Autore Charles P. Snow
Titolo Le due culture
EdizioneMarsilio, Venezia, 2005 [1964], I libri di Reset , pag. 140, cop.fle., dim. 120x170x11 mm , Isbn 978-88-317-8615-7
OriginaleThe Two Cultures and a Second Look
EdizioneCambridge University Press, Cambridge, 1959
CuratoreAlessandro Lanni
TraduttoreAdriano Carugo
LettoreRenato di Stefano, 2005
Classe scienza , scienze sociali , scuola , universita' , filosofia












 

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Indice

  7 Introduzione
    di Alessandro Lanni

 15 LE DUE CULTURE

 17 Le due culture
 34 Gli intellettuali come «Luddisti» per natura
 40 La rivoluzione scientifica
 50 I ricchi e i poveri

 61 LE DUE CULTURE. SUCCESSIVE CONSIDERAZIONI


111 LE DUE CULTURE CINQUANT'ANNI DOPO


113 Per una Repubblica delle Scienze e delle Lettere
    di Giulio Giorello

119 Cosa intendiamo quando parliamo di «cultura»?
    di Giuseppe O. Longo

127 La guerra dei due mondi
    di Piergiorgio Odafreddi

139 Nota biobibliografica su Snow

 

 

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Pagina 7

Introduzione
di Alessandro Lanni



A cento anni dalla nascita e a venticinque dalla morte di Sir Charles Percy Snow, il 2005 è l'anno giusto per riportare in libreria le Due culture, un testo che è stato a suo tempo uno schiaffo a tutti gli snobismi intellettuali e che ancora oggi non ha finito di parlarci, di stimolare pensieri sullo stato della nostra cultura, della nostra scienza e del nostro sistema educativo.

Il saggio di Snow uscì in Gran Bretagna per la prima volta in due puntate sulla rivista Encounter, nel giugno e nel luglio del 1959. Si trattava della trascrizione della Rede Lecture che lo scrittore aveva tenuto il 7 maggio nel Senato dell'università di Cambridge. Fin da subito, quelle idee sul conflitto tra scienziati e umanisti suscitarono un clamore e una serie di polemiche impreviste tanto che lo stesso Snow sentì l'esigenza di tornarci sopra a pochi anni di distanza. Così al testo della conferenza di Cambridge fu aggiunta nel 1963 una seconda sezione dal titolo The Two Cultures: a second look.

Il tema affrontato in questo libretto è antico. Dalla tassonomia platonica dei saperi fino alla separazione tra Naturwissenschaft e Geisteswissenschaft, nella storia dell'Occidente si è sempre dato per acquisito che esistesse una differenza tra conoscere i fatti di natura in modo oggettivo e occuparsi di ciò che fanno gli uomini in modo più o meno creativo. Come giustificare altrimenti le opposizioni costitutive del nostro mondo come anima e corpo, mente e natura, soggetto e oggetto e via dicendo?

Questa frattura fra le due anime dell'Occidente è divenuta sempre più evidente quando, nell'Ottocento, lo Scienziato e l'Umanista sono divenuti professioni vere e proprie. Come sostiene Charles Snow, la reciproca diffidenza tra le «due culture», la mancanza di comunicazione tra scienziati e umanisti è uno dei grandi mali della società occidentale. La classe di umanisti alla guida dei paesi avanzati cova un pregiudizio antiscientifico molto radicato e difficilmente estirpabile se non si opera concretamente nell'ambito dell'istruzione e più in generale dell'educazione. La scienza, e la scienza applicata in particolare, è la vera ancora di salvezza dell'umanità di fronte alla catastrofe della frattura planetaria tra ricchi e poveri.

L'affiato progressista di Snow individua nella rivoluzione industriale figlia di quella scientifica la via d'uscita; e se la prende con quei letterati che hanno sempre disprezzato la conoscenza oggettiva della natura e tutta la tecnologia che essa ha reso possibile. Gli umanisti «non si sono mai sforzati, né hanno mai desiderato, o non sono mai stati in grado, di capire la rivoluzione industriale, e ancora meno di accettarla». Snow non la nomina, ma si pensi a tutta la tradizione antimodernista novecentesca, a certi celebri giudizi di Heidegger per esempio. Ma «la rivoluzione scientifica è il solo metodo in virtù del quale la maggior parte degli uomini può raggiungere le cose di primaria importanza (anni di vita, libertà dalla fame, sopravvivenza dei fanciulli)». Dunque, che i letterati, gli intellettuali scendano dai loro scranni e si sporchino le mani con la scienza, almeno un po'. Altrimenti è finita.

Ma Snow ne ha anche per gli scienziati. Certo, dichiara, ci sono menti illuminate, ma la maggior parte è colpevolmente digiuna di letteratura, di arte, insomma di cultura. «I più (tra gli scienziati, ndr), quando chiedevamo quali libri avessero letto, rispondevano modestamente: "Be', ho provato a leggere Dickens", quasi che Dickens fosse uno scrittore straordinariamente esoterico». Non solo, uno scienziato che cresce chiuso in un laboratorio, senza una formazione organica sui valori condivisi nei quali il suo lavoro s'inscrive, come potrà essere d'aiuto alla società nel suo complesso?

Il tema dell'integrazione degli scienziati nella cultura del loro tempo è stato messo in luce già dall'autore della prefazione alla prima edizione italiana. Il testo di Snow arriva in Italia nel 1964 accompagnato da un breve articolo di Ludovico Geymonat, che da anni perorava la causa della scienza all'interno dell'Accademia «inquinata» dal pregiudizio idealistico e crociano. In quelle poche pagine che presentavano allora al lettore italiano un'eccezionale novità nel panorama intellettuale non solo inglese ma di tutto l'Occidente, il padre della filosofia della scienza nel nostro paese indica l'urgenza di rispondere anche in Italia alle questioni sollevate da Snow nel suo pamphlet. Geymonat si dice d'accordo con Snow sull'eccessiva e precoce specializzazione dei programmi scolastici che avrebbe rischiato di far perdere l'orizzonte complessivo del sapere.

Discorso attualissimo, come si vede, in questi anni di riforma del sistema scolastico e universitario. Allo stesso modo, l'epistemologo italiano condivide la necessità, sottolineata da Snow, di educare i futuri scienziati anche attraverso un sapere umanistico. Anche in questo caso, come non vedere tale urgenza anche oggi, in un tempo in cui discipline scientifiche nuove come per esempio le biotecnologie pongono con forza la necessità di una reciproca comunicazione tra i due schieramenti? Su temi come la fecondazione assistita, gli ogm, solo per fare qualche esempio, troppo spesso ancora si affrontano da una parte gli ideologi dei valori e dall'altra i burocrati della tecnica senza possibilità di reciproco intendimento.

Eppure l'apparente buon senso, almeno in generale, della proposta di Snow non ha mai messo tutti d'accordo. Anzi. Di obiezioni alle Due culture ne sono state mosse fin da subito infinite. Celebre quella del critico letterario conservatore F.R. Leavis che nel 1962 sullo Spectator aggredisce – è proprio il caso di dirlo – Snow con tono sprezzante. Il progressismo e l'apertura alla scienza del collega scrittore produrrebbero imbarbarimento e corruzione della «grande» letteratura, della tradizione più alta creata dall'ingegno umano. A posteriori, in questo giudizio violento si possono riconoscere più le ragioni dell'antipatia personale che una vera e propria perplessità sulle idee contenute nel saggetto.

Ben altro spessore ha, per esempio, la critica che uno dei maggiori filosofi italiani del XX secolo, Giulio Preti, rivolse nei confronti del libro di Snow. A pochi anni di distanza dall'edizione italiana, in Retorica e logica (1968) Preti prende di petto la tesi fondamentale riguardo alla spaccatura della cultura occidentale. Manca l'analisi, c'è più giornalismo che conoscenza del fenomeno, accusa il filosofo pavese. Malgrado riconosca alcuni meriti allo scrittore inglese, nel complesso lo sviluppo è insoddisfacente. Scienza e letteratura vanno comprese in senso «fenomenologico e strutturale», non con uno sguardo contaminato dallo stato attuale delle cose. «Il torto dello Snow è stato di parlare di due culture in senso antropologico». Qui è il filosofo puro a parlare. «L'opposizione – scrive ancora Preti – è tra due "forme". Forme mentali, se si vuol parlare con linguaggio mentalistico; forme della cultura o dello spirito oggettivo: due diverse scale di valori, due diverse nozioni di "verità", due diverse strutture del discorso». Insomma, da pensatore acuto (e quantomai attuale, ma questo è un altro discorso) Preti sottolinea i limiti «metafisici» del discorso di Snow, ma non ne mette in discussione l'intuizione di fondo. Prima che i letterati e gli scienziati, contesta Preti, esistono le lettere e le scienze ed è a queste che dovremmo rivolgere l'interesse per capire fino in fondo il problema posto da Snow.


* * *



Detto che è un libro di quasi mezzo secolo, che pure ha ricevuto numerose stroncature ci si potrebbe chiedere allora perché pubblicare di nuovo le Due culture, in un mondo completamente trasformato, nel quale la scienza, la tecnica e lo stesso ruolo degli intellettuali è diverso da quello che Snow aveva davanti agli occhi. Innanzitutto, perché le cento paginette scritte dal letterato-scienziato inglese sono ormai un piccolo classico che non può rimanere sepolto in qualche biblioteca. Con acume, Snow ha colto una frattura che caratterizza molti ambiti, non solo quello delle discipline accademiche, della nostra società. Ma al di là del significato celebrativo, esistono altre ragioni più sostanziali.

A molte perplessità sulla ripubblicazione offrono più di una risposta Giulio Giorello, Giuseppe O. Longo e Piergiorgio Odifreddi con i loro articoli che seguono in questo volume il testo di Snow. Vediamo di aggiungere in breve qualche osservazione sullo stato attuale del dialogo tra umanisti e scienziati.

Innanzitutto, si potrebbe chiedere: come stanno le cose tra le due culture in Italia nel 2005? «Nessuno può essere, oggi, così cieco da non rendersi conto che l'esistenza di due culture, tanto diverse e lontane una dall'altra quanto la cultura letterario-umanistica e quella scientifico-tecnica, costituisce un grave motivo di crisi della nostra civiltà». Così notava Geymonat nella sua prefazione del '64. Domandiamoci: l'oggi di Geymonat è anche il nostro «oggi»? Qualcosa è rimasto uguale e qualcosa no. Iniziamo da quello che, se non è proprio identico, è certamente molto simile a quarant'anni fa. Anche oggi, come allora, non c'è lo stesso metro di giudizio e in maniera implicita la stessa considerazione tra le discipline di una cultura e quelle dell'altra. Molta strada bisogna fare ancora per riconoscere alla scienza in tutte le sue branche lo stesso status che hanno la letteratura e la storia, solo per fare due esempi. Certo, colpiscono quei sondaggi semiseri che si vedono in televisione nei quali gli intervistati ammutoliscono se interrogati sul significato del 2 giugno oppure sull'anno della scoperta dell'America. Ma d'altra parte nessuno si scandalizza che in molti ignorino cosa indica il numero 3,14 o cosa sia la Relatività galileiana. Come nessuno ha qualcosa da dire se il Capo dello Stato – è cronaca – afferma candidamente che a scuola andava maluccio in matematica. Immaginiamo la reazione se avesse detto che conosceva poco la storia o che addirittura scriveva e leggeva così così? Apriti cielo. La morale di tutto ciò? E che c'è ancora molto da fare per colmare il divario tra la considerazione pubblica di cui gode la scienza rispetto alle discipline umanistiche.

Eppure, Giorello, Odifreddi e Longo sono l'esempio di un'aria nuova che spira nel mondo della cultura in generale. Un mondo nuovo che almeno in parte è figlio del grido lanciato da Charles Snow. Un filosofo della scienza, un matematico e un informatico che tuttavia da anni conoscono e praticano l'arte del gettar ponti da una sponda all'altra del sapere. Si tratta di un lavoro d'avanguardia, nel quale i confini tra discipline si ammorbidiscono e il senso dei saperi acquista nuove forme. Ognuno, per l'ambito delle conoscenze che gli spetta, si occupa senza occhiali ideologici disciplinari di una terra ancora tutta da scoprire.

Ma non si tratta solo di casi isolati; si sono moltiplicati gli esempi di questo interesse reciproco tra scienziati e umanisti. Si tratta di esperimenti che negli ultimi anni hanno prodotto dei successi francamente inaspettati. Che dire dell'exploit di pubblico di un'opera teatrale scritta da un celebrato astrofisico, John Barrow, e portata in scena da uno dei più famosi registi del nostro paese, Luca Ronconi? O della serie di libri best seller che provano a collegare il mondo dei numeri e quello delle lettere? Oppure dello scrittore e saggista Hans Magnus Enzensberger che, prima col Mago dei numeri e poi con Gli elisir della scienza, dimostra come un intellettuale umanista possa essere sedotto dalla conoscenza della natura in termini scientifici? «Un pomeriggio legge Malthus / (come passatempo): palpitazioni, / brividi violenti, e nel cervello / una tempesta elettrica. Da allora / fu perso. Il resto è evoluzione». Cosa vuol fare lo stesso Enzensberger dedicando versi come questi a Charles Darwin? Oppure, come capita negli Elisir della scienza, al logico Alan Turing, al medico Lazzaro Spallanzani, all'astronomo Tycho Brahe o all'alchimista Raimondo di Sangro, se non provare a trovare un nuovo spazio per le «due culture»?

Forse c'è sempre stato qualche spirito libero, che infischiandosene delle partizioni disciplinari ha fatto dialogare nella sua opera scienza e letteratura, scienza e arte (ne scrive Odifreddi nel suo articolo). Eppure, sembra che anche nell'opinione pubblica, sui giornali, sugli altri mezzi di comunicazione si stia facendo largo un modo nuovo di intendere le due culture. Quello che auspicava Charles Snow, cioè un nuovo «cameratismo» tra scienziati e intellettuali pare sia una nuova possibilità all'orizzonte. Senza arbitrari sincretismi, separando la curiosità sterile dal cambiamento reale di prospettiva, si affaccia un denominatore comune capace di tenere insieme discipline umanistiche e scientifiche: la passione per la conoscenza. Questo porta a considerare che gli scienziati non sono burocrati da laboratorio ma piuttosto esseri umani in carne e ossa con uno spiccato sentimento creativo. E che gli umanisti possono anche rivelarsi qualcosa di diverso dagli idiot lettré o dagli «specialisti ignoranti», come scrive Snow. È solo con questo credito reciproco che si può tornare all'antica origine comune, per la quale il contare dei matematici e il raccontare dei letterati sono figli dello stesso verbo latino: computare.

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Pagina 127

La guerra dei due mondi
di Piergiorgio Odifreddi



La scienza moderna si basa, o almeno si basava sino alla fine dell'Ottocento, su una metafisica fondata sulla logica parmenidea dell'essere, e più precisamente sui tre principi di identità, di non contraddizione e del terzo escluso. Questa logica ebbe la meglio in una disputa filosofica che risale alle origini stesse della filosofia occidentale: da un lato Eraclito e la logica delle apparenze e del divenire, dall'altro Parmenide e la logica della permanenza e dell'essere. Grazie alla Metafisica di Aristotele il divenire cessò di essere per due millenni, e la filosofia prima, e la scienza poi, si fondarono su quella che divenne per antonomasia la "logica classica".

[...]

Il controcanto (o, in pieno accordo con l'era dei Beatles, il controurlo) venne sostenuto nel 1962 da F.R. Leavis, in Due culture? Egli accusò Snow di essere un salottiero letterato di quart'ordine, un tecnocratico portavoce della miserabile riduzione dell'esperienza umana al misurabile, un apologeta del consumismo sordo ai costi umani della rivoluzione industriale.

Più che l'argomentazione, fu il livido stile di Leavis a mostrarsi adeguato al proseguimento del dibattito negli Stati Uniti, dove esso ha seguito lo spostamento del fronte dello sviluppo scientifico e tecnologico nel dopoguerra. È nel contesto dell'accerchiamento provocato dai convergenti attacchi alla scienza da parte dei lunatici (dai creazionisti agli astrologhi) che reclamano "par condicio", degli isterici (dalle femministe agli afrocentristi) che pretendono correttezza politica, e dei romantici (dagli ecologisti ai pacifisti) che lamentano le innegabili interferenze economiche, politiche e militari nella ricerca, che difese vigorose della scienza, quali Elevate superstizioni di Paul Gross e Norman Levitt, o Imposture intellettuali di Sokal e Bricmont, possono apparire non solo giustificate, ma inevitabili.

Sia gli attacchi che le difese raggiungono però un effetto comune: concentrandosi su problemi sovrastrutturali, cioè se la scienza debba essere teista o atea, maschia o femmina, bianca o negra, capitalista o progressista, armata o disarmata, si tende a rimuovere la discussione dagli aspetti essenziali, che dovrebbero essere appunto la natura della concezione scientifica del mondo, e la sua rilevanza per la cultura e l'uomo.


Una falsa opposizione?

Il dibattito sulle due culture, sfrondato delle intemperanze verbali e caratteriali, si riduce tutto sommato alla constatazione che ci sono esperienze pubbliche e private, universali e particolari, oggettive e soggettive, e che se ne può parlare in maniera unitaria o molteplice, esplanatoria o descrittiva, espressiva o impressionistica, quantitativa o qualitativa, razionale o emotiva, per semplificazione o arricchimento, con precisione o ambiguità, mediante idee o parole, attraverso concetti o sensazioni.

Se la divisione fra scienza e umanesimo non fa dunque che riflettere una fondamentale dicotomia sia ontologica che epistemologica, la loro contrapposizione è allora necessaria? O si può invece immaginare di poterla superare a favore di una complementarietà, che permetta alla scienza di recepire le istanze dell'umanesimo, e all'umanesimo di adeguarsi agli sviluppi della scienza?

Il problema è puramente accademico: se infatti si distoglie lo sguardo dai polemisti dei due campi e lo si ridirige sui protagonisti della vita intellettuale, ci si accorge che è solo nei crani limitati dei portatori d'acqua e degli operatori culturali che la divisione persiste, mentre essa non è mai esistita nelle menti senza confini che stanno ai vertici delle proprie discipline. Ne sono testimonianza, ad esempio, Scienza e umanesimo di Erwin Schrödinger (1951), e Letteratura e scienza (1963) di Aldous Huxley.

Non si può infatti dimenticare che la grande letteratura, come espressione della cultura del proprio tempo, ha sempre intramato la scienza dell'epoca nel proprio tessuto: al punto che, ad esempio, una parte della difficoltà di lettura contemporanea dei poemi sulla natura presocratici, del De rerum natura o della Divina Commedia deriva appunto dagli ormai oscuri riferimenti alla visione scientifica greca, romana o medioevale. Oscuri per noi, evidentemente, perché i lettori per i quali Empedocle, Lucrezio o Dante scrivevano dovevano possedere gli strumenti scientifici necessari, e li potevano possedere perché questi erano ancora a misura d'uomo. Col crescere tumultuoso della produzione intellettuale, una conoscenza integrata umanistico-scientifica ha finito invece col divenire patrimonio esclusivo di personalità eccezionali, da Leibniz a Russell.

La tragedia dello scollamento culturale è provocata non tanto dalla crescita in profondità delle singole scienze, perché i dettagli dell'equazione d'onda o della doppia elica sono tutto sommato superflui per avere un'idea delle problematiche sollevate dai quanti o dal DNA, quanto piuttosto dall'allargamento orizzontale delle discipline: una visione anche sommaria di ciò che si sa della natura e dell'uomo richiede infatti ormai un'infarinatura di fisica atomica, relatività, cosmologia, chimica, etologia, antropologia, genetica, biologia, neuroscienze, scienze cognitive, complessità, caos, calcolatori, intelligenza e vita artificiali, reti e realtà virtuale, per non parlare degli strumenti matematici necessari per orizzontarsi nel labirinto.

Di fronte ad una tale vastità, le reazioni più naturali, anche per gli scienziati, sono lo straniamento e la chiusura in difesa, e la conseguenza più immediata che ne deriva è l'isolamento delle discipline scientifiche tra di loro, e di una scienza ormai frammentata dal resto della cultura. La letteratura e la filosofia corrono così l'enorme rischio di scollarsi dalla storia, di continuare accademicamente a descrivere e analizzare un mondo ormai scomparso, e di cessare di poter assolvere alla propria funzione sociale di critica antisociale: il tutto nel momento stesso in cui gli sviluppi tecnologici, dall'energia atomica all'ingegneria genetica, pongono l'uomo di fronte a pericoli che, essendo di una gravità mai sperimentata, richiederebbero invece una chiarezza di analisi mai raggiunta.

Se la formazione umanistica diventa inadeguata per l'appropriazione degli strumenti necessari all'analisi del mondo moderno, e gli umanisti non possono più seguire il passo della scienza, non per questo diminuisce dunque il bisogno di letteratura e filosofia: l'unica soluzione sembra allora che siano gli uomini di formazione scientifica ad appropriarsene.

E infatti la letteratura contemporanea si è ormai arricchita delle opere dell'ingegner Carlo Emilio Gadda , del chimico Primo Levi , del logico Bertrand Russell , del geometra Salvatore Quasimodo, dei matematici Alexander Solzhenitsyn e John Coetzee (questi ultimi premi Nobel per la letteratura, rispettivamente nel 1950, 1959, 1970 e 2003), oltre che di autori che hanno fatto studi scientifici, quali Robert Musil , Hermann Broch, Friedrich Dürrenmatt , Thomas Pynchon , José Saramago. Un'intera corrente letteraria, che va dall'OULIPO (Ouvroir de Littérature Potentielle) francese all'OPLEPO (Opificio di Letteratura Potenziale) italiano, ha addirittura assunto la realizzazione di opere a struttura dichiaratamente matematica come sua poetica: ad essa appartenevano autori di primo piano come Raymond Queneau , Georges Perec e Italo Calvino.

Infine, la nascita della fantascienza e del cyberpunk come generi autonomi ha colmato un bisogno di tematiche che sono evidentemente al di fuori della portata di autori di formazione umanistica, dai viaggi spaziali ai calcolatori, e ha già portato alla ribalta talenti linguistici di tutto rispetto, da Stanislav Lem a William Gibson.

Per quanto riguarda invece la filosofia, era inevitabile che le implicazioni della relatività e della meccanica quantistica per la visione del mondo potessero, almeno agli inizi, essere comprese appieno soltanto dai fisici stessi. Ed è stata una fortuna per la storia del pensiero che gli artefici di quelle rivoluzioni scientifiche fossero personaggi come Albert Einstein , Niels Bohr , Werner Heisenberg e Erwin Schrödinger , che univano al genio scientifico talento e interesse filosofici. Fu così che i primi due diedero vita ad un dibattito titanico sulla natura della realtà e della conoscenza del mondo fisico che è una delle vette della discussione filosofica del Novecento, i cui termini rimangono tuttora largamente ignorati dalla maggioranza sia dei filosofi che dei fisici. I secondi due si rivolsero invece da un lato alla rivisitazione delle radici del pensiero scientifico, rispettivamente in Fisica e filosofia e La natura e i greci, e dall'altro alla fondazione di nuove metafisiche che potessero rendere conto della natura del mondo alla luce delle nuove teorie.

La possibilità di integrazione fra scienza e umanesimo, lungi dall'essere meramente contingente, ha poi una intrinseca necessità, che si manifesta nella constatazione della sostanziale convergenza di linguaggi e contenuti fra le due culture, al di là delle loro apparenti opposizioni.

La cosa è evidente a livello superficiale. Da un lato, l'indagine scientifica è di natura filosofica: come sapeva benissimo Newton, che non a caso intitolò la sua opera Principi matematici della filosofia naturale. Dall'altro lato, le teorie scientifiche sono racconti di natura letteraria: come dimostrano ininterrotti successi editoriali, da L'origine delle specie di Darwin, la cui prima edizione andò esaurita il giorno stesso della pubblicazione, a Dal Big Bang ai buchi neri di Stephen Hawking, che è un best seller del Novecento.

Ma, a livello più profondo, si può notare una sostanziale coincidenza delle immagini che si ottengono osservando il mondo dall'esterno e dall'interno, e in cui la matematica gioca un ruolo duplicemente essenziale. Anzitutto, essa soddisfa perfettamente alla definizione di Pound della grande letteratura, come «linguaggio carico di significato al massimo grado». Per il suo simbolismo altamente rarefatto e la sua capacità di condensazione, la matematica svolge nella scienza un ruolo analogo a quello della poesia nell'umanesimo: il diagramma apparentemente lineare

poesia – letteratura – filosofia – scienza – matematica


dello spiegamento espressivo risulta dunque essere in realtà circolare, poiché i suoi apparentemente contrapposti estremi sono in realtà coincidenti, e la sua chiusura individua una vera e propria ruota della vita culturale, in cui tutti i termini finiscono per essere identificati nella loro essenza.

Inoltre, è proprio la matematica a mostrare che le strutture della materia e del pensiero sono sostanzialmente coincidenti. La fisica del Novecento ha infatti ritenuto di poter dissolvere la materia nella matematica, considerandola una discontinuità delle equazioni di campo gravitazionale nella relatività generale, una soluzione delle equazioni d'onda nella meccanica quantistica, e un modo di vibrazione in spazi pluridimensionali nella teoria delle stringhe. La visione della realtà di Einstein, Schrödinger e Witten è dunque sorprendentemente analoga a quella di Pitagora e Platone, con l'unica differenza che i costituenti ultimi della materia cessano di essere i numeri o le forme geometriche che derivano direttamente dall'esperienza più immediata, attraverso le categorie kantiane del tempo e dello spazio, per diventare invece emanazioni di quello che è forse il prodotto più sofisticato del pensiero umano.

Sembra dunque che proprio nella matematica si trovi la cerniera di collegamento fra le due culture, il corpo calloso che collega i due emisferi, il linguaggio poetico della natura, il mediatore neutrale che permette di riappacificare le apparenti discordanze culturali.

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