Copertina
Autore Giuliano da Empoli
Titolo Fuori controllo
SottotitoloTra edonismo e paura: il nostro futuro brasiliano
EdizioneMarsilio, Venezia, 2005, I Grilli , pag. 126, cop.fle., dim. 122x205x12 mm , Isbn 978-88-317-8659-1
LettoreCorrado Leonardo, 2005
Classe sociologia , citta' , paesi: Brasile
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Indice


    FUORI CONTROLLO

  9 Premessa. Il progressista smarrito

 19 Lo specchio brasiliano

 31 La democratizzazione dell'orgia

 47 La nuova superclasse

 59 Il self-service dell'anima

 73 La fine dell'infanzia

 89 Il fatalismo hi-tech

101 La spirale carnevalesca

111 Conclusione. Il progressista ritrovato (?)


 

 

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Premessa. Il progressista smarrito



«È per principio, suppongo, che il mondo si assomiglia da un giorno all'altro. Oggi, aveva l'aria di voler cambiare. E allora tutto, tutto poteva accadere».

È così che ci siamo sentiti all'indomani dell'11 settembre. Dopo essere stato uguale a se stesso per tanto di quel tempo, il mondo aveva improvvisamente cessato di assomigliarsi. E noi ci siamo ritrovati come l'eroe di Conrad, «con il panico nel cuore, smarriti in un luogo pieno di misteri assurdi e crudeli, proibito ai mortali».

Viviamo in un mondo che ci è sconosciuto, al quale cerchiamo sempre più faticosamente di applicare le categorie che abbiamo ereditato dai nostri padri. Ma la verità è che non riusciamo proprio a raccapezzarci.

Dopo la caduta del Muro, ci eravamo convinti che il crollo di una specifica illusione avesse determinato la fine dell'illusione in generale. Come se il tramonto del comunismo avesse liberato per sempre l'uomo dalla sua millenaria capacità di sognare e di ingannarsi, consentendo così a una confortevole logica tecnocratica di avvolgere il mondo come una coperta calda e rassicurante.

Sembrava che tutto potesse essere affrontato con le armi della tecnica e della ragione, dall'unificazione europea attraverso la moneta unica, alla rivoluzione della vita personale e professionale attraverso internet e le nuove tecnologie. Giunto alla fine della storia, all'uomo occidentale rimaneva solo il compito di riordinare le idee che lo avevano condotto fin lì per applicarle (ed esportarle) con la massima efficienza possibile. A rafforzare questa convinzione c'era poi ogni giorno il martellamento degli spot e delle copertine che annunciavano la morte della distanza e l'avvento di una comunione universale, cementata dall' information technology.

E tale era l'enfasi con la quale queste idee venivano propagate (e tanto intenso era, forse, anche il nostro bisogno di crederci), che a nessuno è venuto in mente di porre un paio di domandine essenziali. Perché mai il collasso della fede comunista avrebbe dovuto coincidere con la fine della capacità umana di confezionare utopie? Quand'anche gli ideali fossero caduti, cosa ne sarebbe stato della forza che li aveva prodotti? Dove sarebbe andata a finire l'energia che, sprigionata dal crollo del Muro, non per questo poteva essere scomparsa dalla faccia del pianeta?

In verità sono tante le domande che non ci siamo fatte, accontentandoci di risposte da bacio perugina. A chi mai, per esempio, sarà saltato in testa cne una prossimità tecnologica universale potesse ridurre anziché accrescere la conflittualità del mondo? Era certamente vero che i nuovi strumenti di comunicazione avrebbero messo in contatto costante popoli che si erano ignorati fino a quel momento. Ma chi mai ci ha convinti che questi popoli si sarebbero anche piaciuti e capiti, anziché fraintesi e odiati?

In assenza di queste risposte, comunque, gli anni novanta hanno seguito il loro corso impetuosamente ottimista. E una generazione si è affacciata alla vita adulta in un mondo popolato di miliardari istantanei e di tigri del Sud-est asiatico, nel quale all'aggressività degli slogan giornalistici faceva riscontro una sostanziale scomparsa del climax. Ci siamo così convinti di essere approdati in una landa dolcemente noiosa, come la Norvegia o il Liechtenstein: il genere di epoca che il cinese che augurava tempi interessanti ai suoi nemici avrebbe caldamente raccomandato ai parenti e agli amici più intimi.

Certo, di tanto in tanto capitava che oscuri tamburi rullassero in lontananza. O anche nelle vicinanze, come in Bosnia, quando una piccola comunità illuminata e moderata fu costretta a fare i conti, nella più assoluta solitudine, con la barbarie del nuovo fascismo integralista, che avrebbe poi proseguito la sua marcia trionfale a Manhattan, a Madrid, in Iraq.

All'epoca se ne accorsero in pochi. Anche perché le parti erano invertite: ad essere massacrati furono soprattutto musulmani.

Oltre tre anni di tentennanti ipocrisie accolsero il ritorno, nel cuore del continente, dei cecchini, dei campi di sterminio e delle fosse comuni. È stato allora che l'Europa si è giocata l'anima, tra le macerie di quella Serajevo che per cinque secoli era stata l'incarnazione, problematica ma pur sempre vitale, di una possibilità di convivenza tra diversi. Un progetto di tolleranza fragile e imperfetto che nessuno di noi ha sentito l'urgenza di salvaguardare.

A ripensarci oggi, viene un brivido all'idea che, mentre la terza guerra mondiale proiettava il suo trailer agghiacciante sotto i nostri occhi, a mezz'ora d'aereo da Roma e da Vienna, tutti gli sguardi fossero puntati altrove. È come se, nel 1938, si fosse svolta una campagna elettorale nella quale non si fossero affrontate né la questione cecoslovacca, né quella spagnola, né tanto meno il nazismo. «Provate a immaginare candidati che non si siano pronunciati all'epoca né su Barcellona, né sull'assedio di Madrid e che abbiano passato sotto silenzio gli accordi di Monaco, l' Anschluss e l'Abissinia». È questa, mutatis mutandis, la situazione nella quale ci siamo ritrovati alla metà degli anni novanta. Un periodo nel quale un'intera classe dirigente, puntigliosissima in materia di parametri di convergenza e di clausole di opting-out, non si è accorta dello scoppio, sulla soglia di casa (o, anzi, per essere più precisi, all'interno della casa europea), della terza guerra mondiale.

C'è voluto l'11 settembre, per farci capire che gli anni novanta ci avevano ingannato. Ma, in assenza di ogni griglia di interpretazione, anche quello è rimasto un evento inspiegabile.

Paul Ricoeur ci ha insegnato che la storia è, sì, scandita da grandi eventi, che appaiono come momenti di svolta radicale, ma che questi eventi si inseriscono sempre in una trama più complessa, della quale costituiscono il momento rivelatore.

Il problema è che della trama generale abbiamo tutti perso il filo. Non solo a livello globale, ma perfino a livello locale. Al punto che la maggior parte dei movimenti sismici che percorrono le nostre società ci lasciano attoniti e acquistano, ai nostri occhi, una natura misteriosa. Nell'era dell'iperspecializzazione, nessuno si arrischia più a formulare ipotesi generali sull'evoluzione della società. Nell'era della Theorie-muedigkeit, della stanchezza per le teorie esplicative, tutti preferiscono registrare minuziosamente i fatti ex post, lasciando ai ciarlatani e ai consulenti aziendali il compito di azzardare previsioni. Nell'era della post-politica, non è certo dagli uomini politici che ci si può aspettare la capacità di dare un senso alle trasformazioni in corso.

Fiorisce, così, un pensiero interstiziale, che accumula dettagli e specializzazioni, ma non riesce mai a dar conto dello scenario complessivo. Perfino le fasce di opinione tradizionalmente più prolifiche, in materia di teorie esplicative, restano, il più delle volte, senza parole: la condizione tipica dell'intellettuale progressista è ormai quella dello stupore.

Stupore di fronte alle affermazioni elettorali di personaggi come Berlusconi, Pym Fortuyn, Schwarzenegger. Stupore di fronte al dilagare in tutto il mondo della real-TV e dell'esibizionismo di massa. Stupore, ancora, di fronte al revival religioso americano, al ritorno dell'integralismo nel cuore della modernità. Stupore, infine, nella forma dei campi di concentramento serbi, dei rigurgiti satanisti...

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Oggi, gelidi indicatori econometrici segnalano il Brasile come una delle società più diseguali al mondo. Che trova, però, nel carnevale e, più in generale, in momenti di aggregazione di tipo carnevalesco (il calcio, la musica, il ballo, una religiosità espressiva ecc.), continue occasioni di commistione organica, nelle quali le differenze di classe, pur senza annullarsi, si diluiscono in una più generica celebrazione della forza vitale che sottende tutte le cose.

Ma se istantaneità e fisicità sono le due caratteristiche fondamentali del carnevale, come non vedere che, lungi dal restare confinato negli ambiti temporali e spaziali tradizionali, questo si è diffuso ovunque, diventando una delle chiavi di lettura imprescindibili della realtà che ci circonda? Come non vedere il carattere carnevalesco dei riti collettivi con i quali celebriamo negli stadi, in televisione, per le strade l'insopprimibile effervescenza della vita sociale? O di tutte quelle piccole epifanie individuali che assumono sempre più spesso valenze collettive: il culto del corpo, l'ossessione per il sesso della quale non ci siamo più liberati dagli anni sessanta, le nuove manie legate ai piaceri della gola, la crescente diffusione e accettabilità sociale di droghe legali e illegali?

In questo campo rientra tutto ciò che rimanda ad un primato della sensazione, incluso il famoso passaggio, denunciato da Giovanni Sartori, dall' homo sapiens all' homo videns: l'affermazione della televisione e, più in generale, dell'intrattenimento, come principale modalità non solo ricreativa ma anche conoscitiva. Nonché il proliferare di sincretismi di ogni genere, dalla religiosità fai da te che definisce sempre più il nostro orizzonte spirituale alla cucina fusion che ha invaso le nostre tavole.

Anche da noi, però, questa esplosione carnevalesca ha la preoccupante tendenza ad accompagnare un approfondimento della disuguaglianza sociale. A partire dagli anni settanta, infatti, si è invertita la dinamica livellatrice che aveva condotto, in tutti i paesi industrializzati, ad una progressiva riduzione della distanza tra ricchi e poveri. Negli ultimi trent'anni, il coefficiente di GINI, che misura le sperequazioni tra i redditi delle famiglie, è cresciuto, nell'area OCSE, tra il 10 e il 25 per cento. E nulla lascia pensare che la tendenza sia destinata a cambiare. Al contrario, gli sviluppi della tecnologia e quelli degli scambi internazionali sembrano destinati a polarizzare sempre più le società occidentali tra vincitori e perdenti.

Ma, ancor più dei dati, a preoccupare è la percezione che molti hanno della propria situazione. In Italia, oltre l'80% della popolazione ritiene che il ceto medio si stia impoverendo, che l'insicurezza stia crescendo, che il domani sarà peggiore dell'oggi...

In questo contesto, l'ossessione per la fama che fa sì che «nessuno guardi più la televisione perché tutti vogliono farla» assume una coloritura inquietante; al punto che qualcuno evoca scenari da ancien régime: «Un'élite di notabili ereditieri (le libere professioni si trasmettono per maggiorascato, grazie alla manomorta degli Ordini), rentiers di varia natura e imprenditori di seconda, terza e quarta generazione saluta l'avvento di una massa informe di peones, personale di servizio, pubblico o privato che sia, con salari in stallo, status in calo e taciti veti alla mobilità verticale che si consola con la cronaca mondana, i matrimoni principeschi, le gesta dei vip, i capricci delle delfine dell'etere, le isole dei famosi. Oggi Marie Antoinette non lancerebbe brioches dai balconi, ma inviti per qualche comparsata dalla De Filippi o lettere di raccomandazione per la selezione delle Veline». Non è un caso, forse, se nelle favelas mancano le fognature e l'acqua corrente, ma la televisione in casa ce l'hanno quasi tutti!

In una società bloccata, all'interno della quale il tasso di mobilità sociale è bassissimo e le possibilità di vita sono condizionate dalla posizione dei genitori più che da ogni altro fattore, il carnevale può diventare l'unica via d'uscita razionale. Proprio come nelle favelas si dice da sempre che il futebòl e lo show-business sono le uniche, remotissime, opportunità di promozione sociale, lo stesso sembra accadere da noi. Sollecitati dalle mille tentazioni del culto della fama, ma bloccati in una palude sostanzialmente immobile, i giovani tentano la strada dei «grandi fratelli» e dei «saranno famosi». Mentre i loro genitori, come dimostra il boom mondiale del gioco d'azzardo, si accontentano di giocare alla lotteria...

Di brasiliano, del resto, nell'aria non c'è solo il carnevale. C'è, purtroppo, anche tutto un versante tragico fatto di paura, che è diventato dominante a partire da quell'11 settembre.

Il Brasile non combatte una vera e propria guerra da centoquarant'anni, eppure, lì, nel 2003 ci sono state cinquantamila morti violente. È un conflitto strisciante, epidemico, che può colpire chiunque in qualsiasi momento e che ha trasformato le città brasiliane in giungle paranoiche fatte di milizie private e di condominios fechados.

Allo stesso modo, anche l'Occidente è uscito, con la caduta del Muro, dall'era razionale della guerra tra stati per entrare, con l'11 settembre, in quella del conflitto epidemico, in cui in prima fila non ci sono più gli eserciti, ma i vacanzieri di Bali e i pendolari di Madrid. Nell'atmosfera carica di paura che pesa su di noi da allora, l'orgia dei consumi e l'edonismo di massa non sono più (solo) lo sbocco di un processo di sviluppo materiale, ma si trasformano nell'espressione di una coscienza tragica, che cerca di vivere ogni attimo il più intensamente possibile, perché del «diman non v'è certezza» (o, come diceva lord Keynes, «nel lungo periodo saremo tutti morti»).

Il tutto sullo sfondo di un nuovo fatalismo, tanto familiare alla religiosità brasiliana quanto estraneo alla tradizione moderna. Se, all'insegna di Marx e di Freud, nel XX secolo si credeva che a determinare il corso di una vita fossero esperienze e educazione, il XXI si apre all'insegna del determinismo. Con la maggior parte degli scienziati che ci ripetono che a decretare il destino di ciascuno di noi sono essenzialmente i nostri geni, un fattore ereditario, e non certo i fattori culturali ai quali ci eravamo tanto affezionati...

Il risultato di tutte queste spinte è che siamo entrati in un'epoca barocca, fatta di un vitalismo disordinato che si esprime tanto nella teatralità quotidiana della real-TV, quanto nel ritorno dell'astrologia e del magico come amor fati; nella ricerca dei piaceri della carne e della gola, così come nel dilagare degli sport estremi che danno il brivido del baratro. All'interno della quale prende forma sotto i nostri occhi un'etica dell'istante animata da un'esuberanza pagana che contrasta singolarmente con l'ordine tecnocratico al quale credevamo di esserci abituati.

È questa la brasilianizzazione. Un samba frenetico nel quale un polo carnevalesco fatto di corporeità e di teatralità, di grandi celebrazioni e di métissage entra in risonanza con un polo tragico fatto di rischi e di violenza, di astrologia e di un fatalismo che a sua volta trova sfogo nel carnevale, contribuendo ad alimentare una spirale inesauribile che oscilla costantemente tra l'orgia e il massacro, costeggiando il sublime e l'osceno fino a fonderli in un unico ritmo incessante. Su questo ritmo oscillano da sempre i rampolli di Ipanema e i favelados di Rocinha, i chirurghi plastici di Botafogo e le puttane di Copacabana.

La novità di questo primo scorcio di secolo è che, a ritmo di samba, abbiamo cominciato a muoverci un po' tutti.

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Pagina 33

La verità, infatti, è che il Grand Tour era, per gli aristocratici nordici che lo intraprendevano, un'occasione di godimento sensuale tanto quanto di arricchimento culturale. Il che significa che il viaggiatore odierno che approda sulle spiagge thailandesi arriva buon ultimo di una lunga serie.

Sta tutto qui l'elemento di novità della carnevalizzazione. Piaceri precedentemente riservati a pochi eletti, e accuratamente nascosti agli occhi dei profani, diventano appannaggio di masse sempre più numerose. Se, dietro la nobile facciata del Grand Tour finalizzato alla scoperta delle radici della cultura classica si nascondeva, in molti casi, un viaggio di iniziazione ai piaceri della carne, favorito dalla permissività (e dalla povertà) delle società mediterranee, oggi, scomparsa ogni pretesa di carattere culturale, il turismo sessuale si è trasformato in un fenomeno di massa.

Come ha ben raccontato Michel Houellebecq nel suo Plateforme, è una questione di economia politica: da un lato ci sono milioni di occidentali che hanno tutto quel che vogliono solo che non riescono più a raggiungere l'appagamento sessuale: cercano, cercano senza posa, ma non trovano nulla, e la cosa li rende infelici fino al midollo. Dall'altro lato: milioni di individui che non hanno da vendere che il loro corpo, e la loro sessualità intatta. Adam Smith l'avrebbe considerata una situazione di scambio ideale. E, in effetti, è questa la realtà che abbiamo sotto gli occhi. Charter scontatissimi che partono ogni giorno da grigie città tedesche, inglesi e francesi alla volta di Cuba, della Thailandia, dello stesso Brasile, luoghi baciati dal sole dove grassi europei birrosi compiono il loro grand tour di iniziazione; pullman e automobili occidentali che si riversano ogni week-end sulle città dell'Europa dell'Est, dove il sesso è ancora a buon mercato. Per non parlare dell'impatto prodotto dall'immigrazione sul mercato della prostituzione nel cuore stesso dell'Europa occidentale. In Gran Bretagna, l'autorevolissima rivista medica «Lancet» ha stimato che la crescita dell'offerta e il conseguente calo dei prezzi abbiano fatto raddoppiare i clienti delle prostitute negli ultimi dieci anni. In Italia, addirittura, si stima che siano nove milioni.

Al polo opposto del turista sessuale c'è poi il pantofolaio, che, senza muovere un passo da casa, può accedere a una quantità di materiale assolutamente inaudita. Per lui vengono girati, nella sola California, circa diecimila film porno all'anno, che generano un giro d'affari, nel mondo, di oltre 50 miliardi di euro. Per visionare tutto questo ben di dio, il pantofolaio non deve più neppure prendersi il disturbo di andare in una videoteca ad affittare il film (benché molti continuino a farlo: se nell'85 venivano affittate, negli USA, 75 milioni di cassette porno, nel '96 erano passate a 665 milioni...). Gli basta accendere il piccolo schermo per ritrovare, sulle emittenti satellitari, il meglio della produzione mondiale. In Europa, poi, perfino la televisione analogica in chiaro, dopo una certa ora, si scatena. Ed è tutto un fiorire di dibattiti ammiccanti e di televendite a esplicito contenuto sessuale. In Italia, si calcola che ci siano cinquecento emittenti locali che, per sopravvivere, puntano sul sesso dopo la mezzanotte. Dell'idillio tra la pornografia e un altro piccolo schermo, quello del computer, poi, si sa già tutto. Il sesso, com'è noto, genera un quarto di tutto il traffico su internet e ne rappresenta il business numero uno.

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«La poesia esiste nei fatti. Le capanne zafferano e ocra in mezzo al verde della favela, sotto il blu del cielo, sono fatti estetici». Si apre con queste parole il manifesto Pau Brasil con il quale, all'inizio degli anni venti, Oswald de Andrade inaugura la stagione del modernismo brasiliano. Non c'è da stupirsi che sia stato un humus del genere a partorire, qualche anno più tardi, il primo e il più bell'inno letterario all'ibridazione dei popoli e delle culture che sia mai stato scritto. «Ogni brasiliano, anche quando è biondo e bianco di carnagione, ha nell'anima l'ombra e il segno dell'indigeno o del nero [...]. Nel nostro modo di essere teneri, nella nostra mimica eccessiva, nel nostro cattolicesimo che è una delizia dei sensi, nella nostra musica, nel nostro modo di camminare, di parlare, nei canti che hanno cullato la nostra infanzia, l'influenza nera è evidente». Sono parole scritte nel 1933 (sì, proprio l'anno in cui Hitler prendeva il potere in Germania...) da Gilberto Freyre, il fondatore dell'identità brasiliana contemporanea.

In un'epoca nella quale la purezza razziale era considerata, anche nella civilissima Europa, un bene da salvaguardare contro la decadenza corruttrice del meticciamento, Freyre ha intonato un inno, per metà saggio scientifico e per metà opera letteraria, all'incrocio delle razze. Considerando, per la prima volta, lo straordinario patrimonio di mescolanza razziale e culturale brasiliano come una ricchezza, una risorsa per il paese, anziché come un handicap irrecuperabile.

Valorizzando la pluralità, la tolleranza, la dimensione relazionale del carattere brasiliano, Freyre ha liberato le élites dai loro complessi. Meglio ancora, ha dato coraggio a intere generazioni di intellettuali e di artisti che, sulla sua scia, hanno fatto fruttare le risorse della cultura nazionale. Nel ricordo di Jorge Amado, il grande scrittore bahiano, la cosa più straordinaria fu veder sorgere, in quell'ambiente provinciale, un uomo di studi universitari che non fosse straniero e frequentasse i candomblé, apprezzasse la buona cucina brasiliana e riconoscesse la cachaça migliore. Un uomo avido di vivere e di ridere che insegnava che solo vivendo si può imparare la scienza dei libri.

A partire da quel momento, ispirato dalla riscoperta delle città barocche del Minas Gerais, infiammato dai balli del carnevale di Rio, un manipolo di artisti comincia a rendersi conto della ricchezza della cultura brasiliana. Non quella, asfittica, delle élites, bensì quella, esuberante, del popolo delle campagne e delle favelas. Si inaugura, così, la dinamica culturale che offrirà al Brasile e al mondo intero, prodotti diversi come il samba e le telenovelas, la bossa nova e il tropicalismo.

È una dinamica che si fonda su due meccanismi: in orizzontale, la tendenza a combinare culture, tradizioni, materiali provenienti da origini diverse sulla quale si basa la ricchezza della cultura popolare brasiliana: in verticale, la capacità, da parte delle élites culturali, di pescare in questo bacino, anziché imporre dall'alto soluzioni preconfezionate. Contribuendo, così, allo sviluppo di una sorta di cultura pop ante litteram, che abbatte le gerarchie in un continuo gioco di scambi fra l'alto e il basso, il sublime e il triviale, l'aristocratico e il popolare.

È questo duplice sincretismo, orizzontale e verticale, che ha consentito al Brasile di assumere un ruolo così importante nell'immaginario collettivo dell'Occidente. Questa capacità, ancora più spiccata di quella americana, di produrre un universo pop, fatto di musica e di futebòl, di giallo-verde (i colori più visti sulle T-shirt dei teenager di tutto il mondo in questi ultimi anni) e di minuscoli costumi da bagno, che, se solo avesse avuto alle spalle una potenza economica un po' più solida, avrebbe sbaragliato facilmente ogni concorrenza.

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Un secolo prima di Lévy, un altro intellettuale era andato a cercare nel fondo della giungla africana il cuore nero dell'animo umano, spogliandolo di tutte le illusioni moderniste. Era il Conrad di Cuore di tenebra. Ma ciò che più colpisce è che la stessa scoperta, proprio nel 1902, la fece anche un altro grandissimo scrittore, gravemente misconosciuto al di fuori dei confini del Brasile. Proprio come Cuore di tenebra, Grande Sertao è il racconto del viaggio di un uomo, che parte dalla capitale di un impero che si crede civilizzato, per raggiungere i suoi confini più remoti. E lì, proprio come Conrad, Euclides da Cunha trova l'orrore. Grande Sertao, infatti, è la storia di una comune indipendente, fondata a Canudos, sull'altopiano semidesertico del Brasile centrale, da Antonio Conselheiro, una sorta di leader carismatico. Retta dalle proprie leggi, fondata su una mistica comunitaria e arcaica, Canudos spaventa le autorità della neonata repubblica brasiliana che tentano, a più riprese, di sradicarla. Finché. essendo fallite le prime spedizioni contro la città, inviano un esercito regolare di migliaia di uomini, con il compito di raderla al suolo. Ed è proprio la violenza di questa spedizione, tanto più barbarica in quanto compiuta nel nome del progresso, che da Cunha racconta con terribile realismo.

Grande Sertao è il romanzo fondatore del Brasile. Come Moby Dick incarna l'epica americana della lotta individuale contro le avversità, il racconto di da Cunha restituisce il contrasto, sempre ripetuto nella storia brasiliana, tra il razionalismo modernizzatore delle élites, che non esitano a produrre enormi violenze pur di imporre la propria visione astratta delle cose, e le radici arcaiche, meticce e profondamente umane di un popolo che si sottrae a tutti gli schematismi. In forma diversa, infatti, la storia di Canudos è anche quella di Brasilia, la bellissima capitale costruita ex novo, nel mezzo del Sertao, applicando integralmente i precetti modernisti di Le Corbusier. O anche quella delle favelas che, nate proprio con il ritorno a Rio delle truppe inviate a Canudos, sono state alternativamente ignorate o aggredite dalle autorità fino al 1994, anno in cui, finalmente, ha preso il via un programma di urbanizzazione e di fornitura di servizi pubblici essenziali che affronta il problema in termini realistici.

A ben vedere, però, l'interesse di Grande Sertao va ben al di là dei confini brasiliani. All'alba del XX secolo, da Cunha è andato a scovare la barbarie che può rinascere in ogni momento da una modernità mal digerita. Nel suo racconto c'è, per la prima volta, in stupefacente sincronia con l'intuizione conradiana, una critica modernista della modernità, che dimostra fino a che punto l'eccesso di razionalismo possa condurre ad una paradossale rinascita dell'irrazionalità. È la storia che abbiamo visto ripetersi nel corso di tutto il XX secolo e che continua tuttora a perseguitarci. Come non vedere, infatti, fino a che punto colgono nel segno quegli osservatori, come John Gray, Ian Buruma, Paul Berman, che hanno rintracciato le origini dell'islamismo radicale nella cultura positivista occidentale? Proprio come fascismo e comunismo, infatti, l'Islam radicale è moderno. «Sebbene pretenda di essere anti-occidentale, è formato tanto dall'ideologia occidentale quanto dalle tradizioni islamiche. Allo stesso modo dei marxisti e dei neoliberisti, anche gli islamici radicali concepiscono la storia come il preludio a un mondo nuovo. Tutti sono convinti di poter riformare la condizione umana. Se esiste un solo mito moderno è questo».

Ma, al di là di una messa in guardia contro gli eccessi e i contraccolpi della ragione, Grande Sertao contiene una lezione forse ancor più fondamentale. C'è, nel cuore dell'animo umano, una parte maledetta che nessun processo evolutivo, per quanto avanzato, potrà mai cancellare. È quella pulsione sanguinaria e distruttiva che gli antichi conoscevano bene e che i lumi ci hanno illuso di poter cancellare. Nell' Iliade, Omero ci ha raccontato che ci saranno sempre uomini che preferiscono l'eccitazione della guerra alla noia della pace. E, da allora, poeti e scrittori non hanno cessato di ricordarcelo. Chi finge di dimenticare questa verità tragica lo fa a suo rischio e pericolo.

C'è, nel pensiero illuminista e nei suoi epigoni posteriori, la radice di un equivoco che continua a mietere vittime incolpevoli. È quell'ottimismo sulla natura umana in virtù del quale i grandi macellai del XX secolo hanno perpetrato i loro crimini più efferati. Se il male non appartiene alla natura umana, se esiste la possibilità di sradicarlo una volta per tutte e di ottenere il Bene assoluto, ecco che ogni mezzo diventa legittimo pur di raggiungere la Terra Promessa. E si giustificano i lager e i gulag, gli arcipelaghi del terrore e quelli dell'orrore.

Ci sono tracce di questo ottimismo di stampo illuministico nel fanatismo degli integralisti di ogni angolo del pianeta. Ma, come ci ha spiegato Baudrillard, lo stesso totalitarismo buonista è all'opera nel cuore della modernità. E sta nella nostra pervicace convinzione di poter stanare il male in tutte le sue forme, per dare vita a un Impero del Bene. Baudrillard ne vede la prova nel mondo perfetto della tecnologia digitale, all'interno del quale suoni e immagini, costruiti ex nihilo, nascono privi di ogni difetto, senza alcun margine per la vaghezza, il tremolio o il caso. Fino ad arrivare all'Uomo Integrale (e ideale) «rivisto e corretto dalla genetica [...] purgato di ogni accidente, di ogni patologia fisiologica o caratteriale».

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Pagina 103

In modo analogo, nella società brasilianizzata, le garanzie sociali tendono a saltare, di fronte al dilagare della paranoia sociale. Oggi, infatti, siamo anche noi di fronte a un nemico senza volto, immersi in un contesto nel quale «non solo gli stessi terroristi sono sempre meno intenzionati a dichiararsi responsabili delle loro azioni, ma anche le misure statali anti-terroriste sono circondate da un velo di segretezza». Le capitali dell'economia immateriale del XXI secolo ripiombano, così, nella cupa atmosfera delle città cinte d'assedio dalla morte nera.

A Milano, nel 1630, la gente si avventurava per strada solo se munita di un'arma, con la quale tenere a debita distanza chiunque potesse rappresentare una minaccia di contagio. A New York, nel 2002, Woody Allen consiglia al suo giovane protetto di munirsi di un kit di sopravvivenza, comprensivo di fucile a canna mozza. Nel 1348, a Tarrega, in Spagna, tremila ebrei venivano linciati al grido di «Morte agli untori!». Nel 2005 a Guantanamo, Cuba, centinaia di presunti terroristi sono detenuti in condizioni inumane senza aver diritto alla minima tutela legale, neppure quella prevista dalla Convenzione di Ginevra per i prigionieri di guerra.

Ma le analogie non finiscono qui. La peste colpisce tutti. Ricchi e poveri, donne e bambini, giovani e vecchi. La grande falciatrice è una livella, che mette tutti sullo stesso piano, accomunandoli nella condizione di vittime. Al contrario della guerra tradizionale, la guerra epidemica che stiamo iniziando a conoscere ha la stessa caratteristica. Logica prosecuzione dei bombardamenti a tappeto della seconda guerra mondiale, che, per la prima volta, misero in prima linea civili inermi, la guerra epidemica dissolve la cesura, valida durante la guerra fredda, tra un mondo militare mobilitato e una società civile in pace. Quest'ultima tende, di conseguenza, come abbiamo visto nel quinto capitolo, a militarizzarsi.

Terzo elemento comune, la peste è improvvisa. Tra l'annuncio dei primi casi e la strage di migliaia di cittadini, passano pochissimi giorni. Di conseguenza, è la peste stessa ad avere l'iniziativa. Ai cittadini non rimane alcun margine per formulare progetti. Tutt'al più possono prendere qualche precauzione. Ma sempre con la consapevolezza che la peste potrebbe piombare all'improvviso, sovvertendo tutti i loro piani.

È di queste condizioni che si nutre la spirale carnevalesca. Quando l'incertezza supera il livello di guardia, perfino le strategie di risposta che abbiamo esaminato nei due capitoli precedenti, appaiono insufficienti. Rispetto a due linee di condotta, la prevenzione e l' amor fati, che mirano a confrontarsi con la tragedia, molti scelgono una terza soluzione: la fuga. Che non risolve il problema, ma ne rimuove la consapevolezza e consente almeno di continuare a vivere, come prima, se non meglio.

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