Copertina
Autore David Deutsch
Titolo L'inizio dell'infinito
SottotitoloSpiegazioni che trasformano il mondo
EdizioneEinaudi, Torino, 2013, Saggi 936 , pag. 502, ill., cop.ril.sov., dim. 15,5x23,5x3,2 cm , Isbn 978-88-06-20454-9
OriginaleThe Beginning of Infinity. Explanations that Transform the World [2011]
TraduttoreLuigi Civalleri, Simonetta Frediani
LettoreCorrado Leonardo, 2014
Classe cosmologia , evoluzione , filosofia , epistemologia , scienze cognitive , scienze naturali , fisica , matematica
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Indice


VII Introduzione

 IX Ringraziamenti


           L'inizio dell'infinito

  3     I. La portata delle spiegazioni

 35    II. Piú vicini alla realtà

 43   III. La scintilla

 79    IV. Creazione

109     V. La realtà delle astrazioni

127    VI. Il salto nell'universalità

151   VII. Creatività artificiale

169  VIII. Una finestra sull'infinito

201    IX. Ottimismo

229     X. Un sogno di Socrate

265    XI. Il multiverso

313   XII. La storia della cattiva filosofia vista da un fisico

335  XIII. Scelte

363   XIV. Perché í fiori sono belli?

381    XV. L'evoluzione della cultura

411   XVI. L'evoluzione della creatività

433  XVII. Insostenibile

459 XVIII. L'inizio


477 Letture consigliate

479 Indice analitico


 

 

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Pagina VII

Introduzione


Un progresso sufficientemente rapido da esser riconosciuto come tale e abbastanza duraturo da continuare per varie generazioni si è visto una volta sola nella storia della nostra specie. È iniziato all'incirca durante la rivoluzione scientifica ed è ancora in corso. Ha portato miglioramenti non solo alla nostra comprensione scientifica del mondo, ma anche alla tecnologia, alle istituzioni politiche, ai valori morali, all'arte e in ogni aspetto del benessere dell'uomo.

Di fronte a ogni progresso, è sempre accaduto che importanti pensatori negassero che fosse autentico, che fosse auspicabile, o che l'idea stessa di progresso avesse senso. Avrebbero fatto meglio a tacere. Esiste una differenza oggettiva tra una spiegazione falsa e una vera, tra i fallimenti cronici di fronte a un problema e la sua soluzione, e anche tra ciò che è sbagliato e ciò che è giusto, tra il brutto e il bello, tra la sofferenza e il lenimento alla sofferenza, dunque in generale tra la stagnazione e il progresso in senso piú pieno.

In questo libro sostengo che ogni forma di progresso, sia teorico sia pratico, è sempre nato da una precisa attività umana: la ricerca di quelle che io chiamo «buone spiegazioni». Pur essendo una caratteristica unica della nostra specie, la sua efficacia riflette anche una verità fondamentale a livello non umano e cosmico: infatti si conforma alle leggi universali della natura che sono, sotto ogni punto di vista, buone spiegazioni. Questa relazione immediata tra il cosmico e l'umano ci fa intuire quale ruolo importante abbiamo noi nello schema universale delle cose.

Il progresso deve per forza terminare, magari per colpa di una catastrofe, o semplicemente per esaurimento, oppure non ha mai fine? La risposta giusta è la seconda. L'«infinito» nel titolo del libro si riferisce proprio a questa illimitatezza. Spiegarne le ragioni, e le condizioni sotto cui il progresso può o non può avvenire, ci porterà in un viaggio attraverso quasi ogni campo fondamentale della scienza e della filosofia. Da ciascuna di queste discipline impareremo che il progresso, pur non dovendo necessariamente finire, ha una causa originaria, o comunque una condizione necessaria perché inizi e si sviluppi. Ogni disciplina, dunque, vede dalla propria prospettiva un «inizio dell'infinito». A un esame superficiale può sembrare che si tratti di eventi non legati tra loro, ma in realtà sono aspetti diversi di un unico attributo della realtà, che io chiamo l' inizio dell'infinito.

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Pagina 3

Capitolo primo

La portata delle spiegazioni


                                        Dietro a tutto ciò c'è sicuramente
                                        un'idea cosí semplice e bella che quando
                                        la comprenderemo - tra dieci, cento o
                                        mille anni - penseremo tutti che non
                                        potrebbe essere altrimenti.

                                                          JOHN ARCHIBALD WHEELER



A occhio nudo, l'universo al di fuori del nostro sistema solare sembra costituito da qualche migliaio di puntini luminosi nel cielo notturno, oltre alle deboli e indistinte striature della Via Lattea. Ma se chiedete a un astronomo che cosa davvero ci sia laggiú, non vi parlerà di puntini e striature ma di stelle: sfere di gas incandescente dal diametro di milioni di chilometri e distanti anni luce dalla Terra. Vi racconterà che il Sole è una stella come tante, che ci sembra diversa solo perché è molto piú vicina a noi, anche se è pur sempre a circa 150 milioni di chilometri dalla Terra. Eppure, sebbene quegli oggetti siano a distanze inimmaginabili da noi, siamo sicuri di conoscere il meccanismo che li fa splendere: l'energia nucleare rilasciata dalla trasmutazione, cioè dalla conversione di un elemento in un altro (soprattutto idrogeno in elio).

Alcune trasmutazioni avvengono spontaneamente anche sul nostro pianeta, nel decadimento di elementi radioattivi. La prima dimostrazione del fenomeno, da parte di Frederick Soddy ed Ernest Rutherford, risale al 1901, ma l'idea di trasmutazione è antichissima. Da secoli gli alchimisti inseguivano il sogno di trasformare in oro metalli «vili» come il ferro e il piombo. Non avevano mai capito neanche lontanamente che cosa sarebbe stato necessario per farlo e cosí avevano sempre fallito. Ma nel Novecento gli scienziati arrivarono a capirlo. E anche le stelle, quando diventano supernove ed esplodono, sanno benissimo come fare. I metalli vili possono essere trasmutati in oro dalle stelle o da esseri intelligenti che comprendono i processi che le alimentano, ma da null'altro nell'universo.

Per quel che riguarda la Via Lattea, un astronomo vi spiegherebbe che le apparenze ingannano: nonostante l'aspetto evanescente, è l'oggetto di massa maggiore che si possa scorgere a occhio nudo. È una galassia che comprende centinaia di miliardi di stelle, tenute assieme dalla forza di gravità in una regione di spazio che si estende per decine di migliaia di anni luce. Noi la vediamo dall'interno, perché ne facciamo parte. E anche se il cielo appare sereno e pressoché immutabile, in realtà l'universo è un luogo pieno di attività violente. Una stella media converte in un secondo milioni di tonnellate di massa in energia, nella proporzione dell'equivalente di una bomba atomica per grammo. Nel campo visivo dei piú potenti telescopi a nostra disposizione, in grado di osservare un numero di galassie maggiore di quante siano le stelle nella Via Lattea, accadono svariate esplosioni di supernove al secondo, ognuna delle quali, per un breve istante, è piú luminosa di tutte le altre stelle della sua galassia messe insieme. Non sappiamo se e dove esistano la vita e l'intelligenza fuori del nostro sistema solare, dunque ignoriamo quante di queste esplosioni nascondano orribili tragedie. Sappiamo però che una supernova distrugge tutti i pianeti che le orbitano intorno e spazza via ogni eventuale forma di vita, compresi gli esseri intelligenti, a meno che non siano dotati di tecnologie assai superiori alle nostre. La sola radiazione di neutrini prodotta da una supernova è in grado di uccidere un essere umano a distanza di miliardi di chilometri, anche se per assurdo fosse protetto da una schermatura di piombo altrettanto spessa. Eppure è alle supernove che dobbiamo la nostra esistenza: grazie alla trasmutazione, sono la fonte di quasi tutti gli elementi di cui sono fatti i nostri corpi e il nostro pianeta.

Ci sono poi fenomeni di fronte ai quali impallidiscono anche le supernove. Nel marzo 2008 un telescopio a raggi X in orbita attorno alla Terra rilevò un'esplosione del tipo noto come lampo gamma, alla distanza di 7,5 miliardi di anni luce dalla Terra (corrispondente all'incirca alla metà del diametro dell'universo conosciuto). Probabilmente si trattava di una stella collassata fino a formare un buco nero, un oggetto dalla forza di gravità cosí intensa che neppure la luce riesce a sfuggirgli. L'esplosione era piú brillante di un milione di supernove e in teoria sarebbe stato possibile osservarla a occhio nudo — però solo debolmente e per pochi secondi, quindi è improbabile che qualcuno se ne sia accorto. Le supernove rimangono visibili piú a lungo, in genere per qualche mese, il che ha permesso agli astronomi di osservarne qualcuna nella nostra galassia anche prima dell'invenzione dei telescopi.

Un'altra classe di mostruosità cosmiche è quella delle quasar, oggetti luminosissimi fatti di tutt'altra pasta. Troppo distanti per essere percepite a occhio nudo, possono brillare piú di una supernova per milioni di anni di fila. Sono alimentate da colossali buchi neri situati al centro delle galassie, in cui cadono intere stelle (al ritmo di parecchie al giorno per le quasar piú grandi), fatte a pezzi dagli effetti di marea man mano che si avvicinano in un movimento a spirale. Grazie a intensi campi magnetici, una parte dell'energia gravitazionale viene sparata fuori sotto forma di getti di particelle altamente energetiche, che illuminano il gas circostante con la forza di mille miliardi di soli.

La situazione è ancora piú estrema all'interno dei buchi neri (dentro il confine di non ritorno noto come «orizzonte degli eventi»), un luogo dove la trama del tempo e dello spazio può strapparsi. Tutto ciò avviene in un universo in espansione, nato circa 14 miliardi di anni or sono da un'esplosione totale, il Big Bang, che fa sembrare modesti e irrilevanti tutti i fenomeni appena descritti. E tutto questo universo non è che un frammento di un'entità enormemente piú vasta, il multiverso, fatto appunto di un vasto numero di universi.

Il mondo fisico non è solo piú grande e pieno di eventi violenti di quanto si pensasse un tempo, ma anche immensamente piú ricco di dettagli, varietà e avvenimenti. Eppure tutto procede secondo un insieme di leggi fisiche eleganti, di cui abbiamo una buona comprensione. Non so cosa sia piú emozionante: i fenomeni in sé o il fatto che li conosciamo cosí bene.

E come mai sappiamo tante cose? Uno degli aspetti piú notevoli della ricerca scientifica è il contrasto tra l'enorme portata e il potere delle nostre teorie migliori e i mezzi precari e del tutto locali con cui le creiamo. Nessun essere umano è mai stato sulla superficie di una stella né tanto meno ne ha visitato il centro, dove avvengono le trasmutazioni e si produce energia. Eppure vediamo quei puntini freddi nel cielo e sappiamo di stare osservando superfici al calor bianco di fornaci nucleari. Dal punto di vista fisico, questa esperienza non è altro che la reazione del cervello agli impulsi elettrici provenienti dagli occhi. E gli occhi possono percepire soltanto la luce che li colpisce in quel momento. Il fatto che la luce delle stelle sia stata emessa molto lontano e molto tempo fa e che all'interno degli astri siano avvenuti molti altri fenomeni non è accessibile ai sensi. Lo sappiamo soltanto grazie alla teoria.

Le teorie scientifiche sono spiegazioni: affermazioni sulla natura e sul comportamento di ciò che esiste.

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Pagina 10

L'inganno dei sensi ha sempre costituito un problema per l'empirismo — e perciò, a quanto pareva, per la scienza intera. La risposta classica degli empiristi a questa obiezione era che i sensi, in sé, non sono affatto menzogneri e che a fuorviarci sono soltanto le nostre interpretazioni erronee delle apparenze. Il che è vero, ma solo perché i sensi da soli non ci dicono un bel nulla. Sono le interpretazioni a farlo, e loro sí in modo assai fallibile. Ma la chiave di volta della scienza è proprio il fatto che le teorie esplicative, che comprendono le interpretazioni, sono migliorabili attraverso la congettura, la critica e la verifica.

L'empirismo non ha mai raggiunto il suo scopo di liberare del tutto la scienza dalle pastoie della tradizione. Il suo rinnegare l'autorità degli antichi è stato salutare, ma purtroppo ciò è avvenuto pagando un alto prezzo: l'elevare a feticcio le esperienze sensoriali e un fittizio processo di «derivazione», come è l'induzione, che si immagina estrarre le teorie dalle esperienze.

L'idea errata che la conoscenza si debba appoggiare sull'autorità per essere autentica o affidabile risale al mondo antico ed è ancora molto diffusa. Ancora oggi, in molti corsi di epistemologia si insegna che la conoscenza è una forma di credenza vera e giustificata, dove «giustificata» sta per riconosciuta vera (o almeno «probabile») da qualche fonte autorevole o pietra di paragone. Quindi, la domanda «Come sappiamo che il tal fatto è cosí?» diventa «Con quale autorità affermiamo che il tal fatto è cosí?» Quest'ultima è una chimera, sulla quale si sono sprecati gli sforzi e il tempo di molti filosofi, forse piú che su qualsiasi altra idea. Secondo questa impostazione, la ricerca della verità si trasforma in una ricerca della certezza (che è una sensazione) o del riconoscimento pubblico (che è uno status sociale). Tale fallacia è detta giustificazionismo.

La posizione opposta, cioè il riconoscere che non esistono né fonti autorevoli di conoscenza né mezzi affidabili per giustificare un'idea in quanto vera o probabile, è detta invece fallibilismo. A chi crede nel giustificazionismo, una posizione del genere pare di volta in volta disperata o cinica, perché sembra affermare che la conoscenza sia irraggiungibile. Ma per quanti di noi pensano che creare conoscenza significhi capire meglio la realtà, come si comporta e perché, il fallibilismo fa parte del processo. Chi sposa questa posizione si aspetta che anche le teorie migliori e piú profonde contengano errori misti a verità, dunque è ben disposto a cambiarle per migliorarle. Per contrasto, la logica del giustificazionismo prevede la ricerca di modi per assicurare le idee contro il cambiamento (e di solito anche la convinzione di averli trovati). Seguendo la logica del fallibilismo, inoltre, non solo si cerca di correggere gli errori del passato, ma si spera che in futuro si troveranno falle anche nelle teorie che oggi sembrano accettate da tutti. Il fallibilismo dunque, e non il semplice rifiuto dell'autorità, è essenziale per far partire il processo di crescita illimitata delle conoscenze: l'inizio dell'infinito.


[...] Come dice Sherlock Holmes, il detective nato dalla mente di Arthur Conan Doyle, in Uno scandalo in Boemia, «fare teorie prima di avere i dati è un errore madornale».

E invece è questa posizione a essere un errore madornale. Non conosciamo nessun dato prima di interpretarlo con la teoria. Come disse Popper, tutte le osservazioni sono «cariche di teoria» (theory-laden), dunque fallibili, come tutte le nostre teorie. Consideriamo per esempio gli impulsi nervosi che giungono al cervello dagli organi di senso. Lungi dal fornire un accesso diretto e puro alla realtà, nemmeno loro sono esperiti per ciò che sono davvero, cioè scariche elettriche. Né, in genere, li sentiamo accadere nel luogo dove avvengono, cioè il cervello: li collochiamo invece nella realtà esterna. Non vediamo semplicemente il colore blu, ma un cielo blu, lontano, lassù. Non proviamo genericamente dolore, ma abbiamo mal di testa o mal di pancia. Il cervello assegna interpretazioni come «testa», «pancia» e «lassù» a eventi che in realtà avvengono dentro il cervello stesso. I nostri organi di senso, e tutte le interpretazioni che, in modo piú o meno conscio, diamo dei dati che ci forniscono, sono notoriamente fallibili, come attestano la teoria della sfera e tutti i giochi di prestigio e le illusioni ottiche. Non percepiamo un bel niente come è in realtà. Tutto è interpretazione teorica: congettura.

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Pagina 43

Capitolo terzo

La scintilla


Oltre a essere false, gran parte delle teorie che gli antichi avevano elaborato per rendere conto della realtà dietro la nostra esperienza quotidiana avevano un carattere che le rendeva molto diverse dalle nostre: erano antropocentriche, cioè centrate sugli esseri umani e, in senso lato, sulle persone — entità dotate di intenzioni e pensieri; tra queste erano compresi potenti esseri soprannaturali, come spiriti e dèi. Ecco dunque che l'inverno poteva essere attribuito alla tristezza di un tale, la crescita del grano alla generosità di un altro, i disastri naturali alla rabbia di un altro ancora, e cosí via. Spesso si trattava di entità importanti a livello cosmico, che si preoccupavano di quel che combinavano gli umani o avevano determinate intenzioni nei loro confronti. Ciò conferiva anche a noi un'importanza cosmica. A un certo punto arrivò anche la teoria geocentrica dell'universo a piazzarci nel baricentro fisico della realtà. Questi due livelli diversi di antropocentrismo, quello esplicativo e quello geometrico, si rafforzarono a vicenda; come risultato, il pensiero preilluminista era centrato sull'uomo a livelli oggi poco immaginabili.

Una notevole eccezione era data proprio dalla geometria, specialmente dopo il contributo del grande matematico greco Euclide. I suoi eleganti postulati e ragionamenti su entità impersonali come punti e rette, avrebbero in seguito fornito spunti a molti pionieri dell'Illuminismo, ma prima di allora non lasciarono molti segni sulle prevalenti visioni del mondo. Tanto per fare un esempio, molti astronomi erano anche astrologi: la conoscenza di sofisticate tecniche geometriche non impediva loro di credere che dalla posizione delle stelle dipendessero le fortune di uomini e imperi sulla Terra. Quando il funzionamento del mondo era ancora del tutto sconosciuto, non è da escludere che cercare di interpretare i fenomeni in termini di idee e di azioni tipiche degli esseri umani potesse essere ragionevole. Dopo tutto, vi facciamo ricorso anche oggi in molti casi: se, per esempio, scopriamo che un gioiello è misteriosamente sparito da una cassaforte chiusa, cerchiamo di comprendere l'accaduto parlando di furto o errore umano (o magari di trucco di un mago, in certe circostanze), e non ci mettiamo certo a cercare nuove leggi fisiche. Ma l'antropocentrismo non ha mai portato a buone spiegazioni in ambiti che non fossero le faccende umane, e nei riguardi del mondo fisico in senso piú ampio si è rivelato un colossale abbaglio. Oggi sappiamo che le configurazioni dei pianeti e delle stelle nel cielo notturno non hanno alcuna influenza sulle nostre vite. Sappiamo di non essere al centro dell'universo, che anzi non ha nemmeno un centro in senso geometrico. E sappiamo che, anche se alcuni tra i titanici fenomeni astrofisici di cui ho parlato finora hanno avuto un ruolo importante nel passato, non si può dire lo stesso per l'inverso: la nostra presenza non ha avuto un gran significato per loro. Dirò qui che un fenomeno è significativo (o fondamentale) se non si può spiegare con teorie di tipo locale, o se compare nelle teorie esplicative di vari altri fenomeni. Da questo punto di vista, dunque, gli esseri umani, i loro desideri e le loro azioni sono completamente insignificanti nell'universo preso nel suo complesso.

Le fallacie antropocentriche sono state spazzate via anche in tutti gli altri settori fondamentali della scienza. Oggi la nostra conoscenza della fisica è espressa sempre e soltanto in termini di entità impersonali tanto quanto i punti e le rette di Euclide: particelle elementari, forze, spaziotempo (quest'ultimo è un continuum a quattro dimensioni, tre spaziali e una temporale). Le loro interazioni sono descritte non attraverso desideri e secondi fini, ma con equazioni, formule matematiche che esprimono le leggi di natura. In biologia si è abbandonata l'idea che i viventi siano stati progettati da un'entità soprannaturale e che contengano un «principio vitale» grazie al quale sembrano comportarsi come mossi da un fine. Ma la scienza biologica ha scoperto nuovi modelli esplicativi basati su entità impersonali come le reazioni chimiche, i geni e l'evoluzione. E sappiamo che gli esseri viventi, uomini compresi, sono costituiti dagli stessi ingredienti che ritroviamo nelle rocce e nelle stelle, obbediscono alle stesse leggi e non sono stati progettati da nessuno in particolare. La scienza moderna, lungi dallo spiegare i fenomeni fisici tirando in ballo i pensieri e le intenzioni di persone invisibili, considera i nostri stessi pensieri come aggregati di invisibili (ma in linea di principio osservabili) processi fisici microscopici che avvengono nel cervello.

L'abbandono dell'antropocentrismo è stato cosí gravido di buoni frutti, e cosí importante nella storia delle idee in generale, da aver dato vita a una sorta di antiantropocentrismo elevato a principio universale. C'è chi lo definisce il «principio di mediocrità»: gli esseri umani sono insignificanti (nell'ordine cosmico). Come ha detto Stephen Hawking, gli uomini sono solo «scorie chimiche sulla superficie di un tipico pianeta che orbita intorno a una tipica stella, che si trova alla periferia di una tipica galassia». Specificare «nell'ordine cosmico» è necessario, perché questa «scoria» è ovviamente significativa secondo certi criteri che applica a se stessa, come ad esempio i valori morali. Ma il principio di mediocrità sostiene che tutto ciò è molto antropocentrico: tali valori guidano solo il comportamento della scoria, che è in sé insignificante.

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Pagina 51

Concludendo, la biosfera non è in grado di sostenere la vita umana. È stata la conoscenza umana, fin da subito, a rendere il pianeta in qualche misura abitabile; la potenza dei nostri sistemi di supporto vitale, enormemente aumentata con il tempo (sia dal punto di vista del numero di individui che possono sopravvivere, sia da quello della qualità della vita), è dovuta interamente alla creazione di conoscenza. Se davvero siamo su un'astronave, non siamo certo dei semplici passeggeri né i piloti (come si sente dire spesso) né tantomeno gli addetti alla manutenzione: ne siamo piuttosto i progettisti e costruttori. Prima delle nostre trovate, non era un veicolo, ma un pericoloso ammasso di materiale grezzo.

Dipingerci come semplici passeggeri è sbagliato anche sotto un altro aspetto. Questa metafora spinge a concludere che nel passato è esistita un'epoca non problematica, in cui gli esseri umani erano serviti e riveriti, appunto, come passeggeri e non dovevano affrontare una serie continua di ostacoli per vivere e prosperare. Ma in realtà i nostri antenati, pur dotati di conoscenze e cultura, dovevano risolvere problemi di estrema difficoltà, come procacciarsi il cibo, e chi non ci riusciva moriva. Si sono trovati ben pochi resti fossilizzati di individui anziani.

Dal punto di vista morale, dunque, la metafora dell'Astronave Terra ha molti aspetti contraddittori. Gli esseri umani sono dipinti come ingrati, ma in realtà non devono ringraziare nessuno per doni che non hanno mai ricevuto. Tutti gli altri organismi, invece, hanno un ruolo positivo. Ma la nostra specie fa parte della biosfera come le altre e la sua presunta «immoralità» fa il paio con quella delle altre in tempo di vacche grasse. La differenza è che noi siamo gli unici a cercare di mitigare gli effetti delle nostre azioni sui nostri discendenti e sulle altre specie.

Anche il principio di mediocrità porta a paradossi. Poiché dà un ruolo speciale all'antropocentrismo, visto come una fallacia provinciale particolarmente obbrobriosa, è a sua volta antropocentrico. Per di piú, sostiene che tutti i giudizi di valore sono antropocentrici, però è comune che venga espresso mediante termini carichi di valore, come «arroganza», «scoria chimica», per non parlare della stessa «mediocrità». Ma sulla base di quali valori di riferimento? Perché l'arroganza sarebbe una critica pertinente? Ammesso che tenere atteggiamenti arroganti sia moralmente sbagliato, si suppone che i principi morali si applichino soltanto all'organizzazione interna delle scorie chimiche. Come possono dirci alcunché di significativo su come è organizzato il mondo al di là delle scorie, come pretende di fare il principio di mediocrità?

Comunque, non fu l'arroganza a spingere i nostri predecessori verso spiegazioni antropocentriche. Si trattò di un semplice caso di provincialismo, all'inizio del tutto ragionevole. Né fu l'arroganza a impedirci di riconoscere i nostri errori cosí a lungo: non ci rendevamo conto di nulla, perché non sapevamo come cercare spiegazioni migliori. Anzi, in un certo senso il nostro problema era il fatto di non essere abbastanza arroganti e dare per scontato senza troppi patemi d'animo che il mondo fosse fondamentalmente incomprensibile.

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Pagina 59

Siamo abituati a pensare alla Terra come a un pianeta ospitale e alla Luna come a un mondo lontano, desolato e incapace di sostenere la vita. Ma cosí i nostri antenati avrebbero giudicato l'Oxfordshire e, paradossalmente, cosí io, oggi, vedo la Rift Valley della preistoria, culla dell'umanità. Siamo unici anche in questo: per noi, la differenza tra un luogo ospitale e una trappola mortale dipende dalla conoscenza che abbiamo creato in un certo momento. Quando la colonia lunare avrà una quantità sufficiente di tecnologia, i suoi abitanti potranno dedicarsi ad attività che vanno oltre la sopravvivenza; presto quel luogo non sarà piú una «colonia» ma per loro, semplicemente, «casa». Nessuno piú penserà alla Luna come a un ambiente marginale, ben distinto da quello «naturale» della Terra; ci si vivrà in modo diverso, cosí come oggi c'è chi abita nell'Oxfordshire e chi nella Rift Valley.

In sé, utilizzare la conoscenza per produrre trasformazioni fisiche automatizzate non è una peculiarità umana. Anzi, è il metodo di base grazie al quale tutti gli organismi si mantengono in vita, visto che ogni cellula è in realtà una fabbrica chimica. La differenza tra gli umani e le altre specie sta nel tipo di conoscenza utilizzata (esplicativa e non pratica) e nel modo in cui essa è creata (congetture e critiche al posto di variazione e selezione genetica). Proprio a queste due differenze è dovuto il fatto che gli altri organismi sono in grado di vivere solo in una certa gamma di ambienti ospitali, mentre gli uomini riescono a trasformare ambienti inospitali, come la biosfera, in sistemi di supporto vitale. Inoltre, mentre tutti gli altri organismi sono fabbriche per trasformare risorse di un dato tipo in altri organismi della stessa specie, il corpo umano (compreso il cervello) è una fabbrica per trasformare qualsiasi cosa in qualsiasi cosa permessa dalle leggi di natura. Siamo «costruttori universali».

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Pagina 70

Vediamo ora quanto sia significativa la conoscenza - e dunque quanto lo siano le persone - nell'ordine cosmico.

Molte entità sono ovviamente piú significative delle persone, no? Pensiamo ad esempio allo spazio e al tempo, che compaiono in quasi tutte le spiegazioni degli altri fenomeni fisici, cosí come gli elettroni e gli atomi. Gli esseri umani sembrano non avere posto in tale alata compagnia. La storia, la politica, la scienza, l'arte, la filosofia, i nostri desideri e valori morali sono soltanto piccoli effetti collaterali dell'esplosione di una supernova qualche miliardo di anni or sono, che potrebbero aver fine domani per un'altra esplosione di questo tipo. E anche le supernove non sono poi tanto significative nell'ordine cosmico. In ogni modo, sembra che si possa spiegare quasi tutto senza nemmeno nominare le persone o la conoscenza.

Ma questo non è che un altro errore dovuto al provincialismo, cioè al nostro punto di osservazione tutt'altro che tipico e alla nostra breve esperienza con l'Illuminismo. Nel lungo periodo, gli esseri umani potranno colonizzare altri sistemi solari, accrescere le loro conoscenze e riuscire a governare processi fisici sempre piú eccezionali. Se una colonia scegliesse di vivere vicino a una stella che ha il potenziale di esplodere, potrebbe prevenire la catastrofe, penso, rimuovendo parte della materia nella stella stessa. Un'impresa del genere richiederebbe tecnologie molto piú avanzate delle attuali ed energie maggiori di svariati ordini di grandezza rispetto a quelle che oggi siamo in grado di gestire. Ma l'obiettivo in sé è semplice e non richiede azioni ai limiti delle leggi fisiche. Dunque, con la giusta conoscenza, sarebbe realizzabile; anzi, per quel che ne possiamo sapere magari ci sono ingegneri sparsi nell'universo che già lo fanno di routine. Di conseguenza, si può affermare che il comportamento delle supernove non è del tutto indipendente dalla presenza di persone e dalle loro conoscenze e intenzioni.

Piú in generale, se desideriamo prevedere il comportamento di una stella dobbiamo in prima battuta chiederci se siano presenti delle persone nelle sue vicinanze e, nel caso, quali siano le loro intenzioni e possibilità tecniche. Se abbandoniamo il nostro punto di vista provinciale, ci accorgiamo che l'astrofisica non può dirsi completa senza una teoria delle persone, come lo sarebbe senza una teoria della gravità o delle interazioni nucleari. Osservate che questa conclusione non dipende dall'ipotesi che gli esseri umani, o qualsiasi altra forma di vita, colonizzino davvero la nostra galassia e riescano a controllare le supernove; possiamo infatti anche affermare che non sarà cosí, e pure questa è una teoria legittima sul comportamento futuro della conoscenza. La conoscenza è un fenomeno significativo nell'universo perché, in quasi ogni previsione di tipo astrofisico, è necessario prendere posizione riguardo ai tipi di conoscenza che saranno o meno presenti nelle vicinanze del fenomeno che si vuole studiare. Quindi ogni spiegazione relativa al mondo fisico deve fare menzione, seppure in modo implicito, della conoscenza e delle persone.

Ma c'è un aspetto ancora piú importante. Dato un qualunque oggetto, da un sistema planetario a un microchip di silicio, consideriamo tutte le trasformazioni a cui può essere sottoposto senza violare le leggi della fisica. Il microchip, ad esempio, può essere fuso affinché, una volta solidificato, assuma un'altra forma, oppure si possono cambiare i suoi circuiti per modificarne la funzione. Il sistema planetario può trasformarsi in modo violento se la stella diventa una supernova; o magari su uno dei suoi pianeti può nascere la vita; o ancora, grazie alla trasmutazione e a qualche altra tecnologia futuristica, tutta la sua materia si può convertire in microchip. In ogni caso, la classe delle trasformazioni che possono avvenire spontaneamente, in assenza di conoscenze, è trascurabile in rapporto all'altra, cioè a quelle trasformazioni effettuabili da esseri intelligenti dotati della volontà di farlo. In altre parole, in quasi tutti i fenomeni fisici ammessi dalle leggi si deve riconoscere il ruolo della conoscenza che li rende possibili. Se volete spiegare come un certo oggetto raggiunga una temperatura di 10, 100 o 1000000 di gradi, potete far ricorso a fenomeni spontanei e non tirare in ballo le persone (anche se nella maggior parte dei casi sono coinvolte). Ma se volete spiegare come un oggetto arrivi alla temperatura di un milionesimo di grado sopra lo zero assoluto, non potete fare a meno di specificare nei dettagli cosa farebbero le persone.

E non è finita qui. Continuiamo l'esperimento mentale e riprendiamo il viaggio, lasciando il nostro cubo nello spazio intergalattico per approdare a un altro punto almeno dieci volte piú lontano: siamo dentro uno dei getti di una quasar. Cosa vediamo?

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Terminologia.

persona Entità in grado di creare conoscenza esplicativa.

antropocentrico Ciò che è focalizzato sugli esseri umani, o sulle persone in generale.

fenomeno significativo (o fondamentale) Ciò che ha un ruolo insostituibile nella spiegazione di molti fenomeni, o possiede caratteristiche tali da richiedere una spiegazione precisa in funzione delle teorie fondamentali.

principio di mediocrità «Gli esseri umani sono insignificanti nell'ordine cosmico».

provincialismo Fallacia che consiste nello scambiare le apparenze per realtà, o le regolarità locali per leggi universali.

«Astronave Terra» Metafora che vede la biosfera come un sistema di supporto vitale per gli esseri umani.

costruttore Entità capace di causare trasformazioni in altri oggetti senza subire a sua volta trasformazioni di fondo.

costruttore universale Costruttore capace di realizzare qualsiasi trasformazione ammessa dalle leggi fisiche a partire da ogni tipo di materiale, se dispone delle informazioni appropriate.


Vari aspetti dell'«inizio dell'infinito» incontrati qui.

Tutto ciò che non è proibito dalle leggi di natura è realizzabile, se si possiede la conoscenza necessaria; in altre parole, «tutti i problemi sono risolubili».

La parte non creativa della ricerca (la «traspirazione» di Edison) si può sempre automatizzare.

Il mondo fisico è predisposto alla conoscenza.

Le persone sono costruttori universali.

L'inizio di una creazione illimitata di spiegazioni.

Gli ambienti in grado di sostenere un flusso illimitato di conoscenza, se opportunamente innescati, sono quasi tutti quelli presenti nell'universo.

Il fatto che nuove spiegazioni creano nuovi problemi.


Riassunto.

Sia il principio di mediocrità sia la metafora dell'Astronave Terra sono, al contrario delle loro motivazioni, irrimediabilmente provinciali e fallaci. Dal punto di vista meno provinciale possibile per noi, le persone sono le entità piú significative nell'ordine cosmico. Queste non vengono «mantenute» dall'ambiente in cui vivono, ma si mantengono da sole grazie alla creazione di conoscenza. Una volta in possesso della conoscenza appropriata (che è essenzialmente quella dell'Illuminismo) sono in grado di fornire la scintilla che dà il via al progresso illimitato.

Oltre ai pensieri delle persone, l'unico altro processo che, per quanto ne sappiamo, è in grado di creare conoscenza è l'evoluzione biologica. Ma la conoscenza che produce (a differenza di quella creata dalle persone) è intrinsecamente limitata e provinciale. Ciò nonostante, ha molti punti di contatto con la conoscenza umana. Nel capitolo IV vedremo queste somiglianze, oltre alle differenze.

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Il neodarwinismo.


L'idea centrale della moderna teoria darwiniana è che l'evoluzione agisce in favore dei geni che si diffondono in modo piú efficiente all'interno della popolazione. Come vedremo, questo semplice assunto ha varie conseguenze.

Un errore comune è quello di considerare l'evoluzione come un meccanismo che massimizza il «bene della specie», in modo da avere una spiegazione plausibile, ma falsa, di certi comportamenti animali che sembrano dettati dall'altruismo: i genitori che rischiano la vita per proteggere i figli, o gli individui piú forti che si posizionano all'esterno del branco per difenderlo, a detrimento delle loro chance di sopravvivenza e di trasmissione dei geni alla prole. Sembra proprio che l'evoluzione ottimizzi il bene della specie, non dell'individuo. Ma in realtà ciò è doppiamente falso.

Per capire il perché, consideriamo un esperimento mentale. Supponiamo che su un'isola esista una popolazione di uccelli le cui chance di sopravvivenza sono massime se tutte le coppie nidificano nello stesso momento, diciamo l'inizio di aprile. Ciò è plausibile, ed è il risultato dell'azione di molte variabili, come la temperatura, la presenza di predatori, la disponibilità di cibo e materiale per la costruzione del nido, e cosí via. Ipotizziamo che all'inizio tutti gli individui di quella popolazione posseggano un gene che li spinge a nidificare proprio nel periodo migliore. Ciò vorrebbe dire che tale gene è frutto di un adattamento che massimizza il numero di uccelli, quindi in questo senso ottimizza il «bene della specie».

Ora immaginiamo che l'equilibrio sia disturbato da un gene mutante che spinge un solo individuo a nidificare un po' prima, diciamo alla fine di marzo. Supponiamo anche che quando un uccello ha costruito un nido, gli altri geni che governano il comportamento siano tali da fargli ottenere automaticamente tutta la cooperazione di cui ha bisogno da parte del partner. La coppia in questione quindi si assicura il miglior sito dell'isola, garantendosi un vantaggio che, in termini di sopravvivenza della prole, compensa ampiamente gli eventuali svantaggi (temperatura piú fresca ecc.) portati dall'anticipo temporale. Supponendo che il gene si trasmetta alla discendenza, nella generazione successiva avremo piú individui che fanno il nido a marzo e tutti troveranno un buon posto. Ne segue che chi nidifica regolarmente all'inizio di aprile comincerà a essere in svantaggio, perché troverà già occupati alcuni dei siti migliori. Il fenomeno si ripete generazione dopo generazione, e se la nidificazione anticipata continua a portare vantaggi che superano gli svantaggi relativi, il sottogruppo che fa il nido ad aprile alla lunga potrebbe estinguersi. Se per una mutazione il gene dovesse ripresentarsi, i suoi portatori non riuscirebbero a riprodursi perché al momento di costruire il nido non troverebbero posti disponibili.

Abbiamo quindi dimostrato che la configurazione di partenza, in cui i geni sembravano adattati a massimizzare una certa popolazione (il «bene della specie»), era in realtà instabile, in presenza di una pressione evolutiva che rende un gene un po' meno adatto a svolgere una certa funzione.

La mutazione ha danneggiato la specie nel suo complesso, perché la popolazione è diminuita (il periodo di nidificazione non è piú quello ottimale). Forse ha anche compromesso le sue chance di sopravvivenza nel lungo periodo e di espansione in altri ambienti. È dunque possibile che una specie ottimamente adattata a un certo habitat si evolva in modo da non esserlo piú, sotto qualche aspetto.

Se comparisse un'altra mutazione che spinge gli uccelli a nidificare ancora prima, diciamo a metà marzo, il processo appena visto potrebbe ripetersi e portare a un ulteriore calo della popolazione. Sembra proprio che l'evoluzione spinga questo gruppo a fare il nido sempre prima e a diminuire di numero. Per raggiungere un nuovo equilibrio si dovrà arrivare a un punto in cui il vantaggio individuale della nidificazione anticipata (la scelta del sito migliore) non compensa piú gli svantaggi (temperatura piú fredda ecc.); e tale punto potrebbe essere molto distante da quello considerato ottimale per la specie nel suo complesso.

Un altro comune fraintendimento è l'idea che l'evoluzione sia sempre adattativa, che costituisca sempre un progresso, o quanto meno una qualche sorta di miglioramento di una funzione utile, che poi viene ottimizzata. Il concetto è riassunto con un'espressione che si deve al filosofo Herbert Spencer e che malauguratamente è stata fatta propria anche da Darwin: la «sopravvivenza del piú adatto». Ma abbiamo appena visto che le cose non stanno proprio cosí. Nel nostro esperimento, il processo evolutivo ha danneggiato non solo la specie, ma anche i singoli individui: gli uccelli ora nidificano in un periodo dell'anno che rende la vita piú complicata.

Quindi, anche se la teoria dell'evoluzione serve proprio a spiegare l'esistenza del progresso nella biosfera, non tutti i fenomeni evolutivi costituiscono un progresso e nessuna evoluzione (genetica) ottimizza il progresso.

Tornando al nostro esempio, possiamo chiederci che cosa esattamente abbia realizzato l'evoluzione degli uccelli durante questo periodo. Non ha ottimizzato l'adattamento funzionale di un gene mutante all'ambiente (cosa che avrebbe impressionato favorevolmente il nostro amico Paley) ma piuttosto la sua capacità relativa di diffondersi nella popolazione. La variante del gene che spinge gli uccelli a nidificare all'inizio di aprile a un certo punto non è piú in grado di propagarsi nelle nuove generazioni, nonostante dal punto di vista funzionale sia migliore delle altre. Il nuovo gene, quello marzolino, magari è ancora globalmente accettabile, ma è piú adatto soltanto a impedire alle altre varianti di replicarsi. Per la specie, come per gli individui, il cambiamento causato da questo periodo di evoluzione è un disastro. Ma all'evoluzione tutto ciò poco importa, perché si limita a favorire i geni che si diffondono in modo piú efficace.

Con questo meccanismo è possibile che si propaghino caratteristiche non solo «non ottimali» ma proprio nocive per la specie e per gli individui. Un caso celebre è dato dalla coda del pavone, che si pensa essere un freno alla sopravvivenza, perché rende piú difficile sfuggire a predatori e non sembra portare vantaggi evidenti. I geni che regolano l'espressione di questa massa colorata di penne dominano semplicemente perché le femmine tendono a preferire come partner maschi dalla coda vistosa. Perché mai la pressione evolutiva si è esercitata in questa direzione? Un motivo è dato dal fatto che i figli dei maschi con la coda piú grossa saranno a loro volta vistosi e quindi avranno piú facilità ad accoppiarsi. Un altro potrebbe essere dato dal fatto che un individuo che raggiunge l'età adulta con una coda cosí ingombrante segnala di essere forte e in buona salute. A ogni modo, il risultato finale della pressione selettiva è stato il diffondersi dei geni che portano a code grosse e colorate e dei geni che fanno preferire tali code. La specie e i singoli individui devono subirne le conseguenze.

Se i geni piú efficaci nel propagarsi regolano caratteristiche che si rivelano molto svantaggiose, una specie può arrivare a estinguersi. È un'eventualità che i meccanismi evolutivi non escludono e che sicuramente si è realizzata molte volte nella storia biologica del pianeta, a scapito di specie meno fortunate dei pavoni. Richard Dawkins ha voluto intitolare il suo celebre libro Il gene egoista (un vero e proprio tour de force di divulgazione neodarwinista) proprio per sottolineare il fatto che l'evoluzione non promuove in modo particolare il «bene della specie» o degli individui. Del resto, come spiega chiaramente Dawkins, non favorisce neppure il «bene dei geni»: gli adattamenti non vanno in direzione della sopravvivenza della maggior parte dei geni, e neanche della sopravvivenza tout court, ma della loro diffusione tra la popolazione a spese dei concorrenti, specialmente delle loro varianti minime.

Allora è solo questione di fortuna se la maggioranza dei geni vincenti esprime caratteristiche magari non ottimali, ma comunque benefiche per specie e individui? Non proprio. Gli organismi sono gli schiavi, gli strumenti utilizzati dai geni per diffondersi nella popolazione (e questo è un «fine ultimo» che né Paley né Darwin avrebbero potuto immaginare). È nell'interesse dei padroni che i servi vivano a lungo e in salute. I proprietari di schiavi nel passato li nutrivano e fornivano loro un tetto non certo per motivi umanitari ma per fare i loro propri interessi, tanto che li incoraggiavano (in certi casi li obbligavano) a riprodursi. I geni seguono piú o meno la stessa strategia.

C'è poi da considerare un altro fenomeno: quando capita che la conoscenza contenuta in un gene abbia una grande portata, ciò aiuterà l'individuo che lo possiede a cavarsela in una gamma di circostanze piú ampia, e in modo migliore, di quanto strettamente richiesto dalla diffusione del gene. Ecco perché, ad esempio, i muli non si sono estinti nonostante siano sterili. Dunque non è cosí improbabile che i geni vincitori conferiscano qualche tipo di vantaggio agli individui e alle specie, che spesso riescono cosí ad aumentare di numero. Non deve sorprenderci, però, il fatto che a volte avvenga l'esatto contrario. Ma ciò che i geni sono adatti a fare - ciò che fanno meglio di quasi tutte le altre varianti - non ha nulla a che vedere con la specie, con i singoli individui e nemmeno con la loro sopravvivenza a lungo termine: è riuscire a diffondersi piú dei geni rivali.

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Il neodarwinismo e la conoscenza.

La moderna versione della teoria darwiniana non fa riferimento, nei suoi principi fondamentali, ad alcuna entità biologica ma è centrata sul concetto di replicatore (qualunque cosa contribuisca causalmente alla propria replicazione). Ad esempio, un gene che conferisce all'organismo la capacità di digerire una certa sostanza è causa del fatto che l'organismo stesso rimanga in salute in certe situazioni in cui, altrimenti, potrebbe ammalarsi o morire. Quindi tale gene fa aumentare la probabilità che l'individuo in questione abbia discendenza e dunque la prole erediterà, e diffonderà, copie del gene stesso.

Anche un'idea può essere un replicatore. Una barzelletta divertente lo è di sicuro: si fissa nella mente di chi l'ha ascoltata e lo spinge a raccontarla ad altri, copiandola in tal modo nella loro mente. A tal proposito, Dawkins ha coniato il termine meme per definire queste idee che si comportano come replicatori. La maggior parte delle nostre idee non presenta questa spinta alla diffusione in altri individui, quindi non è un meme. Quasi ogni idea duratura, però, è un meme, anzi un «memeplesso», un insieme di memi interagenti: le lingue, le teorie scientifiche, le credenze religiose, le abilità complesse come quella di saper suonare la musica classica, le culture (cioè quegli ineffabili stati mentali che corrispondono al sentirsi, ad esempio, britannico), e cosí via. Ritornerò sull'argomento nel capitolo XV.

La formulazione piú generale del nucleo centrale del neodarwinismo è allora questa: una popolazione di replicatori soggetti a variazione (ad esempio, a causa di imperfette copiature) sarà dopo un certo tempo dominata dalle varianti che riescono a farsi replicare meglio delle rivali. È sorprendente quanto questa affermazione sia profondamente vera e, al tempo stesso, venga criticata perché troppo banale o, al contrario, perché falsa. Il motivo, credo, è che questa ovvia verità non è in maniera altrettanto evidente la spiegazione di specifici adattamenti. L'intuizione comune preferisce teorie che fanno riferimento a funzioni o fini: cosa fa un gene per il suo portatore o per la specie? Ma come abbiamo appena visto, i geni in generale non tendono a ottimizzare la funzionalità.

Quella incorporata nei geni è quindi la conoscenza di come farsi replicare a scapito dei rivali. È vero che spesso i geni raggiungono questo obiettivo fornendo qualche utile funzione all'organismo che li ospita, e in questi casi la loro conoscenza comprende incidentalmente anche la conoscenza di tale funzione. La funzionalità, a sua volta, si ottiene codificando nei geni certe regolarità dell'ambiente, talvolta persino regole pratiche che sono approssimazioni di leggi di natura, e in tal caso i geni codificano incidentalmente anche quella conoscenza. Ma il nocciolo della questione non cambia: un certo gene è presente nel corredo di un individuo se è riuscito a farsi replicare piú dei concorrenti.

La conoscenza umana di tipo non esplicativo può presentare un meccanismo analogo di evoluzione: non tutte le regole pratiche si trasmettono tali quali alla generazione successiva, e quelle che resistono nel lungo periodo non necessariamente ottimizzano la caratteristica desiderata. Per esempio, una regola espressa in modo accattivante, magari in versi, potrebbe essere ricordata meglio di una rivale che pur essendo piú efficace viene tramandata in banale prosa. C'è anche da dire che nessuna conoscenza umana è completamente priva di contenuto esplicativo. C'è sempre uno sfondo, un insieme di postulati circa la realtà al cui interno si inquadrano le regole pratiche; e questo sfondo può far sembrare plausibili anche certe regole false.

Le teorie esplicative si evolvono con dinamiche piú complesse. Gli errori casuali di trasmissione continuano a esserci, ma giocano un ruolo assai minore. Ciò è dovuto al fatto che le buone spiegazioni sono difficili da modificare anche senza verifiche, quindi gli errori di trasmissione sono piú evidenti ed è piú semplice correggerli.

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Terminologia.

evoluzione (darwiniana) Creazione di conoscenza attraverso l'alternanza di variazione e selezione.

replicatore Entità in grado di causare, almeno in parte, la propria replicazione.

neodarwinismo Formulazione del darwinismo in termini di replicatori, emendata da varie imprecisioni quali l'idea di «sopravvivenza del piú adatto».

meme Ogni idea che è anche un replicatore.

memeplesso Gruppo di memi che contribuiscono l'uno alla replicazione dell'altro.

generazione spontanea Formazione di organismi a partire da materiale non vivente.

lamarckismo Teoria evolutiva errata, fondata sull'idea che gli adattamenti biologici siano miglioramenti acquisiti da un organismo nel corso della sua vita e trasmessi in seguito ai discendenti.

regolazione fine (problema della) «Se le costanti o le leggi fisiche fossero leggermente diverse, non ci sarebbe la vita».

spiegazione antropica «Solo negli universi che contengono osservatori intelligenti ci si chiede il perché della regolazione fine».


Vari aspetti dell'«inizio dell'infinito» incontrati qui.

L'evoluzione.

Piú in generale, la creazione di conoscenza.


Riassunto.

Tra l'evoluzione degli adattamenti biologici e la creazione della conoscenza umana ci sono vari punti in comune, a livello profondo, ma anche alcune importanti differenze. Principali similarità: geni e idee sono replicatori; conoscenze e adattamenti si modificano con difficoltà. Principale differenza: la conoscenza umana può essere di tipo esplicativo e avere una grande portata, mentre gli adattamenti non sono mai di tipo esplicativo e raramente si possono applicare ad ambiti diversi da quelli in cui si sono evoluti. False spiegazioni dell'evoluzione biologica hanno caratteristiche simili a false spiegazioni del progresso delle conoscenze: per esempio, il lamarckismo è analogo all'induttivismo. L'argomento teleologico, specialmente nella formulazione di William Paley, chiarisce quali siano le entità all'apparenza «progettate», che non si possono spiegare come mero frutto del caso: quelle adattate a uno scopo preciso in modo difficile da modificare. La loro origine deve essere frutto della creazione di conoscenza. L'evoluzione biologica non massimizza i vantaggi per la specie, il gruppo, l'individuo e neanche per il gene, ma solo la capacità del gene di diffondersi nella popolazione. I vantaggi che ne possono comunque derivare sono conseguenza dell'universalità delle leggi di natura e della portata di una parte della conoscenza che si è creata. La «regolazione fine» delle leggi, o costanti fisiche, è stata usata come versione moderna dell'argomento teleologico. Per le ragioni solite, non è un buon argomento a favore dell'esistenza di una causa soprannaturale. Ma anche le teorie «antropiche» che cercano di spiegare la regolazione fine sulla base di un meccanismo di selezione tra un numero infinito di universi alternativi, sono in sé cattive spiegazioni — in parte perché quasi tutte le leggi fisiche logicamente possibili sono di per sé cattive spiegazioni.

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Pagina 112

Anche in fisica, alcune delle spiegazioni piú fondamentali, con le relative previsioni, non sono riduzionistiche. Per esempio, il secondo principio della termodinamica stabilisce che tutti i fenomeni di livello macroscopico tendono verso un disordine sempre crescente. Un uovo strapazzato non ridiventa crudo, né tantomeno sfrutta il calore della padella per ritornare dentro il guscio, che a sua volta non si ricompone da sé; ma se riuscissimo a filmare il processo, dalla rottura del guscio alla cottura, a livello molecolare non vedremmo altro che moti di varie particelle, che seguono scrupolosamente le leggi fisiche e che potrebbero sembrare plausibili se li proiettassimo al contrario. Non sappiamo ancora come, e neppure se, sia possibile derivare il secondo principio della termodinamica da principi elementari applicati ai singoli atomi.

Non c'è nessun motivo per cui debba essere possibile. Il riduzionismo ha spesso una sfumatura morale (la scienza dovrebbe essere sostanzialmente riduzionista). Questo atteggiamento è legato alla visione strumentalista e al principio di mediocrità, che ho già criticato nei capitoli I e III. Lo strumentalismo somiglia molto al riduzionismo, solo che non si limita a rifiutare le spiegazioni di alto livello, ma cerca di respingere tutte le spiegazioni in blocco. Il principio di mediocrità non è che una forma attenuata di riduzionismo: rifiuta tutte le spiegazioni di alto livello in cui sono coinvolte delle persone. Già che siamo in argomento, lasciatemi aggiungere all'elenco delle pessime dottrine filosofiche il cosiddetto olismo, sorta di immagine speculare del riduzionismo. È la posizione di chi pensa che le sole spiegazioni valide (o perlomeno significative) siano delle parti in funzione del tutto. Spesso gli olisti, inoltre, hanno in comune con i riduzionisti la convinzione erronea che la scienza possa (o debba) soltanto essere riduzionista e proprio per questo si oppongono a gran parte della scienza. Tutte queste posizioni filosofiche sono irrazionali per lo stesso motivo: sostengono che le spiegazioni si debbano accettare o rifiutare sulla base di principi diversi dalla loro intrinseca efficacia.

Quando una spiegazione di alto livello è effettivamente la conseguenza logica di altre di basso livello, ciò significa che la prima ha implicazioni di qualche genere sulle seconde. Se dunque esistono altre teorie di alto livello, a condizione che siano tutte compatibili, queste pongono vincoli aggiuntivi su quelle di basso livello. Potrebbe anche darsi che tutte le buone spiegazioni di alto livello, prese insieme, abbiano come conseguenza tutte quelle di basso livello; oppure potrebbe essere vero il contrario. O ancora, potrebbe essere un insieme di teorie di livello alto, medio e basso a costituire il nucleo da cui derivano tutte le spiegazioni. Questa mi sembra l'ipotesi piú probabile.

Se ne deduce che potremmo forse risolvere il problema della regolazione fine se scoprissimo che alcune spiegazioni di alto livello sono in realtà vere leggi di natura, le cui conseguenze a livello microscopico sembrano possedere la proprietà in questione. Una candidata a tale ruolo è la computazione universale, di cui parlerò nel capitolo VI. Un altro è il principio di verificabilità: se le leggi fisiche non consentono l'esistenza di sperimentatori, queste non si possono, appunto, verificare. Ma nella loro formulazione attuale questi principi, considerati come leggi della fisica, sono antropocentrici e arbitrari, dunque cattive spiegazioni. Forse però si possono esprimere in versioni piú sofisticate, di cui le attuali sono approssimazioni, e diventare cosí buone spiegazioni, ben integrate con le teorie fisiche del mondo microscopico, come nel caso del secondo principio della termodinamica.

A ogni modo, i fenomeni emergenti sono essenziali per spiegare il mondo. Molto prima che l'uomo pervenisse a un buon livello di conoscenza esplicativa, riusciva comunque a domare la natura grazie a varie regole pratiche. Queste a loro volta hanno spiegazioni, che implicano regolarità di alto livello nel comportamento di vari fenomeni emergenti come il fuoco o le rocce. Ancor piú indietro nella storia, soltanto i nostri geni codificavano regole pratiche e la conoscenza che contenevano era relativa a fenomeni emergenti. L'emergenza, dunque, è un altro inizio dell'infinito: la creazione di conoscenza dipende sempre dalla presenza (e consiste fisicamente) di fenomeni emergenti.

Grazie all'emergenza, è anche possibile fare scoperte per passi successivi, dunque è attuabile il metodo scientifico. L'efficacia parziale delle varie spiegazioni che si susseguono nel tempo è equivalente all'esistenza di «strati» fenomenici, ognuno dei quali è ben spiegato dalla teoria relativa, che però in un secondo tempo si rivela imprecisa.

A volte le spiegazioni successive differiscono per il modo di spiegare le proprie previsioni, anche nel dominio in cui le previsioni stesse sono simili o identiche. Per esempio, il modo in cui Einstein descrive i moti planetari non è una semplice correzione delle idee di Newton, ma se ne discosta in modo radicale, tanto da negare, tra l'altro, l'esistenza di elementi cardinali della fisica newtoniana, come la forza di gravità o lo scorrere regolare del tempo. Similmente, la teoria delle orbite ellittiche di Keplero non è una semplice correzione di quella della sfera celeste, ma nega l'esistenza delle sfere. Newton non modificò la forma delle orbite kepleriane ma formulò leggi che specificavano il moto in modo del tutto nuovo — in funzione di quantità infinitesimali come la velocità e l'accelerazione istantanee. Ognuna di queste teorie successive sui moti planetari ha trascurato o rifiutato in toto i principi esplicativi fondamentali di quelle che l'hanno preceduta.

[...]

A proposito, non è del tutto corretto affermare che le previsioni di tutte le teorie storiche relative ai moti planetari fossero cosí simili. I risultati che si ottengono applicando le leggi di Newton sono sufficientemente precisi per un ingegnere che deve costruire un ponte, un po' imprecisi per chi deve progettare un navigatore satellitare, ma radicalmente sbagliati se vogliamo spiegare la natura di una pulsar o di una quasar — o dell'universo tutto. Per imboccare la strada giusta abbiamo bisogno delle spiegazioni einsteiniane, radicalmente diverse.

Discontinuità cosí evidenti tra una teoria e la successiva non hanno un analogo in campo biologico: nell'evoluzione delle specie, il ceppo dominante in una certa generazione differisce di poco rispetto a quello della generazione precedente. Eppure anche la scoperta scientifica è un processo graduale; l'unica differenza è che tale evoluzione, assieme a quasi tutte le critiche che portano ad abbandonare le cattive spiegazioni, avviene nella mente degli scienziati. Come disse Popper, «possiamo lasciar morire le teorie al posto nostro».

La capacità di criticare le teorie senza mettere in gioco la nostra vita porta con sé un altro vantaggio ancora piú importante. In una specie che si evolve, a ogni generazione gli adattamenti devono avere un minimo di funzionalità per mantenere in vita l'organismo e per superare tutte le prove che devono affrontare per diffondersi nella generazione successiva. Per contrasto, le ipotesi intermedie che uno scienziato si fa venire in mente nel passaggio da una buona spiegazione alla successiva non devono necessariamente essere praticabili, e lo stesso si può dire del pensiero creativo in generale. Questo è il motivo di fondo per cui le idee dotate di potere esplicativo sfuggono alla morsa del localismo, mentre l'evoluzione biologica, e le regole pratiche, non possono farlo.

Il che ci riporta al concetto base di questo capitolo: le astrazioni. Nel capitolo IV ho affermato che le conoscenze sono replicatori astratti che «usano» gli organismi e i cervelli (e dunque hanno influenza su di loro) per farsi replicare. Qui siamo a un livello esplicativo piú alto rispetto alle proprietà emergenti di cui abbiamo parlato finora: sto dicendo che qualcosa di astratto, non fisico, come la conoscenza contenuta in un gene o una teoria, ha effetti concreti su qualcosa di fisico. In altre parole, affermo che un insieme di proprietà emergenti - come geni o computer - ne influenza un altro o altri, il che è sufficiente per farmi scomunicare dai riduzionisti. Ma le astrazioni sono essenziali per giungere a un livello di spiegazione piú completo.

[...]

Per essere piú precisi: anche la spiegazione puramente materiale è vera e anche la fisica del sistema è essenziale per spiegare che cosa abbiano a che fare i numeri primi con quella configurazione di tessere. Il ragionamento di Hofstadter , tuttavia, mostra che il concetto di primalità deve far parte della spiegazione, se vogliamo davvero capire perché il tal pezzo non sia caduto. Ecco dunque una confutazione del riduzionismo, per quel che concerne l'astrazione: infatti la teoria dei numeri primi non fa parte della fisica; non si riferisce a oggetti concreti, ma a entità astratte - come i numeri, che appartengono a un insieme infinito.

Sfortunatamente, però, in seguito Hofstadter smentisce la sua argomentazione e alla fine sposa il riduzionismo. Come mai?

Il suo libro è dedicato soprattutto a un particolare fenomeno emergente, la mente, o l' «io» , come lo chiama lui. La questione centrale è dunque questa: data la natura onnicomprensiva delle leggi fisiche, la mente è in grado di agire sul corpo, cioè di causare un certo comportamento e non un altro? È una delle tante formulazioni del cosiddetto «problema mente-corpo». Per fare un esempio, noi quasi sempre riteniamo che le nostre azioni siano frutto di scelte consapevoli, ma il nostro organismo, mente inclusa, obbedisce in tutto e per tutto alle leggi fisiche, che non lasciano spazio all'influenza di una fantomatica variabile detta «io». Sposando le idee del filosofo Daniel Dennett , Hofstadter alla fine conclude che l'io è un'illusione: le menti non possono «comandare a bacchetta la materia», perché «le sole leggi fisiche basterebbero a determinarne il comportamento». Di qui il riduzionismo dell'autore.

Ma, tanto per cominciare, neanche le leggi possono «comandare a bacchetta» alcunché, perché non fanno altro che spiegare e prevedere fenomeni. E non sono le nostre uniche spiegazioni. La teoria per cui la tessera non cade «perché 641 è primo» (e perché la rete-domino equivale a un algoritmo per la verifica della primalità) è un'eccellente spiegazione di ciò che accade. Che cos'ha di sbagliato? Non contraddice alcuna legge fisica ed è piú ricca di qualsiasi altra spiegazione basata solo sulle leggi stesse. E non ha varianti con lo stesso potere esplicativo.

In secondo luogo, seguendo la linea di pensiero riduzionista dovremmo negare altresí che un atomo possa «comandarne» un altro (nel senso di «farlo muovere») perché lo stato iniziale dell'universo, e le leggi del moto, hanno già determinato lo stato di quell'atomo in ogni momento.

In terzo luogo, l'idea stessa di causa è emergente e astratta. Nelle leggi che governano il moto delle particelle elementari non se ne fa menzione; senza contare che, come già aveva notato Hume, l'uomo non percepisce la causalità ma solo una sequenza di eventi. Inoltre le leggi del moto sono «conservative», cioè non fanno perdere informazione. Ciò significa che, cosí come determinano lo stato finale di qualsiasi movimento dato lo stato iniziale, determinano anche quello iniziale dato quello finale e lo stato in qualsiasi istante dato quello in qualsiasi altro istante. A questo livello esplicativo, dunque, causa ed effetto sono scambiabili. Non sono questi i concetti che abbiamo in mente quando diciamo che un programma è la causa del fatto che un computer vince una partita a scacchi o che la tessera non è caduta perché 641 è primo.

Non ci sono contraddizioni nel dare diverse spiegazioni di un fenomeno a diversi livelli di astrazione. Ritenere che il livello fisico microscopico sia piú fondamentale di quelli emergenti è errato e fuorviante. Non c'è modo di sfuggire al ragionamento di Hofstadter visto sopra, però non ci sono ragioni per desiderarlo. Forse il mondo è come vorremmo, o forse no, e rigettare una buona spiegazione perché ci suona strana significa cadere nella trappola del provincialismo.

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Pagina 170

Il finitismo è lo strumentalismo applicato alla matematica: è un rifiuto di principio di ogni spiegazione. In questo ambito si tenta di vedere le entità matematiche esclusivamente come procedure seguite dai matematici, regole per tracciare segni sulla carta, e cosí via - che sono utili in alcune situazioni, ma non si riferiscono a qualcosa di reale oltre agli oggetti finiti dell'esperienza, come due mele o tre arance. Il finitismo quindi è intrinsecamente antropocentrico - ma ciò non sorprende, dato che giudica il provincialismo di una teoria come una virtú e non un difetto. Un altro suo errore fatale è quello commesso dallo strumentalismo e dall'empirismo nei confronti della scienza, ovvero presumere che i matematici abbiano una sorta di accesso privilegiato a entità finite che non hanno per quelle infinite. Ma non è vero. Ogni osservazione è carica di teoria. Lo è anche ogni teorizzazione astratta. Ogni accesso a entità astratte, finite o infinite che siano, è dato grazie alla teoria, proprio come per le entità fisiche.

In altre parole, il finitismo, come lo strumentalismo, non è altro che un progetto per impedire il progresso nella comprensione di entità di cui non abbiamo un'esperienza diretta. E quindi il progresso in generale, poiché, come ho spiegato, di nessuna entità abbiamo un'«esperienza diretta».

Ogni parte di questa discussione presume l'universalità della ragione. La portata della scienza è per sua natura limitata, cosí come quella della matematica e di ogni branca della filosofia. Ma se credete che sia limitato il dominio in cui la ragione è il miglior giudice delle idee, allora credete nell'irrazionalità o nel soprannaturale. Analogamente, se rifiutate l'infinito, siete obbligati a restare nel finito e il finito è provinciale. Dunque non c'è modo di fermarsi lí. La spiegazione migliore di qualsiasi cosa in definitiva fa riferimento all'universalità, quindi all'infinito. La portata delle spiegazioni non può essere limitata per decreto.

Uno dei modi di esprimere questo concetto nella matematica è il principio, enunciato chiaramente per la prima volta dal matematico Georg Cantor nell'Ottocento, che le entità astratte possono essere definite come si vuole a partire da altre entità, a patto che le definizioni non siano ambigue o contraddittorie. Cantor è il fondatore dello studio matematico moderno dell'infinito. Il suo principio fu difeso e reso ancora piú generale nel Novecento dal matematico John Conway , che gli attribuí un nome stravagante ma appropriato: movimento di liberazione dei matematici. Come suggerisce la difesa di Conway, le scoperte di Cantor suscitarono una feroce ostilità nei suoi contemporanei, tra cui la maggior parte dei matematici e anche molti scienziati e filosofi - e teologi. Le obiezioni di carattere religioso in realtà si basavano, paradossalmente, sul «principio di mediocrità»: i tentativi di capire e trattare l'infinito erano considerati come un'usurpazione delle prerogative divine. A metà del Novecento, quando ormai da tempo lo studio dell'infinito faceva parte della matematica e vi aveva trovato innumerevoli applicazioni, Ludwig Wittgenstein ancora lo accusava con disprezzo di essere «privo di senso» (anche se alla fine rivolse la stessa accusa a tutta la filosofia, compreso il proprio lavoro - a questo proposito, si veda il capitolo XII).

Abbiamo già considerato altri esempi di rifiuto di principio dell'infinito, come la strana avversione di Archimede , Apollonio e altri per i sistemi universali di numerali, e alcune dottrine quali lo strumentalismo e il finitismo. Va citato anche il principio di mediocrità, che si propone di sfuggire al provincialismo e cercare di raggiungere l'infinito, ma finisce per confinare la scienza in una bolla infinitesima e non rappresentativa di comprensibilità.

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Un altro esempio del medesimo errore proviene dall'informatica. Turing elaborò la teoria della computazione non allo scopo di costruire computer, ma per indagare la natura della dimostrazione matematica. Nel 1900, Hilbert aveva sfidato i matematici a formulare una teoria rigorosa della dimostrazione, e una delle condizioni era che le dimostrazioni fossero finite: dovevano utilizzare soltanto un insieme prestabilito e finito di regole di inferenza, dovevano iniziare con un numero finito di assiomi espressi in una forma finita e dovevano contenere soltanto un numero finito di passi elementari (anch'essi di per sé finiti). Le computazioni, alla luce della teoria di Turing, sono essenzialmente identiche alle dimostrazioni: ogni dimostrazione valida può essere trasformata in una computazione che calcola la conclusione dalle premesse e ogni computazione eseguita nel modo corretto è una dimostrazione che l'output è il risultato di certe operazioni sull'input.

Si può anche vedere una computazione come il calcolo di una funzione che ha come input un numero naturale arbitrario e produce un output che dipende in un modo particolare da quell'input. Raddoppiare un numero, per esempio, è una funzione. L'Albergo Infinito di solito chiede ai suoi ospiti di cambiare camera specificando una funzione, che ognuno deve calcolare con un input diverso (il proprio numero di camera). Una delle conclusioni di Turing è che quasi tutte le funzioni matematiche che esistono logicamente non possono essere calcolate da nessun programma. Sono «non calcolabili» per la stessa ragione per cui la maggior parte delle nuove assegnazioni logicamente possibili delle camere dell'Albergo Infinito non possono essere specificate da nessuna istruzione del direttore: l'insieme di tutte le funzioni è un infinito non numerabile, mentre l'insieme di tutti i programmi è soltanto un infinito numerabile (ecco perché ha senso dire che «quasi tutti» i membri dell'insieme infinito di tutte le funzioni hanno una particolare proprietà). Per questo stesso motivo - come aveva scoperto Kurt Gödel usando un approccio diverso al problema posto da Hilbert - quasi tutte le verità matematiche non hanno dimostrazione. Sono verità indimostrabili.

Ne segue anche che quasi tutti gli enunciati matematici sono indecidibili: non esistono dimostrazioni che siano veri né che siano falsi. Ciascun enunciato è vero oppure falso, ma non c'è modo di usare oggetti fisici come un cervello o un computer per stabilirne il valore di verità. Le leggi della fisica ci offrono soltanto una piccola finestra da cui dare un'occhiata al mondo delle astrazioni.

Tutte le proposizioni indecidibili riguardano, in modo diretto o indiretto, insiemi infiniti. Per gli avversari dell'infinito in matematica, ciò è dovuto alla mancanza di senso di queste proposizioni. Secondo me, invece, è un argomento convincente - come quello di Hofstadter esaminato nel capitolo V - a favore dell'esistenza oggettiva delle astrazioni, poiché significa che il valore di verità di una proposizione indecidibile non è senz'altro un modo opportuno di descrivere il comportamento di alcuni oggetti fisici come un computer o un insieme di tessere del domino.

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Il fatto che una proposizione matematica sia vera o falsa in effetti è indipendente dalla fisica. Ma la dimostrazione della proposizione è soltanto una questione di fisica. Non si può dimostrare qualcosa astrattamente, proprio come non si può conoscere qualcosa astrattamente. La verità matematica è assolutamente necessaria e trascendente, ma tutta la conoscenza è generata da processi fisici, e la sua portata e i suoi limiti sono condizionati dalle leggi della natura. È possibile definire una classe di entità astratte e chiamarle «dimostrazioni» (o computazioni) proprio come si può definire entità astratte e chiamarle triangoli, facendo in modo che obbediscano alla geometria euclidea. Ma da questa teoria dei «triangoli» non possiamo inferire un bel niente riguardo agli angoli formati da un percorso chiuso costituito da tre segmenti. Né queste «dimostrazioni» possono verificare enunciati matematici. Una «teoria matematica delle dimostrazioni» non ha nulla a che vedere con quali verità possono o meno essere dimostrate, o conosciute, nella realtà; in maniera simile, una teoria della «computazione» astratta non ha a che fare con ciò che può o meno essere calcolato nella realtà.

Quindi una computazione (o una dimostrazione) è un processo fisico in cui oggetti come un computer o un cervello modellano fisicamente o rappresentano esempi concreti di entità astratte come numeri o equazioni, imitandone le proprietà. È la nostra finestra sul mondo astratto. Funziona perché usiamo queste entità solo in situazioni in cui abbiamo buone spiegazioni che ci assicurano che le variabili fisiche pertinenti di questi oggetti sono effettivamente esempi concreti di quelle proprietà astratte.

Di conseguenza, l'attendibilità della nostra conoscenza della matematica resterà sempre subordinata a quella della nostra conoscenza della realtà fisica. La validità di ogni dimostrazione matematica dipende in maniera assoluta dalla validità delle regole che pensiamo governino il comportamento di certi oggetti fisici, come il computer, carta e penna o il cervello. Perciò, contrariamente a ciò che pensava Hilbert , come a ciò che ha creduto nell'antichità e ancora crede la maggior parte dei matematici, la teoria della dimostrazione non potrà mai diventare una branca della matematica. La teoria della dimostrazione è una scienza: specificamente, fa parte dell'informatica.

La motivazione per cercare un fondamento perfettamente certo per la matematica era tutta sbagliata. Era una forma di giustificazionismo. La matematica è caratterizzata dall'uso delle dimostrazioni cosí come la scienza è caratterizzata dall'uso della verifica sperimentale: in un caso come nell'altro non è quello l'obiettivo dell'esercizio. Lo scopo della matematica è capire - spiegare - entità astratte. La dimostrazione è soprattutto uno strumento per scartare le spiegazioni false; a volte fornisce anche verità matematiche che hanno bisogno di essere spiegate. Ma la matematica, come tutti i campi in cui è possibile il progresso, non ricerca verità casuali bensí buone spiegazioni.

L'apparente regolazione fine delle leggi della fisica è dovuta a tre aspetti diversi ma strettamente collegati: tutte le leggi si possono esprimere in funzione di un solo insieme finito di operazioni elementari; tutte hanno in comune un'unica distinzione uniforme tra operazioni finite e infinite; tutte le loro previsioni possono essere calcolate da un particolare oggetto fisico, un computer universale classico (anche se, in generale, per simulare in modo efficiente i processi fisici sarebbe necessario un computer quantistico). È perché le leggi della fisica permettono l'universalità computazionale che il cervello umano può prevedere e spiegare il comportamento di oggetti molto poco umani come le quasar. Ed è a causa di questa stessa universalità che matematici come Hilbert possono elaborare un'idea intuitiva di dimostrazione - e pensare erroneamente che sia indipendente dalla fisica. Ma non è vero: è universale solo nella fisica che governa il nostro mondo. Se la fisica delle quasar fosse simile a quella dell'Albergo Infinito e dipendesse dalle funzioni che noi chiamiamo non calcolabili, non potremmo formulare previsioni su di esse (a meno di non riuscire a costruire computer fatti di quasar o di altri oggetti dipendenti da quelle leggi fisiche). Con un insieme di leggi leggermente piú strane, non saremmo in grado di spiegare nulla - e quindi non potremmo esistere.

Dunque c'è qualcosa di speciale - infinitamente speciale, a quanto pare - nelle leggi della fisica cosí come le conosciamo oggi, qualcosa di eccezionalmente favorevole alla computazione, alla previsione e alla spiegazione. Il fisico Eugene Wigner l'ha definita «l'irragionevole efficacia della matematica nelle scienze naturali». Per le ragioni descritte, gli argomenti antropici da soli non possono spiegarla. Lo farà qualcos'altro.

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Terminologia.

corrispondenza biunivoca Relazione che associa a ogni elemento di un insieme uno e un solo elemento di un altro insieme.

infinito (matematico) Un insieme è infinito se può essere messo in corrispondenza biunivoca con una sua parte.

infinito (fisico) Un concetto piuttosto vago che significa qualcosa di simile a «più grande di qualsiasi cosa di cui in linea di principio si potrebbe fare esperienza».

numerabilmente infinito Infinito, ma abbastanza piccolo da essere messo in corrispondenza biunivoca con i numeri naturali.

misura Un metodo grazie al quale una teoria dà significato a percentuali e medie relative a insiemi infiniti di oggetti, come ad esempio universi.

singolarità Una situazione in cui qualcosa diventa smisuratamente grande, pur restando finito in ogni punto.

multiverso Un'unica entità fisica che contiene piú di un universo.

regressione infinita Una situazione in cui un argomento (o una spiegazione) dipende da un sottoargomento che ha la stessa forma e pretende di affrontare essenzialmente lo stesso problema considerato dall'argomento originario.

computazione Un processo fisico che costituisce un esempio concreto delle proprietà di una certa entità astratta.

dimostrazione Una computazione che, data una teoria del funzionamento del computer su cui viene eseguita, stabilisce la verità di una certa proposizione astratta.


Vari aspetti dell'«inizio dell'infinito» incontrati qui.

La fine dell'antica avversione per l'infinito (e l'universale).

Il calcolo infinitesimale, la teoria di Cantor e altre teorie dell'infinito e dell'infinitesimo in matematica.

La vista da un corridoio dell'Albergo Infinito.

La proprietà delle sequenze infinite per cui ogni elemento è eccezionalmente vicino all'inizio della sequenza.

L'universalità della ragione.

La portata infinita di certe idee.

La struttura interna di un multiverso che dà significato a un'«infinità di universi».

L'imprevedibilità del contenuto della conoscenza futura è una condizione necessaria per la crescita illimitata di quella conoscenza.


Riassunto.

Possiamo capire l'infinito grazie alla portata infinita di alcune spiegazioni. L'infinito ha senso, tanto nella matematica quanto nella fisica. Però ha proprietà controintuitive, alcune delle quali sono illustrate dall'Albergo Infinito, l'esperimento mentale di Hilbert. Una delle sue proprietà è che, se davvero si realizzerà un progresso illimitato, non solo oggi siamo quasi al suo inizio ma lo saremo sempre. Cantor dimostrò, con il suo argomento diagonale, che esistono infiniti livelli di infinito, di cui la fisica usa al massimo i primi due: l'infinito dei numeri naturali e l'infinito del continuum. Là dove esiste un numero infinito di copie identiche di un osservatore (per esempio in molti universi), la probabilità e le percentuali hanno senso solamente se la collezione nella sua totalità ha una struttura soggetta alle leggi della fisica; sono queste a dar loro significato. Una semplice sequenza infinita di universi, come le camere dell'Albergo Infinito, non possiede una tale struttura, il che significa che il ragionamento antropico di per sé è insufficiente a spiegare l'apparente «regolazione fine» delle costanti della fisica. La dimostrazione è un processo fisico: il fatto che una proposizione matematica sia o meno dimostrabile, che sia o meno decidibile, dipende dalle leggi della fisica, che determinano quali relazioni e entità astratte sono modellate da oggetti fisici. In maniera simile, il fatto che un compito o uno schema sia semplice o complesso dipende da quali sono le leggi della fisica.

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Capitolo undicesimo

Il multiverso


L'idea di un doppelgänger (il sosia di una persona) è un tema frequente nella fantascienza. La serie televisiva classica Star Trek, per esempio, presentava diversi tipi di racconti di doppelgänger in cui si verificava un malfunzionamento del «trasportatore», il dispositivo di teletrasporto dell'astronave, usato di norma per viaggi spaziali di breve durata. Poiché teletrasportare qualcosa è concettualmente simile a crearne una copia in un luogo diverso, si possono immaginare vari modi in cui il processo potrebbe incepparsi e concludersi per qualche ragione con due esemplari di ciascun passeggero - l'originale e la copia.

Il grado di somiglianza tra il doppelgänger e l'originale varia da un racconto all'altro. Per avere esattamente gli stessi attributi, oltre ad avere lo stesso aspetto, dovrebbero trovarsi esattamente nello stesso luogo. Ma questo che cosa significherebbe? Cercare di far coincidere gli atomi porta a processi fisici problematici - per esempio, due nuclei coincidenti tendono a combinarsi formando atomi di elementi chimici piú pesanti. E due corpi umani identici, se dovessero coincidere anche solo approssimativamente, esploderebbero, semplicemente perché a una densità doppia di quella normale l'acqua esercita una pressione di centinaia di migliaia di atmosfere. Nella fantascienza si possono immaginare leggi fisiche diverse per evitare questi problemi ma, se i doppelgänger continuassero a coincidere con gli originali per tutta la vicenda, non sarebbe piú una storia di doppelgänger. Prima o poi i due devono diventare diversi. A volte sono il lato buono e quello cattivo di una stessa persona; altre volte all'inizio hanno menti identiche, ma poi diventano sempre piú diversi vivendo esperienze diverse.

[...]

Ciò nonostante, una certa categoria di appassionati di fantascienza piuttosto pedanti, a cui appartengo, preferisce che la scienza immaginaria sia sensata - che consista di spiegazioni ragionevolmente buone. Un conto è immaginare mondi governati da leggi della fisica diverse, un conto è immaginare mondi privi di senso in base alla propria stessa logica. Vogliamo sapere, per esempio, com'è possibile che gli esiliati possano vedere e sentire il mondo ordinario, ma non toccarlo. Il nostro atteggiamento è stato messo in parodia in un episodio dei Simpson, in cui i fan di una serie fantasy-avventurosa interrogano la protagonista:


PROTAGONISTA Prossima domanda?

FAN (Si schiarisce la gola) Nell'episodio BF12 stava combattendo i barbari in groppa a un appaloosa alato, però subito dopo, mia cara, è chiaramente su un cavallo arabo alato. La prego, ci spieghi la discrepanza.

PROTAGONISTA Ah, sí. Tranquilli, ragazzi: quando notate cose del genere, è opera di un mago.

FAN Capisco, bene, sí, ma nell'episodio AG4...

PROTAGONISTA (Risoluta) Mago.

FAN Ma a chi la dà a bere?

[...]

Un vero scrittore di fantascienza ha due motivazioni contrastanti. Una, comune a qualsiasi autore di narrativa, è far sí che il racconto coinvolga il lettore e il modo piú facile per ottenere lo scopo consiste nel ricorrere a temi già noti. Ma questa è una motivazione antropocentrica. Gli autori sono spinti a immaginare, per esempio, come aggirare il limite assoluto di velocità (la velocità della luce) imposto dalle leggi della fisica ai viaggi e alle comunicazioni. Scegliendo questa via, però, gli autori relegano la distanza al ruolo che ha nei racconti ambientati sul nostro pianeta: i sistemi stellari svolgono la parte che avevano le isole remote o il Selvaggio West nella narrativa di epoche precedenti. Cosí a volte gli autori di racconti su universi paralleli sono tentati di permettere i viaggi o la comunicazione tra universi. Ma allora in realtà descrivono un solo universo: se la barriera tra gli universi è facilmente penetrabile, diventa semplicemente una versione esotica degli oceani che separano i continenti.

La motivazione opposta è esplorare la versione piú forte possibile di una premessa fantascientifica e le sue conseguenze piú strane possibili - il che spinge nella direzione anti-antropocentrica. Ciò può rendere la storia meno coinvolgente, ma permette una gamma molto piú ampia di congetture scientifiche. Nel racconto che narrerò tra poco utilizzerò una serie di ipotesi di questo tipo, sempre piú distanti da quelle che conosciamo, come mezzo per spiegare il mondo secondo la teoria quantistica.

La teoria quantistica è la spiegazione piú profonda nota alla scienza. Essa viola molti degli assunti del senso comune e di tutta la scienza precedente - tra cui alcuni di cui nessuno sospettava l'esistenza prima che arrivasse la teoria quantistica a contraddirli. Questo territorio apparentemente alieno è tuttavia la realtà di cui noi e tutto ciò di cui facciamo esperienza siamo parte. Non ne esistono altre.

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A questo proposito va detto anche che il principio di indeterminazione non è un principio, tant'è vero che non è un postulato indipendente che si potrebbe logicamente abbandonare o sostituire ottenendo una teoria diversa. In realtà non sarebbe possibile eliminarlo dalla teoria quantistica piú di quanto si possano omettere le eclissi dall'astronomia. Non esiste un «principio delle eclissi»: la loro esistenza può essere dedotta da teorie molto piú generali, come quelle della geometria e della dinamica del sistema solare. In maniera simile, il principio di indeterminazione si deduce dai principi della teoria quantistica.

Grazie alla forte interferenza interna a cui è continuamente sottoposto, un elettrone è un oggetto irriducibilmente multiversale, e non una collezione di oggetti di universi paralleli o di storie parallele. In altre parole, l'elettrone ha piú posizioni e piú velocità senza essere separabile in parti autonome, ciascuna delle quali ha una velocità e una posizione. Anche elettroni diversi non hanno identità totalmente diverse. Quel che esiste in realtà è un campo dell'elettrone presente nella totalità dello spazio, le cui perturbazioni vi si diffondono come onde, alla velocità della luce o piú lentamente. È questo che ha dato origine all'idea erronea e spesso citata dei pionieri della teoria quantistica che gli elettroni (e cosí anche tutte le altre particelle) fossero «particelle e onde allo stesso tempo». Nel multiverso esiste un campo (esistono «onde») per ogni singola particella che osserviamo in un particolare universo.

Benché la teoria quantistica sia espressa nel linguaggio matematico, ho presentato un resoconto a parole delle principali caratteristiche della realtà che essa descrive. A questo punto, dunque, il multiverso immaginario è piú o meno quello reale. Ma è rimasto un punto da chiarire. La mia «serie di ipotesi» si basava su universi, e su esemplari di oggetti, e poi su correzioni di queste idee allo scopo di descrivere il multiverso. Ma il multiverso reale non «si basa» su alcunché e non è una correzione di alcunché. La teoria quantistica non fa alcun riferimento a universi, storie, particelle né ai loro esemplari - e nemmeno ai pianeti, agli esseri umani, alle loro vite e relazioni amorose. Nel multiverso, questi sono tutti fenomeni emergenti.

Una storia fa parte del multiverso nello stesso senso in cui uno strato geologico fa parte della crosta terrestre. Una particolare storia si distingue dalle altre per mezzo dei valori di un certo insieme di variabili fisiche, cosí come uno strato si distingue dagli altri grazie alla sua composizione chimica, ai tipi di fossili presenti, e cosí via. Uno strato e una storia sono entrambi canali del flusso di informazioni. Conservano l'informazione perché i loro contenuti, pur cambiando nel corso del tempo, sono approssimativamente autonomi - in altre parole, i cambiamenti di un dato strato (o di una data storia) dipendono quasi completamente dalle condizioni al suo interno. È a causa di questa autonomia che un fossile trovato oggi può essere usato come prova di ciò che era presente al momento della formazione dello strato. Analogamente, è il motivo per cui, nell'ambito di una storia, la fisica classica può permettere di prevedere alcuni aspetti del futuro di quella storia basandosi sul suo passato.

Uno strato, come una storia, non ha un'esistenza separata rispetto agli oggetti che contiene: consiste in quegli oggetti. E uno strato non ha confini ben definiti. Inoltre esistono regioni della Terra - per esempio, vicino ai vulcani - in cui gli strati si sono fusi (anche se penso che non esistano processi geologici che provocano divisioni e ricongiungimenti degli strati simili a quelli delle storie). Esistono regioni della Terra, come il nucleo, in cui non si sono mai formati strati e altre regioni, come l'atmosfera, in cui si formano strati, ma i loro contenuti interagiscono e si mescolano in tempi molto piú brevi rispetto a quanto avviene nella crosta. In maniera simile, esistono regioni del multiverso che contengono storie di breve durata e altre che non ne contengono neanche approssimativamente.

Gli strati e le storie, tuttavia, emergono in maniera molto diversa dai fenomeni che ne stanno rispettivamente alla base. Anche se non tutti gli atomi della crosta terrestre possono essere attribuiti in maniera inequivocabile a un dato strato, ciò è possibile per la maggior parte degli atomi di uno strato. Per contro, ogni atomo di un oggetto comune è un oggetto multiversale, non diviso in esemplari quasi autonomi e storie quasi autonome; tuttavia, oggetti comuni come le astronavi e le coppie di fidanzati, che sono composti da tali particelle, sono divisi in maniera molto precisa in storie quasi autonome con esattamente un esemplare di ciascun oggetto, con una posizione e una velocità, in ciascuna storia.

Ciò è dovuto alla soppressione dell'interferenza causata dall' entanglement. Come abbiamo visto, quasi sempre l'interferenza avviene poco dopo la divisione oppure non avviene affatto. È per questo motivo che piú un oggetto è grande e complesso, meno il suo comportamento macroscopico è influenzato dall'interferenza. A quel livello di emergenza, un livello di «grana grossa», gli eventi nel multiverso consistono di storie autonome, con ciascuna storia a grana grossa che consiste in un fascio di molte storie che differiscono soltanto per dettagli microscopici, ma si influenzano reciprocamente attraverso l'interferenza. Le sfere di differenziazione tendono a crescere quasi alla velocità della luce, quindi alla scala della vita quotidiana o a scale piú grandi quelle storie a grana grossa possono giustamente essere chiamate «universi» nel senso consueto del termine. Ciascun universo somiglia un po' a quello della fisica classica. Ed è possibile e utile chiamarli «paralleli» poiché sono quasi autonomi. Agli abitanti, ciascuno sembra molto simile a un mondo fatto di un solo universo.

Gli eventi microscopici che vengono accidentalmente amplificati fino a quel livello a grana grossa (come la sovratensione nel nostro racconto) sono rari in qualsiasi storia a grana grossa ma comuni nel multiverso. Consideriamo, per esempio, una particella di un raggio cosmico che viaggia in direzione della Terra dallo spazio profondo. La particella deve viaggiare con una gamma di velocità leggermente diverse, poiché il principio di indeterminazione implica che nel multiverso debba diffondersi come una macchia d'inchiostro mentre viaggia. Quando arriva, la macchia d'inchiostro può benissimo essere piú larga della Terra - quindi il grosso della macchia passa all'esterno e il resto colpisce ogni parte della superficie esposta. Non va dimenticato che è soltanto una particella, che può consistere di esemplari fungibili. Ciò che accade ora è che questi smettono di essere fungibili, dividendosi, attraverso l'interazione con gli atomi del punto di arrivo, in un numero finito ma enorme di esemplari, ciascuno dei quali è l'origine di una storia distinta.

In ognuna di queste storie, vi è un esemplare autonomo della particella del raggio cosmico, che dissiperà la sua energia nella creazione di una «pioggia» di particelle elettricamente cariche. In storie diverse, dunque, una tale pioggia si realizzerà in posizioni diverse. In certe storie, offrirà un percorso verso il basso lungo il quale viaggerà un fulmine. Ogni atomo sulla superficie della Terra sarà colpito da quel fulmine in qualche storia. In altre storie, una di queste particelle colpirà una cellula umana, danneggiando una parte di DNA già danneggiato in modo tale da rendere cancerosa la cellula. Una percentuale non trascurabile di tutti i tumori ha questa causa. Di conseguenza, esistono storie in cui ogni data persona, in vita nella nostra storia in un momento qualsiasi, muore poco dopo per un tumore. In altre storie ancora, l'andamento di una battaglia, o di una guerra, è modificato da un tale evento, o da un fulmine che cade esattamente nel posto giusto al momento giusto, o da uno qualsiasi tra innumerevoli altri, improbabili, eventi «casuali». Ciò rende del tutto plausibile l'esistenza di storie in cui gli eventi si sono sviluppati piú o meno come in romanzi ucronici quali Fatherland e Roma Eterna - o in cui gli eventi della vostra vita si sono svolti in maniera molto diversa, nel bene e nel male.

Gran parte della narrativa è molto simile a qualcosa che avviene da qualche parte nel multiverso. Ma non tutta. Per esempio, non esistono storie in cui i miei racconti del malfunzionamento del trasportatore sono veri, perché richiedono leggi fisiche diverse. E neanche storie in cui le costanti fondamentali della natura come la velocità della luce o la carica di un elettrone sono diverse. Esiste però un senso in cui per un certo periodo in certe storie sembra che siano vere leggi della fisica diverse, a causa di una sequenza di «accidenti improbabili» (potrebbero anche esistere universi in cui esistono leggi fisiche diverse, come richiesto dalle spiegazioni antropiche della regolazione fine; finora, tuttavia, non esiste una teoria accettabile di un multiverso simile).

Immaginiamo un fotone proveniente dal laser di comunicazione di un'astronave e diretto verso la Terra. Come il raggio cosmico, arriva su tutta la superficie, in storie diverse. In ciascuna storia, solo un atomo assorbirà il fotone e il resto inizialmente non ne sarà affatto influenzato. Un ricevitore per questo genere di comunicazione scoprirebbe il cambiamento discreto, relativamente grande, subito da questo atomo. Una conseguenza importante per la costruzione di strumenti di misura (compresi gli occhi) è che, indipendentemente dalla lontananza della fonte, la spinta data a un atomo da un fotone in arrivo è sempre la stessa: la debolezza di un segnale implica soltanto un numero minore di spinte. Se non fosse cosí - per esempio, se la fisica classica fosse vera - i segnali deboli sarebbero sommersi molto piú facilmente dal rumore locale casuale (si ricordi la discussione del capitolo VI sul vantaggio dell'informazione digitale rispetto a quella analogica).

Una parte delle mie ricerche di fisica si è concentrata sulla teoria dei computer quantistici. Si tratta di computer in cui le variabili che contengono l'informazione sono protette mediante una gran varietà di mezzi dall' entanglement con l'ambiente circostante. Ciò permette una nuova modalità di computazione in cui il flusso di informazioni non è confinato in un'unica storia. In un tipo di computazione quantistica, quantità enormi di computazioni diverse, che sono eseguite simultaneamente, possono influenzarsi a vicenda e quindi contribuire al risultato di una computazione. Questa proprietà è nota come parallelismo quantistico.

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Quindi non è proprio vero, per esempio, che in certe storie la magia sembra funzionare. Esistono soltanto storie in cui la magia sembra aver funzionato, ma non funzionerà mai piú. Esistono storie in cui sembra che io sia passato attraverso un muro, perché è successo che tutti gli atomi del mio corpo hanno ripreso la direzione originaria dopo essere stati deviati dagli atomi del muro. Ma sono storie che hanno avuto inizio dal muro: la spiegazione vera di ciò che è accaduto implica molti altri esemplari di me stesso e del muro - oppure possiamo spiegarlo in modo sommario in termini di eventi casuali molto improbabili. È un po' come vincere alla lotteria: il vincitore non può spiegare in modo corretto che cosa è accaduto senza fare riferimento all'esistenza di molti perdenti. Nel multiverso, i perdenti sono altri esemplari della persona in questione.

L'approssimazione della «storia» fallisce completamente soltanto quando le storie, oltre a dividersi, si uniscono - cioè nei fenomeni di interferenza. Per esempio, certe molecole esistono contemporaneamente in due o piú strutture (una «struttura» è una disposizione di atomi, tenuti insieme da legami chimici). I chimici chiamano questo fenomeno «risonanza» tra due strutture, ma la molecola non le alterna: le ha simultaneamente. Non è possibile spiegare le proprietà chimiche di queste molecole in termini di una sola struttura poiché, quando una molecola «risonante» partecipa a una reazione chimica con altre molecole, c'è interferenza.

Come scrittori di fantascienza, siamo autorizzati a formulare congetture, senza curarci che per la loro scarsa plausibilità sarebbero spiegazioni scientifiche pessime. Ma la spiegazione migliore di noi stessi nella scienza reale è che noi - esseri senzienti in questa struttura gigantesca e sconosciuta in cui gli oggetti materiali non hanno continuità, in cui anche qualcosa di fondamentale come il movimento o il cambiamento è diverso da tutto ciò che conosciamo - facciamo parte di oggetti multiversali. Ogni volta che osserviamo qualcosa - uno strumento scientifico, una galassia o un essere umano - in realtà guardiamo dalla prospettiva di un solo universo un oggetto piú grande che si estende anche in altri universi. In alcuni di questi, l'oggetto ha esattamente lo stesso aspetto che ha per noi, in altri appare diverso o è del tutto assente. Quella che per un osservatore è una coppia sposata, in realtà è solo un frammento di una vasta entità che comprende molti esemplari fungibili della coppia, insieme ad altri esemplari dei due che hanno divorziato e ad altri che non si sono mai sposati.

Siamo canali del flusso di informazioni. Lo sono anche le storie, e pure tutti gli oggetti relativamente autonomi presenti nelle storie; noi esseri senzienti, però, siamo canali estremamente insoliti, lungo i quali (a volte)

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Terminologia.

fungibili Identici sotto ogni profilo.

il mondo Tutta la realtà fisica.

multiverso Il mondo, secondo la teoria quantistica.

universo Gli universi sono regioni quasi autonome del multiverso.

storia Un insieme di universi fungibili, nel corso del tempo. Si può anche parlare della storia di parti di un universo.

universi paralleli Un modo un po' fuorviante di indicare il multiverso. È fuorviante perché gli universi non sono perfettamente «paralleli» (autonomi) e perché il multiverso ha una struttura molto piú ricca - in particolare la fungibilità, l' entanglement e le misure delle storie.

esemplari In parti del multiverso che contengono universi, ciascun oggetto multiversale consiste approssimativamente di «esemplari», alcuni identici e altri no, uno in ciascuno degli universi.

quanto Il piú piccolo cambiamento possibile di una variabile fisica discreta.

entanglement Informazione contenuta in ogni oggetto multiversale che determina quali parti (esemplari) di altri oggetti multiversali può influenzare ciascuna sua parte (ciascun suo esemplare).

decoerenza Il processo che rende irrealizzabile annullare l'effetto di un'onda di differenziazione tra universi.

interferenza quantistica Fenomeno causato da esemplari non fungibili di un oggetto multiversale che diventano fungibili.

principio di indeterminazione Conseguenza della teoria quantistica per cui, per ogni collezione fungibile di esemplari di un oggetto fisico, alcuni dei loro attributi devono essere diversi (l'espressione alternativa «principio di incertezza» è fuorviante).

computazione quantistica Computazione in cui il flusso di informazioni non è confinato in un'unica storia.


Riassunto.

Il mondo fisico è un multiverso e la sua struttura è determinata dal modo in cui vi circola l'informazione. In molte regioni del multiverso, l'informazione viaggia in flussi quasi autonomi detti storie, una delle quali per noi è il nostro «universo». Gli universi obbediscono approssimativamente alle leggi della fisica classica (prequantistica). Però siamo a conoscenza del resto del multiverso, e possiamo verificare le leggi della fisica quantistica, a causa del fenomeno dell'interferenza quantistica. Pertanto un universo è una caratteristica non esatta ma emergente del multiverso. Una delle proprietà piú insolite e controintuitive del multiverso è la fungibilità. Le leggi del moto del multiverso sono deterministiche e l'apparente casualità è dovuta a esemplari di oggetti inizialmente fungibili che diventano diversi. Nella fisica quantistica, le variabili solitamente sono discrete e il modo in cui passano da un valore a un altro è un processo multiversale a cui partecipano l'interferenza e la fungibilità.

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La condizione di errore è lo stato normale della nostra conoscenza e non è una vergogna. Non c'è nulla di male in una filosofia falsa. I problemi sono inevitabili, ma possono essere risolti dal pensiero critico e immaginativo che ricerca buone spiegazioni. Questa è buona filosofia, e buona scienza, che in qualche misura sono sempre esistite. Per esempio, i bambini hanno sempre imparato a parlare formulando, criticando e verificando ipotesi sul collegamento tra parole e realtà. Non potrebbero imparare in altro modo, come spiegherò nel capitolo XVI.

Anche la cattiva filosofia è sempre esistita. Per esempio, i bambini si sono sempre sentiti dire: «Perché lo dico io». Anche se non sempre questa dichiarazione è intesa come posizione filosofica, vale la pena analizzarla come tale, poiché in queste quattro semplici parole sono contenuti non pochi temi della filosofia falsa e cattiva. Primo, è un esempio perfetto di cattiva spiegazione: può essere usata per «spiegare» qualsiasi cosa. Secondo, ha questa caratteristica anche perché si occupa soltanto della forma e non della sostanza della domanda: riguarda chi ha detto qualcosa, non che cosa è stato detto. È l'opposto della ricerca della verità. Terzo, reinterpreta una richiesta di spiegazione vera (perché qualcosa è come è?) come una richiesta di giustificazione (che cosa ti autorizza ad affermare che è cosí?), che è la chimera della «credenza vera giustificata». Quarto, confonde l'inesistente autorità per le idee con l'autorità umana (il potere) - una via molto battuta nella cattiva filosofia politica. Quinto, infine, pretende in questo modo di restare al di fuori della giurisdizione della normale critica.

Prima dell'Illuminismo, la cattiva filosofia di solito apparteneva alla varietà «perché lo dico io». Quando l'Illuminismo liberò la filosofia e la scienza, entrambe iniziarono a progredire e la buona filosofia entrò in una fase di sviluppo. Paradossalmente, però, la cattiva filosofia diventò peggiore.

Come abbiamo visto, l'empirismo inizialmente ebbe un ruolo positivo nella storia delle idee fornendo una difesa contro le autorità tradizionali e i dogmi, e attribuendo all'esperimento un ruolo fondamentale - anche se sbagliato - nella scienza. Sulle prime, il fatto che l'empirismo sia una descrizione impossibile del funzionamento della scienza non fece quasi alcun danno, poiché nessuno lo prese alla lettera. Qualunque cosa possano aver detto sull'origine delle loro scoperte, gli scienziati affrontavano con passione problemi interessanti, ipotizzavano buone spiegazioni, le verificavano e solo alla fine sostenevano di avere indotto le spiegazioni dall'esperimento. Il punto essenziale era che avevano successo: facevano progressi. Nulla impediva quell'innocuo (auto)inganno e nulla ne veniva dedotto.

A poco a poco, tuttavia, l'empirismo iniziò a essere preso alla lettera e quindi ad avere effetti sempre piú nocivi. Per esempio, la dottrina del positivismo, sviluppata nell'Ottocento, cercò di eliminare dalle teorie scientifiche tutto ciò che non fosse stato «derivato dall'osservazione». Poiché dall'osservazione non si deriva mai nulla, ciò che i positivisti cercavano di eliminare dipendeva totalmente dal loro capriccio e dalle loro intuizioni. Di tanto in tanto capitava che un'intuizione fosse buona. Ad esempio, il fisico Ernst Mach (fratello del Ludwig Mach dell'interferometro di Mach-Zehnder), che era anche un filosofo positivista, influenzò Einstein , spronandolo a eliminare dalla fisica ogni assunto non verificato - compreso l'assunto di Newton che il tempo scorre alla stessa velocità per tutti gli osservatori. Si dà il caso che quella fosse un'idea eccellente, che Einstein mise a frutto. Ma il positivismo di Mach lo spinse anche a opporsi alla teoria della relatività, essenzialmente perché sosteneva che lo spaziotempo esiste realmente anche se non può essere osservato «in modo diretto». Mach inoltre negava con fermezza l'esistenza degli atomi, che erano troppo piccoli per essere osservati. Noi ridiamo di questa sciocchezza, oggi che abbiamo microscopi capaci di visualizzare i singoli atomi, ma la filosofia ne avrebbe dovuto ridere allora.

Al contrario, quando Ludwig Boltzmann utilizzò la teoria atomica per unificare la termodinamica e la meccanica, Mach e altri positivisti lo denigrarono tanto da spingerlo alla disperazione, il che forse contribuí al suo suicidio poco prima che la marea cambiasse e la maggior parte delle branche della fisica si liberasse dall'influenza di Mach. Da quel momento, nulla impedí alla fisica atomica di svilupparsi rigogliosamente. Un'altra fortuna fu che ben presto Einstein rifiutò il positivismo e iniziò a difendere esplicitamente il realismo. Ecco perché non accettò mai l'interpretazione di Copenaghen. Se Einstein avesse continuato a prendere sul serio il positivismo, mi domando, avrebbe mai potuto concepire la teoria della relatività generale, in cui lo spaziotempo non solo esiste, ma è un'entità dinamica non osservata che si curva e si contorce per l'influenza di oggetti di grande massa? Oppure la teoria dello spaziotempo si sarebbe fermata come fece la teoria quantistica?

Malauguratamente, dopo Mach la maggior parte della filosofia della scienza è stata anche peggiore (un'eccezione importante è Popper ). Nel corso del Novecento, l'antirealismo divenne la concezione di quasi tutti i filosofi e quella comune tra gli scienziati. Alcuni negavano l'esistenza stessa del mondo fisico e i piú si sentivano obbligati ad ammettere che, anche se il mondo fisico esistesse, la scienza non vi potrebbe accedere. Scrive, per esempio, Thomas Kuhn in Riflessioni sui miei critici:

C'è un passo che molti filosofi della scienza desiderano fare e che io rifiuto: vogliono confrontare le teorie [scientifiche] come rappresentazioni della natura, come asserzioni di quel che «c'è veramente lí fuori».

Il positivismo degenerò nel positivismo logico, secondo cui le affermazioni non verificabili con l'osservazione sono prive non solo di valore, ma anche di significato. Questa dottrina minacciò di spazzar via non solo la conoscenza scientifica esplicativa, ma anche l'intera filosofia. In particolare: il positivismo logico è esso stesso una teoria filosofica e non può essere verificato dall'osservazione; quindi sostiene la propria mancanza di significato (oltre a quella di tutto il resto della filosofia).

I positivisti logici cercarono di salvare la propria teoria da questa implicazione (per esempio, chiamandolo positivismo «logico» e non filosofico) ma fu vano. Poi Wittgenstein accettò l'implicazione e dichiarò priva di significato tutta la filosofia, compresa la sua. Difese l'atteggiamento di tacere riguardo ai problemi filosofici e, anche se non cercò mai di fare onore a tale aspirazione, fu salutato da molti come uno dei piú grandi geni del Novecento.

Si sarebbe potuto pensare che il pensiero filosofico avesse toccato il fondo, ma purtroppo esistevano abissi piú profondi da raggiungere. Durante la seconda metà del Novecento, la filosofia tradizionale perse il contatto con (e l'interesse per) il tentativo di comprendere la scienza cosí come viene praticata nella realtà, o come dovrebbe essere praticata. Seguendo Wittgenstein, per qualche tempo la scuola filosofica predominante fu la «filosofia linguistica», il cui principio fondamentale è che quelli che sembrano problemi filosofici in realtà sono soltanto enigmi linguistici relativi all'uso delle parole nella vita di tutti i giorni, gli unici che i filosofi possono studiare utilmente.

In seguito si diffuse in tutto l'Occidente un'altra tendenza collegata, che aveva avuto origine nell'Illuminismo europeo: molti filosofi abbandonarono il tentativo di capire qualsiasi cosa e attaccarono vigorosamente non solo le idee di spiegazione e di realtà, ma anche di verità e di ragione. Criticare semplicemente questi attacchi perché incoerenti come il positivismo logico - il che è vero - vuol dire dar loro fin troppo credito. Quanto meno, infatti, i positivisti logici e Wittgenstein erano interessati a tracciare una distinzione tra ciò che ha senso e ciò che ne è privo - anche se ne difendevano una irrimediabilmente sbagliata.

Un movimento filosofico oggi influente va sotto vari nomi, quali postmodernismo, decostruzionismo e strutturalismo, a seconda di dettagli storici che qui non hanno importanza. La sua tesi fondamentale è che, dato che tutte le idee, comprese le teorie scientifiche, sono congetturali e impossibili da giustificare, sono essenzialmente arbitrarie: non sono altro che storie, note in questo contesto come «narrazioni». Mescolando un relativismo culturale estremo con altre forme di antirealismo, i fautori di questo movimento considerano la verità e la falsità oggettive, e pure la realtà e la conoscenza della realtà, come mere forme convenzionali di parole che rappresentano il fatto che un'idea è approvata da un gruppo designato di persone come un'élite, dall'opinione generale, da una moda o da qualche altra autorità arbitraria. E considera la scienza e l'Illuminismo come nulla di piú di una di queste mode, e la conoscenza oggettiva che la scienza pretende di avere come un'arrogante presunzione culturale.

Forse inevitabilmente, queste accuse si possono muovere a ragione contro il postmodernismo stesso: è una narrazione che resiste alla critica razionale e al miglioramento, proprio perché respinge ogni critica in quanto pura e semplice narrazione. Per creare una teoria postmodernista di successo basta soddisfare i criteri della comunità postmodernista - che si è evoluta per essere complessa, esclusiva e basata sull'autorità. Nessuna modalità di pensiero razionale ha queste caratteristiche: creare una buona spiegazione è difficile non a causa di ciò che qualcuno ha deciso, ma perché esiste una realtà oggettiva che non soddisfa le aspettative a priori di nessuno, comprese quelle delle autorità. I creatori di cattive spiegazioni, come i miti, in realtà non fanno altro che inventarsi le cose. Ma il metodo di ricercare buone spiegazioni crea un contatto con la realtà, non solo nella scienza, ma anche nella buona filosofia - ed è per questo che funziona e che è l'antitesi di architettare storie per soddisfare criteri inventati.

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I ragionamenti per analogia sono fallaci. Quasi ogni analogia tra due cose qualsiasi contiene qualche grano di verità, che però non possiamo distinguere se non abbiamo una spiegazione indipendente che permetta di capire quali sono gli elementi analoghi e perché lo sono. Il pericolo principale dell'analogia tra biosfera e cultura è che induce a concepire la condizione umana in un modo riduzionistico che annulla le distinzioni di alto livello che sono essenziali per capirla - come quelle tra irragionevole e creativo, tra determinismo e scelta, tra giusto e sbagliato. Al livello della biologia sono distinzioni prive di significato. In realtà, spesso si traccia questa analogia proprio per sfatare l'idea sensata che gli esseri umani siano agenti causali dotati della capacità di compiere scelte morali e di creare nuova conoscenza per se stessi.

Come spiegherò, benché l'evoluzione biologica e quella culturale siano descritte dalla stessa teoria, i meccanismi di trasmissione, variazione e selezione sono tutti molto diversi. Ne consegue che anche le risultanti «storie naturali» sono diverse. Nella cultura non esiste nulla di strettamente analogo a una specie, a un organismo, a una cellula o alla riproduzione sessuale o asessuale. Al livello dei meccanismi, e anche dei risultati, i geni e i memi quasi non potrebbero essere piú diversi; sono simili soltanto al livello esplicativo piú basso, dove gli uni e gli altri sono replicatoci che contengono conoscenza e quindi sono condizionati dagli stessi principi fondamentali che determinano in quali condizioni la conoscenza può o meno essere conservata o migliorare.

[...]

Non sappiamo come funzioni esattamente la creatività, però sappiamo che è essa stessa un processo di evoluzione che ha luogo nel cervello: dipende dalle congetture (che sono variazioni) e dalle critiche (che servono a scegliere le idee). Da qualche parte nel cervello, quindi, variazioni cieche e selezioni corrispondono al pensiero creativo a un livello piú alto di emergenza.

L'idea dei memi ha attirato un gran numero di critiche radicali, e a mio avviso sbagliate, secondo cui sarebbe vaga e inutile, oppure tendenziosa. Per esempio, quando fu soppressa la religione greca antica, ma le storie dei suoi dèi continuarono a essere raccontate, seppur soltanto come storie di fantasia, quelle storie erano ancora gli stessi memi anche se inducevano nuovi comportamenti? Quando le leggi di Newton furono tradotte in inglese dal latino originario, fecero sí che venissero pronunciate e scritte parole diverse. Erano gli stessi memi? In realtà, però, le domande di questo genere non mettono in dubbio l'esistenza dei memi né l'utilità del concetto. È come la controversia su quali oggetti del sistema solare dovremmo chiamare «pianeti». Plutone è un pianeta «reale» anche se è piú piccolo di alcuni satelliti del nostro sistema solare? Giove in realtà non è un pianeta, ma una stella che non si è mai accesa? Non è importante. Importa soltanto che cosa esiste realmente. E i memi esistono davvero, indipendentemente da come li chiamiamo e classifichiamo. La teoria fondamentale dei geni fu sviluppata molto prima della scoperta del DNA e analogamente oggi, senza sapere in che modo le idee sono immagazzinate nel cervello, sappiamo che certe idee possono essere trasmesse da una persona a un'altra e influenzare il comportamento di molti. I memi sono queste idee.

Una critica di altro genere fa notare che i memi, a differenza dei geni, non sono immagazzinati in forme fisicamente identiche nei loro portatori. Tuttavia, come spiegherò, ciò non rende necessariamente impossibile che i memi vengano trasmessi «fedelmente» nel senso che conta per l'evoluzione. In realtà, è del tutto sensato pensare che i memi conservino la propria identità passando da un portatore all'altro.

[...]

Con le regole grammaticali accade qualcosa di simile. Nell'inglese parlato nel Regno Unito, diciamo «I am learning to play the piano», ma non «I am learning to play the baseball». Sappiamo costruire queste frasi nel modo corretto, tuttavia pochissimi sanno che la regola grammaticale non esplicita che seguono esiste davvero e senza rifletterci quasi nessuno sa enunciarla. Nell'inglese che si parla negli Stati Uniti, la regola è leggermente diversa e la frase «learning to play piano» è accettabile. Possiamo domandarci perché e ipotizzare che agli inglesi l'articolo determinativo piaccia di piú. Ma la spiegazione non è questa; infatti, nel Regno Unito si dice che un paziente è «in hospital» e negli Stati Uniti che è «in the hospital».

La stessa considerazione vale per i memi in generale: essi contengono implicitamente informazioni di cui il portatore non è a conoscenza, ma che, ciò malgrado, fanno sí che i portatori abbiano tutti un comportamento simile. Perciò, cosí come gli inglesi possono sbagliarsi riguardo al motivo per cui dicono the nella frase citata, le persone che agiscono in base a memi di qualsiasi altro genere spesso danno spiegazioni false, anche a se stesse, del motivo del proprio comportamento.

Come i geni, tutti i memi contengono conoscenza (spesso non esplicita) riguardo a come provocare la propria riproduzione. Nel primo caso, la conoscenza è codificata nei filamenti di DNA e, nel secondo, ricordata in un cervello. In entrambi, la conoscenza è adattata a provocare la propria riproduzione: lo fa in modo molto piú regolare di quasi tutte le sue varianti. In entrambi i casi, questo adattamento è la conseguenza di cicli alternati di variazione e di selezione.

La logica dei meccanismi di copiatura, tuttavia, è molto diversa nei due casi. Negli organismi che si riproducono per divisione, nella generazione successiva vengono ricopiati tutti i geni, oppure nessuno (se l'individuo non si riproduce). Nella riproduzione sessuale, viene ricopiato un insieme completo di geni, scelti a caso da entrambi i genitori, oppure nessun gene. In tutti i casi, il processo di duplicazione del DNA è automatico: i geni vengono ricopiati indiscriminatamente. Una delle conseguenze è che alcuni geni si possono riprodurre per molte generazioni senza mai essere «espressi» (causare comportamenti). Che ai vostri genitori sia capitato o meno di rompersi un osso, i loro geni relativi alla riparazione delle ossa rotte (salvo il caso di mutazioni improbabili) sono stati trasmessi a voi e lo saranno ai vostri discendenti.

La situazione dei memi è completamente diversa. Ogni meme deve esprimersi come comportamento tutte le volte che viene riprodotto. Infatti è quel comportamento, e solo quel comportamento (dato l'ambiente creato da tutti gli altri memi), a effettuare la riproduzione. Il motivo è che il destinatario non può vedere la rappresentazione del meme nella mente del portatore. Di un meme non si può fare il download. Se non dà luogo a un comportamento, non viene ricopiato.

Il risultato è che i memi assumono necessariamente due forme fisiche ed esistono alternativamente come ricordi in un cervello e come comportamenti (fig. 22).

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L'Illuminismo.


La società occidentale non diventò dinamica per il crollo improvviso di una società statica, ma attraverso cicli di evoluzione di società statiche. Dove e quando ebbe origine la transizione non è ben determinato, ma sospetto che abbia avuto inizio con la filosofia di Galileo e che sia diventata irreversibile con le scoperte di Newton. Le leggi di Newton si riprodussero come memi razionali, con una fedeltà decisamente alta - essendo molto utili per molti scopi. Questo successo rese sempre piú difficile ignorare le implicazioni filosofiche del fatto che la comprensione della natura aveva raggiunto una profondità senza precedenti e dei metodi della scienza e della ragione che avevano permesso di ottenere tale risultato.

Dopo Newton, in ogni caso, sarebbe stato impossibile non accorgersi che era in atto un rapido progresso (alcuni filosofi, in particolare Jean-Jacques Rousseau cercarono di farlo - ma solo sostenendo che la ragione era dannosa, la civiltà negativa e la vita primitiva felice). Vi fu una tale valanga di altri miglioramenti - scientifici, filosofici e politici - che la possibilità di tornare alla stasi fu spazzata via. Le alternative possibili per la società occidentale erano due: diventare l'inizio dell'infinito oppure essere distrutta. Oggi, in altre parti del mondo, esistono nazioni che stanno cambiando rapidamente, a volte per le esigenze di guerre combattute contro i paesi vicini, ma piú spesso e ancor piú efficacemente per mezzo della trasmissione pacifica di memi occidentali. Anche le loro culture non possono tornare a essere statiche. O diventeranno «occidentali» come modus operandi oppure perderanno tutta la loro conoscenza e quindi cesseranno di esistere - un dilemma che sta diventando sempre piú importante nella politica mondiale.

Anche in Occidente, l'Illuminismo oggi non è neanche lontanamente completo. È a un livello relativamente avanzato in certi settori, pochi ma vitali: principalmente le scienze fisiche e le istituzioni politiche ed economiche. In questi settori, le idee sono soggette a critica e sperimentazione, vengono scelte e subiscono modifiche; in molti altri, tuttavia, i memi sono ancora riprodotti nel modo vecchio, attraverso mezzi che sopprimono le facoltà critiche dei destinatari e ne ignorano le preferenze. Quando le ragazze si sforzano di essere femminili e di soddisfare criteri di forma e aspetto definiti culturalmente e i ragazzi fanno tutto il possibile per sembrare forti e per non piangere quando sono angosciati, cercano tutti di riprodurre antichi memi «stereotipi di genere» che fanno ancora parte della nostra cultura - benché approvarli in modo esplicito sia ormai un comportamento stigmatizzato. L'effetto di questi memi è impedire che un'enorme gamma di idee su quale sarebbe il genere di vita da condurre venga mai in mente ai portatori. Se i loro pensieri vagano nelle direzioni proibite, i giovani provano disagio, imbarazzo e lo stesso tipo di paura e di perdita di equilibrio che le persone religiose sentono da tempo immemorabile al pensiero di tradire i propri dèi. In piú, le loro visioni del mondo e facoltà critiche sono compromesse esattamente in modo tale che a tempo debito anch'essi indurranno la generazione successiva ad avere la stessa forma di pensiero e di comportamento.

[...]

Un altro fenomeno è la formazione all'interno della società dinamica di sottoculture antirazionali. I memi antirazionali, come abbiamo visto, portano a una soppressione selettiva delle critiche e provocano soltanto un danno finemente regolato, permettendo quindi ai membri di una sottocultura antirazionale di funzionare normalmente sotto altri aspetti. In tal modo queste sottoculture possono sopravvivere a lungo, fino a quando non vengono destabilizzate dagli effetti casuali della portata di idee di altri settori. Il razzismo e altre forme di fanatismo, per esempio, oggi esistono quasi esclusivamente in sottoculture che sopprimono la critica. Il fanatismo esiste non perché giovi ai fanatici, ma nonostante il danno che costoro arrecano a se stessi usando criteri prestabiliti e non funzionali per determinare le proprie scelte di vita.

I metodi educativi attuali hanno ancora molto in comune con i loro predecessori delle società statiche. Nonostante tutti i discorsi moderni sull'incoraggiamento del pensiero critico, far apprendere a memoria e inculcare schemi tradizionali di comportamento esercitando una pressione psicologica sono ancora parte integrante dell'istruzione, anche se oggi sono metodi che la teoria, in parte o del tutto, ripudia esplicitamente. Per quanto riguarda l'insegnamento universitario, inoltre, in pratica si dà ancora per scontato che lo scopo principale dell'istruzione sia la trasmissione fedele di un programma di studi prestabilito. Una delle conseguenze è che gli studenti acquisiscono una conoscenza scientifica in modo scialbo e strumentale. Senza accostarsi in modo critico a ciò che imparano, è raro che gli studenti possano riprodurre in maniera efficace i memi della scienza e della ragione nella propria mente. Cosí viviamo in una società in cui qualcuno, di giorno può usare in modo scrupoloso la tecnologia laser per contare le cellule nei campioni di sangue, e la sera cantare, seduto a gambe incrociate, per estrarre energia soprannaturale dalla Terra.

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I due misteri hanno la stessa soluzione.


In questo capitolo ho presentato due misteri. Perché la creatività umana fu evolutivamente vantaggiosa in un'epoca in cui le innovazioni erano rarissime? Com'è possibile che i memi umani vengano riprodotti dato che i destinatari non ne osservano mai il contenuto?

Secondo me, i due problemi hanno la stessa soluzione: ciò che riproduce i memi umani è la creatività e la creatività veniva usata, mentre era in via di evoluzione, per riprodurre i memi. In altre parole, era usata per acquisire la conoscenza esistente, non per crearne di nuova. Ma il meccanismo è identico per entrambe le cose e cosí, acquisendo la capacità di fare la prima, diventammo automaticamente capaci di fare la seconda. È un esempio importantissimo del concetto di portata, che rese possibile tutto ciò che è caratteristica esclusiva della nostra specie.

Una persona che acquisisce un meme affronta la stessa sfida logica che si trova a fronteggiare uno scienziato: entrambi devono scoprire una spiegazione nascosta. Per la persona, si tratta di un'idea che è nella mente di altri; per lo scienziato, di una regolarità o legge della natura. Nessuno dei due ha un accesso diretto alla spiegazione. Però entrambi possono accedere ai dati che permettono di verificare le spiegazioni: il comportamento osservato dei portatori del meme e i fenomeni fisici che obbediscono alla legge.

Il mistero di come una persona possa ritradurre un comportamento in una teoria che contiene il suo significato è quindi lo stesso mistero della provenienza della conoscenza scientifica. E l'idea che i memi siano copiati imitando il comportamento dei loro portatori è un errore come l'empirismo, l'induttivismo o il lamarckismo. Tutti dipendono dal fatto che esista un modo per tradurre automaticamente i problemi (il problema del moto dei pianeti, o di come raggiungere le foglie che si trovano molto in alto, o di come essere invisibile alla propria preda) nelle loro soluzioni. In altre parole, tutti presumono che l'ambiente (sotto la forma di un fenomeno osservato o di un albero alto, poniamo) possa «istruire» le menti o i genomi sul modo di affrontare le sfide che esso stesso pone. Popper scrive:

L'impostazione induttiva o lamarckiana si basa sull'idea che l'istruzione provenga dall'esterno, o dall'ambiente. Di contro, l'approccio critico o darwiniano ammette solo l'istruzione dall'interno - dall'interno della stessa struttura. In effetti, ciò che sostengo è che non esiste nulla di simile a un'istruzione proveniente dall'esterno della struttura. (...)

Non scopriamo nuovi fatti o effetti riproducendoli o inferendoli induttivamente dall'osservazione né attraverso ogni altro metodo di istruzione da parte dell'ambiente. Utilizziamo piuttosto il metodo per prova ed eliminazione dell'errore. Come dice Ernst Gombrich, «l'operare viene prima del confrontare»; l'attiva produzione di una nuova struttura provvisoria precede la sua esposizione alle prove eliminatorie.

Popper avrebbe anche potuto scrivere: «Non acquisiamo nuovi memi riproducendoli o inferendoli induttivamente dall'osservazione né attraverso ogni altro metodo di istruzione da parte dell'ambiente». La trasmissione dei memi umani — memi che non hanno un significato per lo piú predefinito e noto al destinatario — non può essere altro che un'attività creativa da parte del destinatario.

I memi, come le teorie scientifiche, non vengono derivati da qualcosa. Sono creati nuovamente da ogni destinatario. Sono spiegazioni ipotetiche, che poi vengono sottoposte a critiche e verificate prima di essere provvisoriamente adottate.

Il medesimo schema di congettura creativa, critica e verifica genera idee esplicite e non esplicite. In realtà lo fa ogni genere di creatività, poiché nessuna idea può essere rappresentata completamente in maniera esplicita. Che ne siamo o meno consapevoli, ogni congettura esplicita che formuliamo ha una componente non esplicita, cosí come ogni critica.

Pertanto, come è accaduto spesso nella storia dell'universalità, la capacità umana di formulare spiegazioni universali non si è evoluta per avere una funzione universale, ma semplicemente per aumentare il volume dell'informazione memetica che i nostri antenati potevano acquisire, e la velocità e la precisione con cui potevano acquisirla. La via piú facile consisteva nel fornirci una capacità universale di spiegare, mediante la creatività, e infatti è proprio la via seguita dall'evoluzione. Questo fatto epistemologico fornisce non solo la soluzione ai due misteri citati, ma anche la ragione primaria dell'evoluzione della creatività umana - e quindi della specie umana.

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Le leggi della natura, ribadisco, non possono imporre limiti al progresso: come ho spiegato nei capitoli I e III, negarlo equivale a invocare il soprannaturale. In altre parole, il progresso è sostenibile, indefinitamente. Ma solo da parte di coloro che hanno un modo particolare di pensare e di comportarsi - la modalità di risoluzione e creazione di problemi caratteristica dell'Illuminismo. E questo richiede l'ottimismo di una società dinamica.

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All'inizio della preistoria, le popolazioni erano molto piccole, la conoscenza locale e le idee capaci di fare la storia lontane millenni. A quei tempi un meme poteva diffondersi soltanto se il destinatario vedeva qualcuno metterlo in atto e comunque (a causa della staticità delle culture) si diffondeva raramente. Il comportamento umano quindi somigliava a quello di altri animali e gran parte di ciò che accadeva era effettivamente spiegato dalla biogeografia. Ma sviluppi come il linguaggio astratto, la spiegazione, un livello di risorse superiore a quello strettamente necessario per vivere e il commercio a lungo raggio avevano tutti la capacità potenziale di corrodere il provincialismo e quindi di conferire potere casuale alle idee. Quando la storia iniziò a essere documentata, era diventata da tempo la storia delle idee molto piú di qualsiasi altra cosa - anche se purtroppo le idee erano ancora soprattutto della varietà antirazionale e nociva per l'individuo. Quanto alla storia successiva, ci vorrebbe davvero un grande impegno per sostenere che le spiegazioni biogeografiche rendono conto del corso degli eventi. Perché, per esempio, furono le società nordamericane e dell'Europa occidentale a vincere la guerra fredda e non quelle asiatiche e dell'Europa orientale? Analizzare il clima, i minerali, la flora, la fauna e le malattie non può insegnarci nulla a questo riguardo. La spiegazione è che il sistema sovietico perse perché la sua ideologia era falsa e tutta la biogeografia del mondo non può spiegare che cosa ci fosse di falso.

Per coincidenza, una delle cose piú false dell'ideologia sovietica era proprio l'idea dell'esistenza di una spiegazione fondamentale della storia in termini meccanicistici, non umani, come quelle proposte da Marx , Engels e Diamond. Molto in generale, le reinterpretazioni meccanicistiche delle vicende umane sono non soltanto prive di potere esplicativo, ma anche moralmente sbagliate, poiché in realtà negano l'umanità dei partecipanti, considerando questi e le loro idee soltanto come effetti collaterali del paesaggio.

Diamond ha raccontato di aver scritto Armi, acciaio e malattie soprattutto perché le persone saranno sempre tentate da spiegazioni razziste se non si convincono che il successo relativo degli europei fu causato dalla biogeografia. Beh, non i lettori di questo libro, spero! Immagino che a Diamond, se considerasse l'antica Atene, il Rinascimento, l'Illuminismo (la quintessenza della causalità attraverso il potere delle idee astratte), non sembrerebbe possibile attribuire questi eventi alle idee e alle persone; a suo avviso, l'unica alternativa a una interpretazione riduzionistica e disumanizzante degli eventi è un'altra interpretazione riduzionistica e disumanizzante.

In realtà, la differenza tra Sparta e Atene, o tra Savonarola e Lorenzo de' Medici, non ha nulla a che fare con i geni, e cosí anche la differenza tra i pasquensi e i cittadini dell'Impero britannico. Erano tutti esseri umani - esplicatori e costruttori universali. Ma avevano idee diverse. E non è vero che il paesaggio fu la causa dell'Illuminismo. Sarebbe molto piú vero dire che il paesaggio in cui viviamo è un prodotto delle idee. Il paesaggio primordiale, pur essendo pieno di indizi e quindi di opportunità, non conteneva neanche un'idea. È soltanto la conoscenza a trasformare i paesaggi in risorse e solo gli esseri umani sono gli autori di conoscenza esplicativa e quindi del comportamento esclusivamente umano che chiamiamo «storia».

Le risorse fisiche come le piante, gli animali e i minerali offrono opportunità, che possono ispirare nuove idee, ma non possono crearne né far sí che le persone abbiano qualche idea particolare. Sono anche causa di problemi, ma non impediscono alle persone di scoprire come risolvere questi problemi. Può essere successo che un evento naturale travolgente come un'eruzione vulcanica abbia spazzato via un'antica civiltà indipendentemente da ciò che pensavano le vittime, ma si tratta di eventi eccezionali. Di solito, se sopravvive qualcuno, certi modi di pensare possono migliorare la situazione e in seguito migliorarla ulteriormente. Purtroppo, come ho spiegato, esistono anche modi di pensare che possono impedire qualsiasi miglioramento. Perciò tanto le principali opportunità di progresso quanto i principali ostacoli al progresso sono sempre consistiti, sin dall'inizio della civiltà e ancora prima, solamente di idee. I fattori determinanti del corso della storia sono queste idee. La distribuzione primordiale dei cavalli, dei lama, della selce o dell'uranio può influenzare soltanto i dettagli e comunque soltanto dopo che qualche essere umano ne abbia concepito un possibile uso. Sono per la maggior parte gli effetti delle idee e delle decisioni a determinare quali fattori biogeografici hanno qualche attinenza con il capitolo successivo della storia umana e quali saranno le conseguenze. Marx, Engels e Diamond sostengono il contrario. Mille anni di sopravvivenza sono tanti per una società statica.

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Nella concezione ottimistica (che imprevedibilmente è stata avvalorata dagli eventi), gli individui sono risolutori di problemi: creatori della soluzione insostenibile e quindi anche del problema successivo. Nella concezione pessimistica, questa caratteristica capacità delle persone è una malattia che si cura con la sostenibilità. In quella ottimistica, la sostenibilità è la malattia e la cura sono le persone.

[...]

Gli ottimisti che contestano gli argomenti malthusiani ribadiscono spesso (giustamente) che tutti i mali sono dovuti a mancanza di conoscenza, e che i problemi sono risolubili. Le profezie di disastri come quelle che ho descritto illustrano il fatto che la modalità di pensiero profetica, indipendentemente da quanto sembri plausibile a priori, è fallace e intrinsecamente non obiettiva. D'altro canto, aspettarsi che i problemi saranno sempre risolti in tempo per evitare i disastri sarebbe la stessa fallacia. In effetti, l'errore piú profondo e pericoloso commesso dai malthusiani è sostenere di sapere come evitare i disastri di allocazione delle risorse (cioè con la sostenibilità). In tal modo, essi negano anche quell'altra grande verità che ho suggerito di scolpire nella pietra: i problemi sono inevitabili.

[...]

Dunque non esiste una strategia di gestione delle risorse che possa prevenire i disastri, cosí come non esiste un sistema politico che fornisca soltanto buoni leader e buone politiche o un metodo scientifico che produca soltanto teorie vere. Però esistono idee che possono regolarmente causare disastri e una di queste è notoriamente l'idea che il futuro si possa pianificare scientificamente. L'unica politica razionale, in tutti e tre i casi, è giudicare istituzioni, piani e modi di vivere in base alla loro capacità di correggere gli errori ovvero, rispettivamente, di destituire i cattivi leader, sostituire le cattive spiegazioni e riprendersi dai disastri.

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Capitolo diciottesimo

L'inizio


                                        «Questa è la terra. Non l'eterna e unica
                                        casa dell'uomo, ma il punto di partenza
                                        di un'avventura infinita. Tutto quello
                                        che devi fare è decidere [di porre fine
                                        alla tua società statica]. Sta a te».

                                        [Questa decisione] segnò per sempre la
                                        fine dell'Eternità. E l'inizio
                                        dell'Infinito.

                                                                    ISAAC ASIMOV



La prima persona che misurò la circonferenza della Terra fu l'astronomo Eratostene di Cirene, nel III secolo a.C. Il suo risultato era abbastanza vicino al valore vero, che è pari a circa 40 000 chilometri. In seguito questa fu sempre considerata una distanza enorme fino a quando, con l'Illuminismo, tale concezione gradualmente si modificò e adesso la Terra è considerata piccola. Furono soprattutto due fattori a determinare questo cambiamento: il primo è la scienza dell'astronomia, che scoprí entità titaniche al cui confronto il nostro pianeta è davvero inimmaginabilmente minuscolo, e il secondo è costituito dalle tecnologie che hanno reso banali i viaggi e le comunicazioni su scala mondiale. Cosí la Terra è diventata piú piccola in relazione sia all'universo sia alla scala dell'azione umana.

Riguardo alla geografia dell'universo e al nostro posto al suo interno, la visione dominante del mondo si è quindi liberata di alcune idee provinciali e sbagliate. Sappiamo di aver esplorato quasi tutta la superficie di questa sfera un tempo considerata enorme, ma sappiamo anche che le regioni ancora da esplorare nell'universo (e al di sotto della superficie delle terre emerse e degli oceani della Terra) sono molte di piú di quanto chiunque immaginasse quando credevamo vere quelle idee sbagliate.

Per quanto riguarda la conoscenza teorica, tuttavia, la visione del mondo oggi dominante non è ancora pienamente all'altezza dei valori dell'Illuminismo. A causa della fallacia e della mancanza di obiettività della profezia, persiste ancora l'assunto che le nostre teorie attuali abbiano raggiunto il limite del conoscibile, o vi siano molto vicine — che siamo quasi alla fine, o forse a metà strada. Come ha osservato l'economista David Friedman, quasi chiunque è convinto che un reddito doppio rispetto al proprio sarebbe sufficiente a soddisfare qualsiasi persona ragionevole e che da redditi piú alti non si possano ricavare benefici autentici. Lo stesso atteggiamento si ha anche nei confronti della conoscenza scientifica: è difficile immaginare come sarebbe sapere il doppio delle cose che sappiamo, perciò se cerchiamo di profetizzarlo ci ritroviamo a immaginare soltanto qualche altra cifra decimale oltre a quelle che conosciamo già. Persino Feynman fece uno strano passo falso a questo proposito:

... non credo che possano continuare a esserci, diciamo per mille anni, delle novità perpetue. Il processo non può durare all'infinito con la scoperta di leggi nuove e, se fosse cosí, diventerebbe noioso il trovare sempre nuovi livelli uno al di sotto dell'altro. (...) Possiamo considerarci molto fortunati di vivere nell'età in cui si stanno ancora facendo scoperte. È un po' come la scoperta dell'America, che si scopre una volta sola.

Tra l'altro, Feynman dimentica che il concetto stesso di «legge» di natura non è immutabile. Come ho osservato nel capitolo V, questo concetto era diverso prima di Newton e di Galileo, e potrebbe cambiare ancora. L'idea di vari livelli di spiegazione risale al Novecento e anch'essa cambierà se è vero che, come ho ipotizzato nel capitolo V, esistono leggi fondamentali che sembrano emergenti relativamente alla fisica microscopica. Piú in generale, le scoperte piú importanti non solo sono sempre consistite di nuove spiegazioni, ma hanno sempre usato nuove modalità di spiegazione e sarà sempre cosí.

[...]

Alla fine del capitolo XIII ho osservato che il futuro desiderabile è un futuro in cui progrediremo da idee sbagliate a idee sbagliate sempre migliori (meno erronee). Penso spesso che la natura della scienza sarebbe piú comprensibile se chiamassimo le teorie «idee sbagliate» sin dall'inizio, invece di farlo soltanto dopo aver scoperto le teorie successive. Potremmo quindi dire che l'idea sbagliata di gravità di Einstein è stata un miglioramento dell'idea sbagliata di gravità di Newton, che è stata un miglioramento di quella di Keplero. L'idea sbagliata di evoluzione neodarwiniana è un miglioramento dell'idea sbagliata di Darwin, che è un miglioramento di quella di Lamarck. Se le persone considerassero la scienza in questo modo, forse non sarebbe necessario ricordare a nessuno che la scienza non pretende di essere infallibile o definitiva.

[...]

L'ottimismo e la ragione sono incompatibili con la presunzione che la nostra conoscenza sia «quasi al suo limite estremo», in qualsiasi senso, o che lo siano i suoi fondamenti. Tuttavia l'ottimismo globale è sempre stato raro, e il richiamo della fallacia profetica forte. Però ci sono sempre state eccezioni. Socrate sosteneva di essere profondamente ignorante. E in Congetture e confutazioni Popper scrisse:

Credo che varrebbe comunque la pena cercare di imparare qualcosa del mondo, anche se, con questo tentativo, dovessimo imparare semplicemente che non sappiamo molto. (...) Sarebbe bene se tutti ci ricordassimo che, mentre differiamo ampiamente nelle diverse, piccole cose che sappiamo, nella nostra infinita ignoranza siamo tutti uguali.

L'infinita ignoranza è una condizione necessaria affinché la conoscenza abbia un potenziale infinito. Respingere l'idea di essere «quasi alla fine» è una condizione necessaria per evitare il dogmatismo, la stagnazione e la tirannia.

Nel 1996, nel libro La fine della scienza , il giornalista John Horgan fece grande scalpore sostenendo che la verità definitiva in tutti i settori fondamentali della scienza - o quanto meno in tutta quella parte che la mente umana sarebbe mai stata capace di comprendere - era già stata scoperta nel corso del Novecento.

Horgan scrisse che in origine aveva creduto che la scienza fosse «illimitata, forse infinita», ma che in seguito si era convinto del contrario - a causa di (ciò che io chiamerei) una serie di cattivi argomenti e idee sbagliate, in primis l'empirismo. Horgan credeva che a distinguere la scienza da campi non scientifici quali la critica letteraria, la filosofia e l'arte fosse il fatto che la scienza ha la capacità di «risolvere problemi» oggettivamente (confrontando le teorie con la realtà), mentre gli altri campi possono produrre soltanto molte interpretazioni, tra loro incompatibili, di qualsiasi questione. Si sbagliava due volte: come ho spiegato piú e piú volte in questo libro, la verità oggettiva si può trovare in tutti questi campi, mentre la definitività o l'infallibilità non si trovano da nessuna parte.

Horgan accetta la confusione deliberatamente operata dalla cattiva filosofia della critica letteraria «postmodernista» tra due tipi di «ambiguità» che possono esistere nella filosofia e nell'arte. La prima è l'«ambiguità» di molti significati veri, voluti dall'autore oppure dovuti alla portata delle idee. La seconda è l'ambiguità della vaghezza, della confusione, dell'equivocazione e della contraddizione intenzionali. La prima è una caratteristica delle idee profonde, la seconda è una caratteristica della profonda stupidità. Confondendole, si attribuiscono alle parti migliori dell'arte e della filosofia le qualità delle loro parti peggiori. Poiché secondo questa concezione i lettori, gli spettatori e i critici possono attribuire qualsiasi significato vogliano al secondo tipo di ambiguità, la cattiva filosofia dichiara che ciò è vero per tutta la conoscenza: tutti i significati sono uguali e nessuno è oggettivamente vero. La scelta è quindi tra il nichilismo completo e il considerare tutta l'«ambiguità» di questi settori come un bene. Horgan sceglie la seconda via: classifica l'arte e la filosofia come campi «ironici», dove l'ironia è data dalla presenza di molti significati contrastanti in una frase.

Tuttavia, a differenza dei postmodernisti, Horgan pensa che la scienza e la matematica siano le fulgide eccezioni a questa regola. Sono le uniche capaci di conoscenza non ironica. La conclusione di Horgan è però che esiste anche una scienza ironica - il tipo di scienza che non può «risolvere problemi» poiché, essenzialmente, è filosofia, oppure arte. La scienza ironica può continuare all'infinito, ma proprio perché non risolve mai nulla; non scopre mai la verità oggettiva. Il suo unico valore è negli occhi di chi guarda. Quindi il futuro, secondo Horgan, è della conoscenza ironica. La conoscenza oggettiva ha già raggiunto i suoi limiti estremi.

[...]

Uno degli esempi piú lampanti di questa situazione è il fatto che attualmente i «sistemi del mondo» fondamentali della fisica sono due, la teoria quantistica e la teoria della relatività generale, e sono radicalmente incompatibili. Si può definire questa incompatibilità - nota come il problema della gravità quantistica - in molti modi, corrispondenti alle molte proposte per risolverlo che sono state tentate senza successo. Uno degli aspetti è l'antica tensione tra discreto e continuo. La soluzione che ho descritto nel capitolo XI, basata su nuvole continue di esemplari di una particella con attributi discreti diversi, funziona soltanto se lo spaziotempo è esso stesso continuo. Ma, se è influenzato dalla gravitazione della nuvola, lo spaziotempo acquisisce attributi discreti.

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Tipler chiama «Punto Omega» il Big Crunch di questa cosmologia. All'epoca, i dati osservativi erano compatibili con la possibilità che l'universo reale fosse di questo tipo.

In piccola parte la rivoluzione che oggi sta sconvolgendo la cosmologia è dovuta al fatto che le osservazioni hanno fatto scartare i modelli del Punto Omega. I dati, tra cui una notevole serie di studi delle supernove in galassie distanti, hanno costretto i cosmologi a trarre l'inaspettata conclusione che l'universo non solo si espanderà in eterno, ma si è sempre espanso a un ritmo accelerato. Qualcosa ha annullato gli effetti della gravità.

Non sappiamo cosa sia. In attesa di una buona spiegazione, la causa sconosciuta è stata battezzata «energia oscura». Sono state formulate diverse ipotesi su cosa potrebbe essere e, secondo una delle proposte, si tratta di effetti che danno soltanto l'impressione di un'accelerazione. Al momento, comunque, l'ipotesi di lavoro migliore è che le equazioni della gravità debbano avere un termine in piú, con una certa forma che Einstein fu il primo a proporre, nel 1915, ma che poi abbandonò rendendosi conto di non averne una buona spiegazione. Il termine fu riproposto negli anni ottanta come possibile effetto della teoria quantistica dei campi, ma anche in questo contesto non abbiamo una teoria del suo significato fisico abbastanza buona da prevederne, per esempio, la grandezza. Il problema della natura e degli effetti dell'energia oscura non è un dettaglio di poco conto e non se ne conoscono aspetti che suggeriscano un mistero per sempre impenetrabile. Quindi la cosmologia non è di certo una scienza fondamentalmente completa.

A seconda di che cosa risulterà essere l'energia oscura, in un futuro distante potrebbe anche essere possibile sfruttarla per fornire energia a una creazione di conoscenza che continui in eterno. Poiché questa energia andrebbe raccolta a distanze sempre piú grandi, la computazione dovrebbe diventare sempre piú lenta. In un'immagine speculare di ciò che accade nelle cosmologie del Punto Omega, gli abitanti dell'universo non si accorgerebbero affatto del rallentamento poiché concretamente sarebbero programmi con un numero totale di passi illimitato. Quindi l'energia oscura, che fa escludere un certo scenario per la crescita illimitata della conoscenza, potrebbe letteralmente alimentarne un altro.

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E poi, quant'è lunga una vita umana? Le malattie e la vecchiaia tra poco si cureranno — di certo entro pochi secoli — e la tecnologia sarà anche capace di prevenire la morte per omicidio o incidente realizzando backup degli stati cerebrali, che potranno essere trasferiti in un cervello nuovo, vuoto, in un corpo identico se una persona dovesse morire. Quando esisterà questa tecnologia non fare frequenti backup di se stessi sembrerà a tutti molto piú sciocco di quanto sembri oggi non avere questa abitudine per ciò che riguarda il proprio computer. Basterà comunque la sola evoluzione a garantirlo, perché quelli che non faranno frequenti backup di se stessi finiranno gradualmente per estinguersi. Quindi il risultato può essere soltanto uno, ossia la reale immortalità dell'intera popolazione umana, e l'attuale generazione è una delle ultime ad avere una vita breve. Stando cosí le cose, se ciò nonostante la nostra specie avrà una vita di lunghezza finita, conoscere il numero totale di esseri umani che saranno mai vissuti non fornisce un limite superiore a questa durata, perché non può indicare quanto a lungo vivranno gli esseri umani potenzialmente infiniti del futuro prima dell'arrivo della catastrofe profetizzata.

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Il nostro mondo, che è tanto piú grande, piú unificato, piú intricato e piú bello di quello di Eratostene, e che noi comprendiamo e controlliamo in una misura che gli sarebbe sembrata degna di un dio, per noi oggi è nondimeno misterioso, seppur aperto, tanto quanto lo era per lui allora. Abbiamo soltanto acceso qualche candela qua e là. Possiamo ritrarci nella luce limitata di queste candele finché qualcosa al di là della nostra comprensione non le spegnerà, oppure possiamo resistere. Vediamo già che non viviamo in un mondo privo di senso. Le leggi della fisica sono sensate: il mondo è spiegabile. Esistono livelli superiori di emergenza e livelli superiori di spiegazione. Siamo in grado di comprendere profonde astrazioni matematiche, morali ed estetiche. Sono possibili idee di straordinaria portata. Ma nel mondo esiste anche tanto che non ha senso e che non l'avrà fino a quando noi stessi non capiremo come porvi rimedio. La morte non ha senso. La stagnazione non ha senso. Una bolla di senso in mezzo a un'insensatezza infinita non ha senso. Se il mondo in definitiva avrà senso dipenderà da come le persone - quelli come noi - sceglieranno di pensare e agire.

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