Soltanto difendendo con le armi le loro fabbriche gli operai avrebbero potuto salvaguardare il loro lavoro futuro.

Ma la posta era altrettanto alta sul piano politico. Da un lato infatti gli Alleati riconoscevano formalmente, nel Corpo dei volontari della libertà, che raggruppava tutte le formazioni partigiane, e nel Comitato di liberazione nazionale, espressione dei partiti politici che formavano il governo di Roma, rispettivamente l'organizzazione militare e la direzione politica della guerra che l'Italia anti-fascista combatteva al loro fianco nei territori occupati dal comune nemico. Nella sostanza, tuttavia, si preparavano a gestire direttamente il potere nei territori liberati, per un certo periodo di tempo dopo la fine della guerra, per mezzo di funzionari della loro amministrazione militare, che a loro volta si sarebbero appoggiati a personaggi di loro fiducia, sottoponendo a un rigido controllo tutte le istituzioni e le manifestazioni della vita pubblica.

Già nell'Italia liberata essi avevano ostacolato un ricambio radicale nelle sfere più elevate delle amministrazioni dello Stato e dei governi locali. A maggior ragione al Nord avrebbero cercato di garantire, una volta eliminati i personaggi più compromessi con il regime fascista, una certa continuità alla classe dirigente italiana, piuttosto che rinnovarla con l'immissione di forze nuove, dal loro punto di vista troppo caratterizzate politicamente a sinistra.

Il futuro del paese sarebbe stato ben diverso dunque se al loro arrivo gli Alleati avessero trovato ad accoglierli le forze organizzate della Resistenza, in grado di presentarsi, avendo costretto alla resa o alla fuga i tedeschi e i fascisti, come rappresentanti della nuova Italia antifascista, piuttosto che un popolo passivamente reduce da una sconfitta, in attesa di una libertà regalata dai vincitori.

A. E tu che facesti in quegli ultimi mesi?

N. Agli inizi del 1945 trovai il modo di recarmi più frequentemente a Torino, e di restarci più a lungo, diminuendo gradatamente la durata della mia permanenza a Donnaz. Questo mi permetteva di partecipare con una certa continuità alle riunioni del ristretto gruppo di giovani socialisti al quale facevo capo in preparazione della fase insurrezionale. A metà marzo, soprattutto per merito dell'attività capillare dei comunisti, scoppiò il primo sciopero nelle fabbriche torinesi, seguito a pochi giorni di distanza da un altro ancora più massiccio. Ai primi di aprile le formazioni partigiane, che con la primavera si erano ricostituite più numerose e meglio armate, cominciarono a prepararsi per scendere in pianura e conquistare le città.

A. E alla Liberazione dov'eri?

N. Mi piacerebbe poterti fare un resoconto emozionante, ora per ora, della mia partecipazione all'insurrezione di Torino, iniziata nel pomeriggio del 24 e conclusa nella giornata del 26 aprile con la fuga dei tedeschi e dei fascisti dai loro bunker e la conquista della sede della radio. Purtroppo non sono in grado di farlo. «Dovrò dir sospirando, io non c'era» è il verso di Manzoni che fa al caso mio. Due giorni prima mi ero messo a letto a Verolengo con 41 di febbre a seguito di una banale iniezione nelle mucose nasali che mi era stata fatta per curarmi, senza grande successo, visto che ancora oggi ne soffro, dell'allergia ai pollini dalla quale avevo cominciato da qualche anno a essere perseguitato in primavera. Cosi ho perduto l'appuntamento con la Storia. Dovetti accontentarmi, molto deluso, ma anche traboccante di gioia, dell'ascolto alla radio delle prime voci dell'Italia libera trasmesse dalle città appena liberate.

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Pagina 64

A. Ma questo atteggiamento non era in qualche modo in contraddizione con la fase della tua eclettica formazione culturale negli anni della Resistenza, quando hai scoperto l'importanza che il pensiero filosofico, la letteratura e l'espressione artistica potevano avere per lo sviluppo della tua personalità?

N. Non posso che darti ragione. Negli anni della Resistenza, come ti ho raccontato, avevo riposto in un cassetto della mia testa la fisica e la matematica che mi avevano appassionato durante i primi due anni di università. Qualche anno dopo, quando la fisica è ridiventata il centro dei miei interessi, ho allo stesso modo messo in sordina quello che mi aveva coinvolto, intellettualmente ma soprattutto emotivamente, nel periodo precedente. C'era però anche un'altra ragione dietro alla mia fiducia nella scienza. Era la ingenua certezza che una visione scientifica del mondo fosse anche la chiave per risolvere i problemi sociali che affliggono l'umanità.

Per me era questo il punto fondamentale che assicurava la saldatura fra impegno politico e interesse per la fisica. Si trattava di due facce complementari di un unico modo di guardare il mondo. Avevo pochi dubbi. Così come il modo migliore per contribuire a sottomettere le forze della natura allo scopo di far vivere meglio gli uomini era dedicarsi al progresso della scienza, così l'unico modo per arrivare a organizzare meglio la società eliminando le ingiustizie e lo strapotere dei padroni e di coloro che ne rappresentavano gli interessi nelle istituzioni era impegnarsi a fianco degli sfruttati in una lotta di liberazione che era al tempo stesso moralmente giusta e razionalmente fondata su un'analisi dei rapporti fra gli uomini condotta con gli strumenti del socialismo scientifico marxista. I miei modelli di vita erano dunque alcune grandi figure di fisici comunisti come Paul Langevin, Frédéric Joliot-Curie o, tra gli italiani, Eugenio Curiel, ammazzato dai fascisti durante la Resistenza, e il comandante partigiano Ettore Pancini. Tutti fisici di notorietà internazionale ed esponenti di spicco del movimento comunista.

A. E queste tue certezze hanno cominciato a vacillare verso la metà degli anni sessanta?

N. Come ti ho detto, già da qualche anno ero in crisi sul versante della politica. Adesso cominciavo ad avere dubbi non solo sulle mie capacità professionali, ma anche sugli scopi del mio lavoro. È cominciato un periodo della mia vita, durato almeno dieci anni, difficile, travagliato, segnato da entusiasmi e da frustrazioni, da decisioni impulsive e da sensi di colpa. Ne ricostruiremo insieme le tappe nel prossimo dialogo.

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Pagina 86

N. Hai perfettamente ragione. Io stesso ci ho messo almeno dieci anni per capire meglio i modi in cui si esercita l'influenza del contesto sociale sulle forme e sui contenuti del sapere scientifico. Ci torneremo in seguito. Stavo soltanto raccontando come le mie certezze cominciassero allora a vacillare. A quell'epoca tuttavia, il discorso di Raniero Panzieri mi interessava soprattutto per l'invito a ritornare a Marx. Prima di affrontare seriamente il problema del condizionamento sociale della scienza, volevo capire quanto fosse fondata, anche scientificamente, la critica marxiana della società capitalistica. Non potevo più accontentarmi della sua divulgazione contenuta nella stereotipata letteratura corrente del marxismo-leninismo.

Era una questione di serietà «scientifica», di coerenza con la mia formazione culturale e la mia concezione della moralità, cercare di fondare su un terreno teorico solido la mia speranza nella possibilità di costruire una società socialista che fosse al tempo stesso più giusta ed egualitaria di quella capitalista ma anche più libera e articolata di quella realizzata in Unione Sovietica.

In sostanza volevo capire fino a che punto le critiche degli economisti non marxisti alla teoria marxiana ne minassero irremediabilmente la validità o fossero invece soltanto espressione di un diverso punto di vista nell'analisi dei fenomeni. Mi sono messo dunque a studiare da una parte le opere di Marx e dall'altra la storia delle teorie economiche.

C. Parliamo dunque di economia. Hai capito perché la maggioranza degli economisti consideravano scientificamente infondata la teoria di Marx?

N. Credo di averlo capito. Ma ho avuto conferma che il meccanismo di fondo del processo di accumulazione capitalistica, il motore della sua straordinaria vitalità e della sua formidabile capacità espansiva, era stato individuato da Marx con grande lucidità e chiarezza. Ne sono convinto oggi come allora. A lui va riconosciuto il merito di avere mostrato, sulla scia di Adam Smith e di David Ricardo, che l'essenza del capitalismo consiste in primo luogo nella riduzione a merce del lavoro dell'uomo, e più in generale di tutti gli aspetti e i momenti della sua vita, oltre che di ogni mezzo materiale o immateriale in grado di soddisfare i suoi bisogni, i suoi desideri e le sue pulsioni. Altrettanto valida è la conclusione che se il capitale non si espande illimitatamente il capitalismo entra in crisi, e dunque che la sua sopravvivenza richiede la creazione di sempre nuovi bisogni allo scopo di produrre nuove merci destinate a soddisfarli. Da questo punto di vista, dunque Marx è ancora attualissimo.

C. Dunque ne uscì rafforzata la tua visione del capitalismo come un sistema sociale fondato sull'ingiustizia e sullo sfruttamento?

N. Ne uscì indubbiamente rafforzata.

C. E oggi, ti consideri ancora un marxista?

N. No. Come vedremo più avanti la mia cultura, anche a seguito di una serie di incontri importanti che hanno contribuito all'evoluzione della mia concezione del mondo, è diventata più verde che rossa, o almeno altrettanto. Diciamo però che ancora oggi ritengo fondamentale l'affermazione marxiana che il capitalismo porta inevitabilmente alla crescente «reificazione» dei rapporti fra gli uomini, sempre più mediati dalle merci, e alla crescita delle disuguaglianze, senza le quali è impossibile mantenere un regime di scarsità di beni tale da garantire continuità al processo di accumulazione del capitale complessivo.

Ti dirò di più. C'è da sperare, o almeno io lo spero, che prima o poi questa esaltazione neoliberista per l'illusione che il sistema sia in grado di autoregolarsi attraverso un mercato libero da ogni regola imposta dall'esterno, passerà. Certo, il capitalismo di oggi non è quello di centocinquant'anni fa, ma sono sicuro che prima o poi le profonde intuizioni di Marx sulla natura del meccanismo fondamentale del processo di accumulazione del capitale, oggi messe al bando come se fossero la causa di tutti gli «orrori» veri o presunti del comunismo, verranno riprese e valorizzate anche dagli economisti, o per lo meno da una parte di loro.

C. E qual è questo meccanismo?

N. Cercherò di spiegarvelo in poche parole. Si tratta di questo. Il capitalista destina una parte del capitale all'acquisto delle macchine e delle materie prime necessarie per la produzione dei beni prodotti dalla sua industria, e una parte per il pagamento dei salari dei lavoratori impegnati in essa. Sia le prime sia i secondi sono fattori della produzione che hanno un prezzo determinato dal mercato. I salari sono infatti il prezzo pagato per acquistare la capacità lavorativa dei suoi dipendenti.

Secondo la teoria economica dominante questi prezzi sono determinati dall'equilibrio fra domanda e offerta. Se la domanda supera l'offerta i prezzi salgono, nel caso contrario diminuiscono. È dunque un meccanismo neutro, «oggettivo», che fissa la «giusta» remunerazione del lavoro fatto e quella, sotto forma di profitto, del capitale investito. Per Marx invece le cose stanno diversamente. Parte infatti dalla constatazione che è il lavoro umano a creare la ricchezza. Se nessuno fa girare le macchine non si produce nulla.

C. Ti interrompo. Non mi sembra che sia sempre vero. Ci sono anche fabbriche automatiche che producono una grande ricchezza con pochissimi lavoratori che magari si limitano a premere qualche bottone.

N. Ottima obiezione. Infatti Marx non si riferisce alla singola fabbrica o al singolo comparto produttivo. Si riferisce a tutto il lavoro fatto in tutti i settori della società. Se nessuno lavorasse non ci sarebbero neanche le macchine per far funzionare le fabbriche automatiche. Se si accetta questo punto di partenza, si capisce subito che macchine e materie prime sono merci molto diverse dalla «merce» lavoratori.

Da questo punto di vista la società capitalistica è una società ingiusta, perché il lavoratore è «sfruttato» non secondo un generico e vago giudizio morale, ma secondo una definizione di questo termine basata sul fatto che il possessore del capitale si appropria di una parte della ricchezza creata da altri.

C. Ma allora perché, se Marx aveva ragione, la maggior parte degli economisti accademici non era d'accordo con lui?

N. Essenzialmente per un motivo. L'hai già, in parte, anticipato tu. Il ragionamento di Marx presuppone una astrazione. I prezzi delle merci infatti coinciderebbero con i loro valori soltanto se il rapporto fra la quota di capitale investita in macchine e materie prime e quella investita in salari fosse uguale in tutti i settori produttivi. Ma nella società reale, dove questo rapporto varia da un settore produttivo a un altro, prezzi e valori non coincidono, e il profitto del capitale complessivo non coincide più con il valore prodotto dai lavoratori in eccesso a quello dei beni consumati per la loro sussistenza.

C. Perché?

N. L'hai detto tu stesso poco fa: se i prezzi delle merci coincidessero con i loro valori il prezzo di una merce prodotta da una fabbrica automatica sarebbe zero. Ma i capitalisti si attendono un profitto proporzionale al capitale investito indipendentemente dalla sua ripartizione fra salari e gli altri fattori. Nessuno investirebbe capitali per costruire una fabbrica automatica se non ne ricavasse lo stesso profitto che ricaverebbe investendo in una fabbrica con molti operai. Dunque per poter remunerare con lo stesso tasso di profitto tutti i possessori di capitale i prezzi devono essere diversi dai valori incorporati.

La conclusione che ne trae la teoria economica universalmente accettata è che soltanto i prezzi hanno un significato oggettivo, in quanto da un lato corrispondono empiricamente alle effettive ragioni di scambio fra le merci e dall'altro si possono ricavare teoricamente dalla conoscenza della composizione reale del capitale nelle diverse industrie. Al valore di una merce dunque non corrisponde, secondo questo punto di vista, alcun elemento di realtà oggettivamente misurabile.

C. Mi sembra che gli economisti abbiano ragione: se una cosa non si può misurare come fai a definirla?

N. La tua osservazione è legittima, ma si fonda su un atteggiamento puramente empirista nei confronti della realtà. Marx però obiettava, e non è l'unico, che se la realtà coincidesse con l'apparenza non ci sarebbe scienza, ma solo sapere empirico. Ogni rappresentazione del mondo, infatti, si basa su premesse a priori, che consistono nell'astrarre dalla realtà alcuni elementi, considerati essenziali ai fini della spiegazione di un insieme di fenomeni, sfrondandola da tutti i dettagli ritenuti irrilevanti. Questo spiega perché possano esserci più teorie in competizione per spiegare lo stesso panorama fenomenico.

Va riconosciuto dunque che, fra i criteri che una comunità scientifica adotta per scegliere tra teorie diverse c'è anche, oltre a quello della concordanza con un certo numero di dati empirici, una valutazione di ciò che è trascurabile o meno, alla luce della rilevanza di ognuna rispetto a un progetto riconosciuto di controllo del reale.

Nel nostro caso Marx ben sapeva che in una economia reale i valori non coincidono con i prezzi, ma lo considerava un fatto irrilevante ai suoi fini. Ciò che a lui interessava era portare alla luce, al disotto del suo aspetto economico, l'origine sociale del profitto. Dal punto di vista della elaborazione di una teoria funzionale a un progetto di superamento dei rapporti sociali capitalistici la differente composizione del capitale nei diversi settori produttivi era una particolarità trascurabile in prima approssimazione, perché occultava la natura del profitto. Diverso è invece il giudizio sulla legittimità di trascurare questo aspetto dell'economia reale se il progetto è quello di fornire gli strumenti per garantire la stabilità dei rapporti sociali esistenti.

C. Ma allora chi decide se una teoria è giusta o sbagliata?

N. Non adopererei questi termini. Giusto o sbagliato rispetto a che? Sono sempre gli uomini, e, da quando è nata la scienza moderna, gli scienziati, che decidono se la rappresentazione di un certo dominio della realtà è più o meno adeguata a «spiegarne» i fenomeni. Metto il termine fra virgolette perché anche su che cosa vuol dire «spiegare» essi devono preliminarmente mettersi d'accordo.

Comunque questo accordo è già difficile nel caso dei fenomeni naturali, figuriamoci poi nel caso dei fenomeni sociali. Questo spiega perché, nel caso che ci interessa, la controversia sul cosiddetto «problema della trasformazione dei valori in prezzi» sia andata avanti per molti decenni all'interno della comunità degli economisti fra una minoranza costituita dai sostenitori della validità dell'analisi marxiana e la maggioranza che la considerava scientificamente infondata.

C. Ma era una discussione puramente accademica o aveva anche rilevanza pratica?

N. Aveva anche rilevanza pratica finché esistevano economie che in un modo o nell'altro si riferivano alla teoria marxiana, e c'era ancora speranza di riformarle senza abbandonare ogni riferimento a essa.

C. Ammettiamo pure che il discorso di Marx fosse importante per capire il meccanismo del processo di accumulazione del capitale. Ma che utilità aveva per la realizzazione di un progetto di transizione a una forma socialista di società?

N. Allora per me l'aveva perché ero convinto della necessità e della possibilità di accelerare la crisi del capitalismo per avviare la costruzione di un sistema migliore. Con l'esperienza di oggi posso dire che lo era molto poco. Soprattutto perché il discorso di Marx sul futuro del sistema è profondamente viziato da un difetto del suo approccio, rappresentato, l'abbiamo già visto, da una concezione sostanzialmente deterministica dell'evoluzione delle società umane che è profondamente sbagliata.

Questa evoluzione, contrariamente a quanto egli credeva di aver scoperto, non è retta «da leggi che non solo non dipendono dalla volontà, dalla coscienza e dalle intenzioni degli uomini, ma anzi, determinano la loro volontà, la loro coscienza, le loro intenzioni». Ed è proprio questa concezione, per esempio, che l'ha portato a formulare previsioni che si sono rivelate clamorosamente sbagliate, come quella di una crescente polarizzazione della struttura sociale nelle due classi antagoniste di proletari sempre più poveri e di capitalisti sempre più ricchi.

C. Se ben ricordo, tuttavia, Marx voleva dedicare a Darwin la sua opera. Forse non era dunque così determinista come lo fai tu.

N. È vero che Marx aveva una grande ammirazione per Darwin. Ma si trattava di un Darwin che, anche lui, in sintonia con i maggiori scienziati del suo tempo, da Pierre-Simon Laplace a Charles Lyell, credeva nel determiniamo essenziale delle leggi della natura, e considerava l'introduzione del caso nella descrizione scientifica dei fenomeni naturali soltanto come un modo conveniente di tener conto della nostra ignoranza. È una convinzione che l'autore de L'origine delle specie esprime esplicitamente scrivendo: «Quantunque ogni modificazione debba avere la sua causa determinante, ed essere sottomessa a una legge, noi possiamo così raramente intendere la relazione precisa esistente fra la causa e l'effetto, che siamo portati a parlare delle variazioni come sorte spontaneamente».

C. Dunque tu attribuisci al determiniamo tipico del newtonianesimo dominante nella cultura scientifica del tempo una eccessiva fiducia di Marx nella possibilità di azzardare previsioni sull'evoluzione della società sulla base delle leggi da lui scoperte?

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C. Torniamo allora alla scienza, o meglio alla big science. Che relazione ha con tutto questo?

N. La produzione di scienza è stata tradizionalmente considerata, e da un certo punto di vista lo è tuttora, un'attività disinteressata volta alla ricerca di relazioni oggettive fra elementi di realtà, stimolata soltanto dalla curiosità o dalla sete di conoscenza di alcuni individui che non hanno fini utilitari. In questo senso si tende a sottolineare la distinzione tra il momento della conoscenza, caratteristico della scienza, e il momento applicativo, pratico, di utilizzazione delle sue scoperte.

Ma, come abbiamo già discusso ampiamente, questa distinzione non è mai stata assoluta, nemmeno in passato. Oggi poi, il nesso tra la ricerca scientifica «pura», cioè perseguita al solo scopo di conoscere in modo disinteressato la natura, e l'innovazione tecnologica, stimolata dall'interesse a inventare continuamente nuovi strumenti per soddisfare la domanda di un mercato sempre più esigente e sofisticato, si è fatto sempre più stretto, fino a diventare un intreccio difficilmente districabile.

È chiaro dunque che la produzione di scienza non avrebbe potuto rimanere bloccata allo stadio artigianale, in presenza della massiccia trasformazione del modo di produrre informazione come merce dovuta all'ingresso del capitale in questo settore produttivo. È inevitabile che le modalità di accumulazione del patrimonio di conoscenze scientifiche fondamentali tendano a riprodurre le caratteristiche delle modalità di accumulazione del capitale.

Insomma, anche se non è destinata immediatamente al mercato, la conoscenza scientifica dev'essere prodotta, per non restare indietro, con le stesse modalità dell'informazione che dev'essere venduta e comprata. I meccanismi di questa integrazione del processo di produzione di conoscenza scientifica nel tessuto sociale sono stati analizzati e discussi in L'ape e l'architetto da Gianni Jona Lasinio, coautore del libro insieme a noi tre, in un importante saggio intitolato Mutamenti della prassi scientifica nella società tecnologica.

In particolare egli ha messo in evidenza, con esempi concreti, come il diverso contesto, rispettivamente negli Stati Uniti, nei paesi europei, in Giappone e nell'Unione Sovietica abbia influenzato in questo secolo modalità e obiettivi dei programmi di ricerca anche nelle scienze cosiddette fondamentali.

C. Ci stai dicendo dunque che la lettura di Marx, tua e dei tuoi amici, vi ha portato a concludere che far avanzare la scienza significa inevitabilmente portar acqua al mulino del capitalismo, e quindi che è una incongruenza attribuire alla scienza un ruolo di progresso sociale e lottare al tempo stesso contro le ingiustizie della società capitalistica?

N. No. Non abbiamo mai sostenuto che la scienza e la tecnologia sono responsabili delle ingiustizie della società capitalistica. Non siamo mai stati luddisti, né abbiamo mai simpatizzato per loro, anche se siamo stati molte volte accusati proprio di questo.

Noi dicevamo, e ancor oggi credo che tale affermazione sia giusta, che c'è in generale uno stretto legame tra gli indirizzi e le modalità di crescita della ricerca scientifica e tutto ciò che caratterizza in un dato momento storico il tessuto sociale circostante: dalle tradizioni culturali agli interessi economici, dalle idee dominanti ai conflitti ideologici. Bisogna dunque esercitare dall'interno delle istituzioni una critica continua nei confronti delle scelte, delle priorità e delle tendenze dominanti nel panorama complessivo della scienza allo scopo di portare alla luce i legami più o meno nascosti esistenti tra queste scelte e il processo di accumulazione del capitale e della sua penetrazione in tutti gli ambiti della vita individuale e collettiva nella società contemporanea.

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D. Insomma, secondo te la rappresentazione che Galileo ci dà della natura non è più oggettiva e fedele di quella di Aristotele?

N. Quello che sostengo è che l'immagine di un mondo semplice e regolare «scritto in lingua matematica» è altrettanto soggettiva di quella aristotelica di un mondo come sistema organico dove non c'è separazione netta fra materia inerte ed esseri viventi. A seconda delle ipotesi che si fanno su com'è fatto il mondo, infatti, se ne selezionano gli aspetti considerati rilevanti, e dunque anche l'insieme dei fenomeni naturali da «spiegare» e perciò da controllare e da utilizzare.

D. E allora come spieghi che ha vinto l'immagine galileiana del mondo?

N. È il contesto sociale che alla fine favorisce l'affermazione dell'immagine più coerente con lo spirito del tempo e più feconda di risultati utili per realizzarne gli obiettivi ritenuti prioritari. Nel caso specifico, il sistema aristotelico comincia a diventare inadeguato nel momento in cui la priorità dell'esigenza di una visione unificante del mondo terrestre si indebolisce di fronte al moltiplicarsi di fenomeni celesti e terrestri inaspettati, al sorgere di nuove dottrine filosofiche e religiose, alla scoperta di civiltà e di popoli sconosciuti.

E soprattutto nel momento in cui cresce la spinta a costruire mezzi e strumenti più efficaci e perfezionati per l'offesa e la difesa, per l'idraulica, per la navigazione, per le tecniche estrattive e metallurgiche, per le arti e la manifattura. È il mutamento di contesto che Alexandre Koyré sintetizza nei titoli dei suoi due saggi: Dal mondo chiuso all'universo infinito e Dal mondo del pressappoco all'universo della precisione.

D. Insomma, secondo te è la società che determina in che direzione si sviluppa la scienza?

N. Determina è un vocabolo troppo forte. Naturalmente non c'è un nesso diretto e deterministico fra le domande che provengono dal tessuto sociale e le forme concrete della nuova scienza. Perché si possa affermare un nuovo modo di guardare la realtà è necessaria la concomitanza di condizioni sociali favorevoli e di proposte di innovazione convincenti e che, soprattutto, «funzionino».

Da un lato infatti è necessario che le risposte, date dalla cultura dominante alle domande poste dall'incalzare dei problemi pratici e ideali della vita degli individui e della collettività, incomincino a rivelarsi inadeguate e insoddisfacenti. Dall'altro occorre che, quando si manifestano i sintomi di una crisi del genere, siano disponibili alternative concettuali capaci di cogliere, al disotto delle apparenze del mondo fenomenico, quei nessi e quelle relazioni fra elementi della realtà naturale che hanno rilevanza per le nuove domande che nascono dall'evoluzione del tessuto sociale.

D. Però l'immagine galileiana del mondo, e la scienza che da essa è nata, funziona meglio, nel senso che ha permesso per secoli di dominare la natura in modo senza confronti più efficace di quella che l'ha preceduta. Se non fosse così, questa scienza non sarebbe diventata, dopo Newton, la forma universalmente accettata e praticata di conoscenza della realtà naturale.

N. Hai detto bene, finché lo scopo è stato quello di dominare la natura, e soprattutto la materia inerte, inanimata, ha funzionato ottimamente. Ma questo non dimostra che la natura è realmente fatta come il modello che ne abbiamo costruito. Cioè un oggetto inerte, come una macchina, fatta di macchine più piccole, a loro volta composte di pezzi sempre più piccoli, e così via all'infinito, che possiamo smontare, modificare e ricostruire a nostro piacimento.

In altri termini questo successo non dimostra che il mondo è un mosaico di parti differenti, ognuna analizzabile di per sé in termini dei suoi costituenti e delle forze che li tengono insieme, a prescindere dal contesto e dall'ambiente circostante. E dunque nemmeno che è un mondo potenzialmente prevedibile perché, in linea di principio, lo sono i comportamenti delle sue parti, soggette a leggi semplici e universali. Né che è un mondo illimitato, in quanto formato da un numero infinito di parti, e tanto meno che è un mondo «lineare», cioè nel quale piccole cause producono sempre piccoli effetti.

D. Dunque secondo te, l'universo non è scritto in lingua matematica come sosteneva Galileo?

N. Ebbene no. Non è scritto in lingua matematica. Come ho già detto prima, l'affermazione di Galileo esprime soltanto uno dei possibili punti di vista dal quale guardare la realtà che ci circonda. Soltanto un pregiudizio neoplatonico può identificare il carattere «oggettivo» della conoscenza scientifica con la scoperta del linguaggio matematico in cui l'universo è scritto.

Occorre invece riconoscere che la realtà è talmente ricca, complessa e articolata da non essere rappresentabile se non dopo averne selezionato, all'interno dell'infinita varietà dei suoi differenti aspetti, alcuni tratti riconosciuti, nel contesto storico dato e per ogni disciplina, come fondamentali.

Utilizzando una ben nota e calzante metafora, la scienza è l'insieme delle possibili mappe diverse, a differenti scale, di un unico territorio. E, come si sa, confondere la mappa con il territorio è un grave errore epistemologico. Anzi, come mirabilmente spiega Borges nel suo racconto I cartografi dell'Impero, occorre essere consapevoli che il tentativo di rappresentare un territorio nella sua interezza è destinato al fallimento.

L'uso della matematica è dunque soltanto uno dei possibili modi di elaborare il linguaggio appropriato per rappresentare le proprietà di un particolare livello di organizzazione della realtà. Differenti linguaggi, matematici e non, possono essere inventati o utilizzati per rappresentare astrazioni differenti del campo fenomenico considerato ottenute a partire da punti di vista differenti. È ovvio dunque che la formalizzazione matematica non garantisce la validità e la veridicità dei risultati ottenuti da una schematizzazione insufficiente o inappropriata di un fenomeno. Non va dimenticato inoltre che una formula matematica può rappresentare la realtà, ma non per questo diventa realtà.

D. Non puoi negare però che le leggi della fisica scoperte con il metodo galileiano regolano tutto ciò che accade nell'universo, dal nucleo atomico alle galassie. E le leggi di Newton sono leggi matematiche.

N. Non sarò certo io a negarlo. Se prendi due pezzi di materia, ed elimini tutte le altre loro proprietà, rimane solo quella di attirarsi a vicenda. È ragionevole assumere, in prima approssimazione, che in qualunque parte dell'universo si attirino sempre nello stesso modo. È utile e comodo riassumere questa proprietà assolutamente generale con il linguaggio della matematica. Ma di qui a dire che è la matematica a dettare com'è fatto l'universo ci corre. Vale la pena a questo proposito ricordare che uno dei maggiori fisici di questo secolo, Richard Feynman, ha detto: «La conoscenza delle leggi fisiche non ci dà automaticamente e direttamente una comprensione degli aspetti essenziali del mondo [...]. La natura sembra essere fatta in modo che le cose più importanti del mondo reale appaiano essere conseguenze complicate e accidentali di una molteplicità di queste leggi».

D. Dunque il successo della scienza galileiana non dimostra che è più vera di quella aristotelica?

N. Il successo della scienza galileiana dimostra solo che, avendo ridotto a pochi elementi semplici l'infinita complessità della natura, ne abbiamo costruita, utilizzando questo modello, un'altra artificiale, che da un lato ha fornito all'uomo strumenti per compiere imprese mirabolanti che lo fanno sentire onnipotente, ma dall'altro riflette sempre meno i multiformi aspetti e le meravigliose proprietà di quella natura vivente che ci ha fatto nascere come specie.

Ma fino a quando funzionerà? Siamo proprio sicuri che non dobbiamo ancora una volta cambiare la nostra immagine della natura?

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D. Torniamo allora all'epistemologia.

N. Parallelamente ai miei studi storici mi immersi nella lettura del volume che raccoglieva i testi del Colloquio di Londra al quale ho accennato poco fa e di altri scritti dei suoi quattro protagonisti. La diffusione dei documenti di questo confronto fu un importante evento culturale che mise in chiaro il profondo contrasto fra coloro (Karl Popper e Imre Lakatos) che sostenevano l'esistenza di una metodologia universale costruita a priori sui principi della logica, in grado di garantire la razionalità delle scelte degli scienziati, assicurando in tal modo alla scienza il carattere esclusivo di conoscenza oggettiva e razionale della natura, e coloro (Thomas Kuhn e Paul Feyerabend) che negavano, con il sostegno dell'evidenza fornita da un'accurata ricostruzione di vari episodi della storia della scienza, la possibilità di tracciare una linea di demarcazione netta fra la scienza e le altre forme di conoscenza da parte dell'uomo della realtà circostante. Mi divenne però chiaro che, pur schierandomi dalla parte di questi ultimi, trovavo anche sbagliate o insufficienti alcune delle loro affermazioni.

D. Facci qualche esempio.

N. Trovavo inaccettabili le conclusioni generali del discorso di Feyerabend, pur riconoscendolo convincente in molti particolari. Il titolo del suo libro principale, le riassume perfettamente. La sua tesi è che, poiché non esiste una metodologia razionale definibile a priori per distinguere la conoscenza oggettiva dalle convinzioni soggettive, la scienza non differisce in alcun modo da pratiche come la magia o l'astrologia. Il difetto principale di quest'analisi è che non c'è posto per la storia.

Il suo voler giudicare equivalenti dal punto di vista della conoscenza tutte le tradizioni culturali, prescindendo dal contesto di ognuna trascura un elemento essenziale: la storicità delle formazioni sociali umane. Non a caso gli esempi scelti per illustrare la sua tesi vanno indifferentemente dagli indios Azande ai greci dell' Iliade, dal cardinale Bellarmino agli scienziati contemporanei. Ma senza la storia l'equivalenza delle tradizioni si riduce all'affermazione tautologica che ogni comunità elabora il sistema di conoscenze più adeguate ad assicurare la propria sopravvivenza. È come dire che ogni specie sopravvive perché si adatta al suo ambiente. Ma il problema dell'evoluzione è piuttosto come e perché nascono, vivono e muoiono le specie, o nel nostro caso le formazioni sociali e i loro sistemi di conoscenze.

D. E di Kuhn che cosa non condividevi?

N. Il discorso di Kuhn mi era più congeniale. Ho già accennato che per Kuhn lo sviluppo scientifico non è un semplice processo di accumulazione di verità e di certezze in seguito all'eliminazione di precedenti errori e false credenze. Le concezioni della natura che si erano affermate nel passato, afferma Kuhn, non erano, considerate nel loro insieme, né meno scientifiche, né il prodotto di idiosincrasie umane più di quanto non siano quelle di moda oggi.

Da queste premesse deriva una concezione dello sviluppo della scienza come costituito da una successione di periodi di «scienza normale», ognuno dei quali è caratterizzato dal dominio incontestato di un dato «paradigma», ossia di un dato modo di «guardare il mondo e di praticare la scienza in esso» che fornisce gli strumenti concettuali e metodologici per affrontare e risolvere i problemi derivanti dall'applicazione a casi particolari dei suoi princìpi generali. Questi periodi di scienza normale sono bruscamente interrotti da una «rivoluzione scientifica» che porta alla sostituzione del paradigma dominante con uno nuovo, «incommensurabile» con il vecchio. La transizione dal paradigma della fisica aristotelica a quello della fisica galileiana, che abbiamo discusso prima, è un esempio che illustra bene questa concezione.

Come ti sarai accorto dunque, le mie idee sul processo di sviluppo della conoscenza scientifica sono state largamente influenzate dal libro di Kuhn. La nostra precedente discussione sulla rivoluzione galileiana mostra anche, però, che a me interessava proprio quello che in Kuhn mancava o era considerato frutto di «accidentalità storiche e personali», cioè l'analisi del nesso fra il contesto sociale e culturale nel quale le rivoluzioni scientifiche si verificano e i mutamenti, apparentemente improvvisi, delle regole del gioco che le caratterizzano. Ci volle qualche anno di lavoro per sviluppare le mie risposte a questi interrogativi.

D. Puoi farmi qualche altro esempio di come hai affrontato il problema della identificazione di questo nesso?

N. Nei lavori pubblicati su «Foundations of Science» accennavo alla possibilità di individuare i criteri adottati da una data comunità scientifica nel respingere o accettare come valide le presentazioni di nuovi fatti e di nuove teorie che i singoli scienziati formulano per contribuire alla crescita della conoscenza nell'ambito della propria disciplina.

Sulla base di alcuni casi storici classificavo questi criteri in quattro categorie. La prima comprende criteri per esprimere un «giudizio di scientificità» della proposta, o della sua pertinenza all'ambito disciplinare; cioè un giudizio relativo alla demarcazione fra ricerca riconosciuta come legittima e ricerca non ritenuta tale. In secondo luogo troviamo criteri per giudicare dell'esistenza o meno di un problema aperto. Si tratta di riconoscere che un certo fenomeno richiede una spiegazione oppure non ne ha bisogno perché è evidente, o può essere assunto come dato a priori. In terzo luogo ci sono criteri di giudizio formali. Rientrano fra questi quelli relativi alla semplicità, all'eleganza, alla coerenza interna di una teoria o di un formalismo.

Infine abbiamo criteri per giudicare dell'adeguatezza empirica di una teoria.

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Pagina 164

D. Non mi è chiaro quale sia il collegamento fra norme tecniche e imperativi istituzionali.

N. La convinzione che la conoscenza scientifica è oggettiva implica che gli scienziati, nella loro attività professionale, debbano adottare criteri universali e impersonali. Analogamente il dubbio sistematico e l'indipendenza intellettuale sono necessari per evitare l'accettazione di rivendicazioni di conoscenza basate sulla fede o sull'autorità. Infine anche il comunitarismo (cioè l'obbligo morale per ogni scienziato di render pubblica ogni nuova scoperta per farla conoscere ai suoi colleghi) e il disinteresse (cioè la spinta morale ad anteporre gli interessi del progresso della scienza ai propri interessi individuali) sono indispensabili per garantire che ogni nuova rivendicazione di conoscenza venga esaminata criticamente alla luce di criteri universalmente accettati. L'obiettivo di produrre conoscenza oggettiva e razionale e la sottomissione alle norme dell' éthos della scienza si sorreggono dunque vicendevolmente.

D. Insomma, secondo Merton per produrre conoscenza oggettiva e razionale, cioè priva di contenuti etici e di vincoli morali, bisogna seguire norme etiche molto rigide. Non è un paradosso?

N. Non sarebbe un paradosso se la scienza fosse veramente ciò che ancora si pensa che essa sia, cioe ia riproduzione il piu possibile fedele e precisa di una natura oggettivamente strutturata in forme definite a priori e regolata da leggi universali immutabili. In tal caso occorrerebbe effettivamente imporre agli scienziati norme di comportamento precise per evitare che uomini dominati da interessi e passioni, nonché imbevuti di pregiudizi e credenze a priori, introducano questi elementi spuri in una descrizione, per quanto possibile, speculare di una realtà esterna siffatta.

Ma la scienza, come ormai sappiamo bene, non è questo.

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Pagina 178

D. Ma se è vero che tu e i tuoi amici avete dato una risposta soddisfacente a questi aspetti paradossali della meccanica quantistica, perché dici che i fisici sono ancora divisi sulla questione della natura del caso a livello quantistico? Non dovrebbero essere tutti d'accordo con voi?

N. La prima ragione del disaccordo è che le questioni di interpretazione sono, in ultima analisi, questioni soggettive. Dipendono dalle premesse metafisiche che ognuno di noi considera fondamentali. Il disaccordo può riflettere semplicemente la classica disputa fra chi ritiene, seguendo la linea di pensiero che risale a Pitagora, Parmenide e Platone, che le idee e le forme pure vengano prima del nostro mondo reale, fatto di ombre o di copie imperfette di esse, e chi, come me, insiste, con Democrito, Eraclito e Aristotele, che le idee sono soltanto astrazioni inventate per descrivere le proprietà del mondo in cui viviamo.

In termini moderni, i primi sono convinti che l'universo sia retto da leggi eterne e assolute scritte in linguaggio matematico, che spiegherebbero tutto ciò che accade in natura, e i secondi preferiscono cercare spiegazioni dei fenomeni basate su generalizzazioni successive di evidenze empiriche. Da questo punto di vista i primi non si accontentano, come facciamo noi, di spiegazioni valide «a tutti gli effetti pratici».

Un altro motivo di disaccordo con la nostra soluzione può invece provenire da parte di chi, pur restando all'interno di una concezione realistica del mondo, non accetta che le proprietà di un oggetto fisico possano dipendere dal contesto nel quale si viene a trovare; non accetta cioè che un oggetto fisico non abbia proprietà assolute, indipendenti dagli oggetti con i quali interagisce.

Fra questi c'è poi una ulteriore divisione. C'è infatti chi ha una visione sostanzialmente deterministica delle leggi di natura e chi assume il caso come una componente essenziale della realtà. Per esempio fra i primi c'è chi spera ancora di scoprire «variabili nascoste» in grado di ritrovare un determinismo perduto, e fra i secondi chi postula l'esistenza, a un livello più profondo della descrizione quantistica dei fenomeni, di processi aleatori spontanei in grado di evitare la dipendenza delle proprietà degli oggetti fisici dall'interazione con gli strumenti utilizzati per misurarle.

Secondo noi, tuttavia, in entrambi i casi si tratta di ipotesi ad hoc: nel primo caso infatti essa sembra essere già contraddetta dall'evidenza sperimentale, e nel secondo non lo è ancora, né sembra possa esserlo in un prossimo futuro, soltanto perché il meccanismo ipotizzato è stato scelto appositamente in modo da non contraddire, a tutti gli effetti pratici, le previsioni della meccanica quantistica.

D. Hai parlato di un tuo ultimo lavoro nel quale sviluppi ulteriormente il tuo punto di vista. In che cosa consiste?

N. In un certo senso ne è la conclusione logica e coerente, perché chiarisce, a mio giudizio, il nesso necessario che lega l'aleatorietà intrinseca dei fenomeni quantistici con la dipendenza dal contesto delle proprietà degli oggetti microscopici. Il punto di partenza del mio discorso è l'osservazione che, fin dalle sue origini, tutto il dibattito sulle diverse interpretazioni del formalismo della meccanica quantistica, e sulle strane proprietà del mondo microscopico che esso descrive, deriva dalla duplice natura, corpuscolare e ondulatoria, degli oggetti che a esso appartengono.

D. E quello che ci hai spiegato finora. Tutto dipende dal fatto che le particelle si comportano qualche volta come onde e qualche volta come corpuscoli.

N. Appunto. Ma io mi sono domandato se non fosse possibile, fin dall'inizio, eliminare dal formalismo ormai unanimemente accettato il concetto di onda e l'ente matematico (funzione d'onda) che la rappresenta, visto che, dal punto di vista sperimentale, ciò che si rivela è sempre soltanto un corpuscolo, dotato di caratteristiche definite come la massa, la carica elettrica, ed eventualmente il momento angolare intrinseco (che i fisici chiamano spin) o il momento magnetico.

Il fenomeno ondulatorio è soltanto una nostra costruzione mentale, ipotizzato a posteriori per spiegare il risultato dell'accumulazione, puramente aleatoria, di una serie di impatti successivi di particelle che arrivano l'una dopo l'altra su uno schermo. In altre parole, tutto accade come se il risultato di quest'accumulazione fosse la manifestazione di un'onda, ma, l'onda, come fenomeno distribuito con continuità in tutto lo spazio, non si vede mai direttamente.

D. E dunque, secondo te, si può farne a meno? Ma se mi hai spiegato che la funzione d'onda è la base di tutta la meccanica quantistica, che senso ha questa domanda? E poi, com'è possibile che in settant'anni nessuno ci abbia mai provato?

N. Infatti, a prima vista la risposta alla mia domanda è negativa. Non è possibile descrivere le proprietà di una particella soltanto in termini di probabilità, per lo meno nel senso tradizionale di questo termine. Per questa ragione non si è mai pensato seriamente di cercare di fare a meno delle onde, anche se alcuni passi in questa direzione erano già stati fatti, da Eugene Wigner nel 1935 e, una quindicina di anni fa, da Richard Feynman, con la proposta di estendere la nozione di probabilità ammettendo che possa assumere anche valori negativi. In entrambi i casi, tuttavia, la funzione d'onda sembrava comunque necessaria per calcolare questa «pseudoprobabilità» generalizzata proposta da Wigner.

Io mi sono dunque limitato a prendere sul serio le proposte dei miei illustri predecessori e a cercare di dedurre la funzione di Wigner e Feynman da princìpi primi, senza bisogno di partire dal formalismo della meccanica quantistica e dunque dal postulato di esistenza di onde. Posso dire di esserci riuscito. Sono riuscito infatti a far vedere che la teoria quantistica è una diretta generalizzazione della meccanica statistica classica - cioè della teoria che descrive, per esempio, un gas di molecole che ubbidiscono alle leggi della meccanica newtoniana - con l'aggiunta di un semplice postulato quantistico, che assume la discontinuità dei valori di certe variabili come un fatto di natura da accettare così com'è, senza domandarsi perché accade. In fondo è un ritorno a Planck.

D. E quali sono i vantaggi di questa tua riformulazione della teoria?

N. Secondo me i vantaggi sono più d'uno. Di quelli tecnici non parlerò qui. Sul piano concettuale, come ti ho già anticipato, c'è quello di aiutarci a non fare domande che non hanno risposta. Per esempio, se l'aleatorietà degli eventi quantistici è ontologica, irriducibile, cercare un meccanismo che li spieghi è una contraddizione in termini, perché significa cercare una causa per ciò che non ne ha. Senza onde non ha senso chiedersi come fa una particella a comportarsi certe volte come corpuscolo e altre volte come un'onda.

Da questo punto di vista l'eliminazione delle onde dalla meccanica quantistica ubbidisce alla stessa logica che ha portato Einstein a eliminare l'etere dai fenomeni elettromagnetici. Intendiamoci, non sono così presuntuoso da paragonarmi a Einstein. Voglio solo dire che ho imparato la sua lezione. Anche l'etere era un ente matematico al quale venivano attribuite proprietà fisiche paradossali, e tutti si arrovellavano a capire come facesse a comportarsi in quel modo. Poi Einstein ha fatto vedere che si poteva fare a meno dell'etere, a patto di introdurre l'idea del carattere relativo del tempo, che viene a dipendere dai sistemi di riferimento in moto l'uno rispetto all'altro in cui lo si misura, e da allora nessuno si chiede più com'è fatto l'etere.

D. Dunque secondo te eliminando le onde si eliminano i paradossi della meccanica quantistica?

N. Precisamente. Come ho già accennato poco fa, secondo il mio modo di vedere l'evoluzione temporale di un sistema quantistico non è altro che l'evoluzione temporale delle restrizioni sui valori che le variabili introdotte per descriverne le proprietà possono assumere, restrizioni imposte dalle leggi di conservazione, dai princìpi di simmetria, dall'incompatibilità tra variabili non definibili simultaneamente. Detto in termini metaforici, l'evoluzione di un sistema non può più essere considerata come il risultato dell'obbedienza al principio autocratico che nulla accade che non sia prescritto. Essa è meglio rappresentata dal principio democratico che tutto ciò che non sia proibito può accadere. Fuori di metafora le leggi fisiche sempre più ci appaiono essere l'espressione di vincoli, la formulazione di proibizioni, o la richiesta di compatibilità, piuttosto che la manifestazione di istruzioni coercitive che impongono comportamenti prevedibili in ogni dettaglio.

A. Insomma mi sembri soddisfatto del tuo lavoro.

N. Sono contento di essere arrivato, dopo cinquant'anni che ci penso su, a capire meglio, a modo mio, questo strano mondo delle particelle delle quali è fatto ogni oggetto materiale, noi compresi. Non pretendo di avere scoperto nulla, né di avere risolto un grande mistero. Se poi qualcun altro, oltre a me, troverà convincenti i miei argomenti, tanto meglio. Ma mi sarebbe dispiaciuto di dover concludere la mia carriera scientifica dicendo a me stesso: è stato tutto tempo sprecato.

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D. Hai parlato di autoreferenzialità. Avevi già accennato a questo concetto. Puoi approfondirlo meglio?

N. Il concetto di autoreferenzialità svolge un ruolo centrale nella spiegazione del funzionamento dei sistemi biologici. Come abbiamo visto, esso è una generalizzazione del meccanismo di feedback (retroazione) che permette a una macchina, finalizzata al raggiungimento di un determinato obiettivo, di autoregolarsi nel corso del proprio funzionamento correggendo gli scarti dal programma previsto in sede di progetto. L'esempio più noto e banale di autoregolazione mediante feedback è il termostato che mantiene costante la temperatura all'interno di una stanza. Se la temperatura cresce troppo il termostato spegne la caldaia e la stanza si raffredda. Se la temperatura scende al disotto del valore prefissato il termostato riaccende la caldaia e la temperatura risale.

Questo anello è tuttavia soltanto il più semplice degli anelli che connettono circolarmente elementi differenti di un sistema, perché il nesso che connette l'entrata con l'uscita e quello inverso sono entrambi univoci e deterministici.

L'autoreferenzialità vera e propria si ha quando questo nesso introduce un elemento di novità che genera a sua volta una risposta negli altri elementi del sistema tale da mantenerne la coerenza complessiva. In questo caso il sistema è sede di catene circolari di causalità nelle quali ogni componente fornisce alle altre un segnale dotato di significato, nel senso che contiene nuova informazione rispetto ai segnali che essa ha ricevuto.

D. Spiegati meglio.

N. Supponi per esempio che la temperatura nella stanza di prima non sia prefissata, ma sia lasciata libera di assumere un valore che dipende sia dallo stato della caldaia, sia da quello del termostato. Per esempio la caldaia ha diversi regimi di consumo possibili e la regolazione del termostato può dipendere da altri fattori, come la temperatura esterna all'edificio o il grado di freddolosità degli abitanti. In questo caso il sistema è autoreferenziale. Esso trova da sé quale sia la temperatura di regime compatibile con le diverse esigenze: si autoregola. Soltanto quando si instaura una coerenza interna fra i segnali in entrata e in uscita di ogni componente, che permette di riprodurre a ogni iterazione successiva del segnale circolante la situazione precedente, il sistema viene a trovarsi in uno stato stabile.

D. Quando hai parlato per la prima volta di autoreferenzialità hai detto che essa inevitabilmente porta a paradossi logici. Perché?

N. Perché in una catena circolare di retroazione il mutamento dello stato di A è causa del mutamento di stato di B, ma a sua volta questo mutamento, che del primo è l'effetto, è a sua volta causa del successivo mutamento dello stato di A. Come processo, tutto si spiega, perché c'è di mezzo il tempo. Ma nelle relazioni logiche il tempo non c'è, e dunque al tempo stesso il mutamento di A è causa del mutamento di B, ma a sua volta quello di B è causa di quello di A. E, poiché un effetto non può essere causa della propria causa ci troviamo davanti a un paradosso logico.

D. Non si tratta però di un paradosso reale, è solo un paradosso formale.

N. Certo, ma è un paradosso che da un lato ci mette in guardia dall'usare acriticamente strumenti concettuali inappropriati nella descrizione della realtà, e dall'altro spiega perché la mente umana abbia comunque bisogno di due modi diversi di percepirla e categorizzarla: uno sequenziale, che ordina gli eventi l'uno dopo l'altro secondo la logica aristotelica, l'altro associativo, che utilizza liberamente anelli autoreferenziali per connettere fra loro elementi di insiemi eterogenei.

D. Che nesso c'è tra autoreferenzialità e autorganizzazione?

N. Sono concetti strettamente connessi. Anzi la prima è una condizione necessaria perché un sistema possa essere in grado di produrre la sua stessa organizzazione. Nei sistemi viventi essa è infatti la premessa e simultaneamente il risultato dell'organizzazione stessa. Secondo questo punto di vista dunque la metafora corrente secondo la quale il DNA sarebbe come un «programma» di calcolatore fornito alle cellule che, seguendo le istruzioni in esso contenute assemblano le proteine necessarie alla vita dell'organismo, non sarebbe corretta. Basta pensare che, a differenza dei programmi di una macchina, il «programma» del DNA ha bisogno dei prodotti della propria lettura e della propria esecuzione per essere letto ed eseguito a sua volta, secondo un anello ricorsivo che è tipico di tutti i sistemi autorganizzatori.

D. Un'altra caratteristica dei sistemi complessi, hai detto, è la presenza di una gerarchia di livelli di organizzazione. Vuoi spiegarti meglio?

N. La realtà ci appare sempre strutturata in livelli di organizzazione della materia. Ogni unità di un dato livello è una collezione coerente, nel senso che discuteremo meglio fra un momento, di elementi del livello inferiore, ognuno dei quali è a sua volta una collezione coerente di elementi di quello ancora sottostante. La soglia della complessità si incontra quando si constata che esistono «oggetti» le cui proprietà non possono essere spiegate completamente attraverso la conoscenza delle proprietà delle loro parti separate.

D. Puoi fare degli esempi?

N. Ne vedremo qualcuno fra poco. Il punto fondamentale è che, al disopra della soglia della complessità, i linguaggi che descrivono le proprietà dei livelli superiori non sono interamente riducibili a quelli dei livelli inferiori. Essi sono fra loro compatibili ma le proposizioni del linguaggio che «spiega» le proprietà degli oggetti di un dato livello non possono essere completamente sostituite da proposizioni del linguaggio che «spiega» le proprietà degli elementi del livello inferiore, dei quali gli oggetti in questione sono costituiti.

D. Da che cosa deriva questa impossibilità? Nel caso di un gas le relazioni tra pressione, temperatura e volume che descrivono univocamente le sue proprietà macroscopiche possono essere ottenute da relazioni corrispondenti che legano i valori medi delle variabili (per esempio l'energia cinetica) delle sue molecole a livello microscopico. Da un punto di vista di principio questo dovrebbe essere sempre possibiie.

N. La traduzione del linguaggio del livello superiore in quello del livello inferiore comporta sempre l'unificazione di una molteplicità di raggruppamenti differenti di elementi di quest'ultimo in una unica categoria capace di descrivere un unico stato del primo. Nei sistemi semplici, come un gas, questa traduzione è ancora possibile: non occorre sapere esattamente le posizioni e le velocità delle singole molecole per ricavare pressione e temperatura di un dato volume di gas. C'è una enorme quantità di stati microscopici molecolari diversi che corrispondono a un unico stato macroscopico del gas.

Ma quando si supera la soglia della complessità una spiegazione riduzionista del rapporto fra due livelli non si può fare. Prendi per esempio il rapporto fra il livello dei concetti della biologia molecolare e quello sottostante della fisica e della chimica degli atomi. Consideriamo il processo di assemblaggio delle proteine nei ribosomi cellulari. Esso non può essere descritto facendo la media dell'evoluzione dinamica degli elettroni e degli atomi che a esso partecipano. Non perché le leggi che la regolano non siano più valide al livello più elevato ma perché questa descrizione sarebbe diversa per ognuno dei venti aminoacidi che formano la catena proteica. Non metterebbe perciò in evidenza il meccanismo comune a tutti, che regola l'intero processo di assemblaggio, consistente nel riconoscimento dell'aminoacido giusto nel brodo cellulare che li contiene tutti da parte della corrispondente molecola di RNA di trasferimento. Questo meccanismo comune è invece descritto in modo appropriato soltanto con il linguaggio della biologia molecolare.

D. Se ho ben capito dici che le proprietà di ogni livello sono spiegate mediante un linguaggio autonomo, non riducibile a quello dei livelli inferiori. Ma allora dove va a finire la «trama che connette» tutto il mondo della vita, secondo Bateson?

N. I linguaggi dei vari livelli non sono autonomi in modo assoluto. Ci sono vincoli reciproci da rispettare. Vincoli formali e vincoli temporali, storici. Le leggi della fisica e della chimica, le incompatibilità spaziali e geometriche, le relazioni causali, che agiscono dal basso verso l'alto (bottom up), limitano la scelta delle categorie introdotte per spiegare ciò che accade ai livelli superiori, ma non sono sufficienti a determinarle. Ma è vero anche il viceversa. I concetti che forniscono la spiegazione comune per un insieme di fenomeni al livello più alto, come abbiamo visto per il meccanismo di assemblaggio delle proteine, proiettano dall'alto in basso (top down) la loro capacità unificatrice sulla molteplicità degli stati a priori diversi dei costituenti elementari dei livelli inferiori che concorrono a configurare i fenomeni in questione. È questa rete di relazioni che connette fra loro i diversi livelli: è la «trama» della quale parla Bateson.

D. Dunque autonomia dei livelli, ma non assoluta. Questo mi fa venire in mente che il dibattito sul «riduzionismo» è molto di moda. In genere gli scienziati, e i fisici in particolare, sono i più accaniti nel sostenere che lo scopo stesso della scienza è di ridurre le proprietà di un sistema fatto di molte parti a quelle dei suoi costituenti elementari. I filosofi, d'altra parte, o meglio quei pochi che si occupano di scienza, tendono a sostenere che la scoperta della «complessità» segna la fine del «riduzionismo». Tu che cosa ne pensi?

N. E proprio il tema di un dibattito fra due interlocutori svoltosi recentemente sulle pagine di una bella rivista di scienze naturali, e può essere utile commentarlo.

Il primo, un filosofo, ripercorre le tappe dello sviluppo della scienza moderna, a partire da Galileo e Newton fino alla metà di questo secolo, per documentare quella che chiama la «progressiva presa di coscienza di un lento ma inesorabile dileguarsi delle certezze, dei fondamenti teorici e pratici del sapere», presa di coscienza che ha portato la scienza stessa, animata all'inizio dall'ideale newtoniano di «prevedere l'evoluzione futura di ciascun fenomeno a partire dalla legge che lo regola», fino a riconoscere «l'impossibilità di procedere per riduzione dei fenomeni a leggi dell'Ordine».

Il secondo, un fisico, gli risponde negando anzitutto che un cambiamento cosi radicale negli obiettivi e nei metodi della scienza si sia verificato. «A me verrebbe da osservare - scrive - che non c'è niente di nuovo: per esempio la rivoluzione copernicana non è stata da meno, quanto a sconvolgimento delle certezze e dei fondamenti del sapere». In particolare contesta vigorosamente l'affermazione del filosofo secondo il quale «la scienza si riduce a essere solo uno dei possibili discorsi sul mondo, non più l'unico esatto, e le sue regole appaiono sempre più simili alle regole di un gioco».

D. E secondo te chi ha ragione?

N. A prima vista mi verrebbe voglia di schierarmi con il primo e contro il secondo. Ma sarebbe una reazione superficiale e sbagliata. Hanno torto tutti e due.

D. Perché?

N. Cominciamo dal fisico. L'enorme successo della fisica, e del suo metodo riduzionista per eccellenza sembra dargli ragione. Tuttavia, e questo spiega perché non sono d'accordo con molti dei miei colleghi fisici, è soltanto perché questa disciplina si è occupata dei livelli di organizzazione della materia più semplici e regolari che essa è riuscita a spiegare una quantità impressionante di fenomeni in termini delle proprietà dei suoi costituenti elementari. I modelli introdotti dai fisici rappresentano molto bene la realtà a questi livelli perché le proprietà dei sistemi che questa disciplina studia possono essere ricondotte allo scambio di materia e di energia fra le loro parti. Non c'è circolazione di «informazione». Ma senza circolazione di informazione tra le diverse parti di un sistema non c'è «complessità».

I fenomeni che tradizionalmente studia la fisica possono dunque essere complicati ma non sono complessi. La semplicità è dunque l'eccezione in natura, non la regola. Anche se, come tutte le eccezioni, quando c'è, è di importanza fondamentale. I fisici - Einstein ne interpretava bene il convincimento - sono abituati a pensare, con molta presunzione, che sia possibile «da un punto di vista di principio» ricostruire tutta la realtà a partire dai loro modelli. Ma la fisica non è un buon modello di scienza. Essa rischia di fornire una caricatura semplicistica della realtà se si pretende di utilizzarne i metodi e i criteri di scientificità al di fuori del suo dominio limitato.

Come abbiamo appena visto, quando si supera la soglia della complessità, e si entra nel mondo della vita si assiste alla moltiplicazione dei linguaggi adottati da gruppi diversi di una stessa comunità. Ognuno di essi è al tempo stesso «oggettivo», perché riproduce alcune proprietà del reale, e «soggettivo» perché il punto di vista è scelto più o meno consciamente, dallo scienziato e dalla sua comunità che, condizionati dal contesto, lo adottano.

D. Insomma, tra i due interlocutori, il fisico è un esponente di quello che Bateson chiama «rozzo materialismo». E il filosofo?

N. Il filosofo fa un errore speculare a quello del fisico. La «complessità» non può essere una parola magica che spiega tutto, non può essere «la chiave per la comprensione della realtà». Prima di tutto, molto banalmente, perché, anche quando usa questo termine, ogni disciplina ne dà modelli e definizioni differenti. La complessità algoritmica dei matematici non ha niente a che vedere con la complessità biologica di una cellula o dell'architettura e della gerarchia delle strutture della corteccia cerebrale di cui parla un neurobiologo. Ma soprattutto questo tentativo di unificazione concettuale puramente verbale ha il difetto di sopprimere la fondamentale differenza fra il mondo semplice (o magari soltanto complicato) delle galassie e delle palle da biliardo e il mondo complesso della vita.

D. E dunque il secondo è un esponente di quello che Bateson chiama «soprannaturalismo romantico»?

 

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