Copertina
Autore Arturo Di Corinto
CoautoreTommaso Tozzi
Titolo Hacktivism
SottotitoloLa libertà nelle maglie della rete
Edizionemanifestolibri, Roma, 2002, Indagini , pag. 304, dim. 145x210x20 mm , Isbn 978-88-7285-249-1
LettoreRenato di Stefano, 2002
Classe informatica: reti , informatica: politica , comunicazione , politica , movimenti
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Indice


Introduzione                                     7

1.     Dall'hacking all'hacktivism              13
1.1    Culture Hacker                           13
1.1.1. Contro ogni barriera, per la libera
       circolazione del sapere                  14
1.1.2. Gli Hackers non sono tutti uguali        16
1.2.   All The technology to The People         19
1.2.1. Gli Hacklabs                             20
1.3.   Hackers e sicurezza                      28
1.4.   L'etica Hacker.                          31
       Formulazioni etiche dagli anni Settanta
       ad oggi
Note                                            37

2.     Scegli il tuo obiettivo                  39
2.1.   Fare comunità                            41
2.1.1. Partecipazione e Cooperazione            42
2.1.2. Autonomia e Decentramento                50
2.1.3. Mutualismo                               59
2.1.4. Trasformazione e Conflitto               67
2.2.   Garantire la privacy                     72
2.2.1. La Privacy tra Stato e Mercato           72
2.2.2. La Filosofia Politica della
       Sorveglianza Digitale                    77
2.2.3. La difesa della Privacy nell'era di
       Internet                                 78
2.3.   Distribuire le risorse                   85
2.3.1. Il diritto a comunicare                  86
2.3.2. Era dell'Accesso?                        92
2.3.3. Resistere al Digital Divide              96
2.4.   Difendere e/o organizzare i diritti     111
2.4.1. Campagne di Informazione                112
2.4.2. Infowar, Netwar, Cyberwar               120
2.4.3. Creazione di Eventi, Panico Mediatico,  142
       Arte della Contestazione
2.4.4. Cyberguerre?                            152
Note                                           156

3.     Cronologia e Storia                     159
3.1.   Alcune riflessioni teoriche sui Media
       e la Comunicazione                      159
3.2.   La scienza istituzionale.               167
       Le università, i laboratori di ricerca,
       le istituzioni governative.
3.2.1. Cibernetica, reti neurali, intelligenza
       e vita artificiale.                     168
3.2.2. Tutta la tecnologia al popolo.
       Antiautoritarismo e decentramento
       al Mit                                  169
3.2.3. La scienza colleitiva.  Cooperazione,
       standard e linguaggi condivisi.
       Unire i popoli e i saperi in rete       171
3.3.   Le Utopie Californiane                  181
3.4.   I Movimenti                             188
3.4.1. Le Prime Comunità Virtuali di Base      190
3.4.2. Hackeraggio Sociale e Cyberpunk         196
3.4.3. L'underground Telematico, Il Phreaking
       E I Crackers                            235
3.4.4. Codici, Crittografia E Cypherpunk       245
3.4.5. La Liberazione Del Software             247
3.4.6. Ezln E Il Movimento Di Seattle          250
3.5.   Bbs, Pacifisti, Telematica di Base,     253
       Community Network e Hobbyst
3.5.1. Le Bbs e Fidonet                        254
3.5.2. Usenet                                  256
3.5.3. Network Pacifisti e Telematica di Base  257
3.5.4. Freenet e Reti Civiche                  259
3.6.   Uso controculturale dei media e delle
       arti istituzionali                      261
3.6.1. Le Avanguardie Storiche                 263
3.6.2. Il Falso come strumento di lotta        265
3.6.3. I Media Come Strumento Di Protesta      267
3.6.4. Il Filone Antagonista Della Net Art     272
3.7.   Controllo e Repressione                 276
3.7.1. Il Controllo Sociale                    276
3.7.2. La Repressione Dell'utopia In Rete      278
Note                                           283

Appendice                                      289
Bibliografia                                   295
 

 

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INTRODUZIONE



La storia degli hackers è una storia che è stata già abbondantemente, ma non esaurientemente, descritta. Il termine «hack» ha un'origine lontana e non legata all'informatica, mentre il significato che ci interessa di questo termine è legato alla storia dell' hacking, una storia che, cominciata alla fine degli anni '50, si è sviluppata fino ad oggi con una tale varietà di sfaccettature che un denominatore comune può essere trovato forse solo incrociando tre fattori: occuparsi di computer, usare il computer per mighorare qualcosa, farlo in modo non convenzionale.

Ma dire ciò è naturalmente vago.

Ecco perché al termine hacker viene costantemente aggiunto qualcosa e si ottiene dunque l' hacker del software, l' hacker dell'hardware, l' hackeraggio sociale, l' hacker art, l' hacktivism, e molte altre combinazioni ancora. Sarà compito di questo libro spiegare nei dettagli questa storia più avanti.

La storia degli attivisti è anch'essa una storia già abbondantemente descritta.

Il termine, che in realtà ha negli Usa un senso diverso da quello «antagonistico» con cui si identifica parte dell' hacktivism europeo, viene usato per indicare coloro che cercano di migliorare il mondo «dal basso», all'interno dei movimenti sociali, nei collettivi politici, nell'underground artistico, ecc.. Una definizione questa, che descrive un implicito agire sociale, politico o culturale, o entrambe le cose.

Per quel poco e vago che per adesso si è ottenuto come definizione, l'unione di «hacker» e «attivismo» in «hacktivism» tende a significare un uso del computer, praticato in modo non convenzionale, finalizzato al miglioramento di qualcosa di utile per il mondo con implicazioni sociali, politiche o culturali.

Tutto ciò è ancora una volta impreciso e lo è ancor di più dal momento che nella storia che andiamo a raccontare oltre agli hackers e agli attivisti sono coinvolti molti altri soggetti: gli scienziati, le istituzioni governative, i media e gli operatori dei media, gli hobbisti, gli hippies e la psichedelia, i phone phreakers, i punks, la cosiddetta «virtual ciass», i «digerati», le Ong, i pacifisti, le aree social democratiche, le gang e le band, le università, i cyberpunk, gli scrittori di fantascienza, i finanzieri, gli imprenditori del terziario, i filosofi, i sociologi, gli psicologi, i politici, i miliardari, gli avvocati, gli insegnanti, gli intellettuali, gli artisti, e molti altri soggetti che con maggiore o minore rilevanza hanno contribuito a fare in modo che gli «hacktivisti» siano ciò che sono ora.

E questo perché il significato dei termine hacktivism emerge per l'azione o reazione di una molteplicità di fattori sociali che sono tra loro inseparabili. Descrivere una storia dell'hacktivism implica inscindibilmente il dover descrivere una rete di relazioni e conflitti tra più fattori sociali.

Ad esempio, l'importanza delle ricerche svolte nelle università da alcuni scienziati è stata cruciale sia per la creazione dei primi computer che delle reti telematiche. Ma questa ricerca non sarebbe stata possibile senza i fondi governativi.

Questa ricerca non avrebbe inoltre avuto la direzione democratica che ha avuto se chi ne progettava le tecnologie non avesse vissuto un clima sociale di collaborazione e condivisione fortemente alimentato dalle aree più utopiche dei movimenti sociali e politici.

Queste scoperte non sarebbero state possibili se non grazie alla passione non remunerata e allo sforzo di individui che, oltre a dedicare la loro vita e il loro tempo libero a tali obbiettivi, hanno saputo e dovuto agire attraverso modalità non sempre ortodosse per riuscire a realizzare ciò che altrimenti la politica, la burocrazia o l'economia non avrebbero reso possibile. Inoltre i nuovi media non sarebbero potuti divenire tali se non ci fosse stata un'azione congiunta dei vecchi media per informare e diffonderne le notizie alla collettività.

Così come l'attenzione della collettività verso queste informazioni è stata resa possibile grazie alla mediazione da parte dei movimenti sociali che hanno saputo sedurre la comunità con un intenso passaparola intorno alle nuove tecnologie. Molte persone non si sarebbero avvicinate a queste tecnologie se non avessero potuto immaginare che esse potevano essere strumenti di pace o di comunicazione.

E probabilmente tali tecnologie non sarebbero mai decollate se qualcuno non avesse iniziato ad investirci capitali per realizzare dei profitti.

Molti movimenti, così come molte istituzioni politiche, non si sarebbero mai convinti ad intraprendere un'azione diretta a sviluppare l'uso di queste tecnologie se non fossero stati convinti dal lavoro di ricerca sviluppato non solo dagli scienziati stessi, ma anche da filosofi, sociologi, psicologi e altri intellettuali in genere.

E queste tecnologie non sarebbero diventate di massa se la «massa» non avesse trovato conveniente il loro utilizzo, ovvero se qualcuno gli avesse prospettato un loro utilizzo conveniente (come, ad esempio, il fatto che grazie ad una blue box e ad un computer avrebbero potuto effettuare telefonate gratis).

Così, lo sviluppo di queste tecnologie non sarebbe stato possibile se lo scambio dei saperi per realizzarle ed usarle non fosse stato inizialmente libero e fortemente collaborativo; dunque libero da costrizioni di carattere giuridico oltre che di tipo economico.

Ma ancora l'attenzione della collettività non sarebbe stata sufficiente se non ci fosse stato qualcuno - scrittori, artisti e cantastorie in genere - che non fosse riuscito a fare sognare la gente, non fosse riuscito a produrre un immaginario di seduzione collegato a tali tecnologie.

Infine tutto ciò non sarebbe potuto andare avanti se qualcuno non si fosse preso l'onere di trasmettere e insegnare le competenze necessarie agli altri per utilizzare o continuare a svilupparle.

Molti altri fattori ancora andrebbero elencati per descrivere la complessità grazie a cui i nuovi media sono potuti emergere e si sono potuti diffondere in maniera tanto vasta e profonda.

Ma ciò non ha prodotto necessariamente una situazione migliore per gli individui e per l'umanità nel suo complesso.

[...]

Ma, si diceva prima, l'enunciazione di un valore è un atto simbolico. Vediamo dunque di elencare questi valori simbolici.

Alcuni tra i principali valori di riferimento dell'hacktivism sono:

        - l'uguaglianza
        - la libertà
        - la cooperazione
        - la fratellanza
        - il rispetto
        - la lealtà
        - la pace

Questi valori sono il riferimento costante delle pratiche di hacktivismo e degli obbiettivi che esse perseguono. Ogni obiettivo raggiunto da una pratica hacktivist è un passo avanti verso la creazione di culture comunitarie che abbiano come riferimento i valori descritti sopra.

Ecco di seguito un elenco degli obiettivi perseguiti:

        - fare comunità
        - garantire la privacy
        - distribuire le risorse
        - difendere e/o organizzare i diritti

Questi obbiettivi vengono perseguiti attraverso pratiche che affrontano tematiche determinate e che fanno uso di un immaginario e di parole d'ordine. Inoltre tali pratiche, perseguendo questi obbiettivi, entrano in conflitto con alcuni aspetti dei modelli sociali in cui si inseriscono.

Molto spesso luoghi, progetti o eventi, così come l'agire di alcuni soggetti (individui o gruppi), sono divenuti punti di riferimento per queste pratiche, e lo stesso è accaduto anche a fonti di riferimento condivise come libri, opere multimediali, articoli, video e musiche.

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2. SCEGLI IL TUO OBIETTIVO



I principi dell'etica hacker concretamente praticati dai singoli e dai collettivi hanno assunto nel tempo la forma di rivendicazioni esplicite che gli hacktivisti considerano obiettivi irrinunciabili nell'abbattimento dei confini della frontiera elettronica.

Stiamo parlando dei diritti digitali, cioè di quell'insieme di aspirazioni, prassi conoscitive attitudini e comportamenti considerati fondanti l'agire comunicativo delle comunità elettroniche eticamente orientate.

Perciò, anche se non sempre essi costituiscono un blocco unico e omogeneo di rivendicazioni, per la stretta connessione che li unisce - i «confini» tra un diritto digitale e l'altro sono sottili, le aree interessate da uno si incrociano e si sovrappongono a quelle di un altro - proveremo a sintetizzarli e a illustrarli consapevoli di tutti i limiti che una trattazione di questo tipo comporta.

Nell'ambito delle comunità elettroniche i principali diritti correlati all'uso dei Media Interattivi sono considerati:

Il diritto alla cooperazione, che riguarda una concezione della rete basata su rapporti di interscambio orizzontale secondo un modello di relazioni paritetico e rizomatico. Un diritto che implica la possibilità di realizzare un tipo di comunicazione libera e aperta, capace di accrescere le conoscenze collettive e la cultura di ognuno.

Il diritto alla privacy e all'anonimato. La privacy, inizialmente correlata al concetto di soglia e di tranquillità domestica, è stata a lungo considerata come il diritto di essere lasciati soli. L'avvento della rete e di altri strumenti informatici ha modificato totalmente il senso e la portata di questo concetto-guida per il fatto che oggi questo diritto è in pericolo ogni volta che usiamo bancomat, carte di credito, smart cards, codice fiscale, patenti di guida o tessere del supermercato, ogni volta che entriamo in Internet, ogni volta che abbiamo a che fare con gli uffici pubblici, e con qualsiasi apparato in grado di tenere traccia e registrare i nostri comportamenti.

Per questo le comunità elettroniche rivendicano l'uso di strumenti adeguati per proteggersi da tali intrusioni nella propria vita, pubblica e privata, con adeguati sistemi di cifratura e anonimizzazione dei dati.

Ugualmente, poiché un atteggiamento poliziesco da parte di istituzioni e imprese sovente minaccia il diritto all'anonimato - i dati personali, anziché essere richiesti in caso di reato o a fronte di specifiche esigenze degli interessati, vengono richiesti come precauzione verso quanti potrebbero, forse, nascondersi per compiere chissà quali delitti - si fa sempre più diffusa l'esigenza di tutelare le proprie interazioni attraverso anonymous remailers, crittazione a doppia chiave pubblica, e altri sistemi di anonimizzazione.

Il diritto alla libertà di copia è una rivendicazione che coinvolge direttamente la libertà d'informazione e di espressione, perché le leggi sul copyright e sui brevetti limitano direttamente la circolazione di notizie e scoperte vincolandole a criteri di carattere economico e inoltre perché limitando la circolazione di informazioni - ciò vale soprattutto nel caso della scrittura software - viene limitata la possibilità stessa di conoscere i media che ciascuno utilizza per esprimersi. La battaglia contro il copyright, il cui raggio d'azione spazia dalla musica all'editoria, fino alle biotecnologie alimentari e farmaceutiche, ha però un nuovo orizzonte nella diffusione di beni, merci e servizi di carattere libero e gratuito che godono di particolari tutele sotto specifiche licenze (la Gpl, General Public Licence, la Fdl, Free Documentation Licence ed altre).

Il dititto all'accesso si articola su diversi piani e include il problema concreto dei costi del materiale e delle connessioni. Sotto questo aspetto gli hacktivisti considerano che devono essere garantiti ad ognuno alcuni requisiti per poter parlare di reale diritto d'accesso:

1. La possibilità di acquisire l'hardware e il software necessario per utilizzare gli strumenti della comunicazione digitale.

2. L'accesso a connessioni che permettano effettivamente di accedere a tutta l'informazione esistente in rete e di comunicare con tutti coloro che utilizzano la rete senza essere penalizzati da una connessione lenta o da una limitazione all'accesso delle risorse in rete.

3. La disponibilità di hardware e di software adeguati a fruire di tutte le risorse presenti in rete.

4. L'accesso alla formazione necessaria per riuscire a sfruttare tutte le risorse degli strumenti della comunicazione digitale.

Per diritto alla formazione, in particolare, si intende la necessità di avviare corsi e iniziative atte a migliorare l'alfabetizzazione informatica degli utenti in quanto la conoscenza di questi mezzi sta diventando una discriminante sia per quanto riguarda l'accesso alle informazioni e alla comunicazione che l'ingresso nel mondo del lavoro.

Per questo è considerato importante ribaltare la tendenza in atto a fornire software sempre più «amichevoli» che non favoriscono la possibilità di comprenderli e di usarli nel modo che è più consono alle modalità cognitive e agli scopi degli individui. Complementare a questa rivendicazione è la volontà, attraverso una adeguata formazione, di conoscere e scrivere software che non limitino o controllino l'agire in rete e interfacce che garantiscano un'accessibilità reale ad ognuno senza penalizzazioni derivanti dal ceto, dalla nazionalità, dal sesso, da handicap o altro.

Il diritto all'informazione contrasta con ogni forma di censura, istituzionale, tecnica o commerciale. In questa prospettiva il mezzo digitale va tutelato da ogni controllo indesiderato e considerato soggetto solo alla responsabilità individuale di chi lo utilizza. Questo diritto può concretamente dispiegarsi solo quando sia garantito l'accesso a una molteplicità di fonti informative e la possibilità di generarne di nuove senza limitazioni di sorta per poter affermare una reale libertà di espressione.

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Il rifiuto dalla società dallo spettacolo


La simulazione (perciò la distruzione) dell'autentico dibattito, prima negli Stati Uniti e poi man mano nel resto dei mondo, è ciò che Guy Debord chiamerebbe il primo salto quantico nella «Società dello Spettacolo» e che Jean Baudrillard riconoscerebbe come pietra miliare dello slittamento del mondo nell'iperrealtà. La colonizzazione massmediatica della società civile, con le immagini della televisione, si è trasformata in una campagna quasi politica di autopromozione della tecnologia. («Il progresso è il nostro prodotto più importante», disse nei primi anni dell'era televisiva Ronald Reagan, portavoce della General Electric.) E nel ventesimo secolo, man mano che telefono, radio e televisione sono diventati veicoli del dibattito pubblico, la natura del dibattito politico si è tramutata in qualcosa di ben diverso da ciò che prevedevano gli autori della Costituzione. Ora i politici sono merci, i cittadini consumatori e i problemi vengono decisi mediante fatti spettacolari. Alle manifestazioni politiche, la telecamera è l'unico spettatore che conta. La società dei consumi è diventata il modello dei comportamento individuale. Il dibattito è degenerato in pubblicità, e la pubblicità usa il potere sempre maggiore dei mass media elettronici per alterare le percezioni e modellare le idee. Quello che era stato un canale di autentica comunicazione serve ora ad aggiornare il desiderio commerciale. Quando le persone rimaste affascinate dalle bacheche elettroniche diffondono la voce della democrazia «magica» di queste reti, corrono il rischio di trasformarsi in agenti involontari della mercificazione. I critici dell'idea della democrazia elettronica portano esempi di una lunga tradizione di quella retorica utopistica che J. Carey ha chiamato «retorica del sublime tecnologico»: «Nonostante nell'ultimo secolo la tecnologia non sia riuscita a risolvere i più pressanti problemi sociali, gli intellettuali contemporanei continuano a vedere un potenziale rivoluzionario negli ultimi ritrovati tecnologici che vengono descritti come una forza estranea alla storia e alla politica (...) Nel futurismo contemporaneo, sono le macchine a possedere intuito teleologico. Nonostante le riunioni cittadine, il giornale, il telegrafo, il radiotelegrafo e la televisione non siano riusciti a creare una nuova Atene, i fautori della liberazione tecnologica descrivono regolarmente un'era postmoderna di democrazia plebiscitaria istantanea per mezzo di un sistema computerizzato di sondaggi ed elezioni elettroniche» (Rheingold, 1994, pp. 319-325).

Una volta accettate le critiche di Carey si deve però anche essere in grado di riconoscere l'importanza dei mutamenti messi in atto dalle reti telematiche. Come dice F. Guattari «l'intelligenza e la sensibilità sono oggetto di un'autentica mutazione, determinata dalle nuove macchine informatiche (...). Assistiamo oggi a una mutazione della soggettività ancora più importante di quella determinata dall'invenzione della scrittura e della stampa» (M. D'Eramo, «La Società dell'Informazione, un mito ricorrente», Le Monde Diplomatique, marzo, 2002).

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Pagina 61

Per concludere, i diritti non si difendono solo attraverso il rispetto delle leggi, ma anche attraverso i processi culturali e linguistici. Così come profetizzato nel progetto Xanadu di T. Nelson, il World Wide Web di T. Berners-Lee è il luogo della decentralizzazione tanto dell'organizzazione, quanto dei processi semiotici insiti nei saperi collettivi. È il luogo dove l'organizzazione e la codificazione dei saperi non avviene per classificazioni gerarchiche verticali, ma attraverso collegamenti e rimandi semantici orizzontai, paralleli e simultanei. Non vi è inoltre un uso della lingua che rimanda a una cultura specifica depositaria del senso, bensì, essendo la rete usata trasversalmente da più culture (sebbene a dominanza occidentale) i discorsi che emergono al suo interno sono fortemente polisemici. Questo, grazie alla possibilità da parte di tutti di partecipare non solo leggendo, ma anche scrivendo; difatti, se ciò viene a mancare il risultato ridiventa analogo a quello dei tradizionali media broadcast quali la televisione, la radio e per certi aspetti il libro, in cui un determinato prodotto culturale viene semplicemente esportato in altre culture. Il perseguimento dell'uguaglianza tra individui e popoli dipende dunque anche dal tipo di tecnologia attraverso cui viene resa possibile la comunicazione. È intorno alle possibilità fornite dallo strumento che la comunità deve confrontarsi per far emergere quegli accordi che ne permettano un utilizzo paritario ad ogni suo componente.

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Pagina 62

La mente umana, l'identità e l'intelligenza collettiva


L'intelligenza collettiva non è semplicemente un modo di lavoro collettivo. È anche una modalità operativa di conoscenza del mondo. Di fatto non sarebbe possibile ritenere l'enorme quantità di informazioni significative che ogni giorno, fin dalla nascita, percepiamo attraverso l'esperienza. Per fronteggiare questo problema l'umanità ha creato nel suo procedere storico un'enormità di artefatti cognitivi, disseminati negli oggetti, nei testi, nei comportamenti e nella lingua in generale. Ovverosia gli oggetti si danno alla nostra percezione fornendoci attraverso forma e sostanza le tracce inerenti al loro senso ed uso. In pratica il processo del nostro pensiero non si avvale esclusivamente degli input che emergono dall'interno, ma si appoggia a una parte della mente disseminata negli artefatti cognitivi di cui il mondo abbonda. Il nostro pensiero, funziona grazie ad una parte della nostra mente collettiva che risiede nelle cose che ci circondano e che sono il prodotto delle molteplici culture che si sono susseguite, mescolate, sussunte e rielaborate.

Questo vuol dire che non possiamo fare a meno dell'intelligenza collettiva per elaborare pensieri sensati. Che, dunque, qualsiasi cosa prodotta da ognuno di noi è contemporaneamente anche il frutto dello sforzo del resto della collettività nello spazio e nel tempo.

È difficile quindi pensare di poter assegnare ad alcuni il diritto di possedere una proprietà intellettuale esclusiva su qualcosa.

Per Licklider il computer rappresenta uno strumento per «esternalizzare modelli mentali». «Qualunque comunicazione tra le persone intorno a un dato oggetto è una comune esperienza rivelatrice dei rispettivi modelli della cosa stessa». In altri termini, comunicare attorno a un dato oggetto significa scambiarsi informazioni sui rispettivi modelli dell'oggetto medesimo (Blasi, 1999, pp. 23-25).

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3. CRONOLOGIA E STORIA



3.1. ALCUNE RIFLESSIONI TEORICHE SUI NEDIA E LA COMUNICAZONE

Le ricerche sul concetto di «massa» tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento, così come le analisi del marxismo sulla società delle merci e quelle della Scuola di Francoforte e di Marcuse, favoriscono negli anni Cinquanta e Sessanta un clima culturale in cui la macchina per eccellenza, il computer, viene vista come uno strumento di alienazione dell'individuo. In quel periodo, secondo il senso comune, lo sviluppo del progresso sociale prodotto dall'avvento dei computer nell'economia avrebbe ridotto le persone a numeri, dati indistinti di una generica massa che non avrebbe reso possibile all'individuo di crearsi e riconoscersi in un'identità propria. Molta letteratura della prima metà del Novecento si era scagliata contro le macchine, criticandone l'eccesso di burocrazia e spersonalizzazione implicito nel loro uso negli ambiti della produzione. L'Ibm, International Business Machine, nata grazie allo sviluppo di macchine di calcolo per fare i censimenti, veniva considerata un pachiderma che produceva strumenti riservati a un'élite. Uno dei dubbi nei confronti dei calcolatori era riferito al rischio che queste macchine avrebbero favorito la massificazione degli individui ignorandone i bisogni specifici. Il timore era quello che P. Levy ha sintetizzato nel suo saggio Cybercultura come il rischio di non riuscire a ottenere un'universalità che non fosse allo stesso tempo totalitarismo. C'era fin da allora una diffusa richiesta di diventare soggetti attivi sia nella sfera del lavoro che in quella della comunicazione. Non essere considerati numeri, ovvero semplici esecutori di ordini impartiti da una macchina, schiavi dunque della macchina stessa, bensì soggetti le cui attività fossero espressione delle proprie scelte personali.

Su questo senso comune diffuso fa breccia la richiesta di interattività sia nelle attività lavorative che in ogni altra occupazione sociale.

Una richiesta che si afferma anche grazie ad una situazione di crisi del sistema di produzione fordista che evidenzia i suoi limiti e l'incapacità di coordinare attraverso una pesante burocrazia gerarchica i vari sistemi di produzione. Un sistema di produzione in cui gli operai delle fabbriche sono l'ultimo anello, passivo, di una catena di produzione difficilmente gestibile secondo il modello verticale fordista.

Inoltre, differenti teorie sui media avevano da tempo avviato una forte critica dei mezzi di comunicazione di massa di cui sottolineavano il carattere centralizzato e asimmetrico. È in questo clima e su questi bisogni che si fa strada la necessità di costruire macchine interattive. Una necessità rilevata anche dagli studi che dimostravano come la comunicazione tra soggetti avvenisse solo attraverso un processo bidirezionale di partecipazione attiva fra l'emittente e il ricevente e che dunque per raggiungere tutti i soggetti sociali era necessario un sistema di comunicazione basato sullo scambio e la partecipazione.

Ecco dunque che, come avvenne a inizio Ottocento, periodo in cui gli interessi del mercato per un sistema di comunicazione globale efficiente andavano parzialmente a collimare con gli interessi di coloro che chiedevano una società basata sui principi della cooperazione e del mutuo scambio (Mattelart, 1994), anche nel XX secolo, nell'immediato dopoguerra, si riproponeva una situazione in cui gli interessi del mercato (rappresentati dalle agenzie di pubblicità che fungono da intermediarie tra le aziende e la massa) andavano a collimare in alcuni aspetti con quelli di chi chiedeva una società maggiormente partecipativa.

È curioso notare che la rete Internet nasce dalla rete Arpanet, ovvero la rete telematica costruita dall'agenzia Arpa che il Presidente Eisenhower aveva commissionato nel 1957 al nuovo segretario alla Difesa degli Stati Uniti d'America, Neil McElroy. È curioso perché Neil McElroy è un ex dirigente della Procter and Gamble, azienda leader nel mondo della comunicazione commerciale e pubblicitaria, ed è stato colui che ha portato la pubblicità dei detersivi alla radio e alla televisione. È sua infatti l'idea delle «Soap Opera», ovvero delle trasmissioni televisive pensate appositamente per essere interrotte da pubblicità, spesso di detersivi. È curioso anche perché McElroy verrà affiancato per questo progetto dall'allora presidente del Massachussets Institute of Technology, James R. Killian Jr. È buffo notare che è proprio al Mit che nascerà l'etica hacker alla fine degli anni Cinquanta.

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