Copertina
Autore Virginia Cobelli
CoautoreG. Marcon, M. Pianta, A. Marano, S. Sassen, G. Seravalli, A. Fumagalli, G. Naletto, M.C. Guerra, M. Maulucci, A. Santoro, V. Gomito, F. Garibaldo, U. Musumeci, A. Messina, F. Gesualdi, A. Calori, M. Di Sisto, P. Foglia, A. Zoratti, M. Grassi
Titolo Atlante di un'altra economia
SottotitoloPolitiche e pratiche del cambiamento
Edizionemanifestolibri, Roma, 2005, Transizioni , pag. 256, cop.fle., dim. 145x210x16 mm , Isbn 978-88-7285-402-0
CuratoreVirginia Cobelli, Grazia Naletto
LettoreRiccardo Terzi, 2005
Classe economia politica , politica , lavoro , movimenti
PrimaPagina


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Indice

Introduzione                                          7

Le politiche di Sbilanciamoci!                       11
Giulio Marcon


Parte prima
Le alternative per l'economia                        21

Le politiche del cambiamento.
Dopo l'economia del privilegio                       23
Mario Pianta

Posizioni di rendita e comportamenti opportunistici  41
Angelo Marano

I «senza potere», protagonisti del futuro            53
Saskia Sassen


Parte seconda
La società non è una merce                           59

Flessibilità, un rischio per la coesione sociale     61
Gilberto Seravalli

La proposta della «Flexicurity»                      75
Andrea Fumagalli

La spesa pubblica per l'immigrazione:
repressione o inserimento sociale?                   85
Grazia Naletto

Imposte e politiche economiche                       99
Maria Cecilia Guerra

Interveno pubblico e poilitiche redistributive      111
Marigia Maulucci

Tasse sui capitali: il tempo di scelte radicali?    121
Alessandro Santoro


Parte terza
Cambiare le imprese è possibile?                    131

Dall'Olivetti alla Fiat:
il comportamento delle grandi imprese               135
Vincenzo Gomito

Liberismo e responsabilità sociale delle imprese    149
Francesco Garibaldo

Alla ricerca della dimensione sociale delle imprese 165
Umberto Musumeci

La responsabilità d'impresa
per la costruzione di un'altra economia             179
Alessandro Messina


Parte quarta
Le esperienze dell'altra economia                   191

Modelli di consumo, modelli di sviluppo             193
Francesco Gesualdi

I distretti di economia solidale                    205
Andrea Calori

Il cotone: commerci, ingiustizie e alternative      215
Monica Di Sisto, Paolo Foglia, Alberto Zoratti

Le assicurazioni eticamente orientate               227
Marco Grassi

Appendice
La campagna Sbilanciamoci!                          237
Documento finale del secondo forum
«L'impresa di un'economia diversa»
(Parma 3-5 settembre 2004)                          241
Le pubblicazioni di Sbilanciamoci!                  245
Gli autori                                          249

 

 

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Pagina 7

INTRODUZIONE



    La globalizzazione oggi non funziona per molti poveri
    del mondo. Non funziona per gran parte dell'ambiente.
    Non funziona per la stabilità dell'economia mondiale.

    [...] sono i comuni cittadini — che hanno marciato nelle
    strade di Praga, Seattle, Washington e Genova — sono
    stati dei normali cittadini, come sindacalisti, studenti
    e ambientalisti, a mettere l'argomento delle riforme
    all'ordine del giorno del mondo industrializzato.



Non è un «estremista» no global ad esprimere queste valutazioni,ma Joseph Stiglitz, premio nobel per l'economia, consigliere economico dell'ex presidente degli Stati Uniti Clinton e, soprattutto, ex direttore della Banca Mondiale. Stiglitz è un sostenitore della globalizzazione. Nonostante questo denuncia quanto i movimenti antagonisti alla globalizzazione neoliberista affermano da tempo: il modello neoliberista è in crisi e non è capace di garantire sviluppo e benessere a livello globale. Sembrerebbe pensarlo persino Confindustria, a giudicare da alcune delle ultime dichiarazioni dei suoi attuali od ex alti dirigenti, intervenuti sulla situazione economica italiana. Che poi ci venga detto da altre parti che questo è il migliore dei mondi possibili, è un altro discorso.

E allora ripensare completamente il ruolo e le finalità dell'economia e della politica per (ri)metterle al servizio della società diventa indispensabile. Ipotizzare politiche economiche e sociali alternative a quelle fondate sullo scambio ineguale tra Nord e Sud del mondo e sulla stratificazione della cittadinanza sociale non è solo una questione di principio, ma diventa anche un atteggiamento di necessario pragmatismo: non solo il sud, ma anche il nord del mondo sembrano ormai non passarsela proprio bene. L'attuale «modello di sviluppo» sta infatti mostrando i suoi limiti anche nei paesi cosiddetti «avanzati», almeno a giudicare dai risultati sull'effettivo benessere di chi ci vive, se per misurarlo, anziché fare riferimento al Prodotto Interno Lordo, si usano indicatori alternativi che valutano il livello di istruzione, di servizi sociali e sanitari, di impronta ecologica che li caratterizzano.

In questa prospettiva il tema delle politiche pubbliche, e in particolare di quelle di welfare, occupa ovviamente un posto centrale. E a partire dalla loro impostazione e dai loro contenuti che si delinea, nei fatti, l'identità «politica» che un paese decide di darsi. È il modo in cui vengono spesi i soldi pubblici che ci dice quali sono le priorità della società in cui si vive, se al centro c'è l'uomo oppure il profitto, se – per dirlo con una battuta – si è deciso di perseguire la via facile ma pericolosa e di breve respiro del «meno tasse per tutti», oppure quella più difficile ma più seria e di lungo percorso del «più diritti per tutti».

Ma chi decide dove vanno presi e come vanno spesi i soldi pubblici? Chi deve dare l'impostazione generale alle politiche pubbliche? Chi decide se e quale modello di welfare deve essere implementato? La risposta è apparentemente ovvia: i politici e in particolare il governo di turno.

Ma nell'era della globalizzazione, o come molti sostengono del dopo-globalizzazione, il potere politico sembra rispondere quasi unicamente agli interessi dei grandi potentati economici e il distacco tra politica e società è destinato ad allargarsi. Dunque le politiche del cambiamento devono partire «dal basso», anche quando si tratta di temi ostici e apparentemente riservati agli addetti ai lavori. Perché la questione della finanza pubblica, lungi dall'essere prettamente tecnico-economica, ha una grossa valenza culturale. Infatti non si tratta di mettersi tutti a tavolino e, calcolatrice alla mano, definire i meccanismi tecnici di attuazione delle politiche pubbliche, ma di indicare in maniera chiara a chi li dovrà mettere a punto, qual è la «filosofia» a cui si deve ispirare, quali sono i risultati che dovrà perseguire, quali sono le possibili strategie per ottenerli. E poi «vigilare» sull'effettiva corrispondenza tra provvedimenti presi e indicazioni date.

Ma per essere efficace, l'azione dal basso richiede uno sforzo di conoscenza e di elaborazione, di assunzione di responsabilità.

Proprio da questo tentativo ha preso ispirazione la campagna Sbilanciamoci!, nata cinque anni fa, con l'obiettivo di sviluppare un'analisi critica della spesa pubblica – in particolare attraverso la lettura della legge Finanziaria — e di elaborare proposte alternative su come riorientarla per metterla al servizio dei diritti, dell'uguaglianza, della pace, della salvaguardia dell'ambiente.

Questo tipo di lavoro non è del tutto nuovo per le organizzazioni della società civile. L'esperienza di altre campagne, da quelle per la riduzione delle spese militari a quelle delle associazioni ambientaliste per la salvaguardia dell'ambiente, solo per citarne alcune, sono da sempre orientate a un approccio che unisce l'elaborazione di politiche alternative, le pressioni sul Parlamento e la mobilitazione dell'opinione pubblica.

L'originalità e la sfida di Sbilanciamoci! consistono nella scelta di collegare tra loro queste iniziative, di dare omogeneità alle proposte delle 39 organizzazioni aderenti, inserendole in un contesto complessivo di analisi e verifica dei comportamenti del governo. L'ambizione è quella di riuscire a tracciare scenari alternativi, proponendo misure praticabili da subito, evitando qualsiasi forma di corporativismo ed elaborando richieste a beneficio dell'intera collettività.

L'altra sfida è quella di portare queste analisi e queste proposte fuori dall'ambito delle associazioni promotrici, avviando ampie campagne di informazione e sensibilizzazione dell'opinione pubblica.

Da qui nasce il forum «L'impresa di un'economia diversa», l'iniziativa che si propone come appuntamento alternativo, il primo fine settimana di settembre, all'ormai famoso workshop di Cernobbio, momento di ritrovo del gotha del mondo industriale e politico. Le prime due edizioni del forum si sono svolte a Bagnoli nel 2003 e a Parma nel 2004.

Il sottotitolo dell'edizione di Parma recitava «La società non è una merce: fisco e spesa pubblica per i diritti e lo sviluppo»: tre giorni di discussione e confronto tra economisti, sociologi, sindacalisti, rappresentanti di movimenti, imprenditori, esponenti di realtà di altra economia, per analizzare i processi di globalizzazione, le radici della crisi del sistema industriale italiano e discutere le possibili alternative.

Si è parlato di rilancio del ruolo pubblico nell'economia e di redistribuzione della ricchezza; di difesa e allargamento del welfare e di tutela dei diritti sul lavoro; di salvaguardia dell'ambiente e di valorizzazione del territorio come luogo privilegiato per costruire forme di economia alternativa e di partecipazione sociale; di imprese che non possono non rispondere del loro operato e del loro impatto sociale.

Ma è stata anche l'occasione per presentare il mondo dell' altra economia che esiste già, pratiche ed esperienze che spaziano tra la finanza etica e il commercio equo e solidale, la produzione biologica e il turismo solidale.


Questo libro raccoglie analisi, proposte e testimonianze emerse durante il forum di Parma. L'intento è suggerire le tappe di un percorso capace di stimolare dal basso le politiche del cambiamento in campo economico, politico, sociale, rimettendo in agenda il ruolo centrale dello Stato.

Nella prima parte, oltre ad illustrare le proposte di Sbilanciamoci!, si analizza la crisi del sistema economico neoliberista e si suggeriscono obiettivi, strategie e strumenti che dovrebbero caratterizzare le politiche del cambiamento.

I processi di erosione del welfare, la precarizzazione del lavoro, l'impatto sociale di politiche pubbliche che privilegiano i più forti vengono analizzati invece nella seconda parte, dove trova un'attenzione particolare la difesa del prelievo fiscale, strumento fondamentale che lo Stato ha a disposizione per effettuare una redistribuzione della ricchezza e garantire a tutti i diritti sociali fondamentali.

Nella terza parte viene dibattuto un tema molto delicato, quello della Responsabilità Sociale d'Impresa.

In chiusura «Le esperienze dell' altra economia», le testimonianze di chi già «si muove» per creare circuiti economici alternativi, cambiare gli stili di vita, rendere più responsabili i consumi.

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LE POLITICHE DI SBILANCIAMOCI!
Giulio Marcon



La campagna Sbilanciamoci! è nata nel settembre del 2000 su iniziativa di alcune organizzazioni della società civile, aumentate nel corso degli anni fino ad arrivare alle attuali 39. L'idea di Sbilanciamoci! è scaturita dalla necessità di unire tre aspetti delle dinamiche e dei percorsi dei movimenti sociali e dell'arcipelago della società civile e della cittadinanza: le esperienze concrete e alternative di produzione e di forme di un'economia diversa (economia solidale, finanza etica, commercio equo e solidale, terzo settore); la capacità di lettura critica, unitaria e trasversale, delle politiche economiche da parte di organizzazioni ed esperienze (ambientaliste, pacifiste, solidaristiche, della cittadinanza e dei diritti, ecc.) apparentemente diverse e lontane tra di loro; l'elaborazione di alternative di politica economica sia in risposta a priorità dettate dall'agenda politica e istituzionale – come nel caso della Finanziaria - sia a partire da una riflessione interna sul modello di sviluppo da pensare e riformare.

È stata proprio la critica alla legge Finanziaria a fare da stimolo, è da lì che ha preso il via un percorso che poi ha trovato varie forme di riflessione e di iniziativa. La Finanziaria continua a rappresentare l'appuntamento più importante della politica economica e finanziaria del nostro paese: si tratta della più importante occasione di dibattito – e di conflitto – su scelte e proposte volte a indirizzare le prospettive di sviluppo e di allocazione delle risorse secondo le priorità economiche individuate dal governo di turno. La Finanziaria è l'appuntamento centrale della campagna, ma anche il pretesto per costruire una cornice più vasta, un paradigma di politica economica alternativa. Non è tanto il lavoro di lobby o di pressione per richieste specifiche, quello che contraddistingue il lavoro della campagna, quanto la capacità di delineare un vero e proprio quadro generale alternativo - a partire da proposte specifiche e concrete - di un economia fondata su valori e politiche diversi da quelli tradizionali. Lo sforzo, è quello di tenere insieme le esperienze concrete di un'economia diversa da un lato, e di individuare gli assi politici ed economici sui quali fondare un percorso più complessivo di trasformazione sociale, dall'altro. Si tratta di un lavoro non «in vitro», ma calato dentro le contraddizioni e gli indirizzi di un'economia globalizzata e neoliberista che produce diseguaglianze, privilegi, lacerazioni del tessuto sociale e delle comunità, e che rappresenta lo scenario con il quale oggi ci dobbiamo giocoforza confrontare.

Sbilanciamoci! è ovviamente parte del movimento di resistenza e opposizione a queste tendenze, e si concentra sulla costruzione di saperi e proposte alternative, capaci di costruire un programma e un percorso comune insieme ad altre forze e mobilitazioni sociali. In questa cornice, cinque sono stati gli assi più significativi lungo i quali si è sviluppata l'iniziativa della campagna: il ruolo della spesa pubblica e di quella sociale; la rivalutazione dell'intervento pubblico e la centralità del welfare; una nuova politica fiscale; un nuovo modello di «sviluppo» e nuovi indicatori per una nuova economia; «l'impresa di un'economia diversa».


La spesa pubblica fa spendere meno

La «spesa pubblica» ha costituito uno degli assi centrali di riflessione e di iniziativa. Il contesto, quando la campagna ebbe inizio, non era dei migliori: lo stato disastroso dei conti pubblici italiani dopo la voragine del debito pubblico degli anni '80 e '90, e la necessità di stare dentro i parametri fissati, a partire dalle compatibilità di bilancio, dai trattati della Uem (Unione Monetaria Europea) e proseguire nel processo di unificazione europea, hanno imposto pesanti vincoli a ogni riflessione innovativa. Il concetto di spesa pubblica è stato associato a sprechi, inefficienza, malversazioni. È però vero che gran parte del buco dei conti pubblici deriva dall'enorme entità degli interessi sul debito, più che dal cattivo uso dei soldi. Ed è anche vero che l'attuale debito (106% del Pil) non è dovuto affatto all'incremento della spesa sociale (con l'eccezione di quella pensionistica), che invece è al di sotto della media europea. Vi è poi un piccolo particolare da non dimenticare: la spesa pubblica ha provocato indebitamento anche a causa dell'endemica, e patologica, situazione di evasione fiscale del nostro paese. In altre parole, se l'evasione fiscale nel nostro paese fosse stata nella media europea anche il nostro stock di debito si sarebbe avvicinato ad una percentuale simile a quella europea. Inoltre bisogna ricordare come le privatizzazioni di importanti settori pubblici – dai monopoli naturali ai servizi – realizzate in vari paesi, abbiano dimostrato che gli sprechi e l'inefficienza della spesa pubblica sono in realtà assai relativi. Infatti non sempre – anzi, solo in pochi casi – le privatizzazioni hanno portato minori costi, minori tariffe, maggiore sicurezza ed efficienza: emblematici in questo senso i casi delle ferrovie britanniche privatizzate o delle aziende elettriche profit in California.

E se è vero che in Italia le Partecipazioni Statali sono state nel passato esempio di molti sprechi e inefficienza, la Parmalat (e la Enron negli Stati Uniti) è stata un macroscopico esempio di inefficienza privata e di «fallimento del mercato». Va inoltre sottolineato che alcuni risparmi della spesa pubblica, utilizzati per fare cassa subito – come nel caso del «lease and back» e delle cartolarizzazioni nelle ultime due finanziarie italiane – si tradurranno in maggiori oneri strutturali per il futuro, cioè in maggiore spesa pubblica.

Tutta una serie di interventi – dal welfare alla ricerca, dalle infrastrutture alle politiche di sviluppo – non sono possibili senza un adeguato investimento di spesa pubblica, che in molti campi è molto più efficace ed efficiente di quella privata: basti fare il confronto con il costo delle prestazioni sanitarie (pubbliche e private) degli Stati Uniti. Rimettere al centro un'efficiente spesa pubblica significa dunque risparmiare, costruire possibilità concrete di sviluppo, difendere i diritti. Ma vi è anche un'altra questione. Premesso che i parametri di Maastricht sono in sé discutibili e opinabili, soprattutto perché frenano le politiche di investimenti e di sviluppo, va riconosciuto che nella situazione italiana hanno rappresentato un argine a governi dediti allo «sforamento» populistico e propagandistico – «meno tasse per tutti» e grandi opere, per intenderci – che avrebbe allargato ulteriormente la voragine.

Valorizzare la spesa pubblica, significa dunque rimettere al centro un'idea positiva di programmazione, di riqualificazione dell'amministrazione, di rilancio del welfare, di politiche di sviluppo legate alla qualità e al riequilibrio del territorio, di responsabilizzazione delle comunità locali. Naturalmente parliamo di una spesa qualificata, efficiente, razionalizzata e che abbia un effetto moltiplicatore e di trascinamento, in una cornice che privilegi sistemi di responsabilizzazione della spesa, e di partecipazione degli attori coinvolti nelle decisioni, nel controllo e nella gestione.


Buone ragioni per sostenere il sistema pubblico e il welfare

Ridare centralità all'intervento pubblico non e affatto una questione ideologica o semplicemente un tributo al pensiero keynesiano. È una necessità, per sostenere le ragioni e le possibilità di uno sviluppo sostenibile, fondato sull'equità sociale e la redistribuzione del reddito. Le ragioni di un' economia diversa non hanno niente a che vedere con quelle dello statalismo burocratico o con la riedizione delle vecchie «partecipazioni statali», che peraltro qualche merito l'hanno avuto. Si tratta di ribadire la centralità del «pubblico», anche come strumento efficiente di forme partecipate e autoregolate di produzione. Centralità nel sostenere e soprattutto regolare una sana economia di mercato, nell'assumere su di sé le funzioni dirette di iniziativa e impresa (come nel caso dei monopoli naturali, della ricerca e della formazione, delle infrastrutture, della gestione delle risorse naturali non comprimibili a merce, del superamento degli squilibri territoriali e strutturali); nel promuovere un adeguato welfare, che oltre ad essere strumento di coesione e qualità sociale, di protezione e di diffusione dei diritti, diventi anche strumento di creazione di capitale umano e sociale, fondamentali per un'economia di qualità e uno sviluppo sostenibile.

La difesa del welfare è uno dei punti fondamentali per Sbilanciamoci! Per essere preservato il welfare deve essere riformato, bisogna andare oltre le derive statalistiche e burocratiche, che pur ci sono state, e bisogna adeguarlo alle esigenze di oggi: quelle, cioè, determinate dalla frammentazione e dall'allargamento della sfera dei bisogni, dalle trasformazioni sociali e demografiche, dalle nuove esigenze di partecipazione e protagonismo sociale, dai problemi di sostenibilità economica e finanziaria. Ed è senz'altro da sottolineare l'esigenza di un «welfare mondiale» (grazie alle politiche di cooperazione internazionale) dentro un'economia globalizzata che ricomponga gli squilibri tra Nord e Sud del mondo e che ponga come prioritaria la necessità di salvaguardare tutti i beni comuni indisponibili all'essere ridotti a merce. Se non vogliamo che i diritti sociali siano equiparati a un «fondo di bilancio», come dice il politologo Sartori, bisogna rilanciarne la pregnanza e la centralità attraverso un welfare (municipale e comunitario) che si incontri e compenetri con gli altri aspetti delle politiche pubbliche: quelle fiscali, economiche e della partecipazione dal basso.

In questa direzione può dare un contributo un terzo settore che non sia «privato-sociale» ma «pubblico-sociale», e che non si riduca ad essere «parastato» o «paramercato», ma che rivendichi invece la sua identità di soggetto di autogestione sociale e di promozione dei diritti e del welfare. Si tratta di incrociare le componenti di un sistema condiviso, fatto di garanzie e regole pubbliche, di gestione diretta istituzionale e di ruolo attivo delle organizzazioni della società civile, volto alla realizzazione dei diritti e alla salvaguardia dei beni comuni.


Un fisco equo e solidale

Altro elemento centrale per Sbilanciamoci! è quello della politica fiscale. Senza adeguate risorse non si ha un adeguato intervento pubblico e un significativo sistema di welfare. I tre aspetti sono strettamente collegati. La «crociata anti-tasse», iniziata negli anni '80 con Reagan e la Thatcher, è strettamente connessa con quella anti-stato e quella anti-welfare. Anzi, obiettivo delle riduzioni dello Stato nell'idelogia liberista reaganiana, è proprio quella di «affamare la bestia» («starving the beast»), dove la bestia è appunto lo Stato. Con meno risorse a causa delle riduzioni fiscali, lo Stato è costretto dapprima a indebitarsi (così sta succedendo negli Stati Uniti) e poi a ridurre il suo intervento e conseguentemente a ridurre i servizi di welfare. Il taglio fiscale, nell'ideologia liberista, è dunque centrale per raggiungere gli altri obiettivi: lo «Stato minimo» e il «welfare compassionevole».

Le previsioni dei liberisti cui fa riferimento la cosiddetta «curva di Laffer» (il consigliere economico di Reagan degli anni '80 a cui si deve questa teoria) – e cioè che minori tasse, significano maggiori risorse da immettere nella produzione e nei consumi e quindi per il volume di spesa maggiore, nuove entrate fiscali, addirittura superiore a quelle precedenti – si sono dimostrate alla prova concreta infondate. Le maggiori risorse sono infatti andate in rendita, speculazioni o, nel migliore dei casi, in risparmio familiare. Ecco perché, per la campagna Sbilanciamoci!, la scelta di mettere al centro la questione fiscale è strategica. Meno tasse significa meno servizi, cioè meno diritti. Nello stesso tempo la credibilità – culturale, sociale, civile – dello strumento fiscale è legata ad altri due elementi fondamentali, che purtroppo sono assenti nel nostro paese: la riduzione a un tasso fisiologico dell'evasione fiscale e un buon funzionamento della macchina amministrativa e dei servizi. Senza il raggiungimento anche parziale di questi obiettivi, l'allargamento della base fiscale (necessaria per politiche attive e di sviluppo) rischia di essere irrealizzabile e illusoria, una pura petizione di principio. Premesso questo, è necessario puntare su due obiettivi: a) un'azione di carattere culturale e civile per ridare allo strumento fiscale la dignità di dovere di solidarietà sociale (come dice la nostra Costituzione), che permetta a una comunità di assolvere ai suoi compiti e di rispettare i diritti dei suoi cittadini; b) una proposta di rimodulazione della politica fiscale, che sposti l'accento e l'indirizzo dell'imposizione in altre direzioni rispetto a quelle attuali.

Sbilanciamoci! ne ha indicate alcune: 1) l'adeguata e maggiore tassazione delle rendite, surplus e rendite finanziarie (dai capital gains alle successioni, dalla Tobin tax ai patrimoni) che oggi sono scarsamente colpite dal fisco, cosa che produce iniquità sociale e distoglie risorse da un loro diverso impiego verso investimenti e attività produttive; 2) l'accentuazione del principio di progressività sul reddito delle persone fisiche, in modo completamente alternativo alle riduzioni fiscali avanzate dal governo Berlusconi, portando l'aliquota maggiore ai livelli della Francia e della Germania; 3) l'introduzione di una serie di tasse di scopo (tipo la carbon tax, finalizzata all'applicazione del protocollo di Kyoto) indirizzate al raggiungimento di obiettivi specifici e condivisi dalla comunità; 4) l'aggravio di una serie di imposizioni fiscali volte a penalizzare comportamenti economici e consumi dannosi per l'ambiente e la società: in questo senso vanno alcune proposte di Sbilanciamoci! di tassare ulteriormente la produzione di armi, i gipponi Suv (Sport Utilities Vehicles), che la Tremonti-bis ha permesso agli imprenditori di dedurre dall'imponibile, o i diritti televisivi legati agli eventi dello sport spettacolo. Ovviamente — per converso — lo strumento fiscale (attraverso per esempio una diversificazione dell'Iva, operazione che può essere fatta solamente in modo concertato in ambito europeo) può essere usato per incentivare e stimolare le nuove forme di economia sociale, le energie rinnovabili, i lavori di utilità sociale.


Nuovi indicatori per una nuova economia

Spesa, intervento pubblico e politica fiscale, non possono produrre efficaci e innovative forme di «economia diversa» se non nel contesto di un nuovo modello di sviluppo, fondato sulla qualità, l'equità, la sostenibilità e misurato con indicatori diversi da quelli del passato. La crescita o la decrescita del Pil (Prodotto Interno Lordo) poco ci dicono del livello di benessere di un'economia e di una società. La crescita del Pil può avvenire paradossalmente anche grazie a produzioni ecologicamente dannose o ad attività economiche che causano disoccupazione, degrado sociale e povertà diffusa: la qualità della vita non aumenta di certo perché in questo modo aumenta di qualche decimale il Pil. Vi è sul tema una riflessione e una letteratura internazionale (Latouche, Illich, Sachs, ecc.) che investe proprio la nozione (ideologica) di sviluppo, rimettendola drasticamente in discussione. Nel merito delle proposte Sbilanciamoci! cerca allora di posizionare la sua riflessione sull'intervento pubblico e sullo strumento fiscale come occasioni per ripensare l'economia, colpendo comportamenti e consumi ecologicamente e socialmente insostenibili, al contempo favorendo forme di economia fondata su principi di equità e giustizia. Questo a partire dal livello locale, per l'analisi del quale Sbilanciamoci! ha elaborato l'indicatore QUARS (Qualità Regionale dello Sviluppo). Il QUARS permette infatti di misurare il grado di benessere sociale e di qualità della vita nei territori italiani in modo diverso, collegandosi al lavoro internazionale di ricerca sugli indicatori alternativi avvenuta negli ultimi anni: dall' Indice di sviluppo umano elaborato da UNDP (United Nations Development Program), fino al Cruscotto della sostenibilità e all' Impronta ecologica. Ormai c'è una fiorente letteratura internazionale sugli indicatori, ma non c'è dubbio che per lavorare ad una «nuova economia», servano proprio nuovi parametri che interroghino il paradigma dello sviluppo al quale finora abbiamo fatto riferimento. Un simile approccio investe ovviamente sia la definizione di alternative di politica economica (il ruolo dell'intervento pubblico, l'economia sociale, la riconversione ecologica e civile dell'economia, ecc.) che innovino i modelli produttivistici e industrialistici tradizionali, sia pratiche quotidiane e concrete che riguardano i consumi, i comportamenti, gli stili di vita. Ma c'è un terzo aspetto che entra in gioco nella definizione di questo nuovo paradigma: quello della dimensione locale e territoriale. Non vi è dubbio, infatti, che è proprio nella dimensione dello sviluppo locale che possono tornare centrali una serie di componenti — la partecipazione democratica, il rispetto e la valorizzazione delle risorse ambientali e del territorio, le compatibilità sociali, l'armonizzazione delle politiche, la rete, ecc. — che la globalizzazione neoliberista selvaggia ha distrutto o messo in serio pericolo, colonizzando i territori, espropriando il ruolo delle comunità democratiche (e dei governi locali e nazionali), devastando il tessuto sociale.


«L'impresa di un'economia diversa»

Questo è il titolo che Sbilanciamoci! ha dato all'evento che ogni anno, la prima settimana di settembre, organizza in contemporanea al workshop dello Studio Ambrosetti di Cernobbio. L'iniziativa rappresenta il tentativo di fare una riflessione severa — ma non ideologica e preconcetta — sul ruolo delle imprese (italiane) nell'economia del nostro paese, e di dar vita a un laboratorio che, partendo dall'impresa, arrivi ad analizzare gli indirizzi generali delle attività di produzione di beni e servizi e del modello industriale. Si tratta di prendere in considerazione due aspetti complementari: le politiche economiche rivolte a un modello produttivo più tradizionale (fordista e postfordista) — ma con il quale non è possibile non fare i conti nel breve e medio termine, e sul quale si può lavorare per costruire nuovi indirizzi — e quelle rivolte alla creazione di forme innovative di «altra economia», che abbiamo più volte citato in questo intervento. Sullo sfondo, la questione per certi versi ambivalente, della «responsabilità d'impresa» e di possibili modelli di controllo e partecipazione democratica all'organizzazione del lavoro e sulle forme partecipative della democrazia industriale.

Sul primo versante — quello di indirizzi di politica economica e industriale mainstream — sono ben poche negli ultimi quarant'anni le sperimentazioni e le innovazioni costruite. Le prime risalgono agli anni '60, con la sperimentazione della programmazione del centro-sinistra e la crescita del ruolo pubblico in economia (le partecipazioni statali e la gestione dei monopoli naturali) e le altre alla seconda metà degli anni '70, con le iniziative per la riconversione industriale e la sperimentazione (poi maturata negli anni '80) di forme nuove di sviluppo locale, come i patti territoriali e di area, grazie anche all'accresciuto ruolo di regioni ed enti locali dopo le riforme di quegli anni.

Sul secondo versante, è proprio negli anni '80 che nuove forme di economia sociale iniziano a svilupparsi: nascono le cooperative sociali, le prime botteghe del commercio equo e solidale, le mutue società di autogestione (Mag).

E per quanto riguarda la «responsabilità d'impresa» è proprio negli anni '50 che se ne vede un'applicazione particolarmente importante, con l'esperienza di Olivetti a Ivrea.

Oggi, nella prospettiva della costruzione di un'«economia diversa», queste esperienze storiche ritornano — attualizzate e rinnovate – al centro del dibattito sulle possibili alternative.

Perché vista la progressiva «scomparsa dell'Italia industriale» e il concomitante avanzare dei processi di finanziarizzazione e di globalizzazione dell'economia, diventa necessario trovare nuove strade di sviluppo economico — innovativo, di qualità, fondato sulla ricerca e la formazione — che sia in grado di rispondere ai nuovi bisogni, anche quelli immateriali e di «qualità». Diventa quindi centrale la questione della produzione — più che di beni materiali e produzioni in serie — di «valori d'uso», di beni comuni e relazionali, di servizi collettivi e pubblici. Il tutto all'interno di un percorso di radicamento nella comunità, di sviluppo della dimensione locale, di valorizzazione delle sue risorse e dei suoi attori.

È qui che si inserisce la questione di un nuovo ruolo dell'impresa — che vada oltre quello attuale sempre più finanziarizzato e deresponsabilizzato — che sia a forte vocazione sociale, come era appunto l'Olivetti, e collocato dentro le reti di sviluppo del territorio e di sviluppo del tessuto sociale, per la costruzione di un percorso democratico e partecipato.


Conclusioni

Il percorso intrapreso da Sbilanciamoci! — che nei suoi aspetti più specifici è approfondito da altri interventi di questo volume — può essere un utile elemento per la costruzione di alleanze e iniziative comuni con altre componenti della società civile: il sindacato, i movimenti sociali, le comunità e gli enti locali, l'arcipelago dell'auto-organizzazione sociale, ecc. Si tratta di fare uno sforzo comune per dare seguito ad alternative di politica economica già radicate sul territorio e spinte da una forte mobilitazione sociale. Occorre uscire dalle rispettive parzialità, dalle autoreferenzialità e dalle nicchie in cui ognuno si trova a operare, a favore della costruzione di un processo di trasformazione sociale, politica, economica del nostro paese. È un esercizio di «globalizzazione dal basso» — oltre la colonizzazione sociale e culturale del postfordismo neoliberista – per accorpare in un programma organico le proposte di ognuno e dar vita a percorsi concreti per una società ed un' «economia diversa». È un modo per dare risalto ai «saperi collettivi» costruiti dai movimenti sociali a partire dai forum alternativi di questi anni, cercando di avviare percorsi politici che possano trasformare in uno sbocco concreto la possibilità di un'economia alternativa.

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LE POLITICHE DEL CAMBIAMENTO.
DOPO L'ECONOMIA DEL PRIVILEGIO
Mario Pianta



Un'Italia tardo-liberista in un mondo post-liberista?

Alla fine del 2004 il governo italiano si è avventurato in una profonda rottura degli assetti che da mezzo secolo avevano definito i rapporti tra sfera pubblica e privata, tra ruolo dello stato e attività lasciate al mercato, tra solidarietà sociale e individualismo. La riduzione delle imposte sul reddito delle classi più elevate per un importo di circa 6 miliardi di euro rappresenta — al di là delle modalità ed esiti della sua realizzazione — il simbolo di una svolta radicale di politica economica, la scelta di perseguire un modello economico e sociale di «economia del privilegio» che rompe con il modello (per quanto improprio e incompiuto) di «Stato del bellessere» costruito nel dopoguerra, sull'onda dell'affermarsi del welfare state in tutta l'Europa occidentale.

Per la prima volta in Italia si realizza un vero tentativo — pur se condizionato da una logica di corto respiro di ricerca di consenso elettorale — di importare il progetto intrapreso per la prima volta dalla Gran Bretagna di Margaret Thatcher nel 1979 e dagli Stati Uniti di Ronald Reagan nel 1980: un radicale ridimensionamento dello stato, dei suoi servizi, del suo ruolo economico e redistributivo. Una politica che si può sintetizzare in un dato: la quota di spesa pubblica (nella sua definizione più ampia) sul prodotto interno lordo è scesa in Gran Bretagna dal 52% del 1980 al 44% di oggi, mentre le percentuali degli altri maggiori stati europei restano del 49% in Italia e Germania, del 55% in Francia, del 58% in Svezia. Il modello liberista e la riduzione della presenza pubblica nell'economia, in Gran Bretagna come negli Usa, hanno avuto l'effetto di aggravare le diseguaglianza economiche, i problemi sociali - a cominciare da povertà ed esclusione sociale - e il degrado ambientale.

In Italia, la spinta a un'accelerazione tardo-liberista è venuta la fattori interni ed esterni. All'interno ha pesato, nell'immediato, la debolezza della coalizione di governo, in calo di consensi di fronte all'assenza di risultati economici e sociali dopo tre anni e mezzo di legislatura. Si tratta di una politica in stretta continuità con la visione «patrimoniale» dello stato e dell'azione di governo che ha portato a tutelare gli interessi economici (e giudiziari) del Presidente del Consiglio, a ignorare i conflitti d'interesse, a introdurre drastiche «riforme» in campi che vanno dalle norme costituzionali al federalismo, dalla giustizia alla scuola, a distribuire privilegi a categorie amiche e togliere risorse a interi settori considerati ostili.

Ma il tentativo di costruire un modello di «economia del privilegio» non si può comprendere appieno se non lo si colloca nel contesto del declino complessivo del sistema produttivo italiano, che ha visto il tramonto di importanti settori produttivi del paese, ridotto le possibilità di crescita e di occupazione e disarticolato i tradizionali poteri economici e sociali, la grande impresa privata innanzi tutto.

Dall'esterno, nell'immediato, ha pesato l'effetto dimostrativo della rielezione di George W. Bush alla presidenza degli Stati Uniti, che presentava un analogo bilancio disastroso quanto ai risultati economici della sua amministrazione — oltre che della guerra in Iraq. La vittoria di Bush, con la sua rinnovata proposta di riduzione delle imposte ai più ricchi e di ulteriore privatizzazione e individualizzazione del sistema di previdenza sociale, è stata interpretata come il segno di un consenso generalizzato dell'elettorato alle proposte di riduzione delle imposte, Tuttavia, a differenza degli Stati Uniti, che possono finanziare queste politiche con ulteriore indebitamento pubblico, l'Italia si trova stretta da vincoli ben più pesanti. I vincoli del Patto di Stabilità e Crescita dell'Unione Economica e Monetaria Europea impediscono il finanziamento dei tagli fiscali attraverso deficit e nuovo debito; la precarietà delle finanze pubbliche riduce gli spazi di manovra fiscali; la debolezza dell'economia europea e l'apprezzamento dell'euro rendono incerte le prospettive di crescita economica.

Le stesse modalità di realizzazione del taglio delle imposte sono incerte, con un finanziamento che dovrebbe venire da entrate in larga parte improbabili (come quelle derivanti dalla proroga del condono edilizio). Inoltre, non esistono in Italia quei meccanismi «propulsivi» che potrebbero trasformare gli sgravi fiscali in nuovi investimenti e in uno stimolo per il rilancio e la riqualificazione dell'economia. A differenza di Gran Bretagna e Stati Uniti, non esiste un sistema finanziario capace di intercettare gli accresciuti redditi delle classi più ricche e trasformarli in investimenti e sviluppo di nuove attività economiche.

La fragilità delle condizioni economiche italiane rende così ancora più incerta e pericolosa l'avventura tardo-liberista intrapresa dal governo. Tanto più che a livello internazionale la stagione della globalizzione neoliberista sembra tramontata.


Il dopo-globalizzazione

È stata la crisi finanziaria della primavera 2001 – lo scoppio di una bolla speculativa cresciuta per molti anni — a fermare la lunga ascesa, durata oltre vent'anni, del modello neoliberista di globalizzazione che ha riorganizzato il capitalismo mondiale dopo le crisi degli anni '70 e il tramonto della guerra fredda. Da allora le borse ristagnano, gli investimenti diretti all'estero continuano a ridursi, si moltiplicano le crisi di grandi imprese e banche, spesso con connessi scandali finanziari. E la liberalizzazione del commercio internazionale non appare più come la ricetta inevitabile per la crescita economica.

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I «SENZA POTERE», PROTAGONISTI DEL FUTURO
Saskia Sassen



La storia ci insegna che gli esclusi e i deboli sono un importante fattore nello sviluppo di nuove fasi storiche. Gli accademici hanno incontrato e incontrano notevoli difficoltà nello spiegare il cambiamento sociale, in parte perché c'è la tendenza a concentrarsi su ciò che è «incluso», che fa parte dei sistemi formali: i governi, gli elettori, il mercato del lavoro formale, il sistema di difesa di un paese, ecc. I grandi sconvolgimenti sociali ci colgono impreparati – che si tratti della caduta di regimi poderosi come le dittature dell'America Latina negli anni '70 e di Marcos nelle Filippine, o l'estensione del diritto di voto alle donne e alle persone di colore, o la firma del trattato per la messa al bando delle mine antiuomo, o le mobilitazioni contro il Wto a Seattle nel 1999. Per quanto la Cia si sforzi di tenere sotto controllo i «sobillatori», non è mai stato possibile prevedere correttamente il sopraggiungere del cambiamento sociale, o prevederlo affatto. Una delle ragioni è che quel che può apparire come un cambiamento improvviso è in realtà il risultato di una lunga storia di lotte organizzate, portate avanti da attori invisibili e «senza potere». I grandi eventi e cambiamenti sociali sono spesso costruiti nel corso di decenni dalle pratiche degli esclusi. Le donne hanno lavorato per un secolo per ottenere il diritto di voto, prima che, negli anni '60, diventasse una realtà nei paesi ricchi del Nord del mondo. Ma la storia ne parla come se un giorno, in alcuni casi verso la metà degli anni '60, i legislatori avessero improvvisamente deciso di concedere il diritto di voto alle donne.

Oggi stiamo attraversando, ancora una volta, una congiuntura storica molto particolare. Vale la pena dunque di esaminare le tendenze chiave che stanno ridisegnando la mappa politica; niente di quanto dirò è del tutto nuovo, ma la scala del fenomeno e le tattiche impiegate sono in una certa misura estreme e danno vita a una nuova mappa politica. In questo contesto, c'è spazio perché le forze sociali informali rafforzino il proprio impegno e lavoro politico.


La nuova mappa politica

Vorrei evidenziare due questioni chiave, relative entrambe al sistema politico formale, che sono un chiaro indicatore del degrado di questo sistema politico e quindi dell'importanza delle forze politiche informali.

In primo luogo, in tutti i paesi la globalizzazione ha indebolito il sistema legislativo e, benché vi si presti poca attenzione, ha rafforzato il potere esecutivo. Non è una cosa di cui stare allegri. Per quanti limiti le democrazie liberali possano avere, il sistema legislativo è il luogo in cui si esercita il potere del popolo, in cui possiamo far sentire la nostra voce attraverso i nostri rappresentanti eletti. È anche il ramo del governo in cui possiamo porre i politici di fronte alle loro responsabilità: chiedere ai legislatori e, cosa ancor più importante, al governo - presidente/primo ministro, ministri, agenzie e commissioni operanti all'interno dell'esecutivo - di rendere conto del loro operato. Il numero di commissioni e agenzie governative è aumentato considerevolmente nel corso del tempo: una parte sempre maggiore delle attività di governo è sotto il controllo dell'esecutivo e sottratta alla supervisione dei cittadini. Nel contempo, il ramo legislativo è stato indebolito, al punto che in molti paesi oggigiorno è in uno stato di degrado, proprio perché il sempre minor potere di cui gode lo rende vulnerabile alle mire degli interessi privati. Tutto questo emerge con estrema chiarezza negli Stati uniti dove, come sostengo nel mio ultimo libro, abbiamo un governo sempre più «privatizzato». Gli Usa sono a malapena quella democrazia liberale caratterizzata dall'equilibrio tra i poteri che si suppone che siano. Non è mai stato un sistema perfetto, né è mai stato implementato alla perfezione, ma quel che è avvenuto negli Stati Uniti nell'ultimo decennio è davvero senza precedenti. Credo che stiamo entrando in una nuova era: il punto è che l'apparato formale della politica - il governo, i partiti politici, le lobby ufficiali - sono sempre meno rappresentativi del corpus politico nel senso più generale del termine. Questo significa che gli attori politici informali - i movimenti sociali, gli esclusi, i «senza potere» - assumono un ruolo ogni giorno più importante.

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PARTE SECONDA
LA SOCIETÀ NON È UNA MERCE



A partire dagli anni '80 i governi europei hanno eroso sistematicamente le garanzie offerte dal sistema di welfare. In particolare è stato messo in discussione il principio che sta alle fondamenta dello stato sociale: la scelta universalista in base alla quale lo Stato si fa carico di alcuni bisogni sociali fondamentali (salute, istruzione, abitazione, pensioni) trasformandoli in diritti per tutti. La logica seguita dalle politiche neoliberiste è esattamente l'opposto: lo Stato, ma anche l'ente locale, «esternalizza» le politiche sociali, nel migliore dei casi, oppure privatizza i servizi e i beni comuni.

L'argomentazione in base alla quale questa scelta sarebbe indotta dai costi eccessivi delle politiche pubbliche non regge più. E, d'altra parte, non si capisce perché i soldi mancano per gli asili e le scuole, per l'edilizia pubblica residenziale, per gli ospedali, ma ci sono se si tratta di partecipare alle guerre «preventive». Né regge l'argomentazione secondo la quale il privato garantirebbe una «migliore efficienza». Infine risulta più che discutibile la tesi che individua nella spesa pubblica il principale ostacolo alla crescita economica.

La difesa dell'intervento pubblico nelle politiche sociali rappresenta dunque un'alternativa da seguire, per ribadire che ci sono servizi e attività che non possono essere consegnate al mercato. Di conseguenza un sistema fiscale ispirato ai principi di progressività e equità, resta lo strumento fondamentale per finanziare servizi che devono essere garantiti a tutti.

I cambiamenti demografici, le trasformazioni nel mondo del lavoro, l'invecchiamento della popolazione, la crescita dell'occupazione femminile, le migrazioni pongono certo il problema di misurarsi con bisogni sociali in aumento e di tipo nuovo. Ma la risposta sta in un diverso utilizzo delle risorse, del riorientamento e nella riqualificazione dell'intervento pubblico, anziché nella sua costante riduzione: lo sottolinea Marigia Maulucci nel suo contributo.

Basta guardare al mercato del lavoro, ambito strettamente connesso alle politiche di welfare, per vedere come la deregolamentazione (la cosiddetta flessibilità) introdotta in Italia negli ultimi anni, lungi dall'aver portato – come si evince dall'analisi di Gilberto Seravalli – a un aumento dell'occupazione, comporterà invece danni crescenti in termini di coesione sociale.

È dunque necessario un Welfare nuovo che sappia rispondere alle necessità di una società che è ben lontana dal raggiungere la piena occupazione. Che questo sia possibile cambiando il modo in cui vengono spesi i soldi pubblici o attingendo a nuove risorse è quanto emerge dagli interventi di Grazia Naletto sul tema dell'immigrazione e di Andrea Fumagalli sul tema della Flexicurity.

Il sistema di risorse destinato per eccellenza a finanziare lo stato sociale resta però la leva fiscale. Da tempo in Italia (e non solo) il tema della tassazione viene strumentalizzato in modo ideologico e populista al fine di perseguire una riduzione indiscriminata dell'imposizione fiscale che, dietro le apparenze, cela un vantaggio ad esclusivo uso e consumo dei ceti più abbienti. L'imposizione fiscale viene demonizzata e definita come un «male in sé», una gabella «estorta» dallo Stato «inefficiente e sprecone».

È invece opportuno ricordare, lo spiega bene Maria Cecilia Guerra, che la scelta di un dato livello di tassazione è legata al ruolo che si affida allo Stato e alle politiche pubbliche nella garanzia di beni e servizi di interesse generale.

Tassare sì ma chi, come, che cosa? Quali imposte e tasse privilegiare? Ad esempio le rendite e i capitali, come suggerisce Alessandro Santoro.

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LA PROPOSTA DELLA «FLEXICURITY»
Andrea Fumagalli



Definizione di Flexicurity

Per noi flexicurity significa possibilità di essere flessibili senza dover subire la precarietà. In altri termini significa ribadire il primato del «diritto alla scelta dell'attività lavorativa» sul semplice «diritto al lavoro» (qualunque esso sia).

Con il termine flexicurity, di derivazione anglo-manageriale e già oggetto di legiferazione nei Paesi Bassi, si intende indicare un traguardo di autotutela sociale e togliere la maschera oramai ventennale di propaganda neoliberista a favore del concetto di flessibilità, inganno semantico che cela realtà di precarietà sempre più generalizzata e capillare in tutta Europa. Guardando a un livello più congiunturale dell'analisi, flexicurity intende essere la risposta del precognitariato radicale agli ammortizzatori sociali, elemosine di non-diritti proposte da Cisl, Treu, Margherita e destra DS. Gli ammortizzatori sono pallidi palliativi per tenere sotto controllo le conseguenze nefaste della precarietà esplosa dopo il varo del pacchetto Treu, che ha innescato il processo di sostituzione di contratti tipici con contratti atipici e precari, e continuata con la legge 30 (Biagi). L'effetto del pacchetto Treu è stato di estendere quantitativamente le possibilità di lavoro precario mentre il recente provvedimento sembra solo preoccuparsi di consolidare i guadagni che le imprese traggono dalla precarietà e garantire il peggio possibile a chi è da poco entrato o si appresta a entrare nel mercato del lavoro.

Più nello specifico e in modo concreto, semplice e soprattutto praticabile nell'immediato (dobbiamo dare risposte concrete a problemi concreti), la proposta di flexicurity può essere declinata, nella sua versione minimale, in quattro punti.


Garanzia di reddito continuativo (reddito diretto)

Il pilastro portante della proposta di flexcurity è garantire a tutti/e una continuità del flusso di reddito, a prescindere dalla condizione e prestazione lavorativa e dal tipo di contratto di lavoro, vale a dire in modo incondizionato. Il livello del reddito che deve essere garantito è: pari al 60% del reddito medio pro-capite calcolato dall'Istat su base regionale; erogato su base individuale (e non familiare); erogato sulla base del principio della residenza (a prescindere dalla cittadinanza e dalla provenienza), ponendo un vincolo temporale minimo di residenza (ad esempio sei mesi).

A tal fine, a livello nazionale, con decreti di attuazione a livello regionale, si istituisce una Cassa Sociale Precaria.

Questa Cassa, il cui finanziamento discuteremo tra breve: a) garantisce la continuità di reddito, tramite la costituzione di un Sussidio di Flessibilità Sostenibile generalizzato, corrisposto a chiunque perda il lavoro per risoluzione di contratto, licenziamento, cessazione di missione interinale, cessazione di progetto parasubordinato o comunque si trovi ad affrontare la cessazione del flusso di reddito associata a un'attività lavorativa di qualunque tipo, subordinata o indipendente; b) è adibita anche all'erogazione di un' Indennità di Accesso Universale alla Maternità, per garantire il diritto alla maternità consapevole; c) è adibita anche all'erogazione di un' Indennità speciale ai disoccupati di mezza età espulsi dal lavoro «garantito», costituita da una parte monetaria in aggiunta all'eventuale reddito derivante da mobilità o continuità e da una parte di formazione permanente da svolgersi in università e centri pubblici, associazioni e spazi sociali a scelta del disoccupato.

L'erogazione della Cassa Sociale Precaria è sostitutiva delle attuali misure di sostegno alla mobilità e di cassa integrazione.


Accesso ai servizi primari e alla socialità (reddito indiretto)

Si propone la costituzione di una Cassa municipale per i servizi sociali, il cui compito è fornire una fascia di servizi che consenta: a) accesso sussidiato per i precari a casa, media, trasporti, cultura, formazione, sia in termini di accesso a spazi e strutture sia in termini di tariffe gratuite o scontate. In particolare, un sussidio sull'affitto che copra la parte di canone che eccede il 30% del reddito percepito; b) l'istituzione di demogrants, contributi a fondo perduto erogati a gruppi e associazioni formali e informali di giovani che abbianonatura di solidarietà sociale, tutela ambientale e innovazione culturale.


Salario minimo orario

Si propone l'istituzione di un Salario Minimo Municipale di almeno dieci euro lordi l'ora con forti maggiorazioni per le ore supplementari e straordinarie, forte limitazione del lavoro festivo nel commercio, nella prospettiva di un Salario Minimo Europeo che stabilisca una barriera al di sotto della quale gli standard sociali europei non possano cadere. Questo Salario minimo municipale è applicato a tutte le prestazioni lavorative non contrattualizzate e a tutti i contratti precari, per i quali non esiste, a livello contrattuale, la definizione di uno stipendio/salario mensile continuativo. Facciamo degli esempi: un lavoratore occasionale, in stage, co.co.co. a progetto, interinale, apprendista a termine, stagionale, viene pagato a ore con una cifra che non può per legge essere inferiore ai 10 euro lordi all'ora, a prescindere dall'attività lavorativa svolta. Può, ovviamente, essere superiore. Chi ha un contratto continuativo (a tempo pieno o a tempo ridotto) percepisce un salario mensile (non orario) che viene contrattualizzato sulla base degli accordi sindacali esistenti.


Drastica contrazione delle tipologie contrattuali

Oggi ci sono più di 30 tipologie contrattuali e la legge Biagi ne aggiunge altre. Da dieci anni a questa parte è cresciuta una giungla di norme giuslavoriste, continuamente aggirate e/o caratterizzate da un processo di cannibalizzazione interna (tale per cui, ad esempio, il contratto di formazione lavoro, in auge negli anni '80, di fatto tende a scomparire con l'affermarsi del lavoro interinale, a sua volta limitato da altre tipologie contrattuali più convenienti). Il risultato è un vero e proprio apartheid del lavoro che ha polverizzato la rappresentanza collettiva della forza lavoro nell'interesse di aziende tanto fameliche e antisociali quanto strategicamente incapaci. Il divide et impera del neoliberismo si fonda su mercati del lavoro marcatamente duali, di derivazione americana (unionized fulltimer w/benefits vs non-union partimer w/o benefits) e asiatica (i garantiti a vita del toyotismo vs la forza lavoro periferica e interinale dell'indotto). Ma neanche in questi paesi vige la pletora di contratti di lavoro e di buste-paga inintelligibili che c'è in Italia.

A tal fine, formuliamo una proposta minimale di riduzione drastica che prevede 4 tipologie base di contratto di lavoro dipendente:


Durata Contratto

                    Determinato         Indeterminato
-------------------------------------------------------

Regime Temporale


Part-Time           Tempo parziale      Tempo parziale
                    e determinato       e indeterminato

Full-Time           Tempo pieno         Tempo pieno
                    e determinato       e indeterminato

Queste 4 tipologie sono in grado di accogliere la stragrande maggioranza dei rapporti di lavoro possibili senza scomodare stage, job on call, outsourcing, apprendistato, partecipazioni, collaborazioni occasionali e le mille altre diavolerie escogitate per farci lavorare con la testa bassa per pochi euro pagati chissà quando, chissà come. Per evitare trucchi, sono possibili solo due contratti a tempo determinato per la stessa azienda in un arco di due anni, dopodiché scatta l'assunzione a tempo indeterminato regolata dallo Statuto dei Lavoratori.

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IMPOSTE E POLITICHE ECONOMICHE
Maria Cecilia Guerra



Le imposte sono diffusamente percepite come un onere e, molto spesso, come un onere che si subisce ingiustamente. Sulla promessa di tagliare le tasse puntano i politici per raccogliere voti. Ma, al di fuori dei facili slogan elettorali, la tassazione deve davvero essere sempre vista come un male da limitare il più possibile?


La separazione fra imposte e spesa pubblica

Per cercare di rispondere a questa domanda occorre partire considerando che le imposte sono, prima di tutto, lo strumento che finanzia l'attività dello stato, senza il quale, dunque, lo stato stesso non potrebbe esistere. Ciò dipende, in primo luogo, dal fatto che lo stato produce beni e servizi molto diversi da quelli offerti dai privati: si tratta di beni e servizi di interesse generale (si pensi ad esempio alla difesa o alla giustizia), di cui i cittadini fruiscono senza doverne necessariamente fare domanda e senza poterne essere singolarmente esclusi, in una misura che non dipende dalla loro disponibilità a pagare per i benefici che ne traggono. Per queste loro caratteristiche, questi beni non possono essere venduti a fronte del pagamento di un prezzo, ma devono essere finanziati attraverso un prelievo obbligatorio, effettuato secondo criteri che possono anche non avere, e che generalmente non hanno, nessuna relazione diretta con la qualità e quantità dei beni e dei servizi pubblici di cui si fruisce.

È proprio la separazione, la non diretta corrispondenza, fra quanto si paga e quanto si ottiene ad alimentare l'erronea percezione che, da un lato, le imposte siano uno strumento intrinsecamente vessatorio, dall'altro, i benefici della spesa pubblica siano un diritto da cui sarebbe ingiusto essere esclusi. Proprio su questa separazione fanno leva le campagne elettorali populistiche, genericamente a favore del taglio delle tasse, con le quali si cerca di accattivarsi il consenso dell'elettore, a cui ci si rivolge in quanto contribuente che sopporta l'onere delle imposte, nascondendo però, o fingendo di ignorare, per non alienarsi il consenso dell'elettore che è anche il beneficiario delle spese pubbliche, che a un taglio delle imposte non può che conseguire un taglio di queste spese.

Per affrontare correttamente il problema della tassazione è invece fondamentale essere consapevoli che la scelta di un dato livello di prelievo fiscale non è un problema scindibile dalle scelta di una determinata visione del ruolo dello stato e delle politiche pubbliche.

In quest'ottica è allora possibile guardare alle imposte non come a uno strumento coercitivo, ma come allo strumento attraverso il quale un dato insieme delle risorse della società vengono messe a disposizione dello stato per finalità collettive. Le imposte possono quindi essere valutate non solo e non tanto in quanto obbligazione legale degli individui nei confronti dello stato (un onere appunto) ma come strumento attraverso il quale gli individui contribuiscono a disegnare la società entro cui vogliono vivere. Il problema della legittimità democratica della tassazione (e quindi della legittimità democratica delle politiche da essa finanziate) è in definitiva un tutt'uno con quello della scelta della struttura sociale moralmente accettabile in cui si vuole vivere e conseguentemente con quello della scelta del tipo di libertà, responsabilità, uguaglianza, efficienza, welfare a cui si intende aspirare (su questi temi, cfr. Pennacchi. 2004).

Questa scelta di fondo vede ovviamente confrontarsi approcci molto distanti fra di loro, che, partendo da visioni radicalmente diverse del ruolo dello stato, approdano a visioni radicalmente diverse del ruolo della tassazione.

[...]

Non va infine dimenticato che la scelta del livello delle entrate e delle spese pubbliche, unitamente a quella della definizione del loro disegno, non va considerata unicamente sotto il profilo della loro efficienza e capacità di stimolare la crescita economica, ma anche sotto il profilo della loro equità. Solo un'interpretazione riduttiva vede infatti equità ed efficienza come obiettivi antagonisti. Al contrario, lo studio delle esperienze di una molteplicità di paesi mette in evidenza le sinergie positive fra riduzione delle disuguaglianze e sviluppo economico. Ciò è a maggior ragione vero, se il concetto stesso di sviluppo, viene meglio qualificato e ampliato per ricomprendere, secondo l'approccio dello sviluppo umano, non solo le risultanze della crescita del Pil.

Anche le politiche nei confronti dell'evasione fiscale assumono un connotato radicalmente diverso a seconda dell'approccio etico. Coloro che vedono la tassazione come intrusiva nella libertà individuale tendono nei fatti, quando non anche nelle dichiarazioni, a legittimare l'evasione. Il collegamento fra la filosofia dei diritti naturali e l'atteggiamento nei confronti dell'evasione è stato magistralmente sottolineato dal presidente del consiglio Berlusconi, nella sua visita alla Guardia di finanza del 13/11/2004 quando ha affermato «c'è una norma di diritto naturale che dice che se lo stato ti chiede un terzo di quello che con tanta fatica hai guadagnato sembra una richiesta giusta e glielo dai in cambio di servizi». Invece, «se ti chiede di più o molto di più, c'è una sopraffazione dello Stato nei tuoi confronti e allora ti ingegni per trovare dei sistemi elusivi o addirittura evasivi che senti in sintonia con il tuo intimo sentimento di moralità e che non ti fanno sentire colpevole». Chi ritiene che sia il livello eccessivo delle imposte a giustificare l'evasione non può avere alcuna remora, morale, ad adottare politiche di condoni fiscali generalizzati. Per l'approccio che esalta la legittimità democratica della tassazione, invece, la battaglia nei confronti dell'evasione è una battaglia etico-politica cruciale, una battaglia di civiltà, e il condono non è solo la legittimazione di un atto illecito, ma anche la delegittimazione delle imposte, quale strumento democratico di finanziamento della cosa pubblica.

In definitiva, la traduzione dei propri valori in politiche effettive è per entrambi gli approcci brevemente esaminati in questo scritto un banco di prova cruciale. Si tratta però di un confronto impari. Il primo approccio può infatti accontentarsi di ricorrere all'enunciazione di slogan generici: il «Meno tasse per tutti» della campagna elettorale di Berlusconi (che molto spesso, in Italia come in Usa, significa in realtà meno tasse per i ricchi) o il «Read my leaps, no new taxes» di Bush senior, fanno leva sull'insofferenza che il contribuente prova nei confronti delle imposte. Ciò permette di mascherare la finalità che consiste nel ridurre il ruolo dello stato, o di perseguirla in via indiretta, attraverso politiche ispirate alla dottrina cui ci si riferisce con l'espressione «starving the beast». Questa espressione, coniata da uno dei più stretti collaboratori di Reagan, sintetizza in modo brutale la strategia consistente nel tagliare le imposte subito, al fine di rendere poi necessari severi tagli nelle spese pubbliche, e in particolar modo tagliare le imposte per lasciare senza fonte di sostentamento (affamare) la spesa di welfare (la bestia).

I più sofisticati mentori del taglio delle tasse non si limitano poi a enfatizzare l'aspetto espropriativo del prelievo, ma nascondono la propria ideologia a favore di una riduzione dell'intervento pubblico, in campo economico come in campo sociale, dietro il miraggio di miracoli economici («scosse») riconducibili all'abbattimento della pressione fiscale.

Molto più difficile e delicata è la strategia richiesta ai sostenitori dell'approccio che sottolinea la legittimità democratica della tassazione, ai quali non è solo richiesto di aprire una battaglia culturale e politica contro la percezione radicata, e colpevolmente alimentata da un'inadeguata educazione civica, delle imposte come un onere ingiusto e vessatorio, ma anche di confrontarsi con il problema concreto di come rendere compatibili obiettivi ambiziosi con risorse scarse. Ciò richiede, ad esempio, di misurarsi con la necessità di coniugare obiettivi universalistici con il ricorso a strumenti selettivi; di trovare soluzioni condivise alla minaccia che la competizione fiscale costituisce nei confronti del mantenimento dello stato sociale, di fare i conti con i «fallimenti dello stato», le pastoie della burocrazia, i costi della ricerca del consenso da parte dei politici, il rischio di fenomeni di corruzione, gli sprechi, la deresponsabilizzazione e la mancanza di una struttura adeguata di incentivi.

Si tratta di una sfida difficile, che i sostenitori di una visione cooperativa dell'intervento pubblico, che abbia il suo fulcro nell'ammodernamento e nel potenziamento dei sistemi di welfare a fronte delle nuove sfide lanciate dall'invecchiamento demografico, dall'immigrazione e dall'integrazione dei mercati, devono affrontare partendo dal non essere timidi nell'affermare che il taglio delle imposte non è un valore in sé.

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