Copertina
Autore Gilberto Corbellini
Titolo Scienza
EdizioneBollati Boringhieri, Torino, 2013, I sampietrini 10 , pag. 160, cop.fle., dim. 11x17,7x1,4 cm , Isbn 978-88-339-2360-4
LettoreCorrado Leonardo, 2013
Classe scienze naturali , scienze sociali , scienze umane , epistemologia , filosofia , politica , relativismo-assolutismo , natura-cultura
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Indice


    Scienza

 11 Prologo

 17 1.  La scienza è fallibile e gli scienziati possono sbagliare:
        la scienza non spiega tutto

 26 2.  La scienza tradizionale è riduzionista,
        quindi inadeguata per spiegare la complessità

 37 3.  L'epistemologia scientifica è pluralista e
        tutta la conoscenza è socialmente costruita

 47     Entr'acte I. Una storia naturale del metodo scientifico

 59 4.  La scienza non è più quella di una volta:
        oggi gli scienziati imbrogliano

 67 5.  Gli scienziati sono divisi e non si riesce mai capire
        come stanno le cose

 76 6.  Oggi la scienza è una forma organizzata di potere
        ed è manipolata dal mercato

 87     Entr'acte II. L'ascesa economica e sociale
                      della comunità scientifica

 94 7.  La scienza ha causato tragedie e peggiorato il mondo:
        si stava meglio quando non c'era

101 8.  La scienza e gli scienziati minacciano la democrazia,
        la libertà e la dignità umana

109 9.  Quando si tratta di questioni pratiche spetta al diritto
        decidere cosa è scientifico e cosa no

118     Entra'cte III. La scienza e il suo pubblico:
                       dalla fiducia alla sfiducia

127 1O. La scienza non genera valori, è eticamente indifferente e deve
        farsi guidare dalla filosofia, dalla politica e dalla religione

135 11. La scienza annulla la soggettività e impoverisce la qualità
        dell'esperienza umana spontanea o naturale

143 12. L'Italia non deve investire nella scienza, ma valorizzare la
        sua tradizione umanistica e le risorse storico-archeologiche,
        artistiche e paesaggistiche

151 Epilogo

155 Letture consigliate


 

 

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Pagina 17

1.

La scienza è fallibile e gli scienziati possono sbagliare: la scienza non spiega tutto


Ho ascoltato la risposta del genetista e scrittore Edoardo Boncinelli a chi commentava una sua conferenza con un argomento simile a quello che dà il titolo a questo capitolo. «Se la scienza è fallibile, figuriamoci il resto!», ha tagliato corto. Come dire: «se i soldi non fanno la felicità, figuriamoci la miseria».

L'argomento della fallibilità della scienza viene regolarmente usato per circoscrivere la rilevanza culturale, e di conseguenza sociale, della scienza, anche da parte di chi è disposto a vedere nella ricerca scientifica un fattore indiscutibile di progresso economico e sociale, ma ritiene che la conoscenza prodotta usando i metodi empirici abbia delle ricadute limitate quando ci si sposta sul piano delle decisioni politiche o delle logiche sociali ed economiche. Su questi temi in genere si pensa che gli scienziati non debbano far altro che mettere la società o la politica di fronte a una serie di possibilità, che poi andranno scelte con procedimenti democratici o facendo ricorso, come si usa dire, alla coscienza.

Per chi fa scienza a livelli accettabili è scontato che la superiore affidabilità delle procedure che vanno sotto il nome di metodo scientifico sta proprio nel fatto che sono fallibili. Gli scienziati lavorano sapendo che possono sbagliare e usano strumenti che consentono di scoprire dove e in cosa si è commesso qualche errore. La cosa non è scontata per chi non sa o non ha capito come funziona la scienza. Nel dire comune «tutti possono sbagliare» non è incluso «ma solo alcuni, cioè gli scienziati o chi usa un metodo scientifico, possono scoprire o spiegare perché hanno sbagliato; quindi, cambiando via via idea o approccio metodologico, possono avanzare verso una qualche, benché locale o provvisoria, verità». «Tutti possono sbagliare» per la persona comune vuol dire che anche chi ha fatto bene fino a quel momento potrebbe avere torto nella situazione particolare di cui si sta discutendo. Quindi, il punto di vista della scienza non può essere accettato come privilegiato, o anche solo come più affidabile. Considerando che i più non capiscono bene in che modo questi scienziati arrivino alle loro scoperte, è evidente che se loro non sono in grado di fornire una dimostrazione immediata e tecnologicamente eclatante del fatto che hanno ragione, possono aver torto. E siccome hanno avuto così spesso ragione, allora - su consiglio di uno dei più studiati bias cognitivi, che porta a sbagliare nelle stime probabilistiche - si è portati a credere che sia anche più probabile che nel caso in questione abbiano finalmente torto.

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Pagina 24

La scienza si distingue dalle altre forme di conoscenza in quanto fornisce spiegazioni, le più veritiere che sia possibile ottenere, che sono in qualche modo controllabili, e in quanto c'è accordo, tra chi accetta per scelta razionale le regole del gioco scientifico, su come effettuare i controlli di veridicità.

Usando l'approccio scientifico, che non è riducibile a un'equazione o a una capacità operativa, un numero enorme di idee ha trovato progressivamente concretezza con maggiore o minore rapidità e affidabilità, perché non tutti i problemi sono allo stesso livello di difficoltà e abbordabili con gli stessi strumenti. Per esempio, di atomo e di psiche si parla dall'antichità. La fisica, grazie al fatto che studia aspetti della materia tutto sommato più facili da caratterizzare con i metodi della scienza, cioè «provando e riprovando» teorie diverse, è arrivata a definire con sempre maggiore affidabilità cosa sia un atomo. Al punto che oggi il termine atomo è persino obsoleto rispetto alla sua etimologia («indivisibile»). Su come stanno le cose al livello del mondo atomico e subatomico conosciamo tantissimo e in modi straordinariamente dettagliati e affidabili.

La psicologia, cioè lo studio della psiche, ha avuto meno fortuna. Ancora si tratta di un territorio dove è più difficile registrare un consenso sui metodi e quindi sulle prove. Si fa pertanto uso del termine psiche con significati diversi, che dipendono dal modo in cui viene studiato il comportamento umano. Diciamo che nella ricerca empirica il termine non si usa addirittura più, anche se alcuni equivalenti, come «mente», godono spesso di valenze semantiche simili, benché a volte anche meno definite della «psiche» pensata da Aristotele. Nondimeno, riguardo all'origine e alla funzione dei tratti cognitivo-comportamentali di ciò che ci appare intuitivamente come il nocciolo e il presupposto più autentico della realtà, abbiamo imparato moltissimo, soprattutto nel corso dell'ultimo mezzo secolo.

Si possono fare innumerevoli esempi storici del fatto che la scienza è una famiglia di metodi empirici, la cui efficacia dipende dalle condizioni o dal contesto in cui vengono usati. Se una di queste varianti metodologiche riesce a far presa su caratteristiche del mondo con teorie adeguate può condurre da qualunque parte. È vero, quindi, che la scienza è fallibile e che gli scienziati possono sbagliare, perché la scienza, come qualunque processo cognitivo che produce davvero conoscenza, accumula spiegazioni attraverso la correzione degli errori. Ora, chi pensa che proprio per il suo modo di funzionare la scienza sia inaffidabile, provi a chiedersi: quale altra forma di conoscenza riesce a progredire senza passare attraverso la correzione degli errori? E quali altre esperienze conoscitive possono contare su procedure universalmente condivise e specificamente dedicate a controllare le prove, quindi a rilevare gli errori, nel tentativo di spiegare un fatto o di trovare la soluzione a un problema?

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Pagina 29

Ma andiamo oltre. Perché il riduzionismo viene in generale connotato con un significato negativo? Che cosa fa paura del riduzionismo? Quando affrontano un problema gli scienziati non si chiedono se devono usare un approccio riduzionistico o meno. Popper diceva che come «programma di ricerca» il riduzionismo non è solo importante, ma «è parte integrante» della logica operativa della scienza, il cui scopo è quello di spiegare e di comprendere. In ogni caso, riduzionismo può voler dire cose diverse, e se ne distinguono tre manifestazioni: ontologico, epistemologico e metodologico. Se non si accetta il riduzionismo ontologico, praticamente si ammette che esistono dimensioni della realtà non riconducibili o indipendenti dalla materia conosciuta e dalle sue forme di organizzazione. Insomma si è spiritualisti o dualisti. Se si critica il riduzionismo epistemologico, si sostiene che i concetti e le leggi utilizzati per spiegare i livelli più organizzati della materia non sono derivabili dai concetti e dalle leggi che spiegano i piani più fondamentali (come le leggi della fisica). Mentre se si è contro il riduzionismo metodologico si dice che l'approccio analitico nello studio di un sistema funzionalmente integrato, cioè la scomposizione nelle parti che lo costituiscono, non consente di capire la natura delle proprietà che il sistema manifesta come un tutto.

La discussione sul riduzionismo si fa accesa soprattutto quando dallo studio del mondo non vivente si passa al vivente. Un punto di vista sensato porta a dire che la biologia non è epistemologicamente riducibile alla fisica o alla chimica e quindi, per definizione, i biologi possono rivendicare un'autonomia in funzione del tipo di processi che studiano. Inoltre, i biologi possono usare diverse strategie metodologiche, a seconda delle proprietà che vogliono studiare e che dipendono dall'integrità dei livelli di organizzazione che le manifestano. Tuttavia, è proprio la ricerca biologica a essere oggetto delle più accese polemiche sul riduzionismo, perché si ritiene che tentare di ridurre il comportamento o qualche tratto fenotipico complesso all'azione dei geni o a interazioni molecolari e cellulari sia quasi equiparabile a ciò che per i credenti è una blasfemia.

La discussione sul riduzionismo che raggiunge il più largo pubblico riguarda proprio i metodi e le aspettative che caratterizzano lo studio scientifico degli organismi viventi, e quindi anche dell'uomo. Al riduzionismo viene a volte contrapposto l'olismo, termine non poco ambiguo, inventato dal militare, uomo di stato e razzista Jan Christiaan Smuts nel 1926. «Olistica/o» è ormai un aggettivo usato con un'accezione quasi più etica che epistemologica, cioè come sinonimo di un approccio politicamente e sentimentalmente più partecipato. E questo, in tutte le sfere dell'indagine/azione umana che hanno ricadute sull'andamento «naturale» del mondo. Per esempio, la medicina olistica è quella che tutti dicono di auspicare, e che dovrebbe prendere in esame e trattare la persone nella sua integrità bio-psico-sociale. Una medicina che non riduca il malato ai meri componenti strutturali che non stanno funzionando e producono la malattia. Le medicine alternative, opposte appunto a quella impropriamente definita «tradizionale», dicono di ispirarsi a un approccio olistico. In realtà, sono le medicine alternative a essere tradizionali, dato che usano idee e metodi pre-scientifici. Per definizione la medicina moderna è fondata sull'uso degli approcci sperimentali e cambia continuamente, e in meglio, grazie agli sviluppi conoscitivi sulle basi biologiche delle malattie e alla messa a punto di metodologie per l'accertamento dell'innocuità e dell'efficacia dei trattamenti.

Di olismo si può parlare anche in modo sensato. Per esempio, partendo dal famoso saggio del 1962 dell'economista, psicologo e premio Nobel Herbert Simon intitolato Architettura della complessità, che sviluppava un'idea sull'approccio scientifico alla complessità suggerita da Warren Weaver quattordici anni prima. Il problema era quello di scoprire i principi da cui dipende il manifestarsi delle forme di «complessità organizzata» che caratterizzano alcuni particolari aspetti della natura così come la conosciamo. Un contributo a identificare questi principi, nel mondo della vita, è venuto dalle scoperte della «biologia molecolare», termine inventato dallo stesso Weaver, e in seguito dagli avanzamenti nella comprensione delle reti di interazioni biochimiche che all'interno delle cellule controllano epigeneticamente l'espressione dell'informazione genetica e modulano adattativamente, usando differenziali di potenziale energetico, il comportamento della cellula, delle popolazioni cellulari e dell'organismo. Alcune costanti cominciano a emergere ai diversi livelli dell'organizzazione della materia vivente, ma non sembrano riconducibili a una formula o a un algoritmo generale o generalizzabile di complessità.

Gli scienziati (è meglio ripeterlo) usano gli approcci che funzionano. Ma questo non significa che «qualunque cosa va bene», perché solo l'efficacia di un approccio che può essere più o meno riduzionista, a seconda di quello che si vuole capire nel catturare certi aspetti della realtà, li rende validi e quindi ne tramanda l'uso. Non c'è nessun complotto politico o ideologico a difesa del riduzionismo e contro gli approcci alternativi. Semmai sono gli approcci che si autodefiniscono olistici che, non avendo prove per sostenere che l'acqua distillata cura qualche malattia (omeopatia) o che la psicoanalisi intercetta il modo di funzionare della mente, la buttano in filosofia o in politica. Cioè rivendicano una qualità non tanto epistemologica, quanto moralmente o politicamente migliore degli approcci definibili come riduzionisti. Ma non è certo sul piano di un giudizio filosofico o morale che si può stabilire la validità scientifica di una teoria o di un metodo!

Eppure l'antiriduzionismo ha un gran successo. Perché? Probabilmente in quanto si tratta di un atteggiamento più ideologico e psicologico che metodologico, in grado di intercettare i principali bias cognitivi di senso comune. Criticare il riduzionismo serve per esempio a rivendicare, in assenza di risultati concreti e per guadagnare spazio politico, l'autonomia tematica e disciplinare e l'utilità di studi generici e filosoficamente orientati su sistemi complessi (ecosistemi, clima, ecc.) Nell'ambito delle scienze biologiche l'antiriduzionismo accompagna la resistenza conservatrice alle incursioni della biologia molecolare, della genetica o delle neuroscienze in funzione della spiegazione di fenomeni ritenuti complessi, come il comportamento o le funzioni mentali (incluse le malattie mentali). La critica al riduzionismo è anche uno dei capisaldi delle dottrine creazioniste, fondate sul progetto intelligente, dato che queste credenze mirano a spiegare l'universo e la sua storia in termini finalistici, come se il mondo contenesse uno scopo stabilito, come fosse il risultato di un'intelligenza o avesse un significato «in sé». Inoltre, sostenendo che il riduzionismo è falso, si rivendica la realizzabilità di piani d'azione ispirati da desideri e preferenze o guidati dalla volontà. Cioè si avalla l'illusione di essere liberi.

Così l'antiriduzionismo mette d'accordo destra e sinistra, come ha fatto notare il filosofo Alexander Rosenberg. I conservatori giudicano il riduzionismo una minaccia per la dignità umana, la responsabilità individuale e la credenza in un intervento divino nel mondo. Chi è conservatore ritiene che una spiegazione dell'agire umano in termini di interazioni tra macromolecole o ammassi cellulari, piuttosto che di scelte effettuate da un'entità mentale completamente svincolata da forze fisiche (libera e capace di autodeterminarsi razionalmente) vanifichi l'apprezzamento o la condanna per le azioni individuali, e renda quindi impossibile sostenere che le diseguaglianze sociali sono moralmente giustificate: se non c'è libertà di scelta non si può dire che i risultati di una scelta sono stati guadagnati con l'intraprendenza e la capacità, o sono meritati in virtù di una gerarchia morale naturale preesistente. Il riduzionismo è visto anche come una minaccia per le tesi liberiste classiche, per cui il massimo che lo stato è moralmente tenuto a fare è garantire l'eguaglianza di opportunità, mentre cercare di promuovere l'eguaglianza dei risultati sarebbe immorale, perché danneggerebbe chi ha meritato più degli altri attraverso quelle che sono giudicate libere scelte.

Gli intellettuali progressisti sostengono la falsità del riduzionismo per dimostrare che il determinismo genetico è incoerente, concettualmente confuso e fondato su un errore allo stesso tempo logico e morale. Ora, il determinismo genetico è un'illusione e proprio la genetica molecolare prevede che i geni richiedano e accettino interazioni con il contesto per realizzare qualunque funzione. Nondimeno, gli intellettuali progressisti agitano il determinismo come spauracchio, ritenendolo sostenuto dal riduzionismo, asserendo che giustificherebbe le disuguaglianze sociali e naturali, appiattendo le prime sulle seconde, giudicate non modificabili. Quindi il riduzionismo, confuso con il determinismo genetico, giustificherebbe lo status quo sociale sulla base di argomenti evoluzionistici o scientifici e scoraggiando i tentativi di riforma politica ed economica. Le ricadute della genomica, che fanno molta invidia a chi non riesce a cavar fuori risultati dalla propria teoria/metodologia, sono viste come un incoraggiamento verso situazioni moralmente inaccettabili (come il ritorno dell'eugenica); si ritiene che gli atteggiamenti umanitari vengano marginalizzati o scalzati dall'avanzamento di una visione scientifica del mondo.

Ma è vero che un'idea deterministica o riduzionistica del comportamento umano minaccia, nel concreto, la libertà e le responsabilità personali, mettendo a rischio i valori della convivenza democratica? È vero che la credenza nel riduzionismo squalifica qualunque strategia di riforma politica o economica della società? Queste sono assunzioni immaginate sulla base di ragionamenti senza prove. Negli ultimi anni i filosofi stanno però effettuando esperimenti per testare le attribuzioni o le previsioni circa il modo di pensare delle persone concrete. I risultati sono interessanti e dicono che le persone possono sviluppare, nel corso della maturazione morale e cognitiva, schemi di pensiero complessi, che in ultima istanza servono prevalentemente per accreditare inganni, autoinganni, decisioni e giudizi - anche morali e sotto l'impulso delle emozioni - relativamente ad aspettative future. Tra le scoperte più interessanti c'è quella che svela come i fattori in gioco nel giudicare della libertà o della responsabilità di una persona hanno a che fare con i connotati emotivi del contesto, al di là del fatto che si creda nel determinismo o meno, e con l'idea di avere o meno un controllo sul corso causale di quel che accade. Da questo punto di vista, il riduzionismo è un'idea che infastidisce psicologicamente. Ma l'idea di senso comune che abbiamo del riduzionismo non coincide con quello che il riduzionismo significa quando descrive il modo di operare della scienza.

Proprio la ricerca riduzionistica ha dimostrato che la dotazione genetica e neurobiologica dell'uomo contempla delle potenzialità di cambiamento straordinarie attraverso l'azione politica ed economica. Del resto, la modernità è frutto proprio di progetti politici e di dinamiche economiche sostenute dalla plasticità del cervello e modulate dalla diffusione dei metodi e delle conoscenze scientifiche. Insomma, il riduzionismo, stimolando e alimentando un modo di ragionare che cerca supporto nelle prove, ha consentito di fare le scelte più opportune per valorizzare le differenze individuali nel contesto di realtà sociali sempre più articolate.

Le critiche al riduzionismo e la confusione tra riduzionismo e determinismo genetico riflettono una tipica fallacia di senso comune: cioè un'intuitiva avversione per le spiegazioni che aggirano un inquadramento deterministico, che di fatto pratichiamo spontaneamente nella vita quotidiana (ma allo stesso tempo subendo l'autoinganno della coscienza che ce lo fa giudicare incompatibile con il libero arbitrio e la responsabilità morale). Quindi il riduzionismo fa paura perché è un modo non consueto di affrontare i problemi, si scontra con le nostre preferenze psicologiche innate e smaschera gli autoinganni e gli inganni sulla base dei quali normalmente costruiamo le nostre aspettative.

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Pagina 37

3.

L'epistemologia scientifica è pluralista e tutta la conoscenza è socialmente costruita


Lo psicologo dell'intelligenza e filosofo morale James Flynn illustra le sue critiche alle tesi costruttiviste più radicali e antirealiste affermando che chi la pensa più o meno come Jacques Derrida - uno dei campioni dell'antirealismo e assertore dell'idea che non esiste niente al di fuori dei testi redatti con semantiche irriducibilmente ambigue - confuta se stesso ogni volta che inforca un paio d'occhiali. Chi non ha bisogno di occhiali e la pensa più o meno come Derrida, può sostituirli a piacere con un automobile, un antibiotico o un'anestesia praticata dal dentista.

Il costruttivismo è solo una forma più sofisticata di relativismo, cioè, in ultima istanza, di idealismo. Per i costruttivisti non esiste una realtà data a priori, e quindi non esistono verità universali o indipendenti dai punti di vista. Non ci sono fatti, solo interpretazioni. Nessuna verità oggettiva, solo le prospettive che singoli individui o gruppi di persone istruiscono attraverso le pratiche discorsive. Nella sua versione culturale e sociale, il costruttivismo implica che ogni conoscenza è solo ciò che viene messo in pratica nei contesti quotidiani e istituzionali, ovvero nelle interazioni e nelle negoziazioni tra individui o comunità culturalmente situate.

Rispetto alla scienza, la tesi è che i valori diffusi in una società sono inseparabili dall'indagine scientifica, nel senso che questa dipende, a livello di pratiche e quindi anche di contenuti, dai primi. Lo scopo della scienza non sarebbe dunque il conseguimento di una conoscenza oggettiva, che per definizione non può esistere, dato che conoscenza, fatti e realtà non sono altro che costrutti culturali relativi a un contesto. La scienza è vista allora come un'impresa che mira al raggiungimento di obiettivi socialmente attesi e negoziati sulla base dei rapporti di forza politici ed economici. La conoscenza che la scienza produce sarebbe, di fatto, il risultato di una negoziazione prima di tutto tra i componenti stessi della comunità scientifica. Se si assume che la ricerca empirica non possa fornire una base solida per la conoscenza e che le teorie scientifiche non possano mai essere avalutative o oggettive - cioè riferirsi a qualcosa che esiste indipendentemente dall'individuo o dalla comunità che elabora culturalmente la teoria - ne consegue che andrebbe cambiato il modo di definire i rapporti tra le discipline accademiche e tra l'organizzazione della produzione delle conoscenze scientifiche e la società. Le scienze naturali diventano così automaticamente sottodiscipline delle scienze sociali e la scienza dovrebbe, per esempio, diventare più democratica.

Tra gli effetti culturali e politici del postmodernismo, e dell'atteggiamento relativista che lo caratterizza, non vanno sottovalutati gli attacchi ai principi regolativi del costituzionalismo, nel nome di un'idea spontaneista e di fatto intollerante di libertà. Praticamente qualunque credenza, ma anche qualunque pratica che l'accompagna, viene giudicata equivalente sotto il profilo conoscitivo e morale, per cui diventano tollerabili tutti i costumi culturali che fanno parte di qualche tradizione o rappresentano «solo» opinioni. Si può sostenere che non vi sono argomenti a priori validi per condannare l'infibulazione, la propaganda negazionista della Shoà o l'insegnamento del creazionismo come materia scientifica. Così facendo si rinuncia però a leggi certe e valide per tutti, cioè a uno stato di diritto che regoli la società sulla base dell'accertamento dei fatti piuttosto che facendo riferimento a opinioni e credenze personali, condivise e confrontate anche elettoralisticamente sulla base di adesioni emotive.

Stante il fatto che l'epistemologia costruttivista è insensata e il relativismo dannoso, l'insofferenza con cui numerosi scienziati hanno reagito a questa tendenza filosofica non è stata molto d'aiuto per capire e contrastare il successo del costruttivismo. Il modo di funzionare della scienza non è facile da capire per il largo pubblico, e se qualcuno dice che la scienza è un'attività culturale e sociale come qualunque altra ciò può indurre molti a immaginare di aver capito qualcosa di importante, risolvendo allo stesso tempo la frustrazione di sentirsi fino a quel momento tagliati fuori e in condizione di inferiorità. Va anche detto che una parte della comunità scientifica ha rifiutato in modo anche arrogante di interrogarsi sull'origine delle resistenze culturali nei riguardi della scienza, limitandosi ad asserire in modi dogmatici che tali resistenze sarebbero solo frutto di ignoranza o di malafede ideologica. Al di là delle posizione che si sono confrontate nell'ambito delle cosiddette «science wars», la domanda da farsi è se i metodi sociologici prevalentemente usati per studiare i comportamenti sociali degli scienziati e le logiche politiche della scienza portano a qualche risultato utile o meno. Sinora queste ricerche hanno prodotto delle ovvietà, ovvero hanno dato vita a un nuovo genere letterario, o tutt'al più hanno generato un interesse per lo studio di epifenomeni che hanno poco a che fare con quella che rimane la sostanza del modo di procedere della scienza.

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Pagina 82

Il legame tra le predisposizioni morali - o meglio le intuizioni morali che governano il nostro comportamento e che vengono prevalentemente innescate, purtroppo o per fortuna a seconda dei contesti, non dalla ragione e dal calcolo, ma dalle emozioni - e il mercato inteso come contesto in cui si determina uno scambio di beni è, dunque, strettissimo. E non è possibile capire la storia umana, inclusi i processi di civilizzazione e i diversi successi e fallimenti che si sono prodotti se si prescinde dalle dinamiche che si sono instaurate tra il particolare di sistema di valori evoluti culturalmente a partire dalle intuizioni fondamentali che indirizzano le nostre risposte e i vincoli politici che regolano i rapporti di scambio all'interno di una società. Ne consegue che chi continua a invocare l'etica per far andar meglio l'economia, parte da una ragionamento che scambia l'effetto con la causa, inquadrando in maniera scorretta la natura dei rapporti tra etica ed economia. Non è l'etica che può migliorare l'efficienza economica: forse è il contrario. Per l'economista evoluzionista Daniel Friedmann, l'evoluzione culturale dei diversi codici morali è il risultato di una combinazione adattativa ed ecologicamente contestualizzata, anche in rapporto alla tipologia di processi economici prevalenti, di predisposizioni morali, selezionate in funzione delle logiche di scambio di beni, comuni a tutti gli individui della specie umana. Da questo punto di vista, ci sono buoni argomenti per ritenere che l'economia di mercato, insieme ovviamente ad altri fattori come l'istruzione (soprattutto quella scientifica) e i principi liberaldemocratici, abbiano estratto il meglio dal «legno storto» di cui siamo fatti.

Numerosi studi empirci, in ambito antropologico e neuropsicologico, dimostrano che il commercio tra individui e gruppi ha modulato la neurobiologia umana della cooperazione, della fiducia interindividuale (sfruttando per esempio l'oromone ossitocina come mediatore), della felicità e della capacità di autoingannarsi, consentendo la selezione delle regole sociali e politiche che hanno portato al superamento delle preferenze protezionistiche verso cui siamo attratti per il fatto di avere vissuto per milioni di anni in un mondo economico a somma zero. Insomma, le pratiche di scambio e commercio esistono, in termini evolutivi, da molto prima che lo stato sviluppasse le istituzioni economiche necessarie per rendere tale pratica efficiente e consentire che tutti avessero l'opportunità di arricchirsi. In tal senso, le nostre emozioni morali si sono evolute anche per consentire di mettere in relazione gli scambi economici e la fiducia, e quindi favorire interazioni cooperative o ridurre i conflitti tra i gruppi umani. Gli scambi commerciali reiterati consentono di ridurre i sospetti e le naturali conflittualità tra stranieri, portando a un miglioramento dei rapporti di fiducia. Ne consegue (lo insegnerebbe anche la storia economica dell'umanità se solo fossimo cognitivamente disposti a imparare dalle lezioni che ci impartisce il passato) che è quasi sempre sbagliato e pericoloso adottare politiche economiche protezionistiche. Persino sul piano antropologico-evoluzionistico appare più funzionale, se l'intento vuole essere quello di concorrere a promuovere la pace e la cooperazione in un quadro di valori liberali e democratici, promuovere trasferimenti tecnologici e contenuti educati che aiutano lo sviluppo produttivo e una crescita economica che consentano utili rapporti di scambio sui mercati internazionali.

L'economia di libero mercato ha dato luogo a nuovi codici morali e questo, verosimilmente, ha avuto luogo con il concorso della rivoluzione scientifica. Insieme, la diffusione della scienza e le forme economiche del mercato capitalistico hanno reso possibile pensare e realizzare dei sistemi politici fondati sui principi del liberalismo.

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È un fatto singolare, ma non sorprendente data la natura della memoria umana, che si sia persa la conoscenza storica del ruolo che la scienza ha svolto nella nascita della modernità, e in particolare nel costruire le condizioni epistemologiche e psicologiche per la maturazione di comportamenti compatibili con una convivenza civile democratica. Lo scienziato e divulgatore Timothy Ferris ha pubblicato un libro intitolato The science of liberty: Democracy, reason and the laws of nature, in cui sostiene che la scienza è stata all'origine della rivoluzione democratica. Come egli ricorda, una frazione consistente di menti scientifiche fu direttamente coinvolta nelle rivoluzioni che portano all'invenzione dei diritti umani fondamentali e quindi alla nascita delle democrazie moderne, immediatamente prima dell'Illuminismo e dando luogo alla Rivoluzione scientifica. La ragione per cui la scienza diede questo contributo, secondo Ferris, è che essa richiedeva libertà e produceva benefici sociali, creando in questo modo un rapporto simbiotico in cui le nazioni più libere erano maggiormente in grado di portare avanti l'impresa scientifica; che a sua volta ricompensava con conoscenze, benessere e potere.

Ferris, del resto, identifica tra le caratteristiche peculiari dell'impresa scientifica il fatto che la scienza è antiautoritaria, si autocorregge, richiede la produzione di specifiche risorse intellettuali, è potente nell'azione trasformatrice della natura ed è un'attività sociale. Si tratta di caratteristiche da tempo rilevate da scienziati, filosofi e sociologi nella stagione in cui la scienza era un modello di conoscenze. Cioè prima delle post-moderne derive costruttiviste e relativiste. Scienza e democrazia condividono aspetti epistemologici ed etico-politici anche secondo pensatori molto diversi tra loro, come John Dewey, Michael Polany, Joseph Needham e Karl Popper. Questi gli aspetti in comune: tolleranza, scetticismo, rifiuto dell'autorità, rispetto dei fatti, libertà di comunicazione e libertà di accesso ai risultati.

Si potrebbe discutere del fatto che l'infezione di politica e ideologia che ha colpito l'epistemologia dopo gli anni cinquanta ha quasi cancellato, a parte le tesi di Ferris e pochi altri, i pensieri filosofici positivi (non necessariamente positivistici) sui rapporti tra scienza e democrazia, per dar luogo a quelli negativi o di distanziamento. Ma è più interessante dire che le spiegazioni finora sul tappeto dicono soprattutto come la scienza si è inserita nelle dinamiche economiche e sociali moderne, non perché ha svolto il ruolo che sembra aver svolto. E la necessità di capire il perché si evince dall'esigenza di rispondere ad alcune domande.

Perché esiste una così diffusa resistenza culturale a prendere in considerazione la possibilità che la scienza, anche attraverso le ricadute tecnologiche, abbia messo in moto il processo di modernizzazione delle società umane non solo a livello economico, ma anche sul piano della costruzione dei valori morali e civici di stampo liberale che connotano la modernità? Non sarà che questa resistenza ha origini in cause radicate nel profondo della nostra storia evolutiva? Non sarà, cioè, che oltre alle cause prossime (analfabetismo scientifico e propaganda antiscientifica) sono in gioco anche cause remote? Ma se fosse così, perché la scienza ha potuto comunque emergere culturalmente? Quali sono stati i vantaggi adattativi che ne hanno consentito la sopravvivenza e la diffusione? In che modo si possono attualizzare le tesi che vedono nella scienza un fattore propulsivo non solo del benessere, ma anche della libertà e dell'eguaglianza?

Se si prova a mettere in ordine i fattori che hanno consentito l'emergere dell'idea moderna di democrazia, ridando credito alla possibilità di organizzare forme politico-sociali che hanno valorizzato le potenzialità di autonomia e libertà umane, ci si trova ad assumere abbastanza plausibilmente che questi fattori sono scienza, libero mercato e diritto positivo. Ma solo la scienza poteva funzionare da catalizzatore e allo stesso tempo da reagente (attraverso la tecnologia) in grado di far funzionare un sistema politico-sociale abitato da uomini geneticamente pleistocenici e allo stesso tempo fondato su libero mercato, stato di diritto e suffragio universale. Perché la scienza avrebbe svolto questa funzione?

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Negli ultimi due secoli il mondo ha visto un incremento esponenziale del benessere economico, ma anche una diffusione, nei paesi che hanno prodotto più ricchezza, di valori democratici e liberali. In altre parole, l'aumento del numero di democrazie e dell'indice di democrazia, a partire dall'Ottocento, segue un andamento analogo a quello del logaritmo del PIL medio procapite. Non solo più ricchezza e democrazia hanno pervaso il mondo negli ultimi due secoli, ma è avvenuta anche una riduzione della diseguaglianza economica. Dagli inizi del Novecento al 1970, la quantità di ricchezza posseduta dall'1% più ricco nei paesi sviluppati è scesa dal 20-25% circa al 5-10%. Purtroppo negli ultimi anni questo trend si è invertito in diversi paesi. E negli ultimi vent'anni il tasso di povertà medio nel mondo è diminuito, insieme a un aumento della ricchezza anche nei paesi in via di sviluppo. E quali sono i paesi con i più elevati livelli di ricchezza, gli indici migliori di democrazia, di libertà economica, di libertà di stampa e di benessere soggettivo percepito? Sono gli stessi con i più bassi indici di corruzione percepita e le minori differenze di reddito a livello nazionale, e coincidono con i paesi che più spendono in istruzione, ricerca e sviluppo come percentuale del PIL: Svezia, Finlandia, Giappone, Usa, Svizzera, Germania, Australia, Israele, ecc.

Questi paesi sono anche quelli che negli studi condotti dal World Value Survey registrano uno sviluppo umano guidato da valori secolari, che promuovono l'autodeterminazione e il pluralismo morale, mentre i paesi dove prevalgono ancora i valori tradizionali, trasmessi soprattutto attraverso religioni e comunità chiuse e che reprimono le potenzialità individuali, tendono singolarmente a mancare di un sistema dell'istruzione e della ricerca sufficientemente efficiente o diffuso.


La tesi esposta in questo capitolo è forte, e lo appare anche di più in quanto viene presentata in una forma molto schematica. In ogni caso implica, se valida, una provvisorietà e fragilità del sistema di valori liberaldemocratici su cui vertono le speculazioni in astratto di filosofi, sociologi e politologi, nella misura in cui questi valori sono teorizzati come antitetici rispetto alla scienza. E implica, altresì, che la scienza possa cambiare natura, evolvendo caratteristiche diverse in funzione di sistemi politico-economici nuovi rispetto a quelli che la storia ha finora conosciuto.

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Gli studi neuroscientifici dimostrano che volontarietà o responsabilità personale sono concetti che non trovano riscontri nello studio del cervello, ma sono piuttosto finzioni utili per rafforzare la coesione sociale e segnalare il fatto che le defezioni comportano conseguenze. Sempre gli studi neuroscientifici, condotti sul modo in cui i giurati usano le prove o si costruiscono il giudizio di colpevolezza, dimostrano come questi processi siano lontani da un modo di ragionare scientifico e spesso anche razionale. Tuttavia, dal punto di vista degli obiettivi che dovrebbero darsi quanti progettano i percorsi educativi, anche ammesso che la tendenza a incolpare le persone non sparirà mai, avrebbe più senso un approccio utilitaristico che identifichi nella pena uno strumento per prevenire futuri crimini.

In generale, anche solo paragonando il funzionamento dei sistemi penali e la giustizia sociale nei diversi paesi, e mettendo in relazione queste prestazioni con i livelli di cultura scientifica, sembra ancora una volta che la scienza concorra a un miglior funzionamento del diritto, sia attraverso un uso più consapevole e funzionale da parte di legislatori e tribunali delle testimonianze e delle perizie, sia per intraprendere più decisamente una strada che sarà lunga, ma che dovrebbe portare al superamento di una concezione morale e retributivista della pena, a favore di un sistema giuridico dove la pena deve servire a evitare il ripetersi del comportamento illecito.

Per riprendere dal punto di partenza, cioè dal problema di perché il diritto si prende disinvoltamente delle libertà socialmente dannose quando interferisce con la logica delle metodologie scientifiche, è chiaro che pur dovendo sia il giudice sia lo scienziato tentare di rimanere imparziali di fronte ai fatti, alla fine il giudice deve emettere un giudizio che risponde ad aspettative sociali fondate su valori. A quel punto dipende da quanto la legge riesce effettivamente a proteggere la funzionalità e il carattere obiettivo del dato scientifico, rispetto alle pressioni e aspettative culturali, che se non sono razionalmente governate, con quasi certezza preferiranno seguire le derive emotive e affermare valori più intuitivi.

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Entr'acte III

La scienza e il suo pubblico: dalla fiducia alla sfiducia


Nel Seicento «gentiluomo» era sinonimo di persona affidabile, e i primi «scienziati» o «filosofi naturali» per rendersi credibili si presentavano come «gentiluomini». Il sociologo statunitense Robert Merton ha ipotizzato per primo che i virtuosi inglesi e i filosofi naturali rivendicavano pubblicamente la legittimità della nuova scienza mostrandone la compatibilità con i modi dominanti della cultura e dei loro sentimenti, nella fattispecie con i valori del puritanesimo della religione inglese, che come è noto furono influenti nel Regno Unito proprio a metà del Seicento nel corso della stagione politica e della dittatura di Oliver Cromwell (1653-1658). La nuova conoscenza naturale era considerata dai puritani, per distinguersi anche su questo dai cattolici, del tutto compatibile con la religione. Era esplicita volontà di Dio che l'uomo comprendesse la sua opera.

Può essere utile ricordare che, di fatto, fino alla metà dell'Ottocento la comunità scientifica ha cercato di legittimarsi pubblicamente attraverso il filone della cosiddetta teologia naturale, ovvero la dimostrazione ragionata dell'esistenza di Dio fondata sull'uso di dati tratti dall'esperienza del mondo fisico, senza ricorrere a concetti soprannaturali. Lo stesso Robert Boyle, che con le sue ricerche sperimentali e la sua influenza culturale, anche attraverso l'istituzione della Royal Society, favorì la diffusione della nuove idee scientifiche, alla morte diede disposizioni testamentarie per istituire le «Boyle lectures». Queste conferenze, di cui la prima fu tenuta nel 1692, dovevano dimostrare la verità della religione cristiana e confutare le tesi dei «famigerati infedeli», senza entrare nelle controversie interne al cristianesimo. Uno dei più importanti naturalisti inglesi del Seicento, John Ray, la cui Historia Plantorum rappresentò una tappa fondamentale per lo sviluppo di una tassonomia biologica basata sull'empirismo e non sul formalismo scolastico, era conosciuto soprattutto per un testo, pubblicato nel 1691, dal titolo The Wisdom of God manifested in the Works of the Creation. Uno dei più famosi testi di teologia naturale fu Natural Theology, or Evidences of the Existence and Attributes of the Deity collected from the Appearances of Nature, pubblicato da William Paley nel 1802, nel quale si trova la famosa metafora dell'orologiaio che è all'origine di tutti gli argomenti utilizzati dai creazionisti. La metafora stabilisce un paragone tra un orologio e un qualsiasi oggetto naturale complesso, per derivarne l'argomento che come l'intrinseca complessità dell'orologio rimanda all'esistenza di un orologiaio che lo ha costruito, così la straordinaria complessità del mondo naturale implicherebbe logicamente l'esistenza di un Creatore. L'opera di Paley ispirò il progetto dei Bridgwater Treatises (1830), otto volumi su diversi argomenti volti a realizzare la disposizione testamentaria del Conte di Bridgwater, che lasciò ottomila sterline per far scrivere e stampare in migliaia di copie un'opera che dimostrasse razionalmente, cioè attraverso le conoscenze della scienza, «il potere, la saggezza e la bontà di Dio». I trattati furono scritti da alcuni dei massimi scienziati inglesi del tempo e ad essi se ne aggiunse un nono, che non era parte della serie, scritto da Charles Babbage per dimostrare sulla base dei sui studi sulle macchine calcolatrici che Dio sarebbe una sorta di programmatore soprannaturale, che ha stabilito dall'inizio una serie di leggi complesse che producono naturalmente quei fenomeni stupefacenti che consideriamo miracoli, senza bisogno di intervenire direttamente nelle faccende del mondo.

La tradizione della teologia naturale è stata uno dei principali veicoli attraverso i quali gli scienziati si sono rivolti al pubblico e hanno annunciato i beni culturali e morali che l'attività scientifica poteva distribuire. A un certo punto, però, l'idea teologica e finalistica attraverso cui veniva presentata la natura descritta dalla scienza è entrata in crisi. Gli sviluppi della matematica consentivano a Laplace di rispondere, secondo l'aneddoto, a Napoleone che gli chiedeva come mai non parlasse di Dio nella sua Meccanica celeste, che lui non aveva «bisogno di quell'ipotesi». Ma una delle fonti principali di questa crisi fu la scoperta dei meccanismi naturali che consentono l'evoluzione delle specie biologiche, cioè la dimostrazione da parte di Charles Darwin che l'assunzione dell'esistenza di Dio non era necessaria neppure per spiegare la formidabile diversità e complessità della natura vivente.

Il nuovo naturalismo scientifico che si affermava nell'età vittoriana segnava il distacco tra la cultura popolare e quella scientifica. Proprio quelle dimensioni del pensiero umano che avevano funzionato da collegamento tra cultura scientifica e pubblico, come l'antropocentrismo, l'antropomorfismo e il finalismo, diventavano indicatori di fallacie della mente comune e del pensiero clericale. La scienza secolare trionfava attraverso l'egemonia e la legittimazione professionale degli scienziati e l'esclusione dal forum pubblico a dall'ascolto politico degli approcci scientifici mentre, allo stesso tempo, le teorie più avanzate, si allontanavano definitivamente dal senso comune. La difficoltà di staccarsi da una comunicazione che per essere più efficace fa riferimento a metafore che richiamano l'esperienza comune è evidente nella divulgazione del darwinismo, che dimostrava e in parte ancora mostra l'ambivalenza e gli equivoci dell'atteggiamento scientifico, per cui da un lato si considera il linguaggio comune inadeguato a rappresentare le conoscenze scientifiche, ma allo stesso tempo si usano metafore e analogie che falsificano i contenuti scientifici. Ancora oggi l'evoluzione biologica viene rappresentata nel linguaggio comune con accenni finalistici, per esempio quando un tratto somatico o comportamentale viene rappresentato in rapporto alla sua funzione. Come se lo scopo riconosciuto a posteriori per cui quel tratto (per esempio: il cuore che ha la funzione di pompare il sangue) avesse svolto un qualche ruolo causale nel processo. Sappiamo invece che, di fatto, la funzione emerge e si seleziona in quanto casualmente compare una struttura che in virtù di quello che consente di fare conferisce un vantaggio riproduttivo all'organismo che la manifesta.

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Diversi studi hanno confermato che il disgusto ha qualcosa a che fare con le reazioni morali intuitive ed è forse anche per questo che la comunicazione usata in merito a diverse questioni bioetiche richiama associazioni che inducono reazioni di disgusto: le blastocisti umane sono descritte come fossero bambini per suscitare avversione alla sperimentazione con staminali embrionali; decidere della propria vita nasconderebbe solo egoismo o la volontà di eliminare malati e morenti per motivi economici; evitare per scelta morale individuale di far nascere persone con gravi sofferenze vorrebbe dire aderire al disegno criminale dell'eugenica hitleriana; brevettare cellule o geni significherebbe trasformare le persone, con la loro dignità, in merce da prezzare sul mercato; trasferire il gene di un animale in una pianta significa cambiare l'essenza di un organismo e quindi generare qualche pericolosa mostruosità; ecc.

Di fronte a queste modalità intuitive di ragionare su temi controversi, che intercettano i sentimenti e le forme elementari di pensiero su problemi di cui non si hanno conoscenze o esperienze dirette, probabilmente sarebbe utile costruire, a supporto di argomenti più razionali, anche un immaginario emotivo che faccia riferimento a scenari più vicini alla realtà delle condizioni umane di sopravvivenza e sofferenza: come il fatto che esistono e sono in aumento i malati affetti da gravi patologie degenerative; che se alcune coppie si affidano alla lotteria genetica invece di ricorrere alla fecondazione assistita metteranno al mondo bambini destinati a una vita di dolore e morte prematura; che rinunciando a usare tecnologie sicure come gli OGM si preparano future carestie, cibo potenzialmente tossico e una qualità infima dell'esistenza, come accadeva quando l'agricoltura non conosceva la genetica e non disponeva di controlli e mezzi meccanici per garantire raccolti in quantità e qualità adeguate.

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11.

La scienza annulla la soggettività e impoverisce la qualità dell'esperienza umana spontanea o naturale


La scienza mette tra parentesi quegli elementi della soggettività che deformano, o che danno forme soprattutto apparenti e basate su impressioni alle rappresentazioni del mondo. E proprio in virtù di questa scelta riesce a spiegare i fatti e a dire che cosa esiste dal punto di vista di una particolare specie vivente, strettamente imparentata con altre forme di vita evolutesi su un particolare pianeta di questo universo. Conoscere o praticare la scienza lascia intatta la capacità di usare gli elementi psicologici della soggettività per condurre attività o coltivare interessi che possono produrre lo stesso piacere che scaturisce dallo scoprire, inventare o imparare qualcosa di scientifico. Per cui non è vero che gli scienziati non sanno apprezzare le esperienze culturali che valorizzano la dimensione soggettiva del giudizio. È raro trovare uno scienziato che non sia anche appassionato di qualche arte o sapere letterario, e che non sappia esprimere questa passione anche con una competenza storico-filologica. Mentre non è raro, anzi è normale, trovare intellettuali umanisti o artisti che detestano la scienza e si compiacciono di ignorarne le conoscenze fondamentali.

Non c'è quindi molto da dire per rispondere alle critiche di chi mette le esperienze soggettivamente fondate sopra o in alternativa, e non accanto, a quelle oggettive dalla scienza, cioè in una posizione che non dovrebbe essere rilevante per le soluzioni di problemi pratici. Senza nulla togliere al valore delle gratificazioni intellettuali e anche di maturazione di una sensibilità personale che la diffusa coltivazione di esperienze culturali artistico-letterarie e umanistiche produce, queste esperienze non valorizzano, e non necessitano di farlo, un'uniformità di metodo. Quindi, gli argomenti che suggeriscono di ricorrere maggiormente alla cultura umanistica e letteraria per migliorare le persone e la società non possono essere confutati razionalmente. Anche perché, se è valida l'idea di Robert Trivers secondo cui la logica dell'inganno pervade la storia della vita sulla Terra, dalla competizione all'interno dei genomi ai rapporti familiari e sociali, e che per rendere efficaci strategie di inganno e manipolazione degli altri si è evoluta a sua volta la capacità di autoingannarsi, è difficile aspettarsi un salutare superamento della divisione tra le «due culture». In altre parole, le cosiddette due culture sono epistemologicamente inconciliabili. Tuttavia, la scienza può spiegare perché esiste e come funziona il modo di pensare e la costruzione del sapere umanistico. Ma non viceversa e per le ragione illustrare nel terzo capitolo.

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E si è così arrivati a numeri drammatici. Certo, si può anche provare e vedere il bicchiere mezzo pieno. Di fronte alle quotidiane semplificazioni disfattiste e disinformate sul sistema della ricerca, dell'innovazione e della formazione scientifica italiano, si potrebbe celebrare la produttività eccellente dei ricercatori italiani (cioè di nazionalità italiana e che hanno studiato in Italia) e un posizionamento non così avvilente delle università nel quadro internazionale. Vedendola in positivo si potrebbe mettere l'enfasi per quanto riguarda l'origine dei problemi, sulla mancanza di investimenti adeguati, quindi facendo finta che la causa di tutto sia nel fatto che siamo sotto la fatidica soglia del 2% o del 3% sul PIL, rispettivamente come finanziamento pubblico e pubblico misto a privato in ricerca e sviluppo. In realtà, la situazione che si è prodotta, anche a seguito della crisi finanziaria, non annuncia niente di buono per il futuro prossimo. Stante che tra i paesi sviluppati, secondo le statistiche dell'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE), l'Italia era già da prima della crisi economica in corso il paese che spendeva meno rispetto alla media in ricerca, innovazione e istruzione, ora è il paese che, a seguito della crisi, ha tagliato di più, soprattutto per istruzione e ricerca (solo l'Estonia era messa peggio).

Gli investimenti in rapporto al PIL nel 2012 ammontano complessivamente a 1,26% (0,7% i finanziamenti pubblici): una delle cifre più basse tra i paesi sviluppati, e la più bassa tra i paesi dell'Europa a 15, a parte Portogallo e Grecia. Francia e Germania, per avere due riferimenti geopolitici prossimi, investono rispettivamente 2,26% e il 2,82% sul PIL. La strategia pensata a Lisbona nel 2000 dal Consiglio Europeo Straordinario stabiliva l'obiettivo di trasformare l'Europa nell'economia più competitiva e dinamica al mondo basata sulla conoscenza, attraverso il progressivo raggiungimento nei paesi membri UE di investimenti in ricerca e sviluppo pari al 3%, di cui i due terzi provenienti dal settore privato. L'Italia nei dieci anni considerati è passata da 1,07% a 1,26%, dopo che nel decennio precedente gli investimenti erano calati da 1,3% a 1,07%. Il ritardo italiano rispetto alla media europea è del -30% per i finanziamenti pubblici, e -40% per quelli privati: il che spiega come mai nel 2011 in Italia il numero di startup era 20-25% in meno rispetto a Francia, Germania e Regno Unito.

La situazione è aggravata dal fatto che all'Italia mancano i numeri strategici per competere: 2,7% di brevetti sul totale mondiale (contro il 6,33% della Francia, l'8,12% della Germania e il 3,56% del Regno Unito), solo 1,55 ricercatori per milione di abitanti (2,67 in Francia, 2,79 in Germania e 2,58 nel Regno Unito), con una retribuzione media annua iniziale di soli 34 204 euro (contro i 50 881 della Francia, i 45 893 della Germania e i 50 310 del Regno Unito). Registriamo il peggior saldo negativo nella mobilità dei ricercatori, cioè -12%, contro il +33% degli Stati Uniti, il +25% della Svizzera e il +1% della Germania. Ci si potrebbe consolare pensando che nonostante gli handicap economici e demografici i ricercatori italiani ottengono una percentuale di citazioni praticamente identica a quelle degli altri principali paesi europei (4,4%), e hanno prodotto il 2,28% delle pubblicazioni sul totale mondiale (contro l'1,67% della Francia, l'1,62% della Germania e il 3,27% del Regno Unito). In realtà dovrebbe essere motivo di disperazione.

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Capire e usare la scienza implica imparare un controllo estremo nell'uso dei termini e nella costruzione delle argomentazioni. Implica, cioè, lavorare all'interno di una quantità variabile, ma auspicabilmente elevata, di vincoli operativi, che sono però il presupposto per elaborare un pensiero originale e per guadagnare in vera libertà. La scienza consente, in vari modi, di scalare con successo gli scoscesi e incerti pendii che portano a una libertà sempre più ricca di contenuti e potenzialità, in quanto si basa su una conoscenza affidabile e condivisibile, oltre che sull'autocontrollo. Contrariamente a quel che si pensa, non c'è una gran libertà nello spontaneismo o nel lavoro di macerazione introspettiva.

Il libero arbitrio è un'illusione e la libertà come la pensiamo intuitivamente non può esistere in natura, se non come prodotto di attività cerebrali che creano flussi di coscienza adattativamente strutturati. Si tratta di una questione filosoficamente eccitante, ma anche inutile sul piano degli usi che se ne possono fare. Nella misura in cui certe credenze, come quella nel libero arbitrio, si sviluppano spontaneamente e servono all'omeostasi comportamentale modulata dal cervello. L'unica indicazione di qualche interesse potrebbe essere che una condizione individuale che si avvicina alla libertà, che amplia lo spettro delle opzioni calcolate tra l'attività di elaborazione inconscia e l'integrazione cosciente dell'informazione nel cervello, è quella che matura proporzionalmente all'aumento dei vincoli, cioè della connettività attraverso la varietà e la comparazione adattativa e integrativa delle esperienze e quindi dell'apprendimento. Quel che apprendiamo e il modo in cui apprendiamo definiscono la morfologia funzionale della nostra coscienza e quindi della libertà individuale. Tra le cose che possiamo apprendere, la scienza favorisce lo scambio di esperienze intersoggettive e vincola a regole e a procedure trasparenti ed efficaci, che aiutano a maturare anche un autocontrollo o un'autonomia utile a far funzionare organizzazioni sociali lontane dalle nostre predisposizioni evolutive.

Mi viene talvolta di pensare che quando la ricerca, guidata da metodi empirici, si conforma a vincoli che consentono di estrarre creativamente nuova conoscenza dal mondo, si guadagna qualcosa di simile a ciò che Spinoza chiamava «beatitudine» o «virtù».

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