Copertina
Autore Gabriella D'Amato
Titolo Storia del design
EdizioneBruno Mondadori, Milano, 2005, Sintesi , pag. 226, ill., cop.fle., dim. 170x220x13 mm , Isbn 978-88-424-9165-1
LettoreFlo Bertelli, 2005
Classe design , arte , storia della tecnica , paesi: Germania , paesi: Giappone
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Indice

INTRODUZIONE                                       IX

1.  IL DESIGN DELL'ARTIGIANATO

    1900. L'VIII mostra della Secessione a Vienna   1
    1903-1932. La Wiener Werkstδtte                 7

2.  IL DESIGN DELL'INDUSTRIA

    1903. Il fordismo a Detroit                    17
    1907. Il Deutscher Werkbund a Monaco           27
    1907. L'Aeg a Berlino                          36

3.  IL DESIGN DELL'AVANGUARDIA FIGURATIVA

    1912. Il Cubismo cecoslovacco                  42
    1915. La ricostruzione futurista dell'universo 49
    1917. De Stijl: dal quadro al mobile           55

4.  IL DESIGN TRA PEDAGOGIA E IDEOLOGIA

    1919-1933. Il Bauhaus tra Weimar, Dessau e
               Berlino                             59

5.  IL DESIGN TRA NOSTALGIA E MODERNISMO

    1925. Parigi: un passato sempre presente       83
    1925. Parigi: un Modernismo integrale          93
    1923-1930. Italia: dalle Biennali
               tradizionaliste alle Triennali
               razionaliste                       102

6.  LA COSTELLAZIONE SCANDINAVIA

    Senza data. La tradizione classica
                e la tradizione nordica           119

7.  IL DESIGN MADE IN USA

    1940. Una svolta nel furniture design         136

8.  L'ITALIAN STYLE

    1946-1980. Il recupero del tempo perduto      158

9.  IL CASO DEL GIAPPONE

    Dal 1854 a oggi: un postmoderno dal cuore
                     antico                       178

10. EPILOGO

    Fine 1900-inizio 2000: cosa è cambiato?       193

BIBLIOGRAFIA                                      209

INDICE DEI NOMI                                   221


 

 

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Pagina IX

Introduzione



[...]

Nondimeno, superati tali pregiudizi, e assunta come ipotesi non la definizione, ma il manifestarsi del design come fenomeno formato da quattro momenti interagenti – progetto, produzione, vendita e consumo – si può muovere proprio dal concetto di storia per inquadrare le vicende del design secondo i tradizionali capisaldi della storiografia.

Riferendoci al classico binomio res gestae e historia rerum gestarum con il quale si indicano, rispettivamente, gli avvenimenti e la storiografia, precisiamo come a quest'ultima sia possibile applicare i seguenti criteri: a) l' individualità, o unicità, che considera l'evento storico come unico e irripetibile, con tutta la problematica che ne consegue; b) la causalità, la quale può essere generata, come accade in prevalenza, da fattori eteronomi (economici, politici, sociali), oppure da opere precedenti che, avendo sussunto i motivi esterni, li trasferiscono all'opera successiva, modificata soltanto nella forma; c) la selettività, che rivela il significato o l'importanza denotata dall'evento per la scelta storiografica.

Assumiamo quindi tali capisaldi come altrettanti binari su cui far scivolare questa Storia del design. Il principio di individualità consentirà di riconoscere gli eventi tenendo conto del fatto che essa, come ci ha avvertito Lévi-Strauss, non dipende dalla singolarità dell'evento o dalla grande personalità artistica, ma prevalentemente dalla scelta compiuta dallo storico in funzione del significato che intende ricercare. Di conseguenza, l'individualità di un evento può essere rappresentata da un accadimento singolo o dall'emergere di una personalità o di un gruppo; nondimeno potrà riferirsi a una serie di eventi ed epoche la cui determinazione, in vista d'un senso, li pone come fattori discontinui, ovvero come zone di storia.

Il principio di causalità, a sua volta, farà emergere tutte quelle relazioni, lontane o prossime, indispensabili al farsi dell'evento principale. Il principio di selettività, infine, è l'arma principale dello storico: gli consente di riconoscere eventi, aspetti e processi, di mettere in luce i valori che rendono l'evento stesso meritevole di una valutazione storiografica e di trascurare quei dati che rischierebbero di far perdere l'unità del racconto. In altri termini, gli permette di estrarre dal limbo delle res gestae gli episodi da elevare al rango di historia rerum gestarum.

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Pagina 17

2. Il design dell'industria


1903. Il fordismo a Detroit

Fin dall'Esposizione universale di Londra del 1851 l'incerto gusto inglese nel settore degli oggetti prodotti industrialmente si era dovuto arrendere di fronte all'estetica decisamente più sobria e funzionale delle locomotive, dei vagoni ferroviari e delle macchine agricole fabbricate dai "cugini" americani. L'Inghilterra vittoriana, come è noto, di lì a poco avrebbe riconosciuto la necessità di accendere un dibattito sulla riforma delle arti applicate che avrebbe imboccato due strade: quella del polemico rifiuto della macchina avanzato dalla cultura neogotica (Pugin, Ruskin e Morris), che si schierava a favore dell'artigianato, visto come detentore dei valori del passato; e quella del consenso verso la macchina — purché sostenuto da una estetica adeguata — avanzato da Henry Cole e dalla sua cerchia.

[...]

Il fattore tempo divenne ancora più determinante quando, intorno al 1900, in una fase di aumento della concorrenza, si capì che né la riduzione dei salari, né l'invenzione di nuovi strumenti sarebbero riuscite da sole ad aumentare la produzione e a diminuirne i costi. L'ulteriore passo avanti per l'ottimizzazione del lavoro fu dunque l'organizzazione scientifica dell'industria resa possibile dagli studi di Frederick Taylor (1856-1915). Sfruttando l'esperienza di capo operaio nella Midvale Steel Company a Filadelfia, perfezionata con i successivi studi di ingegneria, Taylor formulò una teoria secondo la quale, nel procedimento produttivo, andavano eliminati tanto i tempi morti quanto le operazioni lente tramite interventi più razionali e rapidi. Taylor iniziò i suoi studi sperimentali verso l'ultimo quarto dell'Ottocento ma fu solo nel 1906 che diede compiuta formulazione alla teoria di cui si sarebbe giovata l'organizzazione scientifica del lavoro in fabbrica.


Invero, il problema dell'organizzazione scientifica del lavoro era già stato posto negli Stati Uniti alla fine degli anni sessanta dell'Ottocento, prendendo le mosse da presupposti di ordine sociologico più che produttivo e pensando all'ambiente domestico piuttosto che alla fabbrica. L'emancipazione della donna dalla schiavitù dei lavori domestici, infatti, era stata avviata dalle sorelle Catherine e Harriet Beecher (autrice, quest'ultima, della Capanna dello zio Tom), provenienti da una famiglia di predicatori protestanti del New England. Coniugando le esigenze pratiche dell'economia domestica con i temi della parità dei sessi (tipica dell'etica puritana) e con quelli umanitari dell'abolizione del personale di servizio, il libro delle sorelle Beecher, The American Woman's Home (1869), prendeva in considerazione la nascita di un nuovo tipo di abitazione, di dimensioni ridotte e perciò più pratica da gestire.

In tale ambito, l'organizzazione della cucina costituiva un tema di fondamentale importanza. Limitando gli sprechi di tempo ed energia dovuti agli inutili andirivieni dal fornello all'acquaio, alla dispensa e alla camera da pranzo, le sorelle Beecher proposero un più razionale sfruttamento dello spazio e del tempo destinando precise zone alla conservazione, al lavaggio, alla preparazione e alla cottura degli alimenti. Illustrarono le loro proposte con disegni in cui venivano anche efficacemente rappresentati l'altezza dei piani di lavoro al di sopra e al di sotto dei quali erano disposti, rispettivamente, mensole e mobili contenitori. In pratica, era nata la prima idea della cucina "all'americana" che sarebbe andata via via perfezionandosi grazie anche ai contributi successivamente maturati in Europa.

Il lavoro femminile negli Stati Uniti era stato inoltre alleggerito e reso più spedito dalle macchine per cucire (quella di Isaac Merrit Singer è del 1851) nonché da vari apparecchi generatori di calore e alimentati dall'energia elettrica: stufe, tostapane, ferri da stiro, radiatori, ventilatori, lavatrici, aspirapolvere. Cominciavano anche a comparire gli "elettrodomestici da salotto": il telefono di Bell (1856); il fonografo a cilindro di Edison (1877), il fonografo a dischi di Berliner (1888). Le case degli americani, specialmente quelle del ceto medio, si andavano poi affollando di nuove invenzioni meccaniche per il comfort: i cosiddetti mobili brevettati dei quali i disegnatori tecnici calibravano articolazioni, cerniere, congegni di sicurezza e sistemi di irrigidimento. Per la loro trasformabilità essi risultavano in grado di moltiplicare le funzioni degli spazi nelle case dei meno agiati; per il loro anonimo stile ispirato alle macchine si adattavano a qualsiasi ambiente; per la loro efficienza si apparentavano con i tavoli operatori, le poltrone da barbiere, le sedie a sdraio e i letti delle carrozze ferroviarie.

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Pagina 158

8. L'Italian style


1946-1980. Il recupero del tempo perduto

Traendo spunto ancora una volta dalle parole di Lévi-Strauss, va qui ricordato come la storia risulti «un insieme discontinuo formato da zone di tempo, ciascuna delle quali è definita da una frequenza propria, e da una codificazione differenziale del prima e del poi». Ciò significa che per codificare alcuni periodi occorrono molte date e per altri meno, a seconda della quantità di eventi registrati; parleremo quindi, rispettivamente, di una cronologia, o codice, "forte" e di una cronologia, o codice, "debole".

Tale riflessione torna opportuna per introdurre il codice "forte" dell'Italian style, ovvero di quel marchio inconfondibile con cui il nostro paese, a partire dal secondo dopoguerra, ha accelerato il passo per conquistare un ruolo di guida nel settore del design.

Le caratteristiche di tale stile ci inducono a modificare il consueto schema. Mancheranno le premesse, le vicende del design italiano tra le due guerre, mentre la narrazione dell'evento subirà, per così dire, un'estensione, in quanto sarà più logico parlare di una serie di eventi – economici e linguistici, di continuità e di crisi, di innovazione e di reazione, di idee e di prassi – che, malgrado la loro eterogeneità, si sono rivelati tutti concomitanti per articolare un panorama storico-critico già denso ed estremamente complesso.

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Pagina 164

Non potendo menzionare tutti i significativi contributi di questo periodo, ci limitiamo a ricordarne almeno alcuni che cambiarono sensibilmente le abitudini domestiche degli italiani. La macchina per cucire "Bdu" della Necchi, comparsa alle soglie degli anni cinquanta, offrì alle casalinghe alcune prestazioni tipiche dei macchinari di uso industriale. A loro volta, i televisori, le radio e gli stereo, con la loro linea elegante, resero più esteticamente allettanti, oltre che più gradevoli, le serate degli italiani: un'intera epoca fu contrassegnata dall'apparecchio radio a doppia valva TS 502, e dai televisori Algol 11 (1964) e Black ST 201 (1969), disegnati da Marco Zanuso e Richard Sapper per la Brionvega, oppure dal radiofonografo stereofonico RR 126 progettato, ancora per la Brionvega, da Achille e Pier Giacomo Castiglioni.

Intanto, nel mondo del lavoro, assieme ai sistemi d'arredo per ufficio, facevano il loro ingresso macchine per scrivere e calcolatrici di nuova linea. Dopo il 1945, rinnovati gli impianti e riprese le lungimiranti iniziative dell'anteguerra, Adriano Olivetti affida al grafico Giovanni Pintori e al designer Marcello Nizzoli la riconfigurazione della linea estetica dell'azienda: nel 1948 esce la Lexicon 80 (progettata per la parte meccanica dall'ingegner Giuseppe Beccio) e nel 1950 fa la sua comparsa la celebre Lettera 22, due modelli la cui scocca, ottenuta per pressofusione, permetteva di rivestire i meccanismi interni mediante un involucro molto plastico e smussato, evocatore di una forte immagine di continuità.

Infine, la calcolatrice MC4S Summa, disegnata da Nizzoli su progetto tecnico di Natale Cappellaro, può essere considerata l'antesignana di una serie di fortunati modelli – Elettrosumma 14, Divisumma 14, e Summa 15 – sfociati nella famosa Divisumma 24 (1956), riconoscibile per la distinzione tra le parti sottolineata dal diverso colore degli elementi.

L'Italian style deve la sua fama soprattutto a quella "terza forza" produttiva, a metà strada fra artigianato e industria, che ha trovato il suo campo d'azione specialmente nel settore dell'arredo.

Recentemente battezzata "artidesign", tale modalità di produzione, pur essendo animata da un costante orientamento verso la serialità, ne ha tuttavia trasformato il concetto grazie ai mezzi di lavorazione di cui si serve: macchine utensili più complesse degli attrezzi artigianali, ma meno costose e vincolanti dei macchinari della grande industria. Le prestazioni di tali macchinari, infatti, consentono di programmare piccole serie di prodotti, magari molto differenziate tra loro; di intervenire sul progetto quando lo si reputi suscettibile di migliorie; di dirottare temporaneamente la produzione su altri modelli; di orientare la progettazione sulle effettive richieste del mercato; di prefigurare le forme in funzione delle macchine utensili e non i macchinari in funzione delle forme; di trasformare i prodotti della grande industria – lavorati e semilavorati – grazie alla conoscenza artigianale delle tecniche di lavorazione. Queste e altre prerogative, in definitiva, permettono di introdurre nel procedimento seriale alcuni gradi di libertà rivelatisi ragione ed effetto, al tempo stesso, della creatività e della ricchezza specifici del prodotto di design italiano.

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9. Il caso del Giappone


Dal 1854 a oggi: un postmoderno dal cuore antico

Come spesso accade, le idee più fortunate nascono per caso. Si dice infatti che nel 1979 un giovane tecnico della Sony, per riuscire ad ascoltare la musica durante l'ora di pausa, abbia costruito un piccolo apparecchio per uso personale modificando un precedente modello di registratore. Nasceva così il walkman, un oggetto destinato a incontrare un successo davvero clamoroso se si pensa che dopo soli quattro anni ne erano già stati venduti quattro milioni di esemplari; ma anche un oggetto in grado di cambiare molte nostre abitudini consentendoci un piacevole e temporaneo isolamento dal mondo grazie a un ascolto individuale e "tascabile". Nel 1957 la stessa casa aveva lanciato la prima radiolina portatile a transistor facendo seguito alla produzione di apparecchi televisivi e anticipando quella di stereo, videogiochi e videoregistratori. Θ innegabile, quindi, che se oggi riusciamo ad ascoltare musica ad alta fedeltà con la stessa resa acustica dei migliori teatri del mondo, se ci è permesso di assistere a spettacoli cinematografici esclusivi senza spostarci dalla nostra poltrona, se siamo in grado di viaggiare su auto di provata sicurezza e di prezzo accessibile, se fotografiamo rapidamente con gli effetti dei grandi professionisti dell'obiettivo; se comunichiamo con il telefono cellulare a livelli sempre più apprezzabili, lo dobbiamo in gran parte al design giapponese.

Ma se l'indiscutibile successo di quest'ultimo è sotto gli occhi di tutti, meno evidente appare invece la natura di tale successo, tant'è che talvolta gli è stato mosso il rimprovero di essere più denso di problemi che di soluzioni. Tuttavia, a noi sembra che quella del Sol levante si collochi tra le esperienze di design più interessanti del nostro tempo, in quanto il Giappone è riuscito a sfruttare positivamente quella che Sartre definiva «l'unità contraddittoria delle culture di origine e storia diversa».

Per individuare l'inizio dell'occidentalizzazione del Giappone (o della giapponesizzazione dell'Occidente?) non bisogna andare troppo indietro nel tempo: basta fermarsi al 1854, anno dello sbarco del commodoro Matthew Calbraith Perry nella baia di Uraga. Quest'azione di forza degli Stati Uniti nasceva principalmente dalla necessità di ottenere scali di rifornimento a metà rotta tra la California e la Cina, apertasi alle relazioni con l'estero dopo la "guerra dell'oppio" (1840-42). Ma anche al Giappone conveniva avviare rapporti commerciali con gli Stati Uniti, visto che secoli di ostinato isolamento avevano condannato il paese all'arretratezza materiale e al pericolo della perdita di indipendenza. Cause così determinanti spinsero il principe Mutsuhito a intraprendere, nel 1868, un'opera di modernizzazione a tutto campo ponendo termine, in primo luogo, al dominio dei capi militari locali (shogun). Nell'epoca definita Meiji (illuminata) e durata fino al 1912, la capitale viene spostata da Kyoto all'antichissima città di Yedo ribattezzata, per l'occasione, Tokyo. E mentre il rapido sviluppo demografico e industriale spingeva il Giappone ad accarezzare mire espansionistiche nei confronti del resto dell'Asia, il processo di mimetizzazione con l'Occidente diventava l'obiettivo principale di tutto un popolo. Nel settore economico si adottava il sistema capitalistico, in quello politico venivano promulgate costituzioni sui modelli di quella francese prima (1869), e di quella prussiana poi (1889); in politica estera si perseguiva una penetrazione politica e commerciale nel continente. Ben presto fu inevitabile che anche la cultura seguisse lo stesso indirizzo, anzi, in questo campo, fra Oriente e Occidente si avviò un singolare processo di osmosi.

A partire dall'apertura delle frontiere nipponiche, in Europa il japanisme soppianta nel gusto degli europei la predilezione per le chinoiseries di moda fin dal Seicento. Lanterne di carta, mobiletti bassi, paraventi laccati, stuoie e ventagli affollano le dimore più alla moda mentre il culto del Sol levante è alimentato da libri sull'arte nipponica quali Utamaro (1891) e Hokusai (1896), di Edmond de Goncourt, o da romanzi come Madame Chrysanthème (1887) di Pierre Loti.

[...]

Con più probabilità, invece, quello giapponese è stato un Good design ante litteram, e per varie ragioni: il legame con la tradizione non è mai degenerato in forme dialettali, come dimostra il celebre sgabello Butterfly di Sori Yanagi (1915), premiato alla Triennale di Milano del 1957; il rapporto con la storia non è mai scaduto in soggezione verso la cultura alta e, quindi, è stato vissuto con serenità e distacco – si pensi che il disegno delle imposte in legno e quello dei pannelli scorrevoli della villa imperiale Katsura hanno ispirato il fronte della radio da tavolo National (1953) di Zenichi Mano; il rispetto per il lavoro artigianale ha consentito di apprezzare come altrettanti pregi l'imperfezione, l'irregolarità e l'asimmetria e, d'altra parte, ha evitato il complesso d'inferiorità nei confronti della lavorazione meccanica, come dimostra il fiorente settore del migliore japanisme attuale. Infine, una naturale predisposizione alla decorazione e all'uso del colore, assieme all'utilizzo della citazione, si è rivelata valida nella manipolazione di forme di varia estrazione, tant'è che negli anni ottanta, i designer giapponesi poterono conquistare la Milano capitale del Neomodern interpretando tale tendenza meglio dei designer italiani che l'avevano inventata. Lo conferma la poltrona Wink (1980) progettata da Toshiyuki Kita, con una seduta bassa per ricordare l'uso giapponese di sedere sul pavimento e uno schienale all'occidentale, per di più rallegrato da orecchie colorate piegabili in varie posizioni. Per queste e altre ragioni si può azzardare che il design giapponese, in fin dei conti, abbia dato da sempre lezioni di modernità all'Occidente, motivo per cui, a differenza di quest'ultimo, non ha neppure avuto il bisogno di mettere in crisi il moderno: a ben vedere, infatti, era fin troppo chiaro che esso conteneva in sé anche i germi di quello che verrà definito postmoderno.

Infine, se uno dei punti di forza del design giapponese è stato proprio il rapporto con la tradizione, c'è da chiedersi se e come sia riuscito a utilizzarla anche per oggetti nati dall'alta tecnologia, che con la tradizione non avevano invece alcun rapporto. Come è stato recentemente osservato:

In un'economia interamente proiettata verso l'esportazione, e per contro il più possibile chiusa alle importazioni, il problema della forma dei prodotti industriali si è posto come individuazione di modelli capaci di interpretare un generico gusto "moderno" che non è frutto della cultura d'origine, ma solo una strategia di mercato. La forma che ne è derivata, garantita dall'azzeramento delle differenze, è stata legittimata unicamente dalla prepotente identità tecnica degli oggetti. Si potrebbe addirittura parlare di una "forma della tecnica", rimasta però espressione della struttura economica giapponese, non della cultura del Giappone."

Tale giudizio è certamente condivisibile, anche se con qualche riserva. Maneggiamo di continuo calcolatrici, cineprese, computer, macchine fotografiche su cui spiccano i marchi Sharp, Canon, Nikon, Olympus, Sony. Con le loro forme compatte, pulite ed essenziali, questi oggetti sono entrati a far parte della nostra vita; non li sentiamo assolutamente estranei: anzi, li cerchiamo come presenze amiche. Forse perché – come asseriscono i componenti del gruppo di design GK, fondato negli anni cinquanta –, per i giapponesi immettere il "cuore" e lo "spirito" nei dogu (attrezzi) non è che la creazione di una relazione intimamente profonda fra l'uomo e gli oggetti.

Ma, al di là di sensibilità e filosofie orientali, probabilmente gli oggetti tecnologici giapponesi ci piacciono per quel carattere di minimalismo che pure è parte integrante della tradizione nipponica e che, anche in campo architettonico, fornisce prove apprezzabili come la più recente produzione di Tadao Ando. Grazie a questo aspetto, il design nipponico non solo è riuscito a conquistare quell'"orgoglio della modestia" tanto caro al moderno europeo, ma soprattutto quella "internazionalizzazione del gusto" che è forse il risvolto più positivo dell'odierna globalizzazione.

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10. Epilogo


Fine 1900-inizio 2000: cosa è cambiato?

A metà degli anni ottanta, anche per il design parve essere giunto il momento di mettere in discussione alcune delle incrollabili certezze che lo avevano guidato per gran parte del secolo. Una delle occasioni di verifica fu posta dalla mostra tenuta al Centre Pompidou di Parigi nella primavera del 1985. Il materiale espositivo era stato scelto da Jean-Frannois Lyotard che, sotto il titolo Les Immateriaux, aveva raccolto pitture luminose, audiovisivi, ricerche di computer graphics, ologrammi e videogame, ovvero tutti quei fenomeni di smaterializzazione, di superficializzazione dell'esperienza e di trasformazione del rapporto dei soggetti con il mondo recentemente trasformati dalla tecnoscienza in sofisticati strumenti di comunicazione: sarebbero state queste, dunque, le nuove entità materiche con cui la postmodernità avrebbe dovuto confrontarsi.

Qualche anno prima, lo stesso Lyotard aveva alimentato il dibattito sulla fine della modernità distinguendo la sua posizione da quella del pensatore tedesco Jurgen Habermas: infatti, mentre quest'ultimo riteneva che il progetto moderno nato con l'Illuminismo avesse ancora qualche possibilità di attuazione, Lyotard, per converso, giudicava definitivamente archiviata la pretesa universalità di tale progetto e dei sistemi filosofici che lo avevano sostenuto. In altri termini, stimava tramontato il disegno di una logica lineare e globalizzante che, tendendo all'emancipazione dell'umanità, contemplasse lo sviluppo razionale delle scienze e delle arti in equilibrio con i fondamenti della morale, del diritto e della cultura. E se, in campo filosofico, la fine delle "grandi narrazioni" - non a caso gli anni ottanta avrebbero assistito al crollo dei grandi sistemi ideologici e politici, al prevalere dell'individualismo sulla collettività, alla frammentazione del reale con conseguente moltiplicazione dei punti di vista - veniva sostituita dal "pensiero debole", dall'ermeneutica e dallo sperimentalismo, in campo artistico, come proponeva Lyotard, andava esaltato specialmente il ruolo dirompente di quelle avanguardie decise a contrastare il sapere ufficiale della società dell'informatizzazione. Come scriveva infatti il pensatore francese:

Di fronte al tentativo di ridurre il linguaggio all'unità mercantile dell'informazione, che dovrebbe poter tradurre tutte le frasi, credo che — in mancanza di racconti legittimanti — ci sia una sola possibilità: lottare per questo lavoro di incomunicabilità, cioè di articolazione delle possibilità di frasi nuove. Questa lotta è condotta specialmente dagli artisti.

Il tema della postmodernità era strettamente connesso con quello della condizione postindustriale, anche se la prospettiva di un ritorno al modello agrario tipico delle società preindustriali appariva, ovviamente, debole e anacronistica. Più convincente, invece, risultava l'atteggiamento che identificava questa condizione con l'avanzare spedito delle nuove tecnologie — l'elettronica, l'informatica e la telematica — ormai avviate al sorpasso di quelle della tradizione meccanica.

Sorretto dal grande racconto di un'ideologia etico-estetica e dalla fiducia nel progresso della meccanizzazione, anche il design moderno aveva coltivato i suoi miti, riassunti in quella più volte ricordata logica lineare che, puntando sulla diffusione dei prodotti alle masse, si poneva come obiettivi primari la qualificazione, la quantificazione, il basso costo di produzione e, più di tutti, il basso prezzo di vendita.

Per una serie di cause, tale programma è rimasto irrealizzato; tuttavia, sebbene siano mancate linearità e compattezza in tutte le proposte successive, i suoi argomenti vanno ancora tenuti presenti come altrettanti termini di paragone rispetto ai quali valutare le trasformazioni (eventi e relative conseguenze) dell'attuale design.

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Pagina 203

Anche le brillanti riflessioni socio-semiologiche di Barthes e di Baudrillard hanno contribuito alla pars destruens della critica ai consumi. Nondimeno, gli stessi critici della società eterodiretta non mancavano di notare come la forza persuasiva della pubblicità, in definitiva, fosse meno potente di quanto si pensasse, come le varie propagande finissero con il neutralizzarsi reciprocamente, come il comando o la persuasione provocassero resistenze, contromotivazioni e reazioni alla ridondanza dei messaggi. Sia come sia, con il passare degli anni la critica al consumismo è passata a più miti consigli acquistando la consapevolezza che, a meno di non aggravare i problemi della disoccupazione che affligge gran parte del globo, i consumi non possono essere ridotti, ma al più ricondotti nell'alveo del sostenibile, e che l'eterodirezione va piuttosto incanalata in una dialettica criticamente avvertita fra produttori e consumatori. Da più parti, infatti, si è fatto strada il convincimento che la critica al mondo delle merci è tutto sommato un discorso da ventre sazio, visto che il vero male del consumismo sta nel fatto che solo una piccola parte del mondo ne gode, mentre tutte le altre ne rimangono escluse."

La quantificazione, altro caposaldo del design moderno, puntava su un prodotto dai costi tanto equilibrati da renderne accessibile il prezzo senza caduta della qualità. Oltre a quelle politiche ed economiche, una delle principali cause per cui questo programma è rimasto irrealizzato è certamente il fatto che ormai si può considerare tramontata l'idea stessa di massa. Con buona pace dei sociologi della scuola di Francoforte, la massa non è più l'oceano uniforme che si supponeva bensì un variegato arcipelago battuto da disordinate componenti comportamentali. Per cui oggi, paradossalmente, dobbiamo fronteggiare un magma di prodotti capricciosamente diversificati piuttosto che fruire di quelli attentamente studiati per la "massa" tradizionalmente intesa. Tuttavia, anche se grazie alle nuove tecniche ciascuno può giovarsi di varietà mai conosciute prima, è pur vero che bisogna scontrarsi con livelli di uniformità mai raggiunti prima. Il mondo delle automobili ci offre esempi sintomatici: tutti i modelli di marche differenti si somigliano in maniera impressionante, anche se ogni fabbrica si affanna a proporre al consumatore una personalizzazione del colore della carrozzeria e dell'interno.

Nondimeno, di fronte al proliferare dei prodotti e degli "ismi" con i quali essi vengono etichettati, di fronte alla perdita della massa come destinatario privilegiato, è spontaneo chiedersi a chi sia destinato tanto design. E, per rispondere a tale domanda, conviene porsi nell'ottica di quel variegato arcipelago di fruitori che ha sostituito la massa. Design funzionalista, organico, Radical design, Neomodern, Ecodesign, linea hard o linea soft, sono tutti soggetti e nomi agitati dagli addetti ai lavori ma che lasciano totalmente indifferente il pubblico dei disinformati. Termini quali antropocentrismo e società, tanto invocati da designer e critici, si risolvono solitamente in mere astrazioni, che non tengono conto delle reali esigenze di comunità condizionate storicamente da tradizioni, economie e specifici usi e consumi.

Il consumatore medio, infatti, percepisce il "fenomeno design" non come la presunta e globale esperienza cui si è teso in lunghi anni di battaglie, bensì come un valore aggiunto pertinente a ogni specifico campo: quello della carrozzeria quando acquista un'automobile; quello dell'arredamento quando acquista un mobile; quello degli elettrodomestici quando acquista una lavatrice, e così via.

Rispetto all'evoluzione del gusto, il pubblico ha percepito essenzialmente come fenomeno di moda il Razional-funzionalismo, il successivo diffondersi dell'organico mobile svedese, i prodotti della società opulenta degli anni sessanta, le ironie del design neomodern, la linea, infine, degli oggetti nati dalle nuove tecnologie, dei quali non coglie le costose difficoltà produttive ma solo l'alto costo al consumo e, in fondo, la viltà dei materiali.

L'informazione, peraltro, non dirada minimamente le nebbie della sua confusione: chi apre una qualsiasi rivista di design, prima del corpus dedicato agli specialisti si imbatte in una ridda di pagine pubblicitarie che, illustrando indistintamente di tutto – dal prodotto autentico a quello compromesso con la commerciabilità più esplicita, con il veteroartigianato e persino con il plagio –, non fanno che aumentare il disorientamento dei consumatori che, infine, trovano nell'alto prezzo dei prodotti il fattore risolutivo in grado di allontanarli dal design.

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