Copertina
Autore Arturo Di Corinto
CoautoreAlessandro Gilioli
Titolo I nemici della rete
EdizioneRizzoli, Milano, 2010, BUR Futuropassato , pag. 288., cop.fle., dim. 13x20x2 cm , Isbn 978-88-17-04275-8
LettoreCorrado Leonardo, 2011
Classe informatica: reti , informatica: politica , informatica: sociologia , copyright-copyleft , beni comuni , paesi: Italia: 2000
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Indice


    Prefazione di Stefano Rodotà                          5

1.  Non è un Paese per internet                          13
    Sognando le autostrade del web 13;
    Il fantomatico piano Romani 16;
    Un uovo di Colombo chiamato WiMax 19;
    L'intreccio diabolico 20;
    Uno school bus per la rete 24

2.  Il Cavaliere nella rete                              29
    Sulla scrivania del premier 29;
    Una vecchia modernità 31;
    Forzasilvio.it, la Pravda digitale 34;
    Poveri blog berlusconiani 38;
    Il pasdaran del Predellino 40;
    2010, la grande virata 43;
    Biscione contro YouTube 48;
    Postfascisti su internet 53

3.  Inseguendo Obama                                     57
    La Montblanc di D'Alema 57;
    Pierluigi e l'ambaradan 61;
    La buffa svolta di Rosy Bindi 65;
    Può un internauta amare le bocce? 67;
    C'è un segnale, ignoratelo 69;
    Frattocchie 2.0 70;
    Il mito del Sacro Graal digitale 75

4.  Dura lex sed Net 85
    La compagna di classe di Giovanni 85;
    Prossimo passo, la carta bollata 87;
    Lo sciopero dei blogger 88;
    Il decreto Pisanu, provvisorio da sempre 91;
    Ricki Levi, l'autogol del Pd 97;
    Che c'è dietro la Carlucci 100;
    L'invasione dei Barbareschi 105;
    Come se fossimo nel 1948 109;
    E adesso chiudiamo Facebook 111;
    Medice cura te ipsum 113;
    Web col filtro, no grazie 114;
    La beffa del Viminale 117;
    Guerra ai video 122;
    Da Anja Pieroni alla Cascinazza 128;
    L'iniquo compenso 131;
    Fuori dal Far West, ma dalla parte giusta 132;
    Se settant'anni vi sembran pochi 134;
    Qualche principio basico 138

5.  Il cyberspazio non è Onorevole                      141
    Una mano pietosa 141;
    Maneggiare con cura 144;
    Renata la bulimica 145;
    La web reputation di Rutelli 148;
    Brunetta va a scuola 150;
    A Di Pietro piace chattare 152;
    Sesto potere? 155;
    2008, vorrei ma non riesco 158;
    2009, proviamo con Google 161;
    2010, dalla vetrina alla nuvola 167;
    Per chi vota Facebook 174;
    Se il giovane Bossi rimbalza il clandestino 178;
    Tra Moveon e Meetup 180

6.  I nemici di internet                                183
    Saper «leggere la vacca» 183;
    La vecchia faida tra giornalisti e blogger 187;
    2010, paura in redazione 190;
    La rete è peggio della cocaina 192;
    Il web fa male, lo dicono anche in California 195;
    Tra Omero e Topolino 196;
    Che idea: ti distruggo il pc 200;
    E se a volte funzionasse al contrario? 202;
    Non fate svenire le mamme 205;
    La lobby degli amanuensi contro Gutenberg 209

7.  E l'azienda è ancora off line                       213
    Il caso John Ashfield 213;
    Ma come si scrive Friendfeed? 217;
    La migliore risposta alla recessione 220

8.  Cittadini digitali                                  227
    Dall'Aniene a Lisbona 227;
    Tanti proclami pochi soldi 231;
    Non è solo una questione di computer 233;
    Aprire le finestre ai cittadini 236;
    Ma che cos'è questa e-democracy? 238

9.  Fratelli di e-talia                                 241
    Piccoli gruppi crescono 241;
    La coperta di Linux 243;
    I cavalieri del Trashware 245;
    La rete come opera d'arte 248;
    Molle industria, dura satira 252;
    Un humus fertile: lo sapremo coltivare? 254;
    Gente di frontiera – 1 258;
    Gente di frontiera — 2 260;
    Gente di frontiera — 3 261

    Conclusioni. Sarà un Paese per internet?            263
    Da Monterotondo a Montecitorio 263;
    Dipende da noi 265;
    In guerra contro i nostri figli 268

    Ringraziamenti                                      271
    Bibliografia essenziale                             273
    Indice dei nomi                                     275


 

 

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Pagina 5

Prefazione
di Stefano Rodotà



Internet non è mai stato un luogo pacificato, forte d'una sua logica interna che lo metteva al riparo da ogni incursione, una repubblica separata dal mondo dove i suoi abitanti erano sottratti a ogni potere esterno, uno spazio incontaminato e non contaminabile.

Vi è un equivoco da dissipare, legato alla sua stessa vicenda d'origine, al progetto d'una rete di comunicazione che nessuno potesse bloccare o controllare. Da qui nasce il sentire di un mondo, di una sterminata platea in continua crescita fino ai quasi due miliardi di persone attuali, che si è identificata con una invincibile natura di internet, libertaria fino all'anarchia, dotata di anticorpi così forti da non rendere necessarie tutele e garanzie che non fossero quelle che essa stessa era in grado di produrre, espressione di un infinito suo potere «generativo».

La realtà ci ha raccontato un'altra storia, quella di poteri antichi e nuovi, politici ed economici, che di internet cercano sempre più visibilmente di impadronirsi, piegandola ai loro interessi. A questi continui tentativi di mettere le mani sulla rete non si può rispondere riproponendone una autosufficienza smentita dai fatti, che diverrebbe così vana autoreferenzialità; né si può insistere in una opposizione di principio contro qualsiasi specifica strumentazione giuridica, anche volta a difenderla da aggressioni, scorrerie, strumentalizzazioni. Il timore d'ogni regola, vista come inaccettabile attentato a quella natura libertaria, ha ormai lasciato il posto a una più matura, anche se difficile, riflessione intorno a quale debba essere la regola compatibile con internet, al modo in cui libertà e diritti possano effettivamente vivere in questa inedita dimensione. L'originario riflesso libertario, svelato nella sua fragilità di ideologia dell'autosufficienza dalle prove della Storia, rimane tuttavia un riferimento ineliminabile proprio per impedire che la logica della libertà venga sopraffatta dalla pretesa di imporre a internet le logiche del mercato e del controllo. La tensione verso il riconoscimento dell'autonomia e dei diritti degli utenti della rete, peraltro, assume un senso profondo di fronte a chi esalta l'irresistibile potenza della tecnica, la sua continua produzione di fini, alla quale sarebbe ormai divenuto impossibile opporsi.

Internet, oggi, non è soltanto la grande metafora del mondo in cui viviamo, ma è, concretamente, il più grande spazio pubblico che l'umanità abbia mai conosciuto, la proiezione nel reale di un'altra metafora, la «società della conoscenza». Qui, in questo nuovissimo teatro del mondo, vanno in scena i grandi conflitti del nostro tempo. Le categorie della modernità, in primo luogo quelle di sovranità e proprietà, sono sfidate dalla dimensione globale della rete e dalla considerazione della conoscenza come bene comune. Le infinite forme assunte dalla libertà di espressione si scontrano con rinnovate pretese censorie. Si ridefiniscono i confini tra sfera pubblica e sfera privata, la stessa tutela della privacy assume forza e significati nuovi nel tempo delle reti sociali e dell'ininterrotto data mining per la produzione di profili individuali, familiari, di gruppo. L'espansione del controllo tecnologico rischia di capovolgere pericolosamente la società della conoscenza in società della sorveglianza, della classificazione, della selezione sociale.

Negli stessi giorni del luglio del 2010 sono state diffuse due notizie che illustrano in modo esemplare le polarità alle quali siamo di fronte: l'approvazione da parte del Parlamento islandese di una legge che fa di internet uno spazio di libertà totale, dove diventa legittimo rendere pubblici anche documenti segreti; e il piano dell'Fbi di avere accesso al traffico e-mail di qualsiasi cittadino, senza limiti e senza autorizzazioni. Siamo di fronte a modi opposti d'intendere e usare la regola giuridica per internet. Come strumento limitativo di libertà e diritti, attraverso negazioni dell'autonomia delle persone e imposizione di sanzioni penali; o come strumento «costituzionale», che trasferisce nello spazio di internet la logica delle libertà e dei diritti. L'adozione della logica costituzionale è l'ineliminabile punto di partenza, il criterio in base al quale misurare la legittimità di qualsiasi misura riguardante internet. Solo una salda fondazione nel principio di libertà consentirà di opporsi allo «tsunami digitale», già avviato dal web 2.0, quello delle reti sociali, e che diventerà sempre più intenso con il web 3.0, l'internet «delle cose», con una massa di informazioni personali nelle mani di potentati pubblici e privati.

Internet si rivela così come lo spazio dove oggi si gioca la partita della democrazia. Le domande si affollano. Che cosa diviene la rappresentanza nel tempo di internet? Stiamo definitivamente passando dalla democrazia «intermittente», scandita dalle occasioni elettorali, alla democrazia «continua», caratterizzata non tanto dall'ingannevole strumento del sondaggio, quanto piuttosto dalla possibilità di una presenza costante e variegata di iniziative dei cittadini? La democrazia elettronica è la forma congeniale al populismo del nostro tempo o può produrre nuove forme di integrazione tra democrazia parlamentare e azione diretta dei cittadini, come suggeriscono anche alcune norme del Trattato di Lisbona? Internet segna una discontinuità radicale o favorisce una più vitale integrazione tra reale e virtuale, come mostra l'esperienza di manifestazioni organizzate in rete e poi divenute occasione di incontro comune in strade e piazze? Quali sono gli effetti di un trascorrere continuo di dimensione in dimensione, con il locale che può quasi istantaneamente divenire nazionale o addirittura globale attraverso un semplice video posto su YouTube?

Sta nascendo una nuova cittadinanza, che non definirei «digitale» perché investe complessivamente l'essere nel mondo delle persone. Se si parte dalla constatazione che internet rappresenta il più largo spazio pubblico che l'umanità abbia conosciuto, la salvaguardia di questa sua «natura» implica l'irriducibilità alla dimensione sempre più assorbente del mercato, che vuol dire non solo un generico riconoscimento della libertà in rete, ma la concreta possibilità di esercitare «virtù civiche», dunque di dar corpo a una cittadinanza attiva; di far sì che internet rimanga una risorsa per la democrazia e non la forma congeniale ai nuovi populismi; di praticare forme economiche riconducibili alla logica del dono. Da qui la necessità di salvaguardare la neutralità della rete, anche come antidoto a ogni forma di censura (e questo esige comportamenti attivi per reagire, ad esempio, a decisioni giudiziarie come quella milanese sulla responsabilità dei provider o quella che, negli Stati Uniti, ha limitato i poteri regolativi della Federal Communication Commission), e il suo potenziale «generativo», dunque l'effettiva sua capacità di produrre innovazione. Da qui la necessità di considerare l'accesso a internet come un diritto fondamentale della persona, secondo una linea costituzionale che si ritrova in dichiarazioni del Parlamento europeo e del Consiglio d'Europa, in iniziative di Stati come la Finlandia, nel piano del presidente Obama sul servizio universale.

Ma il riconoscimento dell'accesso non può divenire una chiave che apre una stanza vuota: da qui la necessità di considerare la conoscenza come bene pubblico globale, non solo rivedendo categorie tradizionali come quelle del brevetto e del diritto d'autore, ma evitando fenomeni di «chiusura» rispetto ai «commons», che caratterizzano appunto la nostra società come quella «della conoscenza», trasformando in risorsa scarsa un bene comune suscettibile della più larga utilizzabilità. Da qui la necessità di una tutela dinamica dei dati personali, nel senso che la garanzia non può essere soltanto quella tradizionale e statica relativa alla riservatezza, ma deve divenire componente essenziale della cittadinanza digitale e della libera costruzione dell'identità (considerando, per esempio, il diritto di anonimato, particolarmente rilevante nel caso del dissidente politico, e il diritto all'oblio), passando così dal riconoscimento dell'autodeterminazione informativa a una effettiva redistribuzione del potere in rete.

La prospettiva costituzionale, nella quale l'insieme di queste riflessioni dovrebbe confluire, ha trovato in questi anni espressione nella vicenda dell'Internet Bill of Rights, una proposta maturata all'interno delle iniziative dell'Onu sulla società dell'informazione e che si è venuta consolidando attraverso il lavoro di diversi gruppi, «dynamic coalitions» spontanee e informali che hanno poi trovato forme di unificazione e metodi comuni, che si sono manifestati negli Internet Governance Forum organizzati dall'Onu. Ma l'Internet Bill of Rights non è concepito, da chi lo ha immaginato e lo promuove, come una trasposizione nella sfera di internet delle tradizionali logiche delle convenzioni internazionali e degli stessi percorsi di costituzionalizzazione finora conosciuti. La scelta dell'antica formula del Bill of Rights ha forza simbolica, mette in evidenza che non si vuole limitare la libertà in rete ma, al contrario, mantenere intatte le condizioni perché possa continuare a fiorire. Per questo servono garanzie «costituzionali». Ma, conformemente alla natura di internet, il riconoscimento di principi e diritti non può essere calato dall'alto. Deve essere il risultato di un processo, di una partecipazione larga di una molteplicità di soggetti che possono intervenire in modo attivo, grazie soprattutto a una tecnologia che mette tutti e ciascuno in grado di formulare progetti, di metterli a confronto, di modificarli, in definitiva di sottoporli a un controllo e a una elaborazione comuni, di trasferire nel settore della regolazione giuridica forme e procedure tipiche del «metodo wiki», dunque con progressivi aggiustamenti e messe a punto dei testi proposti. Siamo così al di là di un altro schema tradizionale, che contrappone i percorsi bottom-up a quelli top-down. Si instaurano relazioni tra pari, la costruzione diviene orizzontale. Nel corso di questo processo si potrà approdare a risultati parziali, all'integrazione tra codici di autoregolamentazione e altre forme di disciplina; a normative comuni per singole aree del mondo, come di nuovo dimostra l'Unione europea, la regione del pianeta dove più intensa è la tutela dei diritti e che all'Internet Bill of Rights ha dedicato una specifica attenzione in una risoluzione parlamentare; e come potrebbe avvenire per materie dove già è stata raggiunta una maturità culturale e istituzionale, come quella della protezione dei dati personali.

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Pagina 13

1. Non è un Paese per internet
Perché il nostro Paese è in fondo
a tutte le classifiche digitali



Sognando le autostrade del web

Secondo l'Istat il 96,1 per cento delle famiglie italiane ha almeno un televisore, mentre soltanto il 47,3 ha un accesso a internet (superato perfino dal vecchio videoregistratore, ancora presente nel 55,7 per cento delle case). Ancora nel 2010, oltre il 50 per cento degli italiani non ha mai messo le mani su un computer connesso alla rete. Tra quelli che invece si collegano — un numero che va da 18 ai 23 milioni a seconda delle diverse statistiche — si contano anche quanti lo fanno molto saltuariamente (perfino una sola volta al mese) o prevalentemente per spedire e ricevere e-mail (79,1 per cento) o che frequentano un numero limitatissimo di siti, vuoi il proprio social network vuoi quelli a luci rosse.

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Pagina 19

Un uovo di Colombo chiamato WiMax

Eppure, se ci fosse la volontà comune di uscire dallo stallo, alcune possibili soluzioni ci sarebbero: una, ad esempio, si chiama WiMax. È la tecnologia che consente l'accesso a reti di telecomunicazioni in banda larga e senza fili, in pratica una «nuvola» di connessione che può arrivare (a seconda delle condizioni) anche a parecchi chilometri e che può renderla utilissima lontano dalle città, dove non c'è cablaggio. Il WiMax è quattro volte più veloce dell'Umts, il sistema oggi usato dagli operatori telefonici per consentire il collegamento alla rete dai telefonini o dalle chiavette nei pc. Pensato inizialmente per le aree urbane e metropolitane, è particolarmente prezioso per battere il «digital divide» (cioè la frattura tra chi è connesso a internet e chi no) dove ci sono ostacoli naturali, urbanistici o archeologici, grazie alla sua particolare modulazione di frequenza.

Inoltre il WiMax non è solo connettività per navigare sul web, telefonare via internet o stare sui social network: proprio per le sue caratteristiche tecniche è adatto ai servizi di videosorveglianza, di monitoraggio del rischio idrogeologico, di scambio di dati fra le amministrazioni sanitarie. E allora perché non lo si usa in Italia?

Le motivazioni della mancata implementazione di questa tecnologia sono diverse, ma fra queste c'è anche l'ostruzionismo dei gestori telefonici, soprattutto quelli che utilizzano un'altra tecnologia (l'Umts appunto) per la comunicazione in mobilità e vedono dunque nel WiMax un pericoloso concorrente per economicità e potenza.

Secondo Alessandro Bordin, uno studioso che ha dedicato diverse ricerche al tema, il problema principale è proprio di fatturato, perché il WiMax non consente gli stessi margini di guadagno agli operatori di rete fissa e mobile rispetto alle tecnologie attuali. Dice Bordin: «Le aziende delle telecomunicazioni hanno investito molto in infrastrutture 3G e 3,5G, e adesso devono coprire i costi e fare grandi margini, in una misura ovviamente ignota al di fuori dei consigli di amministrazione». Morale: «Il WiMax non arriverà finché non ci avranno prima spremuto per bene con tariffazione di connessioni 3G e 3,5G e traffico dati in genere». In altre parole: esiste una tecnologia di connessione alla rete, il WiMax, la cui realizzazione costituirebbe un vantaggio per tutto il Paese, ma che viene di fatto ritardata – se non ostacolata – per interessi di settore.


L'intreccio diabolico

Le cause dell'arretratezza di cui soffre il nostro Paese, tuttavia, sono molte, e di diversa natura, anche se strettamente intrecciate tra loro. Sarebbe sbagliato pensare che si tratti solo ed esclusivamente di una questione di soldi pubblici che non ci sono o che vengono dirottati su altro, e che basterebbe l'implementazione di reti di nuova generazione e l'ammodernamento della rete esistente per mettersi al passo con i tempi.

Un Paese con un'età media alta come il nostro ha inevitabilmente una tendenza all'innovazione ridotta e i problemi di istruzione da cui è afflitto sono gravissimi, anche al di fuori dal web. Basti pensare al nostro 36,5 per cento di analfabetismo funzionale (la media Ue è del 14,9 per cento), cioè persone che a fatica riescono a leggere i titoli dei giornali, gli orari dell'autobus e in generale a capire istruzioni scritte, e che alle poste hanno bisogno dell'aiuto degli impiegati per mandare una raccomandata. Queste, come dice il linguista e studioso di democrazia elettronica Luca Nobile, «difficilmente si metteranno in casa un attrezzo dotato di tastiera Qwerty, per accedere a un mondo dove le cose si cercano scrivendo delle parole».

C'è poi un altro aspetto, che è diverso ma correlato al precedente: l'enorme difficoltà di una vasta fascia della popolazione a emanciparsi dal medium televisivo e quindi una maggiore lentezza nel passaggio verso il consumo di massa della comunicazione via internet. Quasi che vi fosse una resistenza a un passaggio «oltre la tv» che negli altri Paesi sviluppati è già avvenuto o sta avvenendo a una velocità maggiore.

Ma dietro al ritardo italiano c'è anche la paura di una classe dirigente – di un establishment economico – che vede la rete come un fattore di potenziale dinamicizzazione sociale, una sorta di detonatore che rischia di far scoppiare le vecchie rendite di posizione e di rendere troppo mobile la piramide delle classi. C'è poi un ceto politico che in larga misura non ama le disintermediazioni tipiche del web (cioè il «dover rispondere» direttamente agli internauti-cittadini del proprio operato) o che semplicemente ha cointeressenze con una piattaforma mediatica diversa, come la tv. C'è infine una corporazione giornalistica spesso preoccupata dai fenomeni provocati dalla rete nel suo vecchio orticello e dalla mancanza di un valido modello di business alternativo a quello che per decenni ne ha garantito la perpetuazione e talvolta i privilegi.

Insomma, ci sono cause diverse e complesse, a cui bisogna aggiungere anche la difficoltà italiana nell'interiorizzazione di un nuovo concetto di libertà di cui invece molto si parla in altri Paesi: quello della «libertà d'impressione», che sta al nostro secolo come il principio della «libertà d'espressione» stava all'epoca illuminista.

A teorizzare la libertà d'impressione, rovesciando l'articolo 19 della Dichiarazione dei diritti umani dell'Onu, sono stati per primi due scienziati della politica canadesi, Marshall Conley e Christina Patterson. Gli studiosi, nel libro Human Rights and The Internet [Mc Millan, New York 2000] hanno introdotto la formula sostenendo che «la rete, facilitando la diffusione della conoscenza, incrementa [...] il valore della cittadinanza». L'accesso al web cioè accresce verticalmente la possibilità di farsi un'opinione e di manifestarla, grazie alla molteplicità di fonti, notizie e punti di vista frequentabili on line.

Quando arrivò sugli scaffali, la visione di Conley e Patterson pareva un po' troppo pionierista, in un periodo in cui gli utenti del web erano pochi milioni in tutto il mondo. Poi però le cose sono cambiate e oggi i cybernauti sono oltre un miliardo e mezzo, con previsioni di raddoppio entro il 2013, e quindi si sta cominciando a capire che l'accesso a internet è un corollario del diritto alla libertà individuale, perché fornisce quegli strumenti critici attraverso i quali ci si forma un'opinione. La possibilità reale di andare in rete insomma non è più vista come un lusso o un orpello, ma come una condizione per potere esercitare gli altri diritti, come appunto la libertà di opinione e di espressione.

Così quella che sembrava un'utopia da teste d'uovo ha iniziato a essere discussa nelle sedi istituzionali, come l'Internet Governance Forum, il «parlamento» mondiale della rete, che sta cercando di arrivare a definire un «Bill of Rights», cioè una carta che stabilisca gli elementi costitutivi della cittadinanza digitale. L'obiettivo dovrebbe essere poi un riconoscimento formale di questi diritti, magari una convenzione da far firmare agli Stati. Non c'è bisogno di un testo infinito e astratto: basterebbe far proprio il principio enunciato da Hamadoun Touré, segretario generale dell'International Telecommunication Union, secondo il quale «i governi del mondo dovrebbero considerare la rete un'infrastruttura di base, come le strade, lo smaltimento dei rifiuti e l'acqua».

Non si tratta di sole teorie, lontane dai bisogni dei cittadini. Basta pensare che secondo un sondaggio condotto da GlobeScan per la Bbc (con un campione di 27 mila persone in ventisei Paesi diversi) quasi quattro intervistati su cinque ritengono che l'accesso a internet sia un diritto umano. In Giappone, in Messico e in Russia circa i tre quarti degli intervistati hanno dichiarato di considerare la rete una componente irrinunciabile della propria esistenza, mentre per il 96 per cento dei sudcoreani e il 90 per cento dei turchi l'accesso a internet dev'essere considerato un diritto fondamentale.

E, seppur tirata per la giacca, anche la Corte costituzionale francese ha dovuto affrontare il problema. Colpa o merito di Nicolas Sarkozy e della sua battaglia contro i «pirati» di internet, cioè gli utenti che scaricano musica e film in violazione del diritto d'autore. Per contrastare il fenomeno, il governo francese aveva fatto approvare una legge (nota come Hadopi) che prevedeva la sospensione della connessione a internet per i downloader recidivi. Approvata dal Parlamento di Parigi, la prima versione della legge è stata cestinata dalla Consulta in base al principio per cui l'accesso alla rete è «una componente della libertà di espressione» di cui non si può essere privati con un atto amministrativo e senza un regolare processo, altrimenti «si viola la Dichiarazione dei diritti dell'uomo del 1789», ufficializzando per la prima volta l'accostamento tra diritti umani e accesso al web e accomunando quest'ultimo ai diritti sanciti dalla Rivoluzione francese, come quello alla libertà personale e alla proprietà.

In modo non dissimile l'idea è stata fatta propria dal Parlamento europeo quando, nel maggio del 2009, ha stabilito tra l'altro che «non possono essere imposte limitazioni ai diritti e alle libertà fondamentali degli utenti di internet».


Uno school bus per la rete

Ma mentre Onu e Ue tentano di stabilire dei principi, qualche Paese all'avanguardia sta già andando avanti per conto suo. Come l'Estonia, che si è data una legge in cui l'accesso alla rete viene definito «diritto dei cittadini». Alle parole sono seguiti i fatti: come la realizzazione del programma d'informatizzazione delle scuole e la digitalizzazione della burocrazia amministrativa, fino all'esperimento del voto on lime alle ultime elezioni europee.

L'idea della rete come diritto è poi passata dall'altra parte del Baltico e nell'ottobre del 2009 è stata la Finlandia a stabilire per legge che la connessione dei suoi cittadini (a una velocità minima garantita di 100 Mb) deve essere fornita a tutti, compresi quelli che abitano nei più sperduti villaggi artici. Sottraendo la decisione se cablare o no un'area geografica all'arbitrio dei fornitori di connettività (quindi del mercato), il governo di Helsinki ha fatto suo il principio per cui la rete non è solo un luogo di intrattenimento, ma è soprattutto uno strumento grazie al quale ciascun individuo può allargare le sue possibilità sia di conoscenza sia di crescita socio-economica, e quindi lo Stato deve offrire a tutti i cittadini – che vivano nella capitale o tra i licheni – le stesse opportunità di crescita, come previsto dalla Costituzione.

Il principio è quello – tutto kennedyano – degli school bus americani: cioè la conoscenza come diritto da distribuire a tutti, anche a spese dello Stato. Perché è lo strumento di base dell'emancipazione sociale e della mobilità nella piramide dei redditi. Del resto anche nel linguaggio comune la rete è un'autostrada digitale: e se per poterla percorrere è necessario uno school bus (cioè un accesso elettronico decente) la società ha il dovere di fornirlo. In altre parole: nel nostro secolo il digital divide (il gap culturale ed economico tra chi può agevolmente usare la rete e chi invece ne è tagliato fuori) è una forma di «discriminazione d'opportunità» inaccettabile come nell'America di Kennedy era inaccettabile che i ragazzini più poveri non potessero andare a scuola perché non c'erano gli autobus.

Come si vede siamo di fronte a due approcci entrambi moderni, ma un po' diversi per concretizzare quel «diritto all'impressione» (col clic del mouse), teorizzato dieci anni fa nelle università canadesi: da un lato quello francese e del Parlamento europeo, dall'altro quello estone e finlandese. Cascami, rispettivamente, delle due grandi correnti di pensiero dei secoli scorsi: nel primo caso la visione illuminista-borghese per cui va tutelato il diritto individuale all'accesso di chi ce l'ha e non può esserne privato; nel secondo caso l'impostazione d'ispirazione socialista secondo cui il diritto alla rete va anche assicurato a chi non ce l'ha in quanto pari opportunità di sviluppo. In altri termini, si è riproposto per internet il dualismo tra diritti che lo Stato deve garantire passivamente, astenendosi dall'intervenire, e diritti per i quali invece lo Stato si fa parte attiva, sia in termini di spesa pubblica (assicurando l'educazione digitale e i mezzi alle fasce meno abbienti di popolazione) sia garantendo la neutralità della rete (l'uguale accessibilità di tutti i contenuti del web senza privilegiare le media company più potenti).

Lo stesso dibattito sulla natura del diritto all'impressione anima da tempo il web italiano nei suoi contraddittori rapporti con lo Stato. Da un lato c'è il timore (non infondato) che il governo e il Parlamento, attraverso i vari progetti di legge ammazza-internet di cui si parlerà diffusamente più avanti, limitino la libertà di navigazione e di espressione on line; d'altro lato si sente sempre di più la necessità che sia lo Stato a farsi parte attiva e diligente nell'espansione del diritto alla rete, eliminando gli ostacoli di tipo tecnico, economico e culturale alla sua diffusione negli strati di popolazione meno avanzati.

Un obiettivo, quest'ultimo, da cui siamo lontani: la succitata abolizione dei supporti pubblici alla banda larga — dopo anni di generosa spesa per il digitale terrestre televisivo — costituisce la negazione «di un diritto sociale e di una conquista dell'umanità», come dice Gianluca Dettori, imprenditore della rete e fondatore su Facebook di un gruppo chiamato appunto «internet come diritto fondamentale». «Le reti digitali (telefonia, dati, broadband)» sostiene Dettori «in una società moderna sono altrettanto essenziali dell'acqua in una società rurale. Ma in un Paese gerontocratico come il nostro questo concetto fatica a passare.»

Eppure il web non è soltanto un mezzo attraverso cui si esercita la libertà individuale: è anche un formidabile elemento di integrazione nell'economia di mercato di individui e aziende che di questo mercato sono rimasti ai margini, o che comunque potrebbero entrarvi in modo molto più massiccio. Quindi il superamento del digital divide non è conveniente solo per quella parte di popolazione che rischia di rimanere tagliata fuori, ma ha anche ricadute economiche positive per quella che già è infoalfabetizzata e per il Pil di un intero Paese.

Nonostante l'evidenza di tutto questo, da noi la rete è ostacolata sia in quanto diritto liberale (con le continue proposte di legge soffocanti e imbavaglianti) sia in quanto diritto sociale (in assenza di alcun intervento sul digital divide: il 10 per cento di popolazione italiana a reddito più basso rappresenta solo il 5 per cento degli utenti del web, mentre il 10 per cento di persone a reddito più alto ne rappresenta quasi il 20).

Forse tutto questo accade anche perché la «libertà d'impressione» è soprattutto stimolo a ricevere e a cercare i messaggi politici, culturali e educativi più diversi, per costruirsi un'identità e un'opinione proprie, e a muoversi nella scala sociale grazie all'accesso all'informazione e alle opportunità. Un obiettivo che sta all'opposto esatto rispetto alla condizione attuale di un Paese omogeneo, conformista, bloccato e povero di biodiversità culturale, dove pertanto va benissimo investire in tv.

È naturale, quindi, che chi punta all'innovazione finisca talvolta per scappare, perché l'Italia «ha vissuto un processo regressivo, si è demodernizzata, si è chiusa, si è rifugiata in una coscienza a-storica, prigioniera in un movimento centripeto», come denuncia Enrico Beltramini, un docente italiano che si è trasferito da anni a Palo Alto, in California. E la migrazione di Beltramini, come quella di tanti altri nostri connazionali che hanno scelto di vivere all'estero, «esprime soltanto marginalmente la ricerca di opportunità professionali altrimenti negate in Italia. È innanzitutto il prodotto di un senso di alienazione. Un'alienazione a cui si risponde partendo. Una fuga intesa come forma di resistenza, la scelta di non lottare ma nemmeno farsi assimilare a un universo simbolico a cui ci si sente estranei». È ancora Beltramini che accusa: «La rivoluzione tecnologica è il prodotto di una cultura eversiva e contestatrice. L'Italia non è una potenza tecnologica perché non ha avuto una rivoluzione culturale che l'ha sradicata dalla realtà industriale, perché manca di una radicale visione alternativa della vita di tutti i giorni: creatività, decentralizzazione, avversione per la burocrazia e le strutture gerarchiche, libertà, piacere, autoespressione, antiautoritarismo, pace, abbandono delle inibizioni, delle restrizioni, trasparenza». Come avviene non solo nella Silicon Valley, ma anche in molti altri contesti dove non sono le rendite di posizione e le paure dei cambiamenti a determinare le strategie politiche ed economiche.

L'era digitale è tutto questo: molto più che un computer, un mouse, una tastiera. Per non ridurre definitivamente il nostro Paese in un claustrofobico museo del passato, bisogna dunque individuare le responsabilità della mancata rivoluzione italiana. A iniziare da quelle della politica.

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2. Il Cavaliere nella rete
L'Italia di Berlusconi, così attaccata
alla tv e così lontana dal web



Sulla scrivania del premier

Nell'estate del 2009 il settimanale di proprietà del premier «Chi» pubblica una bella foto posata di Silvio Berlusconi. Siamo nel pieno del caso creato dalla frequentazione del presidente del Consiglio con Noemi Letizia (e dalla conseguente richiesta di separazione da parte di Veronica Lario) e delle successive rivelazioni della escort barese Patrizia D'Addario. Nella foto il Cavaliere appare sorridente e informale, seduto alla sua scrivania da lavoro, sul cui infinito ripiano trovano posto ninnoli, cornici d'argento, statuette e altro. Di un computer, neanche l'ombra.

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Da Anja Pieroni alla Cascinazza

Paolo Romani, l'autore del decreto che ha fatto conoscere al mondo la sudditanza del web italiano, non è tuttavia un parvenu dei media, e sarebbe sbagliato pensare che dietro le sue azioni ci sia soltanto quell'arretratezza culturale che caratterizza molti altri esponenti del centrodestra. Al contrario, l'uomo messo da Berlusconi al governo per difendere gli interessi di Mediaset in rapporto a ogni forma di concorrenza – da Sky al web – è un profondo conoscitore dei meccanismi economici che stanno dietro ogni modello di consumo audiovisivo, dall'audience alla pubblicità.

Milanese, classe 1947, Romani inizia prestissimo a occuparsi di emittenza privata, abbandonando l'università per fondare nel 1975 una delle prime «tv libere» – come si chiamavano allora – nate in Italia: Telelivorno, in seguito Tvl. Tra i suoi compagni d'avventura, il futuro esponente radicale e poi di Forza Italia Marco Taradash e il futuro dirigente Mediaset Leonardo Pasquinelli. Da quella prima esperienza pionieristica, Romani passa nel 1976 alla corte di Alberto Peruzzo, editore cartaceo che si è appena buttato nell'emittenza con quella che poi diventerà rete A, celebre per le televendite (da Wanna Marchi al testimonial del mobilificio Aiazzone, Guido Angeli), per la telenovela Anche i ricchi piangono e per aver ospitato un telegiornale firmato da Emilio Fede nel breve periodo in cui questi aveva già lasciato la Rai e non era ancora approdato a Fininvest.

A metà degli anni Ottanta Romani viene chiamato dall'imprenditore Salvatore Ligresti ai vertici di Telelombardia, di cui diventa amministratore delegato. Il mandato della proprietà è semplice: nella cosiddetta Milano da bere guidata dai socialisti – sulla quale Ligresti ha enormi interessi immobiliari – bisogna creare una televisione che pubblicizzi a ogni ora del giorno le realizzazioni in città del Psi di Paolo Pillitteri e del suo assessore all'urbanistica, Attilio Schemmari (anni dopo finiranno entrambi a San Vittore e verranno condannati per tangenti, mentre lo stesso Ligresti patteggerà due anni e quattro mesi per corruzione). Così in via Bordoni 2, dove ha sede l'emittente, Romani chiama due giovani giornalisti d'area socialista, Biagio Longo (direttore) e Dario Carelli (caporedattore): i telegiornali sono un'ode senza soluzioni di continuità per Craxi e i suoi uomini, le interviste a Pillitteri si alternano a quelle a Schemmari, senza tralasciare gli altri papaveri del garofano meneghino, da Walter Armanini al rampante Mario Chiesa, che ottiene servizi video di quattro o cinque minuti ogni volta che il suo Pio Albergo Trivulzio inaugura una nuova sala. Ma il ruolo di Romani non si esaurisce qui: tra i suoi compiti c'è anche quello di finanziare l'amante di Bettino Craxi, Anja Pieroni, a cui il segretario del Psi ha regalato una televisione locale a Roma, Gbr. Come funziona il meccanismo? Molto semplice: quando l'ex attrice ha bisogno di soldi li domanda a Bettino, che li chiede al suo amico Ligresti, il quale a sua volta ordina a Romani di acquistare un po' di programmi prodotti da Gbr, non importa se belli o brutti, se interessanti o no per il pubblico di Milano e dintorni. Sicché gli spettatori milanesi o comaschi, attoniti, facendo zapping su Telelombardia trovano misteriosi approfondimenti sui nuovi negozi della Garbatella o sull'arrivo della primavera alla collina Fleming.

Nel 1992 Romani rompe bruscamente con Ligresti ma dispone ormai di know how e contanti sufficienti per diventare imprenditore in proprio. Così fonda una sua emittente, Lombardia 7, nota per i servizi a luci rosse attraverso il 144. Due anni dopo Lombardia 7 verrà condannata dal pretore di Monza per una trasmissione pornografica intitolata Vizi privati e pubbliche virtù, condotta dal transessuale Maurizia Paradiso. Ma quando arriva la sentenza, Romani è già volato altrove: ha venduto Lombardia 7 (che fallirà quattro anni dopo, sommersa da un mare di debiti) e grazie alle sue conoscenze nella concessionaria Publitalia 80 di Silvio Berlusconi è stato chiamato per una candidatura con Forza Italia, a Montecitorio, circoscrizione di Cinisello Balsamo.

È l'inizio di una brillante carriera che lo porterà alla presidenza della commissione Telecomunicazioni alla Camera e poi — nel 2008 — alla poltrona di viceministro dello Sviluppo economico con delega alle Comunicazioni: dove, del tutto dimentico del suo passato di pornografo, arriverà a proporre l'istituzione di un sistema gestito dal ministero per avvisare i genitori via sms nel caso qualcuno in casa navighi in internet su siti a luci rosse.

Ma, sms a parte, è evidente che l'incarico alle Comunicazioni riveste un'importanza cruciale per gli interessi del capo: Romani deve occuparsi di tv in generale, di digitale terreste e ovviamente di rapporti con Sky. Un settore quest'ultimo in cui l'ex editore socialista offre per anni il meglio di sé, riducendo la pubblicità e aumentando le tasse al principale concorrente del Cavaliere, ritardando il più possibile il suo ingresso nel Dtt e imponendo alla Rai di oscurare molti eventi che prima mandava sul satellite per convincere con le buone o con le cattive i telespettatori a rinunciare alla padella in terrazzo e a preferire il decoder terrestre. Un'opera svolta con una continuità impressionante e il più possibile senza clamore: un basso profilo che probabilmente non impedirà a Romani di passare alla storia come uno dei più utili e servizievoli tra i famigli del Cavaliere.

Cresciuto a pane e tv, di web Paolo Romani non sa moltissimo (una volta in un'intervista ad Alessandro Longo ha ammesso di non sapere neppure cos'era il decreto Pisanu), ma intuisce abbastanza per capire che si tratta di un terreno assai sensibile non solo per gli interessi del suo referente diretto — il proprietario di Mediaset — ma anche di altri poteri forti con cui è importante tenere rapporti. Ad esempio, se le frequenze lasciate libere dalla tv analogica venissero assegnate alle connessioni internet senza fili, si farebbe un grave sgarbo a Telecom, proprietaria delle rete telefonica in rame: molto meglio assegnare quindi quelle frequenze alle tv locali, chiedendo contemporaneamente a Telecom di assumere tra i suoi massimi dirigenti uomini vicini al premier (Piero Vigorelli) e controllando che a quelli di La7 non venga mai in mente di costituire un vero terzo polo indipendente. E che poi questa decisione danneggi gravemente la rete veloce — con tutte le sue potenzialità in termini economici per il Paese — a Romani sembra del tutto secondario.

Fra l'altro è curioso notare come il viceministro Romani trovi il tempo di procurarsi anche una poltrona meno prestigiosa ma assai funzionale, quella di assessore all'Expo 2015 al comune di Monza. Per amore dell'ameno capoluogo brianzolo? Sicuramente. Ma forse anche per l'esigenza di sistemare un problema che sta molto a cuore al premier, cioè stabilire una «variante» che ha permesso il raddoppio del valore (da 40 a 90 milioni di euro) di una proprietà del fratello del Cavaliere, un'area di 500 mila metri quadri detta la Cascinazza. «Era una spina nel fianco di Berlusconi» ha spiegato serenamente il viceministro assessore. Un po' come la rete, insomma.

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Se settant'anni vi sembran pochi

Infine meriterebbe una norma illuminata anche il tema, altrettanto scivoloso, del diritto d'autore. Il 14 gennaio 2009 a Roma è nato il Comitato nazionale antipirateria alla presenza del ministro alla Cultura Sandro Bondi, istituito presso la Presidenza del Consiglio dei ministri e affidato alla guida di Mauro Masi, già commissario della Siae e ora direttore generale della Rai: insomma, non esattamente una personalità «internet oriented», ma pazienza. Masi e i suoi dovrebbero occuparsi dell'annoso problema della contraffazione e della pirateria informatica che fa dormire sonni burrascosi all'industria della musica e non solo.

L'istituzione di questo comitato era un'iniziativa molto attesa, visto che il decreto istitutivo del «Comitato tecnico contro la pirateria digitale e multimediale» (Gazzetta ufficiale, ottobre 2008) risale al 15 settembre 2008 e si era dato l'obiettivo di coordinare le azioni di contrasto del fenomeno, studiare e predisporre proposte normative, analizzare e individuare iniziative di autoregolamentazione e codici di condotta. Tuttavia diverse associazioni – da Altroconsumo ad Assoprovider – hanno manifestato le loro forti perplessità sul fatto che nel comitato non sieda nemmeno un rappresentante degli utenti e dell'impresa (tutti i membri sono capi di gabinetto dei vari ministeri più il presidente della Siae e due «esperti» nominati sempre dal governo). I non cooptati dunque possono far sapere la loro opinione soltanto attraverso un forum via internet, moderato, dove ogni giorno si combatte una battaglia verbale tra sostenitori del copyleft e fan della dottrina Sarkozy. Masi aveva detto: «Metteremo tutto in rete, siamo disposti ad ascoltare tutti. Siamo aperti ad approfondire il tema e vedere cosa succede. Il risultato non deve essere per forza una proposta di tipo normativo, può essere anche un sistema di autoregolamentazione, visto che la legge che c'è adesso, la Urbani, non ha raggiunto i risultati sperati». Del resto il problema è difficilmente risolvibile senza un confronto aperto: ne è consapevole lo stesso ministro Bondi, che pure immaginava un output parlamentare del lavoro del comitato, ritenendo necessario fare una «campagna di sensibilizzazione sull'argomento e attraverso la collaborazione con gli interessati».

Nel marzo del 2009 il comitato ha quindi iniziato le sue audizioni convocando per prime — ovviamente — le associzioni che rappresentano le major della musica e dei video, che hanno chiesto «un sistema risolutivo di concerto con gli internet Service Provider per la rimozione e il filtraggio di link per il downloading e la fruizione di file illeciti, bloccandone la distribuzione alla fonte, insieme a misure proporzionate per una deterrenza effettiva per le violazioni più gravi» (così la Fapav, Federazione antipirateria audiovisiva, tra le prime associazioni invitate da Masi).

Insomma il consueto linguaggio proibizionista e punitivo. Eppure solo se si smetterà di colpevolizzare utenti e consumatori, considerandoli invece parte attiva nel processo decisionale, si potrebbe risolvere qualcosa. Dopo il contestatissimo decreto Urbani del 2004 (la prima legge finalizzata a perseguire lo scambio peer-to-peer) e dopo la brusca interruzione della riforma del diritto d'autore nella scorsa legislatura con il caos normativo che si è determinato negli anni, si fa sempre più pressante la necessità di armonizzare e integrare la normativa sul copyright delle opere d'ingegno e di farlo tenendo conto delle nuove soluzioni nel frattempo emerse, come gli schemi di licenze flessibili del tipo Creative Commons.

L'oggetto della disputa è vecchio, ma non si è mai sopito lo scontro fra i detentori dei diritti (che continuano a rimproverare ai governi nazionali e all'Europa di non fare abbastanza per contrastare la pirateria digitale) e dall'altra parte i fornitori di accesso e connettività che rispondono bruscamente alle accuse di lucrare sul download illegale di opere coperte da copyright. In mezzo, gli autori, che spesso sono quelli che ci rimettono di più.

A cercare di dirimere l'annosa vicenda, il governo italiano (dopo il sostanziale fallimento della legge Urbani) ha messo in campo, oltre al Comitato tecnico contro la pirateria digitale e multimediale, anche un'iniziativa di tipo legislativo, facendo ripartire il Comitato permanente per la riforma del diritto d'autore presieduta dal professor Alberto Maria Gambino.

Nessuno si nasconde che all'interno di questi organismi in genere pesano le posizioni degli attori meglio organizzati, cioè le associazioni di categoria del cinema, della musica, dell'editoria, mentre scarsa considerazione hanno le voci di esperti indipendenti e dei consumatori.

Ma la domanda rimane: è possibile equilibrare i diritti degli autori con quelli dei fruitori? E come? Secondo l'Istituto per le politiche dell'innovazione, un think tank di avvocati romani esperti di informatica, non si esce dalla sterile contrapposizione tra gli estremisti delle due sponde — la difesa poliziesca dell'attuale proprietà intellettuale contro la negazione assoluta di ogni diritto economico degli autori — se non attraverso un disarmo bilaterale che consenta la diffusione di una nuova cultura digitale: da un lato educando i downloader ad apprezzare il valore che si nasconde dietro la presunta gratuità dei contenuti reperibili in rete, d'altro lato aiutando le aziende a proseguire con maggior convinzione nella ricerca di modelli di business alternativi che invoglino i consumatori a comprare di più, pagando meno, anche adottando nuovi modelli e schemi di enforcement del diritto d'autore di natura informatica e giuridica, separando la gestione dei diritti digitali (Drm), dalle misure tecniche di protezione (Tpm).

Può sembrare una strada lunga, ma le alternative apparentemente più immediate e pragmatiche — a partire dalla criminalizzazione di un'intera generazione — non hanno finora offerto alcun risultato migliore. Gradualizzare e moderare il concetto di proprietà intellettuale pare invece l'unica strada non solo per evitare la trasformazione della rete in un continuo gioco a guardie e ladri, ma anche per tutelare quella libera spinta creativa che alla fine può giovare alla crescita (culturale, ma anche economica) di tutta una società aperta e plurale.

In fondo il più noto testimonial di questa esigenza diffusa è l'uomo a cui in Italia fa capo la polizia di Stato: il ministro degli Interni Roberto Maroni. Che non ha mai fatto mistero di frequentare i vari siti di condivisione — da eMule a Limewire — per scaricare musica gratis e poi passarla sul suo iPod, a cui resta attaccato anche in aereo, ogni settimana, tra Malpensa e Fiumicino.

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Qualche principio basico

Ma perché delle buone leggi sulla rete vengano fatte, è necessario che l'Italia esca dal suo torpore, dalla sua claustrofobia, dalla sua paura del nuovo. Papa Benedetto XVI ha rimproverato i suoi collaboratori di non aver cercato su internet le informazioni sul vescovo negazionista Richard Williamson, la commissione Libertà pubbliche di Bruxelles discute da tempo sull'Internet Bill of Rights, la comunità internazionale — su richiesta delle Nazioni Unite — si riunisce ogni anno nell'Internet Governance Forum per affrontare i nodi dello sviluppo della pace e della democrazia attraverso i network digitali. Insomma, mentre le grandi istituzioni pubbliche e religiose, europee e sovranazionali, riconoscono direttamente il valore informativo di internet, la sua capacità di veicolare messaggi positivi e promuovere sviluppo e benessere, in Italia la libera manifestazione del pensiero sul web continua a suscitare reazioni che sembrano dettate solo dalla paura.

Un'aria che è iniziata a spirare con l'infausta idea di Ricardo Franco Levi di imporre la registrazione dei blog al Roc e che poi si è concretizzata nelle tante proposte di legge, alcune delle quali diventate realtà, di cui si è parlato in queste pagine. Un'aria che ha portato ad esempio la Corte di Cassazione, con la sentenza numero 10535, a confermare la legittimità del sequestro di alcune pagine web del sito dell'Associazione per i diritti degli utenti e consumatori (Aduc), su cui erano stati pubblicati messaggi di partecipanti a un forum sulla religione cattolica. Un'aria che da un lato è il frutto del riconoscimento del tremendo impatto sociale che internet ha nella società dell'informazione, dall'altro lato è il segno che la politica insegue questa rivoluzione con la sua agenda per rappresentare interessi particolari mentre gli utenti rimangono sempre un passo avanti.

Se infatti ogni giorno arriva una proposta di regolamentare internet in senso restrittivo, è difficile pensare a un'azione scoordinata e casuale: e spiegare tutto con l'ignoranza del legislatore non è sufficiente. Secondo Vincenzo Vita, vicepresidente della Commissione cultura del Senato, l'isteria censoria con cui la politica italiana si rapporta a internet è dovuta invece alla consapevolezza che ormai la rete «non è più cosa da hacker o da ricercatori, ma riguarda tutti». E proprio per questo, dice Vita, «invece di imporre sanzioni e gabelle che ne indebolirebbero il potenziale democratico è tempo di costruire insieme le regole deontologiche per un suo utilizzo armonioso e rispettoso dei diritti di tutti».

Il problema, quindi, non è semplicemente allontanare ogni ipotesi di legiferazione sul copyright, ma al contrario fare proposte che salvaguardino e stimolino il libero sviluppo della rete. Ha detto Lawrence Lessig nella sua lectio a Montecitorio: «I governi devono avere umiltà nell'affrontare la regolamentazione: non si può uccidere questa tecnologia, non possiamo impedire alle nuove generazioni di essere creative più di quanto eravamo noi, altrimenti le spingiamo verso la clandestinità, e questo è terribilmente corrosivo della democrazia di uno Stato di diritto. Chiediamo ai governi di essere maturi, sani di mente e non arroganti per capire che devono avere umiltà nell'affrontare la regolamentazione, non possono governare con la forza». Aggiunge Stefano Quintarelli, uno dei più autorevoli esperti di internet italiani: «La rete deve essere neutrale, la responsabilità deve essere individuale, internet non si deve filtrare, l'anonimato deve essere protetto e la magistratura deve indagare caso per caso». Principi semplici, quasi basici. Ottimi per far partire qualche disegno di legge che vada oltre le idee novecentesche dei vari Levi e Romani, per non parlare delle Carlucci o dei D'Alia.

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Sesto potere?

Tuttavia, lo stile comunicativo di Di Pietro è di quelli che lasciano perplessi i puristi del confronto orizzontale in internet: pochissime sfumature, linguaggio assertivo e diretto, frasi semplici e secche, scritte apposta per essere stralciate, copiaicollate e fatte girare su altri stili o nei network sociali. La famosa «conversazione» di cui per anni sono andati orgogliosi i teorici della rete sembra ridursi a una pletora di commenti che probabilmente pochissimi leggono: proprio come nel blog «cugino» di Beppe Grillo.

Qualcuno parla di un nuovo «balcone di piazza Venezia», seppur virtuale: ed è così che si apre anche da noi il dibattito sulla qualità e sugli effetti della comunicazione politica on line, proprio mentre in America alcuni dei più noti attori del web iniziano a riconsiderare il loro entusiasmo iniziale e mettono in guardia contro quella che l'ex guru di internet Jaron Lanier definisce «la mentalità del branco e il rischio di posizione estreme, che internet amplifica enormemente» e che il giornalista Lee Siegel definisce addirittura «blogofascismo», intendendo un'area pubblica di conformismo, violenza verbale, fanatismo, populismo e così via.

Negli Stati Uniti, in realtà, i dubbi sul radioso futuro della rete democratica iniziano ad affiorare fin dal 2007, quando Hillary Clinton si presenta alle primarie democratiche proprio con un messaggio in internet. Un filmato brevissimo, otto secondi: molto leggero, per non escludere chi non ha la banda larga o era in rete col telefonino. Che cosa dice quel giorno Hillary? Niente o quasi: sono qui, mi candido, converseremo, arrivederci. Una performance salutata dai più con entusiasmo che però forse nasconde l'altro volto della comunicazione politica in rete: ultralight, brevissima e priva di contenuti, insomma stupida.

Ed è così che, prima ancora di Lanier e Siegel, un docente di marketing italiano come Paolo Landi prende computer e tastiera per scrivere un libro rimasto al tempo di nicchia [Impigliati nella rete, Marsilio, Venezia 2007] per chiedersi – di fronte alle performance di Grillo o ai minispot di Hillary – se internet alla fin fine non sia perfino peggio della televisione, in termini di persuasione occulta e manipolazione dei cervelli. E se per ottenere consenso attraverso la rete – scatenando il famoso tam-tam che consente di diventare popolari on line – non sia indispensabile un'esaltazione dei toni, un impoverimento del linguaggio e quindi un azzeramento della riflessione. Per Landi è proprio una questione di grammatica peculiare del web: «La rete è il modello di comunicazione ideale per una generazione che ha tempi di consumo rapidi e non gradisce altre forme espressive in cui i contenuti non siano sintetici e sincopati. Come Hillary, costretta a usare nel suo messaggio in rete un linguaggio a prova d'idiota, anche Beppe Grillo ricorre a concetti molto basici per farsi capire dal popolo dei blog. A molti può sembrare una grande novità in politica usare la parola "vaffanculo", ma è la parola magica che tutti capiscono in un universo come la rete che ha tempi di consumo rapidissimi. Che non azzerano la distanza tra politico e cittadino ma semmai azzerano la comunicazione di idee».

Già: il linguaggio estremo di Grillo, e l'aggressività con cui questo viene declinato verso singoli soggetti, sembra quasi confermare quella «mentalità da linciaggio» individuata da Lanier come uno degli effetti collaterali del web 2.0. E, nei mesi in cui il sito di Grillo ha il massimo successo e i suoi meet-up portano in pizza 300 mila persone, c'è chi si chiede se davvero il comico genovese «abiti» la rete italiana o ne sia al contrario un corpo estraneo, che deve il suo successo soprattutto alla fama televisiva e alle capacità teatrali del suo creatore. Scrive ad esempio con la sua consueta lucidità Massimo Mantellini, blogger e studioso del web: «Il blog di Beppe Grillo, senza volerne sminuire il grande successo popolare, non fa parte di nessuna nuova dinamica comunicativa di rete. È comunicazione convenzionale con le ballerine del web 2.0 attorno. Beppe Grillo fa sul suo sito la stessa cosa che fa da un palco dei suoi tanti spettacoli in giro per l'Italia. Internet non aggiunge un grammo a queste modalità note e sperimentate. Anzi paradossalmente la rete è stata usata da Grillo per verniciare di nuovo vecchi meccanismi aggregativi che hanno in passato ottenuto uguale successo di pubblico per altre vie. Grillo per esempio da tempo straparla di blog e del loro grande potere ma si capisce bene, ascoltandolo, che si sta riferendo al proprio blog e a null'altro. Perché null'altro forse conosce. Grillo è volontariamente fuori da qualsiasi dinamica di rete. Emette ma non riceve, parla ma non risponde. Grillo forse usa internet bene (ben consigliato, andrebbe detto) ma non abita la rete. E come lui la grande maggioranza dei suoi commentatori e lettori. E questo nelle dinamiche di nicchia della rete stessa fa di lui un estraneo, che può essere magari citato in giro quando scrive scemenze in un post, ma che nella blogosfera riceve mediamente la stessa attenzione dei grandi emettitori generalisti (le tv, i quotidiani eccetera): vale a dire poca».

Chissà, forse la rete è talmente immensa e variegata che alla fine ci abita di tutto, la conversazione come l'urlo, il confronto come il vaffanculo, il ragionamento come la pernacchia. Resta il fatto che, se vogliamo guardare all'episodio americano che ha dato il la al dibattito, gli otto secondi ultralight della Clinton sono spariti nel nulla e nessuno li ricorda neanche più, mentre le elezioni americane le ha vinte il candidato che ha usato il web in modo molto più raffinato, attento e approfondito. E quanto all'Italia, solo i fan più accesi di Grillo — o, per contro, i nemici più sciocchi di internet — possono continuare a identificare l'intera rete italiana con il comico genovese, insistendo su una sineddoche impropria fin dagli inizi. La qualità del dibattito e della comunicazione in internet dipendono dall'uso che se ne fa, dalla capacità critica ed etica di sfruttarne le enormi potenzialità. E con un po' di maturità si può evitare di passare dall'esaltazione acritica di un futuro radioso allo spauracchio ansiogeno di un sesto potere più persuasivo e pericoloso del dominio televisivo.

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6. I nemici di internet
Per ignoranza, per paura, per interesse:
categorie e lobby che frenano il web in Italia



Saper «leggere la vacca»

«Tutto quello che vediamo nei siti internet e sui blog è veramente or-ri-bi-le! Non c'è nessuna possibilità di smentita e di correzione, le notizie passano in modo osceno, c'è il diritto di calunniare e tu non puoi rispondere.» A scagliarsi in modo così diretto contro la rete, in una calda serata del luglio 2009, è uno dei conduttori radiofonici più ascoltati d'Italia: Aldo Forbice, conduttore di Zapping, che probabilmente rappresenta il pensiero di una parte non insignificante della categoria dei giornalisti che vedono insidiato dal web 2.0 il loro antico monopolio della comunicazione e che quindi si ergono a difesa della propria antica rendita di posizione.

Basta prendere, ad esempio, la veemenza con cui l'editorialista di destra Paolo Granzotto sul «Giornale» del 22 settembre 2007 parla dei blog. I quali, sostiene, «appartengono alla famiglia – molto sovrastimata – della informazione globale, mentre non c'è niente di più domestico e gruppettaro. Investiti dalla mitizzazione di internet, i blog godono fama, fra i pirla, di essere lo specchio della verità e della correttezza dell'informazione. E di rappresentare al meglio la pubblica opinione e i suoi umori. Vero niente, perché un blogger può sparare tutte le bischerate che vuole, diffondere leggende metropolitane o dilettarsi nella cosiddetta controinformazione senza colpo ferire».

Nella foga di Granzotto, agli interessi di categoria si mescolano ovviamente convincimenti ideologici: i blog gli paiono una riedizione delle vecchie fanzine dell'estrema sinistra («controinformazione gruppettara») e quindi mette subito la mano alla pistola.

E tuttavia a far notare come il contenuto della reprimenda di Granzotto abiti sulla luna è un giornalista-blogger della sua stessa testata, Marcello Foa. «Caro Paolo,» gli scrive sul sito del «Giornale» «ho l'impressione che il tuo giudizio sia lapidario: come fai a giudicare i blog se, per tua stessa ammissione, li frequenti poco? Il blog ha un potere di aggregazione che i media tradizionali si sognano, soprattutto i giornali: e il successo di Beppe Grillo non è affatto isolato. Negli Usa l'ex direttore di "New Republic", Andrew Sullivan, nel giro di pochi mesi ha ottenuto nel suo blog più lettori della sua rivista. Tu e io sappiamo bene che quando un giornalista scrive una sciocchezza sovente può permettersi di ignorare le lettere di protesta che riceve. Su internet no: ti stanano subito. E questo è un bene o un male? A me sembra un bene, anche perché viviamo nell'era dell'interattività e i media tradizionali hanno perso il monopolio delle fonti d'informazione. L'avvento del net sta rivoluzionando il giornalismo e, con esso, le aspettative dei lettori. Alcuni sono un po' egocentrici, altri esibizionisti? Senza dubbio, ma sono complessivamente più esigenti; giudicano da sé e sentono il bisogno di esprimersi, di confrontarsi con i giornalisti che stimano o con gli esperti o anche solo di condividere opinioni e passioni con altri cittadini.» Argomentazioni semplici e lineari, come si vede: per nulla estremiste né da «gruppettari». Ma che «il Giornale» non ritiene di pubblicare anche nella sua edizione cartacea, quella su cui Granzotto aveva riversato i suoi strali.

Probabilmente Foa, però, ha centrato almeno in parte il problema: una buona percentuale dell'astio verso la rete viene da una scarsa frequentazione della medesima e quindi dall'indignato stupore con cui si scopre che, come nel mondo reale, sul web vengono sparate anche un sacco di idiozie. Prendiamo, per restare al «Giornale», il suo direttore Vittorio Feltri, che, ospite in tv di Gianni Riotta, viene chiamato a commentare alcuni fotomontaggi di cattivo gusto apparsi on line e dice semplicemente: «Mi fa impressione la facilità con cui si può avere accesso a internet».

Feltri, evidentemente, non riesce a vedere la rete come qualcosa di diverso da un quotidiano di carta, a cui hanno accesso solo quelli che seguono le regole del giornalismo tradizionale che dunque, almeno in teoria, dovrebbero astenersi dal pubblicare falsi, insulti e calunnie. Ma al di là della frequenza con cui queste norme deontologiche non sono rispettate neppure nei mainstream media, è notevole il fatto che venga ignorata l'idea che il web 2.0 sia semplicemente un'altra cosa rispetto ai giornali: per esempio un'immensa piazza o un infinito muro su cui bene o male possono scrivere tutti. E che quindi ha bisogno di regole diverse da quelle stabilite negli ultimi secoli per i giornali.

Così per esempio il blogger Massimo Mantellini spiega come il problema della rete che talvolta «manda tutto in vacca» sia da affrontare proprio «imparando a leggere questa vacca». Scrive Mantellini, rovesciando l'accusa proprio verso i giornalisti: «Internet è sempre stata (anche) un gigantesco serbatoio di cazzate. Prima di lei il pianeta intero è (anche) un gigantesco serbatoio di cazzate, cattiverie, stupidità e tutto il resto, il luogo nel quale tutto si mescola. Osservandolo da abbastanza vicino potremo scoprirne i peggiori abissi. Ovviamente si tratta di applicare un filtro a tutto questo, separando il grano dal loglio. Quindi non è internet che manda tutto in vacca: il fatto è che la vacca è fra di noi, e ci insegue, e noi magari cerchiamo di evitarla, e internet è un ottimo luogo per farlo. Quello di separare il grano dal loglio è un lavoro difficile, un lavoro primariamente informativo e divulgativo di cui ci si dovrebbe far carico per esempio evitando di raccontare la vacca come se fosse l'intero che non è. E di questo malgoverno della notizia ovviamente è piuttosto semplice trovare il responsabile». Insomma, l'accusa è rispedita al mittente: se la rete appare ad alcuni solo come il luogo in cui alberga il peggio, è anche o soprattutto perché chi di mestiere dovrebbe interpretare il reale, a partire dai giornalisti, tende a non fare il proprio dovere.

Eppure lo stupore di Feltri di fronte alla difficile decriptazione di un mondo nuovo come la rete è condiviso da altre firme. Per esempio, anche il giornalista e scrittore Giampiero Mughini, solitamente attento ai cambiamenti culturali, quando viene chiamato a tenere per la prima volta in vita sua una rubrica on line sul portale di Tiscali scopre che, contrariamente a quanto gli è sempre accaduto nella carta stampata, i suoi articoli vengono commentati in tempo reale e non sempre in modo benevolo. Sicché il 3 luglio del 2008 il giornalista si sfoga su «Libero»: «Molti di quelli che non condividono le mie opinioni impugnano la scimitarra, ossia il turpiloquio più strenuo nei miei confronti. Insulti a strafottere, e i più volgari». Questo, secondo Mughini, prova che «si configura la tipologia e l'antropologia di una generazione e dunque il sorgere di un fenomeno nuovo: il kretino di internet. Quello che come curriculum intellettuale ha unicamente lo sbraitare a mezzo e-mail». Già: è difficile accettare l'idea che quando si offre a chiunque la possibilità di parlare trovano spazio anche i «kretini», che peraltro sono tali dentro e fuori internet. Ma non è, questo, un prezzo tutto sommato accettabile per poter leggere le opinioni e le idee di tutti?

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E così anche in Italia sono sempre di più i creativi che producono contenuti originali e li distribuiscono on line attraverso licenze graduate (da «tutti i diritti riservati» ad «alcuni diritti riservati») come le già citate Creative Commons, il cui fine è proprio equilibrare i diritti di autori, editori e consumatori aiutando gli autori a scegliere i gradi di libertà diversi da associare alle opere. Così accade che un autore può decidere di mantenere il riconoscimento della paternità dell'opera, ma di lasciarla a disposizione di tutti affinché chiunque possa farne un'opera derivata (un film da un libro, un dramma da un video-clip) o addirittura venderla.

La diffusione delle licenze Creative Commons è anche l'occasione per denunciare i limiti del copyright stesso: perciò all'accusa dell'appropriazione indebita di materiali coperti dal diritto d'autore, i creativi rispondono contrattaccando con spot, tutorial e conferenze per dimostrare che i primi a impossessarsi di ciò che è comune sono proprio le major oligopolistiche. In Italia ad esempio ha fatto il giro della rete un video, The Disney trap («La trappola di Disney. Come il copyright ruba le nostre storie», che si trova su YouTube), realizzato da iQuindici, comunità di lettori-autori affiliata alla Wuming foundation. Vi si spiega come il copyright tradizionale impedisca l'uso creativo delle opere che i nostri avi ci hanno lasciato in pegno, per usarle e condividerle, e non certo per metterle sotto chiave. L'esempio che portano è quello di un'opera popolare come «Steamboat Bill», che la Disney ha trasformato nel primo grande successo di quello che diverrà il topo più famoso del mondo, Mickey Mouse. Ma si va anche più in là, raccontando che in fondo anche James Joyce è debitore a Omero per l'uso della figura di Ulisse: e se fossero entrambi ancora vivi, sulle basi delle attuali leggi il cantore greco potrebbe portare lo scrittore dublinese in tribunale.


Che idea: ti distruggo il pc

Il fatto è che oggi se hai un computer e una connessione veloce a internet rendi le major nervose non tanto per quello che fai, ma per quello che «potresti farci»: cioè prendere brani protetti da copyright e distribuirli attraverso la rete. Lo stesso vale se hai acquistato un masterizzatore digitale capace di duplicare in poche ore l'ultimo film di Harry Potter.

L'allarme creato dalle corporation ha determinato una mobilitazione di governi che emanano leggi sempre più dure sulla pirateria digitale (basti pensare alla severissima legge Hadopi, in Francia) mentre le polizie hanno raddoppiato gli sforzi per contrastarla.

Oggi però, diversamente che in passato, l'attività di contrasto «all'industria del falso» non si limita più alle centrali di duplicazione del crimine organizzato ma entra nelle case di coloro che scaricano software, film e musica digitale a uso privato, con una particolare attenzione verso gli utilizzatori dei sistemi di filesharing attraverso cui viaggiano gli scambi (soprattutto quelli musicali). Mentre le major e le associazioni di categoria, quella dei discografici (Riaa) e dei cinematografici (Mpaa) americani in testa, hanno iniziato a inviare messaggi minacciosi agli utenti di reti peer-to-peer in quanto «potenziali malfattori» («Quando infrangi la legge rischi conseguenze legali. C'e un modo molto semplice per evitarle: non rubare musica») e si è perfino arrivati a praticare la diffusione di virus in rete per rallentare gli scambi e rendere il downloading più difficile (creando così un nuovo business e il boom di aziende come MediaDefender, nota per i suoi software di disturbo contro il peer-to-peer).

Un ex senatore americano, Horrin G. Hatch, ha addirittura proposto di distruggere i pc degli utenti dei siti peer-to-peer, perché «azzerare il computer di chi condivide file on line è l'unico modo per insegnare a qualcuno qualcosa sul copyright».

Una sorta di isteria collettiva, insomma, che dagli Stati Uniti arriva ai palazzi romani e alla nostrana Fapav, la Federazione contro la pirateria audiovisiva, che comprende quasi tutte le maggiori associazioni e case di produzione e di distribuzione cinematografica e televisiva che operano in Italia: da Medusa (cioè Mediaset) alla Rai, da Sky a Cinecittà Holding, ma ci sono dentro anche Sony Pictures, Paramount, Fox, Universal e così via, insomma tutte le major impegnate a tutelare i propri interessi. È la stessa Fapav che nel gennaio del 2010 trascina in via d'urgenza Telecom Italia davanti al Tribunale di Roma chiedendo al giudice di ordinarle di «inibire l'accesso a tutti i propri utenti» a una decina di siti attraverso i quali verrebbero rese disponibili opere cinematografiche protette da diritto d'autore. In pratica, nota il giurista Guido Scorza, attraverso la Fapav «l'industria ha ritenuto di poter arbitrariamente esercitare poteri investigativi sostituendosi all'autorità giudiziaria e alle forze di polizia e di poter così pedinare in rete milioni di ignari cittadini lungo le autostrade dell'informazione, acquisendo, registrando, archiviando e incrociando i dati personali di questi ultimi». Una gigantesca violazione della riservatezza e una illegittima attività di monitoraggio di massa. Ma, continua Scorza, «la privacy è solo uno dei profili dell'iniziativa della Fapav che non convincono. Il titolare dei diritti, infatti può, a tutto voler concedere, esigere che l'autorità giudiziaria ordini all'intermediario di adottare i provvedimenti necessari a interrompere la prosecuzione della specifica violazione contestata, e dunque l'inibitoria all'accesso a un singolo indirizzo internet che contraddistingua un determinato contenuto. Ma non può, in alcun caso — tanto più senza neppure convenire in giudizio i titolari dei siti in questione — esigere l'oscuramento di un'intera piattaforma di comunicazione elettronica, determinando così, di fatto, la cessazione dell'altrui attività di impresa e una forte restrizione dell'altrui esercizio della libertà di manifestazione del pensiero. Un simile provvedimento non è contemplato in alcuna norma di legge, e se lo fosse la relativa norma sarebbe in evidente contrasto con gli articoli 21 e 41 della Costituzione per violazione della libertà di manifestazione del pensiero e della libertà di impresa».

Insomma, nell'isteria collettiva contro lo scambio di file si arriva a violare la legge, se non la stessa Carta costituzionale: un bel paradosso per chi, in teoria, sostiene di voler combattere il fenomeno dell'illegalità in rete.


E se a volte funzionasse al contrario?

Ma il problema delle major e dell'industria audiovisiva è poi davvero internet? Perfino secondo Jay Berman, storico presidente di Ifpi (l'organizzazione internazionale che raccoglie gli industriali dell'industria fonografica), la risposta è un po' più sfumata: «L'accesso molto diffuso a siti illegali, reso più facile dalla crescita dell'offerta di banda larga nei principali mercati, ha colpito duramente un'industria che si trova già a dovere competere con altri settori di intrattenimento: ma allo stesso tempo grazie alla rete si stanno aprendo nuove ed eccitanti opportunità per la musica».

I dati di Jupiter Communication e di Ipsos-Reid rivelano ad esempio che chi scarica musica dalla rete compra anche più musica. Com'è possibile? Può accadere che l'appassionato ascolti in rete il brano di un gruppo sconosciuto e scopra di apprezzarne il sound, quindi sia invogliato ad acquistarne l'album presso un rivenditore autorizzato: anche perché, ammesso che sia in grado di scaricare l'album per intero e di masterizzarlo, i cd musicali casalinghi sono lungi dall'essere copie fedeli, e l'appassionato di musica non accetterà di ascoltare vibrazioni e fruscii dal suo lettore mp3. Oppure, può succedere che il musicofilo scarichi un brano e lo spedisca via internet a un amico: e questo sarà un reato, ma è anche una pubblicità assolutamente gratuita per l'artista, insomma è marketing virale, e magari l'amico poi si comprerà tutto l'album. O ancora, può essere che l'appassionato downloader scarichi il brano, lo masterizzi e decida di portarselo al mare: dovrà quindi comprare un masterizzatore, un cd-player o un lettore per mp3, magari prodotti dalla stessa azienda – facciamo il caso di Sony – che detiene i diritti musicali sui brani copiati. E in questo caso, a conti fatti, Sony ci ha perso o ci ha guadaganato con quel download illegale?

Insomma, le variabili sono tante e forse bisognerebbe tenerne conto quando le corporation, incontestate, sparano le loro cifre sui danni da mancato acquisto. Il Government Accountability Office americano (più o meno la nostra Corte dei Conti) ha scritto in un suo documento ufficiale, dopo un'approfondita ricerca, che l'assunto delle aziende secondo il quale «una copia scaricata è uguale a una non venduta» non ha alcun senso e non è provato né provabile in alcun modo.

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La lobby degli amanuensi contro Gutenberg

Nel 1448, quando il fabbro di Mainz Johannes Gutenberg finì di mettere a punto la macchina da stampa, il primo effetto fu di mettere in crisi il monopolio degli amanuensi nella riproduzione dei testi sacri. Ciononostante, si incominciò subito a stampare, dopo la Bibbia, anche le perdonanze papali, creando all'improvviso un mercato prima inesistente, quello delle indulgenze: seguirono le proteste di Martin Lutero e la riforma protestante, alla cui base c'era anche la possibiltà – prima molto più ridotta – che ogni fedele si rapportasse direttamente alla Bibbia senza l'intermediazione dei sacerdoti. Poi la stampa a caratteri mobili diede un gigantesco contributo al Rinascimento, favorendo l'affermazione del vernacolo e il declino del latino, il che a sua volta preparò l'Europa agli Stati nazione.

Se ne deduce che se la Bibbia fosse stata tutelata dal diritto d'autore e se la lobby degli amanuensi fosse riuscita a bloccare Gutenberg, forse saremmo ancora nel feudalesimo medievale.

E, naturalmente non si sarebbe mai avviato quel processo di trascinamento verso l'alfabetizzazione delle masse che la possibilità di leggere ciascuno la Bibbia ha determinato. Le élite aristocratiche e religiose del tempo, depositarie della parola di Dio, prima cercarono di fermare la diffusione della stampa, poi di controllarla, infine la adottarono come nuovo mezzo di comunicazione. Nei secoli seguenti, anche i sistemi sociali e legali degli Stati si adattarono al nuovo medium e vennero elaborati sistemi e limitazioni al diritto di riproduzione dei testi a stampa. Dopo un lungo braccio di ferro con gli «stationners», la regina Anna d'Inghilterra nel 1709 promulgò lo Statute of Anne, che era un modo di limitare il diritto degli editori di pubblicare pamphlet ed articoli per ottenere un controllo sui testi circolanti. Il copyright come lo conosciamo oggi era nato.

Dopo quelle della stampa, della radio e della tv, oggi stiamo vivendo una nuova rivoluzione, quella dei media digitali. Nel mondo ci sono più di un miliardo di siti web e centinaia di migliaia di blog e milioni di profili di utenti nei social network, con profonde implicazioni per i modelli di business tradizionali dell'industria dei media, poiché la tecnologia rivoluzionaria del web, innervata dal linguaggio digitale, consente a tutti di diventare non solo autori ma editori di se stessi e di rivolgersi a un'audience globale. Una trasformazione che ha visto l'affermarsi di una nuova figura di produttore-consumatore di cultura: il prosumer (producer e consumer), che si esercita giornalmente in una spropositata produzione di Ugc, gli User Generated Content del cosiddetto web 2.0.

Ma non per questo oggi si è smesso di comprare e leggere i libri. Anzi: oggi possiamo scegliere tra quelli cartacei e rilegati oppure possiamo ottenerne una copia digitale da leggere sul computer (o sui nuovi device come Kindle e iPad) magari per poi stamparcela in tutto o in parte a casa o in ufficio. Oppure possiamo spedirne il testo – o alcuni suoi brani – via internet a un amico. Certo, questa nuova possibilità di fruizione può determinare un decremento delle vendite e un più ridotto introito per chi con fatica l'ha scritto, corretto e pubblicato con dispendio di risorse (e di qui le Creative Commons) ma può anche diffondere l'abitudine alla lettura, proprio come lo sharing di brani può incrementare l'interesse per la musica.

Inoltre il commercio di testi digitali, il print on demand e gli e-book possono aprire nuovi mercati, consentendo di arrivare in località dove le librerie non ci sono o sono poco fornite e le biblioteche sono difficilmente raggiungibili. E ci permettono di rivolgerci a pubblici diversi, di altri Paesi, ci consentono di reperire e stampare testi ormai introvabili, di ridurre i costi di magazzino e di trasporto della preziosa carta: è il fenomeno della «coda lunga» di cui tanto ha parlato il direttore di «Wired» Usa Chris Anderson.

Insomma se guardiamo al passato vediamo che la rivoluzione di Gutenberg ha avuto un effetto democratizzante, ha consentito a popoli interi di leggere la Bibbia nella propria lingua e di liberarsi dall'oppressione di chi li voleva mantenere nella superstizione. La «penny press» ha avuto un ruolo altrettanto importante per l'alfabetizzazione delle masse, l'organizzazione di classe dei lavoratori e la nascita del sindacato, e ha anche permesso a molte persone di esprimersi creativamente. E, come spiega Alec Ross, uno dei guru digitali di Obama, «l'impatto culturale e sociale di internet non sarà minore dell'invenzione della stampa, che ha portato all'Illuminismo».

Dopodiché, certo, ogni mutamento benefico porta con sé anche effetti collaterali negativi: la stampa ha consentito la diffusione del Mein Kampf di Hitler e ha permesso la capillare propaganda dei regimi comunisti. Ma consente ancora oggi il confronto di idee e il dibattito democratico. E questo vale ancora di più per i media digitali.

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