Copertina
Autore Daniel C. Dennett
Titolo L'idea pericolosa di Darwin
SottotitoloL'evoluzione e i significati della vita
EdizioneBollati Boringhieri, Torino, 2004 [1997], Gli Archi , pag. 724, cop.fle., dim. 146x220x35 mm , Isbn 978-88-339-1561-6
OriginaleDarwin's dangerous idea. Evolution and the meanings of life
EdizioneSimon and Schuster, New York, 1995
TraduttoreSimonetta Frediani
LettoreRenato di Stefano, 2005
Classe filosofia , evoluzione , biologia , scienze cognitive , linguistica
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Indice

  9      Fonti delle illustrazioni
 11      Prefazione


         PARTE PRIMA   Si inizia dal mezzo


 19 1.   Dimmi perché

    1.1. Esiste qualcosa di sacro?, 19
    1.2. Che cosa, dove, quando, perché - e come?, 27
    1.3. La «dimostrazione» di Locke del primato della mente, 31
    1.4. L'incontro ravvicinato di Hume, 33

 41 2.   È nata un'idea

    2.1. Che cosa hanno di tanto speciale le specie?, 41
    2.2. La selezione naturale - una tremenda forzatura, 47
    2.3. Darwin ha spiegato l'origine delle specie?, 51
    2.4. La selezione naturale come processo algoritmico, 58
    2.5. I processi come algoritmi, 63

 75 3.   L'acido universale

    3.1. Prime reazioni, 75
    3.2. L'assalto di Darwin alla piramide cosmica, 79
    3.3. Il principio di accumulazione del progetto, 84
    3.4. Gli strumenti per la ricerca e lo sviluppo:
         ganci appesi al cielo o gru?, 91
    3.5. Chi ha paura del riduzionismo?, 101

106 4.   L'albero della vita

    4.1. Come visualizzare l'albero della vita?, 106
    4.2. La codifica a colori di una specie, 114
    4.3. Incoronazioni retrospettive:
         Eva mitocondriale e inizi invisibili, 120
    4.4. Schemi, semplificazioni eccessive e spiegazioni, 126

131 5.   Possibilità e realizzazioni

    5.1. Gradi di possibilità?, 131
    5.2. La biblioteca di Mendel, 135
    5.3. Il complesso rapporto tra genoma e organismo, 142
    5.4. La possibilità calata nella natura, 148

156 6.   Filamenti di realtà nello spazio dei progetti

    6.1. Deriva e innalzamento nello spazio dei progetti, 156
    6.2. Mosse obbligate nel gioco di progettazione, 161
    6.3. L'unitarietà dello spazio dei progetti, 170


         PARTE SECONDA   Il pensiero darwiniano nella biologia


187 7.   Innesco della pompa darwiniana

    7.1. All'indietro oltre la frontiera darwiniana, 187
    7.2. Evoluzione molecolare, 196
    7.3. Le leggi del gioco Vita, 206
    7.4. L'Eterno Ritorno: la vita senza fondamenti?, 228

235 8.   Biologia vuol dire ingegneria

    8.1. Le scienze dell'artificiale, 235
    8.2. Darwin è morto... Viva Darwin!, 239
    8.3. Funzione e specifica, 246
    8.4. Il peccato originale e la nascita del significato, 251
    8.5. Il computer che imparò a giocare a dama, 260
    8.6. Ermeneutica degli artefatti o ingegneria inversa, 267
    8.7. Stuart Kauffman, metaingegnere, 277

289 9.   Alla ricerca della qualità

    9.1. Il potere del pensiero adattazionista, 289
    9.2. Il paradigma leibniziano, 301
    9.3. Giocare con i vincoli, 317

331 10.   Bravo brontosauro

    10.1. Il ragazzo che gridava «al lupo!», 331
    10.2. Il pollice della lunetta, 338
    10.3. Gli equilibri punteggiati:
          un mostro di belle speranze, 356
    10.4. Da Tinker a Evers a Chance:
          il mistero del doppio gioco nella fauna di Burgess, 378

395 11.   Controversie controllate

    11.1. Una morsa di eresie innocue, 395
    11.2. Tre perdenti:
          Teilhard, Lamarck e la mutazione mirata, 404
    11.3. Cui bono?, 410


          PARTE TERZA   Mente, significato, matematica e moralità


423 12.   Le gru della cultura

    12.1. Lo zio della scimmia incontra il meme, 423
    12.2. L'invasione dei ladri di corpi, 432
    12.3. Può esistere una scienza della memetica?, 446
    12.4. L'importanza filosofica dei memi, 457

468 13.   Perdere la testa per Darwin

    13.1. Il ruolo del linguaggio nell'intelligenza, 468
    13.2. Chomsky contro Darwin: quattro episodi, 486
    13.3. Bei tentativi, 499

509 14.   L'evoluzione dei significati

    14.1. La ricerca del vero significato, 509
    14.2. Due scatole nere, 525
    14.3. Bloccare le uscite, 533
    14.4. Come farsi portare nel futuro senza correre rischi, 538

545 15.   La mente nuova dell'imperatore e altre favole

    15.1. La spada nella roccia, 545
    15.2. La biblioteca di Toshiba, 556
    15.3. Il fantomatico computer della gravità quantistica:
          cosa insegna il paese dei laptop, 566

577 16.   Sull'origine della morale

    16.1. E pluribus unum?, 577
    16.2. Le «storie proprio così» di Friedrich Nietzsche, 588
    16.3. Alcune varietà di riduzionismo etico avido, 595
    16.4. La sociobiologia: buono e cattivo, bene e male, 614

631 17.   Un nuovo progetto per la morale

    17.1. È possibile naturalizzare l'etica?, 631
    17.2. Giudici del concorso, 639
    17.3. Il manuale di pronto soccorso morale, 646

653 18.   Il futuro di un'idea

    18.1. Elogio della biodiversità, 653
    18.2. Acido universale: maneggiare con cura, 666

669       Appendice

671       Bibliografia

695       Indice analitico

 

 

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Pagina 11

Prefazione


La teoria di Darwin dell'evoluzione per selezione naturale mi ha sempre affascinato, ma nel corso degli anni ho scoperto con sorpresa come molti pensatori non riescano a nascondere il loro disagio per la grande idea, in gradazioni che vanno da un assillante scetticismo a una vera e propria ostilità. Ho incontrato non soltanto profani e pensatori religiosi, ma anche studiosi laici, quali filosofi, psicologi, fisici e persino biologi, che preferirebbero — così pare — che Darwin si fosse sbagliato. Questo libro espone i motivi per cui l'idea di Darwin è tanto potente e per cui promette - e non minaccia - di porre su una nuova base le concezioni della vita a noi più care.

Due parole sul metodo. Questo lavoro ha come argomento la scienza, ma non è un'opera scientifica. Non si fa scienza citando persone autorevoli, per quanto eloquenti e insigni, e valutandone le argomentazioni. Comunque, gli scienziati si ostinano, come di dovere, a tener cattedra, nei libri e nei saggi divulgativi e specialistici, a offrire la propria interpretazione del lavoro svolto nei laboratori e sul campo, e a cercare di influenzare i colleghi scienziati. Quando li cito, retorica compresa, faccio quel che fanno loro: esercito la persuasione. Non si può dire che un'argomentazione sia fondata perché proviene da una persona autorevole (un «argomento desunto dall'autorità»), ma le persone autorevoli possono essere convincenti, certe volte a ragione e altre a torto. Cerco di mettere ordine in tutto questo: io stesso non capisco tutta la scienza implicata dalle teorie che esamino, ma, d'altro canto, non la capiscono neanche gli scienziati (forse con l'eccezione di alcune menti enciclopediche). Il lavoro interdisciplinare ha i suoi rischi. Sono entrato nei dettagli delle varie questioni scientifiche quanto basta, spero, per far capire a un profano in che cosa consistono, quali interpretazioni ne propongo e per quali motivi; ho fornito, inoltre, un gran numero di riferimenti bibliografici.

I nomi seguiti da una data corrispondono ai riferimenti completi della bibliografia, posta alla fine del libro. Non presento un glossario dei termini tecnici usati, ma li definisco in maniera succinta quando li utilizzo per la prima volta e spesso ne chiarisco il significato nel seguito; l'indice analitico è molto dettagliato e consente di esaminare tutte le occorrenze di ogni termine o idea citati. Le note contengono digressioni che alcuni lettori, ma non tutti, potranno trovare gradevoli o necessarie.

Tra le altre cose, ho cercato di fornire la possibilità di leggere la letteratura scientifica che cito, presentando una visione unitaria del settore, insieme ad alcune indicazioni sul grado di importanza delle controversie che vi infuriano. Alcune dispute le giudico senza esitazioni, mentre altre, che lascio del tutto irrisolte, le colloco in una cornice di riferimento affinché sia possibile capire quali sono i punti fondamentali e se sia importante - per voi - il modo in cui emergono. Spero che leggiate questi testi, poiché traboccano di idee magnifiche. Alcuni dei libri che cito sono tra i più difficili che io abbia mai letto. Penso ai libri di Stuart Kauffman e di Roger Penrose, per esempio: si tratta di tours de force pedagogici su questioni molto avanzate e chiunque desideri documentarsi per avere un'opinione sui problemi importanti che sollevano può, e dovrebbe, leggerli. Altri testi sono meno impegnativi - chiari, istruttivi e meritevoli di qualche sforzo serio - e altri ancora, pur non essendo di facilissima lettura, sono una grande delizia, esempi superbi di arte al servizio della scienza. Poiché state leggendo questo libro, probabilmente ne avete già letti parecchi, quindi il fatto che io li raggruppi qui sarà sufficiente come credenziale: si tratta dei libri di Graham Cairns-Smith, Bill Calvin, Richard Dawkins, Jared Diamond, Manfred Eigen, Steve Gould, John Maynard Smith, Steve Pinker, Mark Ridley e Matt Ridley. Non vi è settore della scienza che sia stato trattato dai suoi scrittori meglio della teoria evolutiva.

Qui non troverete quelle argomentazioni filosofiche molto tecniche che molti filosofi prediligono. Il motivo è che devo affrontare un altro problema, innanzitutto. Ho imparato che le argomentazioni, per quanto ineccepibili, spesso cadono nel vuoto. Io stesso sono autore di argomentazioni che considero rigorose e incontestabili e che spesso, tuttavia, non vengono tanto confutate, e neanche respinte, quanto semplicemente ignorate. Non mi sto lamentando dell'ingiustizia: tutti ignoriamo necessariamente alcune argomentazioni e senza dubbio tutti ignoriamo argomentazioni che dovremmo prendere sul serio, come la storia spesso ci rivela in seguito. Il punto è che desidero giocare un ruolo più diretto nel modificare l'elenco di quanto può essere ignorato e da chi. Voglio convincere gli studiosi di altre discipline a prendere sul serio il pensiero evoluzionistico, mostrando come lo hanno sottovalutato e perché sono stati ad ascoltare le sirene sbagliate. A tal fine, devo usare metodi più ingegnosi. Devo raccontare una storia. Non volete essere influenzati da una storia? Beh, io so che non sareste influenzati da un ragionamento formale a favore della mia conclusione, perché non stareste neanche ad ascoltarlo, quindi comincio da dove devo cominciare.

La storia che narro, pur essendo per lo più nuova, riunisce molti pezzetti provenienti da una grande varietà di analisi da me scritte nel corso degli ultimi venticinque anni, riguardanti varie controversie e questioni dubbie. Alcuni di questi pezzetti sono incorporati nel testo quasi per intero, con alcuni miglioramenti, mentre ad altri alludo soltanto. La parte della punta dell'iceberg che ho messo in evidenza è sufficiente, spero, a informare e anche persuadere i nuovi arrivati e a contestare, quanto meno, i miei avversari in modo equo e deciso. Ho cercato di navigare tra Scilla e Cariddi, tra un rifiuto sbrigativo e una lotta corpo a corpo piena di particolari opprimenti, e ogni qual colta vado a finire in maniera repentina sul tema di una controversia, ne avverto il lettore e gli fornisco i riferimenti alla parte avversa. Mi sarebbe stato facile raddoppiare la bibliografia, ma ho basato le mie scelte sul principio che a un lettore serio bastano soltanto una voce o due per individuare il resto della letteratura.

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Pagina 19

1.

Dimmi perché


1.1. Esiste qualcosa di sacro?

Quando ero bambino cantavamo spesso, intorno al fuoco nei campeggi estivi, a scuola e a dottrina, oppure a casa, tutti intorno al piano. Una delle mie canzoni preferite era Tell me why [Dimmi perché]. (Se questo piccolo tesoro non è già racchiuso nei vostri ricordi, ne troverete la musica nell'appendice. La semplice melodia e la facile armonia sono di una bellezza sorprendente.)

Dimmi perché le stelle brillano,
Dimmi perché l'edera si abbarbica,
Dimmi perché il cielo è così azzurro.
Io ti dirò perché ti amo.

Perché Dio ha fatto le stelle affinché brillassero,
Perché Dio ha fatto l'edera affinché si abbarbicasse,
Perché Dio ha fatto il cielo così azzurro.
Perché Dio ti ha fatto, ecco perché ti amo.

Questa dichiarazione esplicita e sentimentale mi fa ancora venire un groppo alla gola: è una concezione della vita così dolce, così innocente e rassicurante!

Poi arriva Darwin a guastare la festa. Ma è proprio vero? Ecco l'argomento di questo libro. A partire dalla pubblicazione dell' Origine delle specie, nel 1859, l'idea fondamentale di Charles Darwin ha sempre suscitato reazioni intense, dalla più feroce condanna alla devozione estatica, che talvolta si trasforma in uno zelo religioso. La teoria darwiniana è stata maltrattata in ugual misura da amici e nemici. La si è applicata malamente per conferire rispettabilità scientifica a terrificanti dottrine politiche e sociali. Gli avversari l'hanno messa alla berlina e alcuni tra questi la vorrebbero far competere nelle scuole dei nostri figli con la «scienza della creazione», un patetico guazzabuglio di pseudo-scienza religiosa. (Non dedicherò neanche una riga a catalogare i profondi errori del creazionismo o a sostenerne la mia perentoria condanna. Ritengo che il compito sia stato assolto in maniera ammirevole, tra gli altri, da Kitcher (1982), Futuyma (1983) e Gilkev (1985).)

Quasi nessuno è indifferente a Darwin e nessuno dovrebbe esserlo. La teoria darwiniana è una teoria scientifica, una grande teoria scientifica, ma questo non è tutto. Su un punto i creazionisti che la osteggiano con tanto accanimento hanno ragione: l'idea pericolosa di Darwin intacca la trama delle nostre convinzioni di base molto più profondamente di quanto i suoi sofisticati apologeti abbiano mai ammesso, persino a se stessi.

La semplice e dolce visione della canzone, intesa in senso letterale, è qualcosa che la maggior parte di noi ha perso crescendo, per quanto possa essere affettuosamente nei nostri ricordi. Il Dio gentile che con amore ha dato forma a ciascuno di noi (tutte le creature, grandi e piccole) e ha cosparso il cielo di stelle brillanti per il nostro diletto, quel Dio è, come Babbo Natale, un mito dell'infanzia in cui un adulto sano di mente e disilluso non potrebbe credere alla lettera. Quel Dio deve essere trasformato nel simbolo di qualcosa di meno concreto oppure abbandonato del tutto.

Non tutti gli scienziati e i filosofi sono atei e molti che sono credenti sostengono che la loro idea di Dio può coesistere tranquillamente col sistema concettuale darwiniano, o addirittura trarne sostegno. Il loro non è un Dio artigiano e antropomorfo, ma è pur sempre, ai loro occhi, un Dio degno di adorazione, capace di dare consolazione e significato alla vita. Altri basano i propri interessi più profondi su filosofie completamente laiche, su concezioni del significato della vita che cercano di evitare la disperazione senza appoggiarsi al concetto di un Essere Supremo - diverso dall'Universo stesso. Per questi pensatori, esiste qualcosa di sacro, ma non lo chiamano Dio, bensì (forse) Vita, o Amore, o Bontà, o Intelligenza, o Bellezza, o ancora Umanità. Ciò che i due gruppi condividono, nonostante le differenze tra le loro convinzioni più profonde, è la persuasione che la vita abbia significato, che la qualità abbia un valore.

Ma si può sostenere tale atteggiamento di stupore e fermezza, in una versione qualsiasi, di fronte al darwinismo? Sin dagli inizi, vi sono stati alcuni che ritenevano di aver visto Darwin scoprire il peggiore degli altarini: il nichilismo. A loro giudizio, se Darwin avesse ragione, come conseguenza non potrebbe esistere nulla di sacro. Per parlare chiaramente, nulla potrebbe avere uno scopo. Si tratta soltanto di una reazione eccessiva? Che cosa implica esattamente l'idea di Darwin e, in ogni caso, è stata dimostrata scientificamente, oppure è tuttora «soltanto una teoria»?

Qualcuno potrebbe pensare di poter tracciare un'utile distinzione nell'idea darwiniana: da un lato le parti comprovate al di là di ogni ragionevole dubbio e dall'altro le estensioni speculative delle parti scientificamente irresistibili. In tal caso, avendo fortuna, forse i fatti scientifici saldi come roccia non avrebbero ripercussioni straordinarie sulla religione, sulla natura umana o sul significato della vita, mentre quegli aspetti che suscitano tanto turbamento si potrebbero mettere in quarantena come discutibilissime estensioni delle parti scientificamente irresistibili, o come loro semplici interpretazioni. Sarebbe rassicurante.

Ahimè, le cose vanno perlopiù nel senso opposto. Vi è un turbine di controversie accanite nell'ambito della teoria evolutiva, ma questo non dovrebbe incoraggiare quanti si sentono minacciati dal darwinismo. La maggior parte delle controversie, se non proprio tutte, riguarda questioni che sono «soltanto scienza»; che vinca l'una o l'altra fazione, il risultato non annienterà l'idea fondamentale di Darwin. Quell'idea, che non è meno sicura di qualsiasi altra idea scientifica, ha invero conseguenze di vasta portata per il nostro modo di concepire il significato della vita qual è o quale potrebbe essere.

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Pagina 26

Questo libro, quindi, è per quanti concordano che l'unico significato della vita di cui valga la pena curarsi è quello che può resistere ai nostri migliori tentativi di esaminarlo. Agli altri consiglio di chiudere subito il volume.

Per chi rimane, ecco il piano dell'opera. La Parte prima colloca la rivoluzione darwiniana nel più grande schema delle cose e mostra come può trasformare la concezione del mondo di chi ne conosca i dettagli. Il capitolo 1 spiega il retroterra filosofico che ha dominato il pensiero umano prima di Darwin. Il capitolo 2 presenta l'idea fondamentale di Darwin in una veste alquanto nuova, introducendo l'idea di evoluzione come processo algoritmico, e ne chiarisce alcuni comuni fraintendimenti. Il capitolo 3 mostra come tale idea sconvolga la tradizione incontrata nel capitolo 1. I capitoli 4 e 5 esplorano alcune delle impressionanti - e sconcertanti - prospettive che il modo di pensare darwiniano dischiude.

La Parte seconda esamina le contestazioni mosse all'idea di Darwin - al neodarwinismo o alla sintesi moderna - proprio dall'ambito della biologia e mostra come, contrariamente a quanto hanno dichiarato alcuni dei suoi oppositori, l'idea di Darwin sopravviva a tali controversie, non soltanto intatta, bensì rafforzata. La Parte terza mostra poi che cosa succede quando si estende il medesimo modo di pensare alla specie che ci è più cara, l' Homo sapiens. Lo stesso Darwin era pienamente consapevole che questo sarebbe stato il punto di impasse per molte persone e fece quanto poteva per dare la notizia con delicatezza. A più di un secolo di distanza, vi sono ancora persone intenzionate a scavare un fossato che ci separi dalla maggior parte delle terrificanti implicazioni, se non da tutte, che pensano di vedere nel darwiniamo. La Parte terza mostra che si tratta di un errore sia di fatto sia di strategia: infatti, non soltanto è vero che l'idea pericolosa di Darwin si applica a noi stessi in maniera diretta e a molti livelli, ma anche che l'applicazione corretta del pensiero darwiniano alle questioni umane - i problemi della mente, del linguaggio, della conoscenza e dell'etica, per esempio - le illumina in modi che hanno sempre eluso le impostazioni tradizionali, dando nuova forma ad antichi problemi e indicandone le soluzioni. Da ultimo, possiamo valutare l'affare che si realizza barattando il pensiero predarwiniano per quello darwiniano individuandone usi e abusi e mostrando come vi si veda brillare quel che veramente ci importa (e ci dovrebbe importare), trasformato, ma arricchito dal passaggio attraverso la rivoluzione darwiniana.

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Pagina 58

2.4. La selezione naturale come processo algoritmico


        Quale limite si può fissare a questa forza che agisce
        durante lunghe epoche, vagliando severamente l'intera
        costituzione, la struttura e le abitudini di ciascun
        individuo, favorendo il buono e scartando il cattivo?
        Non vedo nessun limite a questo potere di adattare
        lentamente e magnificamente ciascuna forma alle più
        complesse relazioni della vita.

                              Charles Darwin, Origine, p. 535


Il secondo punto da notare nel riassunto di Darwin è il fatto che egli presenta il suo principio come deducibile in base a un ragionamento formale - se le condizioni sono soddisfatte, è garantito un certo risultato. Ecco di nuovo il riassunto, con alcuni termini chiave in maiuscoletto.

SE in condizioni mutevoli di vita gli esseri viventi presentano differenze individuali in quasi ogni parte della loro struttura, e ciò non è discutibile; SE a cagione del loro aumento numerico in progressione geometrica si determina una severa lotta per la vita in qualche età, stagione o anno, e ciò certamente non può esser discusso; ALLORA, considerando la infinita complessità delle relazioni di tutti gli esseri viventi fra di loro e con le loro condizioni di vita, la quale fa sì che un'infinita diversità di struttura, costituzione e abitudini, sia per essi vantaggiosa, SAREBBE UN FATTO QUANTO MAI STRAORDINARIO CHE NON AVESSERO MAI AVUTO LUOGO VARIAZIONI UTILI AL BENESSERE DI CIASCUN INDIVIDUO, allo stesso modo con cui hanno avuto luogo tante variazioni utili all'uomo. Ma SE mai si verificano variazioni utili a un qualsiasi essere vivente, SICURAMENTE gli individui così caratterizzati avranno le migliori probabilità di conservarsi nella lotta per la vita; e per il saldo principio dell'eredità, essi tenderanno a produrre discendenti analogamente caratterizzati. Questo principio della conservazione, o sopravvivenza del più adatto, l'ho denominato selezione naturale. [Origine, p. 193.]

Il ragionamento deduttivo di base è breve, ma Darwin stesso descrisse L'origine delle specie come «un lungo ragionamento». Il motivo è che consiste di due dimostrazioni di genere diverso: la dimostrazione logica che un certo genere di processo ha necessariamente un certo genere di risultato e la dimostrazione empirica che le condizioni necessarie a quel genere di processo si sono effettivamente realizzate in natura. Darwin conforta la dimostrazione logica con alcuni esperimenti mentali - «esempi immaginari» (Origine, p. 161) - che mostrano come il soddisfacimento di tali condizioni abbia potuto realmente render conto degli effetti che egli sostiene di spiegare, ma l'intera argomentazione si estende a tutto il libro, poiché egli presenta una profusione di dettagli empirici ottenuti con grande sforzo per convincere il lettore che queste condizioni sono state soddisfatte più e più volte.

Stephen Jay Gould (1985) ci fa intravvedere con finezza l'importanza di questo aspetto dell'argomentazione di Darwin raccontando un aneddoto sul naturalista scozzese Patrick Matthew, il quale in effetti - per quanto curioso sia tale dato di fatto storico - aveva anticipato di molti anni la descrizione di Darwin della selezione naturale nell'appendice del suo libro Naval Timber and Arboriculture, pubblicato nel 1831. In seguito alla crescita della notorietà di Darwin, Matthew pubblicò una lettera (sul «Gardeners' Chronicle»!) dichiarando di essere arrivato per primo, cosa che Darwin riconobbe in maniera cortese, scusando la propria ignoranza e facendo notare che Matthew aveva scelto una sede poco conosciuta. Rispondendo alle scuse scritte di Darwin, Matthew scrisse:

Concepii questa legge della Natura intuitivamente, come un fatto ovvio, quasi senza sforzarmi di concentrare le mie idee su di essa. Sembra che il signor Darwin abbia più merito di me nella scoperta: ma a me non parve affatto una scoperta. Sembra anche che egli l'abbia sviluppata mediante un ragionamento induttivo, e che lentamente e con le dovute precauzioni abbia proceduto di fatto in fatto verso la sintesi; mentre, nel mio caso, uno sguardo generale allo schema della Natura mi ha permesso di stimare questa produzione selettiva di specie come un fatto riconoscibile a priori, un assioma, che deve solo essere messo in rilievo perché menti senza pregiudizi e con sufficiente capacità di comprensione possano accettarlo. [Citazione tratta da Gould, 1985, p. 277]

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Ecco, allora, l'idea pericolosa di Darwin: il livello algoritmico è il livello che spiega nel modo migliore la velocità dell'antilope, l'ala dell'aquila, la forma dell'orchidea, la diversità delle specie, e tutte le altre occasioni di meraviglia offerte dal mondo della natura. È difficile credere che qualche cosa privo di una mente e meccanico come un algoritmo possa produrre oggetti tanto meravigliosi. Per quanto straordinari possano essere i prodotti di un algoritmo, i processi soggiacenti consistono sempre in nient'altro che un insieme di singoli passi privi di mente che si succedono l'un l'altro senza l'aiuto di una supervisione intelligente; sono «automatici» per definizione: si tratta del funzionamento di un automa. Si alimentano l'uno con l'altro, oppure è il puro caso e nient'altro a farlo — come il lancio di una moneta, se si vuole. La maggior parte degli algoritmi più noti generano prodotti piuttosto modesti: eseguono divisioni complicate, mettono in ordine alfabetico un elenco, oppure calcolano il reddito medio dei contribuenti. Algoritmi più estrosi producono l'affascinante grafica d'animazione che si vede ogni giorno alla televisione, che trasforma i volti o crea branchi di fantastici orsi polari che pattinano sul ghiaccio, simulando interi mondi virtuali di entità mai viste e immaginate prima. Tuttavia la biosfera reale è molto più fantastica, di parecchi ordini di grandezza. Davvero può essere il risultato di null'altro che una cascata di processi algoritmici alimentati dal caso? E, se è vero, chi ha progettato la cascata? Nessuno: è essa stessa il prodotto di un processo cieco, algoritmico. Come si esprime lo stesso Darwin in una lettera al geologo Charles Lyell scritta poco dopo la pubblicazione dell' Origine: «Non sarei assolutamente disposto a dare alcunché per la teoria della selezione naturale, se richiedesse aggiunte miracolose a uno stadio qualsiasi della discendenza (...) Se fossi convinto di aver avuto bisogno di tali aggiunte, la scarterei come una sciocchezza (...)» (F. Darwin, 1911, vol. 2, pp. 6 sg.).

Secondo Darwin, quindi, l'evoluzione è un processo algoritmico. Metterla in questo modo è tuttora discutibile. Uno dei tiri alla fune che si hanno nell'ambito della biologia molecolare è quello in corso tra quanti spingono, spingono e spingono con grande accanimento verso un trattamento algoritmico e quanti, per varie ragioni occulte, si stanno opponendo a tale tendenza. È un po' l'atteggiamento di un metallurgista deluso dalla spiegazione algoritmica della ricottura: «Volete dire che questo è tutto? Nessuna supercolla ultramicroscopica creata in maniera particolare dal processo di riscaldamento e raffreddamento?» Darwin ha convinto tutti gli scienziati che l'evoluzione, come la ricottura, funziona. La sua visione radicale di come e perché funziona è ancora piuttosto in assetto di guerra, in gran parte perché quanti resistono riescono a vedere in maniera vaga che la loro schermaglia fa parte di una battaglia più ampia. Se si perde la partita nella biologia evolutiva, dove si andrà a finire?


Capitolo 2: Darwin ha dimostrato in maniera definitiva che, in contrasto con la tradizione, le specie non sono eterne e immutabili, ma si evolvono. L'origine di nuove specie si poneva come risultato di una «discendenza con modifica». In maniera meno conclusiva, Darwin ha introdotto un'idea di come si sia realizzato questo processo evolutivo: attraverso un processo privo di mente e meccanico — algoritmico — da lui chiamato «selezione naturale». Questa idea, che tutti i frutti dell'evoluzione si possano spiegare come prodotti di un processo algoritmico, è l'idea pericolosa di Darwin.


Capitolo 3: Molti, compreso Darwin, potevano vagamente intuire il potenziale rivoluzionario della sua idea di selezione naturale, ma precisamente che cosa prometteva di rovesciare? L'idea di Darwin si può usare per smantellare e poi ricostruire una struttura tradizionale del pensiero occidentale, che io chiamo la «piramide cosmica». Si ottiene in tal modo una nuova spiegazione dell'origine, per accumulazione graduale, dell'intero Progetto dell'universo. La tesi implicita di Darwin che i vari processi della selezione naturale, a dispetto della soggiacente mancanza di una mente, siano abbastanza potenti da aver svolto tutto il lavoro progettuale manifesto nel mondo ha sempre suscitato scetticismo.

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Su un particolare risultato, si dovrebbe già essere in grado di convenire. Anche se la scienza dovesse arrivare a scartare l'idea relativamente modesta di Darwin sull'origine delle specie - proprio così, a screditarla del tutto e a rimpiazzarla con qualche visione di gran lunga più potente (e per ora inimmaginabile) - comunque l'idea ha già fiaccato irrimediabilmente il convincimento di qualsiasi ponderato difensore della tradizione espressa da Locke. Lo ha fatto schiudendo all'immaginazione nuove possibilità e poi annullando del tutto ogni possibile illusione sulla fondatezza di argomenti quali la dimostrazione a priori di Locke dell'inconcepibilità di un Progetto in mancanza di una Mente. Prima di Darwin, la cosa era inconcepibile, nel senso peggiorativo che nessuno sapeva come prendere sul serio l'ipotesi. Dimostrarla è tutt'altra questione, ma di fatto le prove stanno aumentando ed è senz'altro possibile e doveroso prenderla sul serio. Quindi l'argomentazione di Locke checché se ne pensi, è obsoleta come la penna con cui fu scritta, è un affascinante pezzo da museo, una curiosità che non può svolgere un lavoro reale nel mondo intellettuale di oggi.


Capitolo 3: L'idea pericolosa di Darwin è questa: il Progetto può emergere dal semplice Ordine attraverso un processo algoritmico che non ricorre in alcun modo a una Mente che già esista. Gli scettici hanno sperato di mostrare che, quanto meno in qualche punto del processo, è stato necessario l'aiuto di una mano (o, per meglio dire, di una Mente) — di un gancio appeso al cielo che facesse una parte del lavoro di innalzamento. Nel corso dei loro tentativi di dimostrare il ruolo dei ganci appesi al cielo, hanno scoperto un gran numero di gru, vale a dire di prodotti di processi algoritmici precedenti che possono aumentare la potenza dell'algoritmo darwiniano di base, accrescendo localmente la velocità e l'efficienza del processo senza interventi miracolosi. Il buon riduzionista suppone di poter spiegare tutti i Progetti senza bisogno di un gancio appeso al cielo; il riduzionista avido suppone di poterli spiegare senza bisogno di una gru.


Capitolo 4: In che modo il processo storico dell'evoluzione ha effettivamente costruito l'albero della vita? Al fine di capire le controversie sulla capacità della selezione naturale di spiegare le origini di tutto il Progetto, occorre innanzitutto imparare a visualizzare l'albero della vita — fugando ogni dubbio su alcune caratteristiche della sua forma facili da misconoscere — e alcuni momenti chiave della sua storia.

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Le linee generali della teoria dell'evoluzione per selezione naturale chiariscono che l'evoluzione si realizza ogni volta che valgono le seguenti condizioni:

(1) variazione: vi è un'incessante abbondanza di elementi diversi;

(2) ereditarteta o replicazione: gli elementi hanno la capacità di creare copie di se stessi;

(3) fitness differenziale: il numero di copie di un elemento che vengono create in un dato tempo varia, a seconda delle interazioni tra le caratteristiche dell'elemento in questione e le caratteristiche dell'ambiente in cui continua la propria esistenza.

Si noti che questa definizione, pur provenendo dalla biologia, non dice alcunché di specifico a proposito delle molecole organiche né dell'alimentazione né della vita. Questa definizione di evoluzione per selezione naturale, estremamente astratta, è stata formulata in molte versioni all'incirca equivalenti - si vedano, ad esempio, Lewontin, 1980 e Brandon, 1978 (entrambi pubblicati in seguito anche in Sober, 1984b). Come ha rilevato Dawkins, il principio fondamentale è che

tutte le forme di vita evolvono attraverso la sopravvivenza differenziale di entità che si replicano.

È capitato che il gene, la molecola di DNA, fosse l'entità replicante che ha prevalso sul nostro pianeta. Potrebbero essercene delle altre e se ci sono, purché esistano altre condizioni, tenderanno quasi inevitabilmente a diventare la base di un processo evolutivo.

Ma è necessario andare su mondi distanti per trovare altre specie di replicanti e quindi altri tipi di evoluzione? Io credo che un nuovo tipo di replicante sia emerso di recente proprio su questo pianeta. Ce l'abbiamo davanti, ancora nella sua infanzia, ancora goffamente alla deriva nel suo brodo primordiale ma già soggetto a mutamenti evolutivi a un ritmo tale da lasciare il vecchio gene indietro senza fiato. [Dawkins, 1976, p. 201.]

I nuovi replicanti sono, pressappoco, idee. Non le «idee semplici» di Locke e Hume (l'idea di rosso, oppure l'idea di rotondo o caldo o freddo), ma la sorta di idee complesse che assumono la forma di unità importanti e distinte — quali le idee di

    arco
    ruota
    abiti da indossare
    faida
    triangolo retto
    alfabeto
    calendario
    Odissea
    calcolo
    scacchi
    disegno prospettico
    evoluzione per selezione naturale
    impressionismo
    tarantella
    decostruttivismo.

Intuitivamente, le si considera unità culturali più o meno identificabili, ma si può dire qualcosa di più preciso riguardo al modo in cui si tracciano i confini - riguardo al motivo per cui «Re - Fa# - La» non è un'unità, mentre lo è il tema dell'adagio della Settima Sinfonia di Beethoven: le unità sono gli elementi più piccoli che replicano se stessi con affidabilità e fecondità. Sotto questo aspetto, le si può paragonare ai geni e ai loro componenti: CGA, un codone di DNA, è «troppo piccolo» per essere un gene. È uno dei codici dell'amminoacido arginina, che si riproduce in maniera prodigiosa ogni volta che compare nel genoma, ma che non ha effetti abbastanza «caratteristici» per poterlo considerare un gene. Una frase composta da tre nucleotidi non si può considerare un gene per la stessa ragione per cui non si può ottenere il copyright di una frase musicale di tre note: non è sufficiente per una melodia. Ma non vi sono «princìpi» da cui discenda un limite inferiore alla lunghezza della sequenza che si potrebbe arrivare a considerare come un gene o un meme (Dawkins, 1982, pp. 112 sgg.). Le prime quattro note della Quinta Sinfonia di Beethoven sono chiaramente un meme, che si riproduce da solo, separato dal resto della sinfonia, ma che mantiene intatta una certa identità di effetto (un effetto fenotipico) e per tale ragione prospera in contesti in cui Beethoven e la sua opera sono sconosciuti. Dawkins spiega come coniò il nome che ha dato alle sue unità:

(...) un'unità di trasmissione culturale o un'unità di imitazione. «Mimeme» deriva da una radice greca che sarebbe adatta, ma io preferirei un bisillabo dal suono affine a «gene» (...) lo si potrebbe considerare correlato a «memoria» o alla parola francese méme (...)

Esempi di memi sono melodie, idee, mode, frasi, maniere di modellare vasi o costruire archi. Proprio come i geni si propagano nel pool genico saltando di corpo in corpo tramite spermatozoi o cellule uovo, così i memi si propagano nel pool memico saltando di cervello in cervello tramite un processo che, in senso lato, si può chiamare imitazione. Se uno scienziato sente o legge una buona idea, la passa ai suoi colleghi e studenti e la menziona nei suoi articoli e nelle sue conferenze. Se l'idea fa presa, si può dire che si propaga diffondendosi di cervello in cervello. [Dawkins, 1976, p. 201]

L'evoluzione dei memi non è soltanto analoga all'evoluzione biologica o genica, secondo Dawkins. Non è soltanto un processo che si può descrivere metaforicamente in questo linguaggio evoluzionistico, ma è un fenomeno che obbedisce alle leggi della selezione naturale in maniera alquanto precisa. La teoria dell'evoluzione per selezione naturale è neutrale, suggerisce Dawkins, rispetto alle differenze tra memi e geni; si tratta semplicemente di differenti tipi di replicanti che si evolvono in ambienti diversi e a ritmi diversi. E come i geni degli animali non poterono venire alla luce su questo pianeta fino a che l'evoluzione delle piante non aprì loro la strada (creando un'atmosfera ricca di ossigeno e una riserva disponibile di sostanze nutritive trasformabili), così l'evoluzione dei memi non poté prendere l'avvio fino a che l'evoluzione degli animali non aprì loro la strada creando una specie - Homo sapiens - dotata di un cervello in cui si sarebbero potuti rifugiare e di abitudini di comunicazione che avrebbero potuto utilizzare per propagarsi.

Non si può negare che esista un'evoluzione della cultura, nel senso darwiniano neutrale che la cultura cambia nel corso del tempo, accumulando caratteristiche e perdendole, pur conservandone alcune che risalgono a epoche precedenti. La storia dell'idea di crocifissione, per fare un esempio, o di cupola su trombe, o di volo a motore, è innegabilmente una storia di trasmissione attraverso vari mezzi non genetici di una famiglia di variazioni su un tema fondamentale. È invece una questione aperta se tale evoluzione presenti una forte, o debole, analogia oppure una totale corrispondenza con l'evoluzione genetica, il processo che la teoria darwiniana spiega così bene. Di fatto, si tratta di parecchie questioni aperte. A un estremo, si può immaginare, potrebbe venir fuori che l'evoluzione culturale ricapitola tutte le caratteristiche dell'evoluzione genetica: non soltanto vi sono elementi analoghi ai geni (i memi), ma vi sono anche elementi strettamente analoghi ai fenotipi, ai genotipi, alla riproduzione sessuale, alla selezione sessuale, al DNA, all'RNA, ai codoni, alla speciazione allopatrica, ai demi, all'imprinting genomico e così via - l'intero edificio della teoria biologica che si rispecchia in maniera perfetta nell'ambiente della cultura. Il lettore pensava che lo splicing del DNA fosse una tecnologia da brivido? Aspetti che inizino a fare innesti memetici nei laboratori! Non è probabile. All'altro estremo, si potrebbe scoprire che l'evoluzione culturale opera secondo princìpi completamente diversi (come suggerisce Gould) e che i concetti della biologia, quindi, non possono essere di alcun aiuto. E' senz'altro quanto sperano ardentemente molti studiosi di scienze umane e sociali, ma è anche altamente improbabile, per ragioni che si sono già viste. Fra un estremo e l'altro si trova la prospettiva probabile e utile: che si abbia un notevole (o notevolissimo) e importante (oppure semplicemente interessante) trasferimento di concetti dalla biologia alle scienze umane. Potrebbe essere, per esempio, che i processi di trasmissione culturale, pur essendo autentici fenomeni darwiniani, per varie ragioni non si facciano catturare da una scienza darwiniana, quindi ci si dovrebbe accontentare della comprensione «puramente filosofica» che da tutto ciò si può racimolare, lasciando che la scienza si occupi di altri progetti.

Si consideri innanzitutto la tesi secondo cui i fenomeni di evoluzione culturale sono realmente darwiniani; poi ci si potrà rivolgere alle complicazioni imposte da un atteggiamento scettico. Sulle prime, la prospettiva del meme è senz'altro sconvolgente, se non terrificante. La si può riassumere con uno slogan:

Uno studioso è soltanto il mezzo con cui una biblioteca crea un'altra biblioteca.

Non so che cosa ne pensi il lettore, ma a tutta prima io non sono attratto dall'idea che il mio cervello sia una specie di cumulo di letame in cui le larve delle idee di altre persone si rigenerano, prima di spedire copie di se stesse in una diaspora di informazioni. Mi pare che la mia mente venga derubata della sua importanza di autore e critico. Chi comanda, secondo questa prospettiva — noi o i nostri memi?

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Capitolo 12: L'invasione del cervello umano da parte della cultura, in forma di memi, ha creato la mente umana; questa, unica fra le menti di tutti gli animali, può concepire cose distanti nel tempo e nello spazio e formulare obiettivi alternativi. Le possibilità di elaborare una rigorosa scienza della memetica sono dubbie, ma il concetto fornisce una prospettiva preziosa da cui investigare la complessa relazione tra l'eredità culturale e quella genetica. In particolare, è la conformazione data dai memi alla nostra mente a fornirci l'autonomia necessaria per trascendere i nostri geni egoisti.


Capitolo 13: È possibile definire una successione di menti di genere sempre più potente in funzione della «torre di generazione e verifica», che ci porta dai principianti che apprendono per tentativi ed errori fino alla comunità degli scienziati e di altri seri pensatori umani. Il linguaggio gioca il ruolo cruciale in questa cascata di gru e il lavoro pionieristico di Noam Chomsky nella linguistica dischiude la prospettiva di una teoria darwiniana del linguaggio; si tratta tuttavia di una prospettiva che Chomsky, insieme a Gould, ha erroneamente evitato. Le controversie che negli ultimi anni hanno accompagnato lo sviluppo di una scienza della mente sono state amplificate in misura estrema, fino a diventare antagonismi, da percezioni erronee da parte di entrambi gli schieramenti: che cosa richiedono i critici, gru o ganci appesi al cielo?

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13.2. Chomsky contro Darwin: quattro episodi


        Si potrebbe pensare che Chomsky avrebbe tutto da
        guadagnare poggiando sulla solida base della teoria
        dell'evoluzione la sua controversa teoria su un organo
        del linguaggio, e in alcuni dei suoi scritti ha
        accennato a un collegamento. Ma più spesso si mostra
        dubbioso.
                                    Steven Pinker, 1994, p. 355

        Nel caso di sistemi come il linguaggio o le ali non è
        facile neppure immaginare una linea selettiva che possa
        aver dato loro origine.
                                     Noam Chomsky, 1988, p. 167

        Esiste ancora un cospicuo divario comunicativo tra gli
        scienziati cognitivi entrati nel settore provenendo
        dall'intelligenza artificiale o dallo studio del
        problem-solving e del comportamento alla base della
        formazione dei concetti, da una parte, e quelli che vi
        sono giunti partendo da un interesse per il linguaggio,
        dall'altra (...) Quando si sottolinea l'unicità dei
        processi del linguaggio come facolta umana, come ha
        fatto Chomsky (...), il divario si fa più grande.
                       Herbert Simon e Craig Kaplan, 1989, p. 5


L'11 settembre 1956, al MIT, in una riunione dell'Institute for Radio Engineers furono presentati tre articoli. Uno era di Allen Newell e Herbert Simon (1956), The Logic Theory Machine; nell'articolo, gli autori mostravano, per la prima volta, in che modo un computer può dimostrare teoremi logici non banali. La loro «macchina» era la madre (o la nonna) del General Problem Solver (Newell e Simon, 1963) e il prototipo per il linguaggio di programmazione Lisp, che per l'intelligenza artificiale è pressappoco quello che il codice del DNA è per la genetica. La Logic Theory Machine è un rivale degno di questo nome del programma per giocare a dama di Art Samuel nella gara per il titolo di Adamo dell'Intelligenza Artificiale. Un altro articolo era dello psicologo George A. Miller, The Magical Number Seven, Plus or Minus Two, che poi divenne un lavoro classico, inaugurando il settore della psicologia cognitiva (Miller, 1956). Il terzo articolo era di un giovane membro di Harvard, Noam Chomsky, allora ventisettenne; il titolo era Three Models for the Description of Language (1956). Le incoronazioni retrospettive sono sempre un poco arbitrarie, come si è visto parecchie volte, ma il discorso tenuto da Chomsky in quella riunione è l'evento che marca nel modo migliore la nascita della linguistica moderna. Tre nuove e importanti discipline scientifiche nate nella stessa stanza in un unico giorno - mi chiedo quanti tra il pubblico ebbero la sensazione di partecipare a un evento storico di tali proporzioni. George Miller se ne rese conto, come racconta descrivendo l'incontro (1979). La visione retrospettiva di Herbert Simon dell'avvenimento è cambiata nel corso degli anni. Nel suo libro del 1969, rivolgendo l'attenzione sui fatti, commentava (p. 47): «In tal modo i due corpi della teoria [la linguistica e l'intelligenza artificiale] avevano avuto relazioni cordiali a partire da una primissima data. La cosa è del tutto corretta, poiché poggiano concettualmente sulla stessa concezione della mente umana». Se soltanto fosse vero! Arrivati al 1989, Simon poteva vedere come era aumentato il divario.

Non molti scienzati sono grandi scienzati e non molti grandi scienziati arrivano a fondare un intero nuovo settore, ma ve ne sono alcuni. Charles Darwin è uno di questi; Noam Chomsky un altro. Grossomodo come prima di Darwin esisteva la biologia, con la storia naturale, la fisiologia, la tassonomia e altre discipline simili, che Darwin unificò in quella che oggi conosciamo come biologia, così prima di Chomskv esisteva la linguistica. Il settore scientifico contemporaneo della linguistica - con le sottodiscipline della fonologia, della sintassi, della semantica e della pragmatica, con le scuole in guerra tra loro e i discendenti rinnegati (la linguistica computazionale in IA, per esempio), le sottodiscipline della psicolinguistica e della neurolinguistica - si sviluppa da varie tradizioni di studi che risalgono ai pionieristici indagatori e teorici del linguaggio, dai fratelli Grimm a Ferdinand de Saussure e Roman Jakobson, ma tutte queste tradizioni furono unificate in una famiglia di indagini scientifiche ricca di correlazioni dai progressi teorici proposti per la prima volta da un unico pioniere, Noam Chomsky. Il suo librettino del 1957, Le strutture sintattiche, era un'applicazione ai linguaggi naturali quali l'inglese dei risultati di un'ambiziosa indagine teorica che aveva intrapreso in un'altra regione ancora dello spazio dei progetti: lo spazio logico di tutti i possibili algoritmi per generare e riconoscere le frasi di tutti i possibili linguaggi. Il lavoro di Chomsky seguiva dappresso il cammino delle indagini puramente logiche di Turing sulle capacità di ciò che oggi si chiama computer. Alla fine, Chomsky definì una scala crescente di tipi di grammatiche, ovvero di tipi di linguaggi - la «gerarchia di Chomsky», su cui tutti gli studenti di teoria della computazione continuano a impratichirsi - e ne mostrò la relazione con una scala crescente di tipi di automi o computer: dalle «macchine a stati finiti» attraverso gli «automi push-down» e le «macchine lineari limitate» fino alle «macchine di Turing».

Ricordo in maniera molto vivida l'onda d'urto che si abbatté sulla filosofia quando il lavoro di Chomsky giunse alla nostra attenzione qualche anno più tardi. Nel 1960, il mio secondo anno a Harvard, chiesi al professor Quine quali critici delle sue concezioni mi consigliasse di leggere. (Al tempo mi consideravo un feroce antiquiniano e stavo già iniziando a sviluppare gli argomenti per la tesi, che lo attaccava. Dovevo assolutamente conoscere chiunque adducesse argomenti contro Quine!) Mi suggerì immediatamente di dare un'occhiata al lavoro di Noam Chomsky, un autore di cui all'epoca pochi filosofi avevano sentito parlare, ma la cui fama ci sommerse presto tutti quanti. Le opinioni dei filosofi del linguaggio sul suo lavoro divergevano: alcuni lo amavano, altri lo odiavano. Quelli di noi che lo amavano si immersero ben presto nelle trasformazioni, negli alberi, nelle strutture profonde e in tutti gli altri oggetti misteriosi di un nuovo formalismo. Molti di coloro che odiavano il suo lavoro lo condannarono giudicandolo uno spaventoso scientismo filisteo, un assalto stridente da parte di vandali tecnocratici alle meravigliose, non analizzabili e non formalizzabili sottigliezze del linguaggio. Questo atteggiamento ostile era di gran lunga il predominante nei dipartimenti di lingue straniere della maggior parte delle principali università. Chomsky poteva essere docente di linguistica al MIT e la linguistica poteva rientrare, in quell'università, negli studi umanistici, ma il lavoro di Chomsky era scienza e la scienza era il Nemico - come sa ogni tesserato del partito umanista.

    Dolce è il sapere che la Natura porta;
    Il nostro intelletto impiccione
    deforma il bell'aspetto delle cose:
    Noi uccidiamo per dissezionare.

Noam Chomsky, teorico degli automi e radiotecnico, pareva impersonare alla perfezione la visione romantica di Wordsworth dello scienziato come assassino della bellezza, ma l'ironia è che può sembrare che l'atteggiamento nei confronti della scienza di cui egli è sempre stato il paladino offra la salvezza agli umanisti. Come si è visto nella sezione precedente, Chomsky ha sostenuto che la scienza ha dei limiti e, in particolare, che inciampa di fronte alla mente. Discernere la forma di questo fatto curioso si mostra compito difficile da molto tempo, persino per coloro che si sanno districare tra i dettagli tecnici e le controversie della linguistica contemporanea, ma da molto tempo desta anche grande meraviglia. La famosa rassegna di Chomsky (1959) che stroncava Il comportamento verbale di B.F. Skinner (1957) fu uno degli atti a fondamento delle scienze cognitive. Allo stesso tempo, Chomsky ha sempre mostrato una ferma ostilità nei confronti dell'intelligenza artificiale e ha avuto tanto coraggio da intitolare uno dei suoi libri più importanti Linguistica cartesiana (1966), quasi come se pensasse che il dualismo antimaterialista di Cartesio stesse per ritornare di moda. Da che parte stava, in ogni modo? Non dalla parte di Darwin, comunque. Se chi temeva Darwin desiderava un campione che fosse profondamente e autorevolmente inserito nell'ambito della scienza stessa, non poteva scegliere qualcuno migliore di Chomsky.

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Capitolo 13: Quando la mossa di «generazione e verifica», la mossa fondamentale di qualsiasi algoritmo darwiniano, entra nel cervello dei singoli organismi, costruisce una serie di sistemi sempre più potenti, che culmina nella generazione e verifica, deliberate e previdenti, di ipotesi e teorie da parte degli esseri umani. Questo processo crea una mente che non mostra alcun segno di «chiusura cognitiva», grazie alla sua capacità di generare e comprendere il linguaggio. Noam Chomsky, pur avendo creato la linguistica contemporanea dimostrando che il linguaggio è generato da un automa innato, ha respinto qualsiasi descrizione evolutiva delle modalità e dei motivi relativi al progetto e all'installazione dell'automa del linguaggio e ha contrastato anche tutti i tentativi dell'intelligenza artificiale di modellare l'uso del linguaggio. Chomsky si è opposto fermamente all'ingegneria (inversa), fiancheggiato da Gould da una parte e da Searle dall'altra, esemplificando la resistenza alla diffusione dell'idea pericolosa di Darwin e insistendo nel sostenere la tesi che la mente umana è un gancio appeso al cielo.


Capitolo 14: Nel capitolo 8, ho abbozzato una descrizione evolutiva della nascita del significato, che verrà ora ampliata e difesa dalle sfide scettiche dei filosofi. Una serie di esperimenti mentali che poggiano sui concetti introdotti in precedenza mostra non soltanto la coerenza, ma anche l'inevitabilità di una teoria evolutiva del significato.

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