Autore Erri De Luca
CoautoreValerio Galasso
Titolo Spizzichi e bocconi
EdizioneFeltrinelli, Milano, 2022, Narratori , pag. 192, ill., cop.fle., dim. 14x22x1,6 cm , Isbn 978-88-07-03493-0
LettoreMargherita Cena, 2022
Classe narrativa italiana , alimentazione , citta': Napoli












 

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Indice


  7        Premessa

  9    1.  Digiuno
 17    2.  Il ragù
 23    3.  A tavola si combatte con la morte
 29    4.  Fame, sazietà, sete
 37    5.  Himalaya

 43    6.  Acqua di fontana e pane di forno
 51    7.  Osterie
 63    8.  La tràcina
 69    9.  Il sale
 77   10.  La torta con le fragole

 81   11.  Il sole
 87   12.  Umberto e le cene offerte
 93   13.  Il tacchino alla canzanese
 97   14.  Il latte
105   15.  L'ospite della vigilia

113   16.  La pasta
119   17.  Storia di Irene
131   18.  Il baccalà
139   19.  Biografia alimentare
159   20.  Il caffè
165   21.  Viaggi con Paola

171        Ricette di Emma e Lillina
           raccolte da Alessandra Ferri


 

 

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Pagina 7

Premessa



Una preghiera ladina a inizio pasto chiede al Signore di benedire "la spaisa".

Una benedizione ebraica a fine pasto dice: "Poiché abbiamo mangiato da ciò che è suo".

Altre formule di ringraziamento accompagnano pietanze e bevande.

Il cibo è stato trattato con devozione da ogni popolo.

Ha istigato digiuni ascetici, leggendarie astinenze.

È stato campo di battaglia del corpo dei prigionieri nei campi di concentramento, nelle prigioni.

Ha accompagnato siccità, carestie fino al cannibalismo.

Il cibo ha una storia spaventosa, eroica, miracolosa.

La scrittura sacra contiene narrazioni di provviste dal cielo.

La parola fame è stata più temuta della parola guerra, della parola peste, di terremoti, incendi, inondazioni.

Si è ammansita presso di noi nell'ultima virata di bordo del secolo, permettendo insieme alla medicina la prolunga inaudita dell'età media.

Si è costituita una scienza dell'alimentazione.

Lentamente le porzioni si sono trasformate in dosi, le etichette forniscono l'apporto in calorie.

Sono di un'epoca alimentare precedente a questa, basata sulla scarsa quantità e varietà. Mi è rimasto in bocca un palato grezzo, capace di distinguere il cattivo dal buono, ma povero di sfumature intermedie. Ho le papille del 1900.

Qui ci sono storie mie di bocconi e di bevande, corredo alimentare di un onnivoro.


Valerio Galasso, giovane biologo nutrizionista, completa queste pagine con la sua competenza. Come i buoni clinici di una volta, ha la dote della cortesia di informare e di farsi capire. Ascolta (qui legge), poi risponde e approfondisce (qui scrive) come fa con chi gli chiede una visita. Con lui imparo cosa fa il cibo, al di là della sazietà.

Trascritte da Alessandra Ferri, figlia di un fratello di mamma, sono riportate alcune ricette di nostra nonna Emma e di sua madre Lillina, da lei raccolte in nitida calligrafia. Le considero un documento necessario a ogni libro del 1900.


Oggi, un distaccato contegno di fronte alla pietanza fa schiudere appena la bocca per introdurlo. Perfino masticarlo con forza di ganasce in movimento è considerato sconveniente. È superata l'epoca della fame, è bene far vedere che ci si siede a tavola per convivialità, giammai per appetito.

Alle tavole dove sono cresciuto si spalancava bene l'apparato orofaringeo per ricevere la consistente forchettata, che perciò si chiamava boccone, niente a che vedere con il bocconcino.

Qui ci sono spizzichi e bocconi, storie di cibo familiare.

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Pagina 9

1.
Digiuno



Il sazio non crede al digiuno. Il proverbio risaputo da mio padre mi spiega il disavanzo alimentare tra malnutriti e pasciuti, su scala di pianeta.

"Mangia, che ci sono bambini che muoiono di fame." L'invito non poteva convincere, perché la fame è astratta per l'ignaro. È vagamente confusa con l'appetito, che si può tenere o non tenere.

La fame come la guerra è un vicolo cieco. Bisogna esserci stati senza via d'uscita, per sapere a cosa corrispondono. Perciò il sazio non crede al digiuno, e chi vede la guerra alla televisione assiste da illeso a distruzioni altrui.

La mia generazione nata in Europa a metà del 1900 è la prima ad avere solo sfiorato la fame e la prima a ignorare la guerra, privilegi impensabili per tutte le epoche precedenti.


Diverse persone della mia età hanno praticato almeno una volta un digiuno più o meno prolungato, in nome di pubblici motivi. È una forma di protesta civile che comporta dei rischi. Nel 2000 anno di Giubileo partecipai a una volontaria sospensione alimentare. Va con il nome di sciopero della fame, ma per rispetto della terribile parola preferisco dirla un'astensione volontaria dal cibo.

Fame è la più umiliante condizione umana, maledizione che perseguita l'umanità dai suoi esordi e ha spinto emigrazioni a spargimento. È privazione a oltranza, vergogna di provarla, disuguaglianza pura. Chi potendo nutrirsi sceglie di negarselo non rientra nella dannata inferiorità imposta dalla fame.


Nel 2000 il parlamento a camere riunite ricevette la visita del pontefice, che chiese all'assemblea un atto di riconciliazione e di amnistia. Fu congedato con un applauso e poi con una scrollata di spalle.

Dei detenuti sostennero la richiesta papale avviando una sospensione dell'alimentazione. Aderii alla proposta di alcuni cittadini di appoggiare nella stessa maniera dall'esterno.

Durò ventidue giorni. Conobbi la profondità di uno svuotamento, una debolezza sconosciuta eppure forte in determinazione. Avevo l'immagine di Teseo che s'inoltrava nel labirinto per uccidere il Minotauro. Le mie viscere erano il labirinto e il Minotauro era la fame. Mi esaltava il sentimento di poter dominare l'istinto. Col passare dei giorni sfumava nel pensiero il motivo di quella privazione. Diventava una sfida tra il mio corpo e me.

Quando fu deciso d'interrompere, fui tentato di proseguire. I primi bocconi furono respinti.


Il prigioniero decide di praticare questa severa protesta perché non riesce a farsi ascoltare in altri modi. Privato di libertà, di contatti, di voce, a un detenuto resta il corpo per comunicare. Quando i suoi pochi diritti vengono ignorati, mette a repentaglio la vita. Alcuni governi hanno lasciato e lasciano morire, per continuare a negare.

Nelle prigioni italiane ci sono molti suicidi. Chi si sospende il cibo, non lo è. Invece di arrendersi, la persona decide di battersi nell'ultima maniera che le resta. Si avvicina all'ultimo confine della resistenza e c'è una soglia di deperimento che non consente ritorno.

Nell'anno di Giubileo 2000 non mi avvicinai a quel bordo.


Nella guerra di Bosnia degli anni novanta del secolo scorso, molti italiani hanno organizzato spedizioni di soccorsi alimentari alle popolazioni coinvolte. Con loro ho conosciuto anche io le conseguenze della parola guerra, messa al bando dalla Costituzione italiana.

Fu un capillare assedio di città, quartieri, villaggi, case. La penuria di cibo incombeva nelle famiglie. I vecchi portavano con vergogna il cucchiaio alle labbra, ogni deglutizione era una in meno per i bambini.

In uno di quei viaggi, finita la distribuzione dei pacchi famiglia in un villaggio, mi era avanzato un grosso spicchio di formaggio, quasi mezza forma. Dal posto di guida vidi un vecchio che camminava appoggiato a un bastone. Fermai, scesi, offrii lo spicchio. Mi disse che non aveva di che pagarmelo. "Nishta," gli dissi, niente, non mi doveva niente.

Allora si confuse, non sapeva come prenderlo tra il bastone e il braccio libero. Infine l'abbracciò come fa un bambino con un giocattolo e s'incamminò tra le macerie.

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Caro Erri, il corpo umano è davvero una macchina perfetta capace di sopportare anche le condizioni più estreme. Ventidue giorni di digiuno sono tanti, non tutti resisterebbero a un periodo così prolungato senza riportare danni a organi o complicazioni varie. Ma, per quanto possa sembrare assurdo, i nostri geni - e di conseguenza il nostro organismo - sono ben equipaggiati per affrontare periodi di astinenza da cibo. Le indicazioni nutrizionali mondiali, alla portata di tutti, suggeriscono di non saltare i pasti, di nutrirci dalle tre alle cinque volte al giorno e di svolgere attività fisica regolare. Spesso dimentichiamo di muoverci, ma non di mangiare! La verità è che ci sovralimentiamo, consumiamo più di quanto il nostro corpo necessiti. Il cibo, inoltre, molte volte è di bassa qualità, con un eccesso di zuccheri semplici o di carboidrati (destinati a trasformarsi anch'essi in zuccheri) che non fanno altro che scatenare processi infiammatori e renderci sempre più dipendenti.

Quando invito i miei pazienti a ridurre il consumo di zuccheri, o addirittura a saltare un pasto una volta a settimana, non ti dico le facce che fanno. Il solo pensiero li terrorizza! Siamo stati abituati sin da piccoli a mangiare regolarmente almeno tre volte al giorno, a consumare pane, pasta, pizza, frutta, patate, croissant, latte, merendine, inconsapevoli che ognuno di questi alimenti contiene zuccheri che stimolano il rilascio di insulina, che a sua volta aumenta lo stato infiammatorio. Aumentare l'infiammazione significa creare un terreno fertile per patologie cardiovascolari, croniche, autoimmuni... Il modo per contrastarle c'è: mangiare meno.

La ricerca scientifica in ambito nutrizionale sta volgendo l'attenzione verso il digiuno intermittente o fasting, quotidianamente vengono pubblicati risultati su come la riduzione calorica (e una migliore qualità di alimenti) influenzi positivamente la prevenzione e il trattamento di alcune patologie. Forse ti stupirà, ma il motivo per il quale i nostri geni sono programmati per sopportare l'astinenza da cibo è che già i nostri antenati praticavano il fasting. Ora ti spiego.

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Pagina 17

2.
Il ragù



Salivano dal fondo della strada gli odori di cucine, a ogni rampa di scale si davano il cambio, a staffetta. La domenica si doveva sapere cosa succedeva nei piatti di ogni casa. Si cominciava dalla portineria, il primo fuoco acceso, il primo odore in viaggio nel vapore. "Donna Speranza ha ingignato i friarielli": la cucina della portiera a piano terra "ingignava", iniziava cuocendo ín olio e aglio le foglie di una varietà di broccoletto locale. L'odore amaro pungeva le narici ancora addormentate. "Nun ce fa piglià manco 'o ccafè," diceva una voce imbronciata nel primo risveglio.


Il friariello era più di un odore di pietanza, aveva l'arroganza dell'incenso, era per il palazzo il primo gas delle domeniche, nelle stagioni delle sere lunghe. Se ne saliva solitario e guappo fino ai lavatoi, passava per le scale, informava il cortile cupo, dove il sole non metteva piede e i panni si asciugavano per stanchezza. Qualche donna ritirava il bucato per non trovarselo insaporito di friarielli. Donna Speranza guardava in alto la fuga della biancheria e preparava il secondo assalto al cielo: il baccalà.


Già da due giorni stava a mollo nell'acqua per sciogliere il callo del sale. Lei lo faceva la domenica, da noi si processava il venerdì, scortato da una maggioranza di patate. Varianti più delicate si chiamavano e si chiamano ancora mussillo e coroniello. Oggi è pietanza pregiata, ma nella città di dopoguerra, che di carne parlava a Pasqua e carnevale, il baccalà e le alici erano proteine a buon mercato. Donna Speranza non andava a messa e non teneva immagini di santi nella portineria. Teneva invece appesa per arredo una bella treccia d'aglio.

"È devota a sant'aglio," diceva mio padre, unico socialista del palazzo, ateo per irritazione. La devozione popolare che invocava e bestemmiava tutti i nomi del calendario, gli strilli a squarciagola che costringevano la reliquia sanguigna a liquefarsi: gli torcevano il sistema nervoso. Era un ateo geografico, fosse nato al Nord sarebbe stato per temperamento un luterano. La domenica andavamo a pranzo dalla mamma di mamma, nonna Emma. Lei e sua nuora Lillina, dal venerdì sera si alternavano presso la fiammella minima che asciugava il ragù, rraù in lingua e palato locale. Il nostro arrivo a mezzogiorno in anticamera era accolto da un grido di ragù dritto nel naso. Quel sugo urlava, era uno stadio in piedi dopo un gol, era un abbraccio, un salto e una cascata dentro le narici.

Mai più potrò riavere quell'assalto al vertice dei sensi, che sta per me in qualche ghiandolina dell'olfatto.


A tavola condito con la pasta grossa, mai da me col formaggio che lo mortificava, mi sedevo composto, ma dentro di me stavo in ginocchio di fronte alla scodella. Era la mia porzione di manna, di pane dei cieli, apparecchiata da due sacerdotesse di fornelli, dai loro riti notturni. Erano bocconi che imponevano silenzio. A me si chiudevano anche gli occhi. Le forchette nei piatti raccoglievano il frutto della conoscenza. La bocca piena gorgheggiava una laude. Non ho temperamento mistico, ma quel poco che mi è toccato in sorte l'ho assaggiato, l'ho avuto sulla lingua, durante le domeniche d'infanzia.


Da loro due, Emma e Lillina, ho ricevuto poi notizie dettagliate per la composizione della parmigiana di melanzane, piatto preferito dell'età adulta, La preparavano facendo passare il frutto per tre fuochi. Tagliate a fette le melanzane le mettevano al sole, la fiamma più potente, ad asciugarsi d'acqua e addensare sapore. Poi le friggevano indorando di festa la cucina. Ultimo fuoco il forno, dopo averle distese a strati, ognuno ricoperto di sugo, basilico, mozzarella e la manciata di formaggio parmigiano. Tre fuochi concorrevano alla pietanza che meglio coincide per me con la parola casa. Ora che mi sono imposto l'astinenza da quel cibo, sconto un esilio alimentare.


Poco e niente ghiotto di dolciume, ammetto un'eccezione: la pastiera. La sua scacchiera di pastafrolla, il ripieno di grano, sono la promessa mantenuta di ogni primavera. La fine dell'inverno per me non sta nelle frecciate nere delle rondini, ma nell'arrivo da Napoli, in busta chiusa e l'ufficialità di un atto notarile, della pastiera spedita dal caro Mario Ferri. Niente zucchero a velo, che non è da pandoro la pastiera. Il coltello che incide la sua pienezza fa di me un Aladino che sfrega la sua lampada e ne sprigiona il genio. Quello della pastiera si accosta alla bocca per ascoltare il desiderio impossibile di ognuno. Il mio, una volta all'anno e senza muovere labbra, è di tornare a sedermi a quella tavola della domenica, dove nessuno era ancora mancato.

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Pagina 52

I versi non danno pane, dice un motto in latino, carmina non dant panem. A me diedero pure il companatico per la bella durata di dieci serate.

Queste righe vogliono essere un omaggio a loro, alle osterie. Aprivano al mattino e chiudevano quando usciva l'ultimo avventore.

A Roma ne frequentavo una a San Lorenzo insieme a marmisti, falegnami, pensionati. Incrociavano a mezzodì noialtri, una gioventù che trasformava in politica quello che toccava, anche l'osteria: diventava sede di assemblea. Si discuteva il fatto del giorno alla temperatura giusta del fervore tra i tavoli dove s'interrompeva la partita di briscola, tressette che per posta aveva il quartino o il mezzolitro. Accucciati c'erano i rispettivi cani, membri quieti della comunità, non disturbati dal gatto di casa.


All'osteria si mischiavano le generazioni, era stanza di popolo. Ogni avventore aveva un soprannome, il mio era la faina, perché mangiavo pollo lesso o due uova al tegame.

Apparecchiavo da me, qualcuno si sedeva al tavolo, si informava. La tovaglia era di carta e permetteva di scriverci i conti della partita a carte, disegnare, firmare con molti nomi un saluto da spedire a chi di noi stava in prigione. Succedeva sempre qualcosa e noi lo sapevamo subito. Nell'Italia del decennio settanta ogni giorno succedevano fatti di cronaca rossa, una lotta operaia, una scuola occupata, sgomberata dalla polizia, occupata di nuovo, baraccati organizzati da noi che forzavano l'ingresso di appartamenti lasciati vuoti per speculazione.

Allora non potevamo immaginare che quel tempo sarebbe stato rubricato: vedi alla voce piombo. Per noi era un metallo da idraulico, da tipografi e in dotazione ai calibri delle polizie.


All'osteria sedevo anche da solo, ma non c'era verso di stare con se stessi.

Dentro e fuori c'era una comunità politica che aveva messo al bando le solitudini.

Così, quando alla fine del decennio si sciolsero i ranghi e le osterie chiudevano spegnendo luce e gas, le improvvise solitudini uccisero. Gli isolati si sentirono staccati da un corpo generale e s'infilarono aghi dappertutto. Ma finché fummo lì nessuno ci toglieva la sedia di sotto e quando era ora di chiudere la mettevamo noi sopra il tavolo per dare una spazzata sotto, e poi si calava insieme all'oste la saracinesca.

Più che un'osteria era una casa del popolo, dove non si parlava di calcio e la televisione non c'era. Oggi suona esotico. Si entrava da una porta a vetri che faceva squillare un campanello. Serviva all'oste, un po' sordo di guerra, per sapere dalla cucina che qualcuno entrava. Suonava anche all'uscita dietro ai saluti. All'osteria ci si salutava tutti, entrando, uscendo. Oggi si fa senza. Impossibile vedere oggi uno che fa il giro dei tavoli per scambiare una parola.

La nostra sede pubblica era nel portone accanto, stanzoni e panche per sedersi. Se avevamo gli spazi pieni, ci spostavamo nel pomeriggio tra i tavoli vuoti dell'osteria. Pagavamo un litro di vino per giustifica dell'ospitalità. Si stendeva il testo di un volantino, di un manifesto, si discuteva dei modi di una lotta, di un raduno in piazza,

Il bagno dell'osteria comunicava tramite una finestrella con la nostra sede. La questura mandava squadre volanti a perquisire, cioè buttare all'aria, senza bisogno di mandato. Rompevano quello che trovavano. Appena si affacciavano nel quartiere, una carambola di fischi avvertiva della visita.

I beni da proteggere erano le macchine da scrivere e il ciclostile che stampava i nostri volantini quotidiani. Passavano svelti da una finestra all'altra. I pensionati strizzavano l'occhio continuando la partita a carte.

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Pagina 69

9.
Il sale



Per uno nato e cresciuto a mare, il sale è quello sulla pelle asciugata dopo il tuffo. Preferisco tenermelo addosso, come una protezione. Mi piace il suo odore.

Credo che ce ne sia nell'aria, nel vento di maestrale, nei fulmini, nelle briciole delle comete, nell'arcobaleno. Nella scrittura sacra entrava in ogni offerta salita sull'altare.

Da molto tempo non ne metto nell'acqua di cottura della pasta, del riso. Aggiungo invece qualche goccia di colatura di alici nel condimento. Non ne aggiungo in nessuna pietanza, neanche sull'uovo sodo.

Sulla mia tavola non c'è la saliera. Da mia madre ho imparato che non va passata da mano a mano. Va avvicinata, messa giù, per essere presa da chi l'ha richiesta. Passarla direttamente in mano fa litigare. Ancora rispetto l'usanza se mi viene chiesto di passare il sale.

Non ricordo la prima volta che ho cucinato da solo un piatto di pasta, in che cucina capitò l'occasione. All'epoca dei miei esordi si faceva bollire un pentolone pure se si calavano cento grammi. Perché se no la pasta s'incollava. Saranno cambiati gli ingredienti, fatto sta che non s'incolla neanche in un dito d'acqua. Perciò la mia la cuocio da doverla poi scolare quasi niente. Bolle subito e risparmio gas. Ho cominciato a diminuirla per impazienza di dover aspettare. Ora mi faccio bastare due bicchieri d'acqua.

Strano che continui la leggenda domestica del pentolone pieno.

Uno di quelli pronti da scolare mi finì sul collo da bambino mentre veniva tolto dal fornello e portato veloce al lavandino. Mi accompagnarono di corsa all'ospedale per le ustioni. Mamma ricorda che misi una mano dove mi scottava e vennero via gli strati della pelle.

Era certamente acqua salata. Forse da lì mi è venuto di mangiare sciapo. Sono stato salato una volta per tutte.

Da qualche parte mi deve arrivare il benedetto sale, che se cadeva in tavola andava raccolto e gettato tre volte dietro le spalle. Mi deve entrare in corpo, visto che mi esce nelle sudate e nelle lacrime.


Ci fu il grave naufragio di un barcone davanti a Lampedusa. L'anno dopo andai per ricordare quella data sul punto segnato da una boa. Ero con quei pescatori che l'anno prima, rientrando dal lavoro notturno al largo, si trovarono in mezzo a corpi che galleggiavano sulla nafta. Alcuni erano vivi. Si tuffarono per spingerli in su, a bordo. Non si poteva fare dall'alto, scivolavano. Con loro un anno dopo andammo su quel punto. Non gettammo fiori. Su proposta comune gettammo manciate di sale. Quel posto era una ferita e non si doveva rimarginare.

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Pagina 113

16.
La pasta



Un uomo in cucina si apparecchia la cena. È solo, mette ogni sera un coltello, una forchetta, un piatto, mosse soprappensiero. Quando prende il bicchiere si accorge di essere lui e basta. Il bicchiere accusa, non si solleverà verso nessuno.

L'uomo vive in poco spazio, c'è quello che gli occorre, il resto che potrà lasciare. È avviato negli anni e non ricorda quand'è che si stava in due.

È rientrato nei suoi metri quadrati, che quando beve gli sembrano tondi e profondi. Il vino corregge la geometria.

L'uomo non accende voci elettriche, radio e altre onde, sta coi suoi rumori. Il giorno fuori è spento, la luce di una lampada fa brillare il coltello con cui spezzetta l'aglio. Intanto ha poggiato una pentola sul fornello grande. Ci ha messo poca acqua, non è vero che la pasta deve cuocere in molta. Ha aggiunto una presa di sale. Taglia un pomodoro, del sedano, mette olio, prezzemolo, il rosso secco di un peperoncino, lascia crudo così.

Entrando in casa si è tolto le scarpe, è scalzo, una mossa da ragazzo che gli è rimasta amica. Il pavimento non è fresco di scopa, si laverà i piedi prima di ficcarsi a letto.

Va alla finestra, guarda fuori. La pioggia lo protegge dalla malinconia. Le gocce sul vetro scintillano come le pallucce di Natale. È Natale. Se lo ricorda adesso che ha incontrato la sua faccia opaca nel riflesso, coi coriandoli intorno di gocce illuminate.

L'acqua bolle, ci cala dentro il ciuffo di spaghetti, si spargono a corona intorno al bordo. Ha una marca preferita, una pasta di Napoli, Garofalo, ricordo di bambino, mandato a comprarla nel vicolo con le lire contate e ricontate. Era scomparsa, poi l'hanno rimessa in commercio, è bello quando tornano i pacchi dell'infanzia.


L'uomo si versa il vino, beve un piccolo sorso e se lo allarga in bocca. Il primo assaggio gli disserra gli occhi, che stavano a riposo dietro palpebre strette. Ora vede i colori del condimento crudo, la tovaglia che è blu, inghiotte il sorso che s'infila in petto anziché nello stomaco. Tossisce, anche stasera il primo vino è finito a sputo sopra il cuore. Ma sì, è malinconia, non respinge la mano che da sola sale agli occhi, lascia che li stropicci. Scottano e subito deve calmare le palpebre toccate con le dita del peperoncino. Gli capita ogni sera di irritare le palpebre, forzare due lacrime speziate.

Va al fornello, assaggia, "ancora un poco," dice. L'ha davvero detto, a bassa voce. A chi? Gli è scappato, uno scatto che viene per sentire una parola intorno.

"Ancora un poco", la frase resta appesa nella stanza. Gli dà fastidio la stupida pretesa di una frase, di restarsene lì a durare, a far finta di contenere altro: ancora un poco. Ma di che? Basta. Non lo dice, lo fa, spegne il fuoco, solleva la pentola, scola, mischia gli spaghetti nella scodella con il condimento. E siede e gira il primo colpo di forchetta e mastica il boccone. È un po' forte, al dente, ma è la cosa migliore del suo giorno, l'ora di remissione dei debiti al suo corpo.

Mastica piano, inghiotte, la faccia muove i muscoli di legno, le rughe si sgranchiscono, la lingua gira tra le gengive a rastrellare il resto da inghiottire. È la sua pace quella pasta scolata sopra il crudo. Tira su il bicchiere, lo vuota e adesso non ci bada che quel bicchiere è solo.

Se lo riempie, tocca il pane mettendoci su il palmo, come si fa con la mano di una moglie. Mastica la sua pasta, respira col naso, i piedi sotto il tavolo stanno incrociati e quieti.

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Pagina 145

Un altro ricordo di pepe mi sposta a Belgrado. Nell'ultima primavera del 1900 la Nato, Italia inclusa, bombardava Belgrado. Il secolo si era specializzato in aviazione a scopo di strage in centri abitati. Colpire una città è dichiarata intenzione di assassinare inermi.

Mi trasferii a Belgrado tra l'aprile e il maggio del '99. Nato a Napoli, la più bombardata d'Italia, non potevo disertare l'ultimo crimine di guerra.


Non sopportavo di stare dalla parte degli aerei che partivano carichi dalla base di Aviano e tornavano vuoti un'ora dopo. Nel fine settimana le famiglie facevano i picnic nei paraggi per assistere ai fragorosi decolli celebrati dai notiziari.

Andai a Belgrado, via Budapest, con un permesso di entrata alla frontiera tra Ungheria e Serbia. Fui subito servito, la notte del mio arrivo ascoltai il suono della sirena che annuncia l'incursione aerea. Cominciava il mio atto di residenza. Non era resistenza, né la recente variante resilienza. Era solo residenza. Belgrado era una trincea scoperta.


Il giorno dopo andai a trovare un corrispondente italiano che spediva cronache da una redazione alloggio. Di nascita genovese, gli avevo portato del pesto. Mise a bollire l'acqua su un fornelletto a gas con dentro patate e fagiolini. Era la sua ricetta.

Cotta la pasta, versammo nella stessa pentola il pesto e mescolammo. Infine sparse a grandine del pepe nero sopra l'odorosissima scodella. La migliore pasta al pesto l'ho mangiata a Belgrado.

Non lo rividi nel seguito dei giorni. Non ero lì per cercare compagnia. Volevo stare da solo nel posto e nelle notti più rumorose della mia vita.


Giravo le strade e per parte del giorno mi fermavo al Parco Kalemegdan, all'incrocio di Danubio e Sava, grandi fiumane di storia e geografia.

Suonava la sirena e il cielo rovesciava in terra il suo carico partito dall'Italia.

Il parco era un posto sicuro, non si rischiava crollo di palazzi. Gli spostamenti d'aria delle esplosioni scuotevano le cime degli alberi, facendo il suono brusco di uno starnuto.

Dei pensionati giocavano a scacchi all'aperto, restavo a guardare le loro partite indisturbate anche durante le incursioni aeree. Non capivo la lingua, ma leggo il cirillico e mi aiutavo con un vocabolario tascabile. Capivo le loro mosse lente, che prevedevano le successive.

Mancava l'elettricità con la quale a Belgrado funzionano le cucine. Bombe alla grafite avevano guastato le centrali, lasciando a fuochi spenti la città. C'era un chiosco aperto con la scritta PIZZA. Tranci freddi e lattine di birra esaurivano il menu. Di consistenza gommosa, ne ho mangiati e li ho voluti dichiarare buoni. Li trattengo così anche nel ricordo.

Sul greto dei due fiumi i cittadini andavano a riempire le taniche di acqua.

Le canne da pesca chiedevano alla corrente un'offerta in fondo al filo. I due fiumi esaudivano meglio che potevano. Con la stessa canna da pesca le persone si davano il cambio.

Era de maggio, cantavano in testa le strofe nate a Napoli, ma non "cadeano 'nzino, a schiocche a schiocche, li ccerase rosse". Cadevano per crollo case e strade.

Le avevo già viste così a Mostar, Sarajevo, anni prima. Però sopra quei cieli non volavano aerei e le demolizioni erano fatte a cannonate terra terra. Sul lastrico lasciavano la rosa disegnata dalla granata esplosa, e nelle case il buco dell'appartamento centrato dal tiro a bersaglio.

A Belgrado arrivavano pure le testate dei missili lanciati da navi in Adriatico.

Me ne andai com'ero venuto, ammutolito, ripassando dall'Ungheria. Scrissi un resoconto che nessun organo di stampa italiano, allineato con l'intervento Nato, volle accogliere. Lo pubblicò "Le Monde".

Al ritorno c'erano la parmigiana di melanzane e uno scambio di battute con mia madre.

Disse che quella guerra me l'ero cercata, come pure quella precedente da autista dei convogli in Bosnia. Lei invece non se l'era potuta scansare, la guerra arrivata addosso alla città negli anni della sua gioventù. La sirena di allarme che ancora le guastava i sonni non l'aveva scelta, nemmeno le corse di notte al ricovero.

"I tuoi bombardamenti non sono stati i miei. Pure se ci sei stato, la guerra non la sai."

Risposi che aveva ragione. Non era la sua guerra, neanche alla lontana. Anche perché a Belgrado nessuno parlava napoletano.

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Pagina 153

Ho passato un paio di anni a Torino, operaio in fabbrica e poi in cantiere. La Fiat nell'autunno dell'80 buttava fuori più di ventimila operai, tutti quelli che nel decennio precedente avevano cambiato i rapporti di forza nelle officine guadagnandosi dignità e respiro. Prima c'era tirannia e oppressione: a un operaio alla linea di montaggio era proibito rivolgere la parola al compagno vicino. Per andare al gabinetto doveva chiedere permesso al caposquadra. A suo piacere poteva rifiutarlo e il bisognoso era costretto a farla nella tuta.

Un improvviso "dopo" iniziato nel '69 spazzò via tiranni e gerarchie. Prima i salari erano spezzettati per tenere divisi, poi le lotte imposero di forza aumenti uguali per tutti in paga base, risanamento di lavorazioni tossiche come la verniciatura.

L'autunno dell'80 si portava via le foglie con tutto l'albero. Bloccammo la grande fabbrica di Mirafiori, sbarrammo con barricate e corpi ogni porta d'ingresso, notte e giorno. Facevo il turno di notte alla porta 11, la carraia, larga e perciò più esposta agli attacchi notturni incoraggiati dalla proprietà. In piena notte c'era da scontrarsi.

La città offriva legna per i fuochi davanti alle porte presidiate e teglie di pizze per noialtri dei bivacchi. Ho sotto il palato quella bianca coi ceci, detta farinata, calda, profumata. La portavano fraterna a mezzanotte. Le solidarietà fanno più gustose le pietanze. Pure la divisione in parti uguali fa aumentare il sapore.

Mangiare su base di cartone le forme tonde appena sfornate insieme a quelli con cui si spartivano idee, propositi, azioni stabilite in assemblee: oggi mi accorgo di avere avuto vita fortunata a stare in tempo dove c'era da stare.

Durammo su quelle brecce trentasette notti e giorni. Non potevamo vincere, potevamo e potemmo imporre quarantena a chi buttava fuori.


Nel paio di anni torinesi facevo i turni in fabbrica. Il primo attacca alle sei fino alle quattordici, il secondo dalle quattordici va fino alle ventidue. Uscivo a quell'ora e raggiungevo la piola, l'osteria dove incontravo altri del mio turno. Si beveva un rosso, accanto a un piatto di salame con le olive. I pensionati giocavano a scopone, per posta in gioco il pintone da due litri che vuotavano fumando in silenzio.

A differenza della briscola, del tressette, della morra, lo scopone è muto. Dopo l'ultima carta giocata si aprivano i commenti, le prese in giro. Ero ammesso al loro tavolo per riconosciuta competenza. Ricordavo gli sparigli, ricostruivo le mani coperte, giocando il finale come a carte viste.

Tra loro bisticciavano più per abitudine. Mi tenevano fuori dalle discussioni. Va bene che ci sapevo fare, ma ero un giovanotto e pure di Napoli, mica uno di loro, neh?


Al tavolo ce n'era uno capace, chi ci giocava in coppia vinceva spesso e pagavano gli altri. Proprio lui reggeva peggio il vino. A fine di serata, alzandosi, doveva farsi reggere dagli altri. Seduto non sbagliava una carta.

Il vino era la Barbera, che altrove è maschile. Oggi si è fatta signora la Barbera, la invecchiano perfino in raffinate botti. Allora era contadina e senza concorrenti. Era generosa, consistente, si faceva succhiare a guance strette.

Il Nebbiolo era per le occasioni. Ho preso una sbandata per la Bonarda, ma dopo una sbronza finita attaccabrighe, son tornato pentito alla Barbera.

Raro ma ancora abbordabile, il Grignolino era troppo gentile: per quelle gole in fiamme ci voleva l'estintore della Barbera.

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Nocino (da preparare il 24 giugno, San Giovanni)
    2 l alcol
    40 noci
    1 kg zucchero
    13 chiodi di garofano
    530 g acqua
    2 g cannella
    1/8 noce moscata grattata
    1 limone (buccia a pezzetti)
    un po' di china in corteccia
    2 bustine di vanillina

Metto tutto in infusione, con le noci tagliate a spicchi, in un bottiglione di vetro scuro. Espongo il bottiglione a mezzogiorno e lo agito mattina e sera per quaranta giorni. Al termine, filtro con carta e tappo bene.

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