Autore Paul A. M. Dirac
Titolo La bellezza come metodo
SottotitoloSaggi e riflessioni su fisica e matematica
EdizioneCortina, Milano, 2019, Scienza e idee 299 , pag. 128, cop.fle., dim. 14x22,5x1,3 cm , Isbn 978-88-3285-065-9
CuratoreVincenzo Barone
PrefazioneVincenzo Barone
TraduttoreFrancesco Graziosi
LettoreCorrado Leonardo, 2019
Classe matematica , fisica , storia della scienza , epistemologia












 

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Indice


L'anima pura della fisica
(Vincenzo Barone)                                         9

Cronologia di Paul A.M. Dirac                            39

Nota editoriale                                          43


La mia vita da fisico                                    45

La relazione tra la matematica e la fisica               61

L'evoluzione dell'immagine fisica della Natura           73

Speranze e paure                                         91

Lo sviluppo della concezione della Natura del fisico     97

L'influenza di Einstein nella fisica                    115

La verifica del tempo                                   121


Indice dei nomi                                         127


 

 

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Pagina 9

L'ANIMA PURA DELLA FISICA
LA FILOSOFIA NATURALE DI PAUL A.M. DIRAC


Vincenzo Barone



                                Perché un elettrone dovrebbe preferire
                                un'equazione bella a una brutta? Perché
                                l'universo dovrebbe danzare sulla musica di
                                Dirac? Con il suo stile di scoperta, Dirac ha
                                formulato queste domande in maniera più nitida
                                di chiunque altro. Ancor più di Newton e
                                Einstein, egli usò il criterio di bellezza come
                                un modo per trovare la verità.
                                                                  FREEMAN DYSON



Paure e coraggio


È difficile immaginare una concentrazione di intelletti paragonabile a quella che caratterizzò l'ambiente accademico di Cambridge nei primi due decenni del secolo scorso. Alle Tavole Alte dei Collegi sedevano - per fare solo qualche nome - personaggi del calibro di Bertrand Russell, Ludwig Wittgenstein, G.E. Moore, J.J. Thomson, Ernest Rutherford, G.H. Hardy, John Maynard Keynes, protagonisti della cultura filosofica e scientifica, ma anche della vita sociale della cittadina inglese. Improvvisamente, nel 1925, una nuova stella apparve in questo firmamento già straordinariamente ricco: una stella solitaria e diversa da tutte le altre, destinata a raggiungere in brevissimo tempo fama mondiale e a lasciare una traccia indelebile nella storia della scienza.

Quando l'articolo intitolato "The fundamental equations of quantum mechanics"` giunse a Göttingen, una delle capitali della fisica teorica dell'epoca, Max Born si chiese chi fosse quel P.A.M. Dirac, "Senior Research Student, St John's College", che aveva formulato con ammirevole lucidità e in modo autonomo la teoria su cui egli stesso stava lavorando da mesi assieme a due giovani assistenti, Werner Heisenberg e Pascual Jordan.

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Il principio di bellezza


Nel 1972 una straordinaria compagnia di fisici - comprendente almeno una dozzina di premi Nobel, passati o futuri - si riunì a Trieste per festeggiare il settantesimo compleanno di Dirac. Il discorso del banchetto ufficiale fu tenuto da un celebre alumnus di Cambridge, C.P. Snow, fisico, romanziere, pari del Regno Unito e autore del famosissimo saggio Le due culture. Snow incentrò il suo breve intervento sul concetto di "mente classica", la "suprema espressione dello spirito razionale dell'uomo". Le caratteristiche distintive di una mente di questo tipo - sostenne - sono la lucidità di pensiero, l'austerità e, soprattutto, uno spiccato senso estetico. Come massimo esempio di mente classica nella scienza del Novecento, Snow indicò per l'appunto Dirac e, accanto a lui, a un gradino più basso, pose G.H. Hardy , uno dei più grandi matematici di inizio secolo. Sul piano della personalità e del carattere, Hardy e Dirac erano agli antipodi: il primo era un colto e raffinato uomo di mondo, abile praticante del tipico sport intellettuale inglese, la conversazione arguta; il secondo era privo, o quasi, di interessi extrascientifici e patologicamente taciturno. I due condividevano, però, una profonda convinzione: che la scienza dovesse obbedire a rigorosi canoni estetici.

Snow raccontò di aver chiesto una volta a Hardy se avrebbe accettato una dimostrazione brutta del teorema di Goldbach. La secca risposta era stata: "È impossibile. Se fosse brutta, non potrebbe in alcun modo essere una dimostrazione del teorema di Goldbach". L' Apologia di un matematico di Hardy è in effetti un vero e proprio inno alla bellezza della matematica pura. Vi si legge, tra l'altro:

I modelli di un matematico, come quelli di un pittore o di un poeta, devono essere belli; le idee, come i colori o le parole, devono legarsi in modo armonioso. La bellezza è il requisito fondamentale: al mondo non c'è posto per la matematica brutta.


Nel campo della fisica teorica, la posizione di Dirac è identica: un ricercatore che tenti di scoprire le leggi fondamentali della Natura - scrive nel 1939 - "deve mirare soprattutto alla bellezza matematica". In seguito arriverà ad affermare che "è più importante che le equazioni siano belle piuttosto che in accordo con gli esperimenti", aggiungendo che "se si lavora con il proposito di ottenere equazioni dotate di bellezza, e si possiede un'intuizione davvero solida, si è sicuramente sulla strada del progresso".

Il principio di bellezza matematica è, per Dirac, una di quelle "credenze di base" cui i fisici teorici si aggrappano - "un po' come ci si potrebbe aggrappare a una fede religiosa" - quando devono avventurarsi su terreni incerti, e che cercano di incorporare nelle loro teorie, perché sentono che "la Natura è costruita in un certo modo". Esso svolge in fisica una duplice funzione: di guida euristica e di criterio valutativo. Nel contesto della scoperta, la bellezza determina la direzione e le priorità della ricerca, per esempio influenzando la scelta della matematica da adottare come base di una teoria. Nel contesto della giustificazione - ed è questa la tesi più forte -, la bellezza è la qualità che permette di giudicare una teoria, più ancora dell'accordo con le osservazioni.

L'esempio che Dirac predilige per illustrare il ruolo del principio di bellezza matematica è quello della relatività (ristretta e generale):

[Einstein] era guidato solo dal requisito che la teoria avesse la bellezza e l'eleganza che ci si aspetta di trovare in una descrizione fondamentale della Natura. Il suo lavoro muoveva esclusivamente dall'idea di come la Natura dovrebbe essere e non dalla necessità di dar conto di certi risultati sperimentali. [...] Il risultato di questo modo di procedere è una teoria di grande semplicità ed eleganza nelle sue idee di base. Ne deriva la netta convinzione che i suoi fondamenti devono essere corretti, del tutto indipendentemente dal suo accordo con le osservazioni.


C'è qui un punto che conviene chiarire. Dirac contrappone Il principio di bellezza matematica, impostosi con la teoria della relatività, al "principio di semplicità" - l'assunzione che le leggi fisiche debbano essere semplici -, cui obbedirebbe invece la fisica classica: la teoria relativistica sarebbe più bella, ma meno semplice, della teoria newtoniana. La semplicità che Dirac ha in mente nell'esprimere questo giudizio è la semplicità pratica, ossia la facilità di descrizione o di calcolo: le equazioni di Newton sono più semplici delle equazioni di Einstein in quanto la loro matematica è più elementare. Ma se si guarda alla semplicità logica, intesa come economia concettuale, il giudizio va capovolto: la teoria einsteiniana del moto e della gravità è più semplice in senso logico della teoria newtoniana, perché è minore il numero dei suoi concetti primari. La semplicità logica - la scoperta del minimo insieme di proposizioni generali da cui si possano dedurre tutte le uniformità esistenti in Natura - è lo scopo che John Stuart Mill , nel suo Sistema di logica (1843), attribuisce alla scienza, ed è bene ricordare quanto questo libro sia stato determinante nella formazione metodologica sia di Einstein sia di Dirac (il quale, in campo filosofico, non lesse pressoché nient'altro). Ora, mentre la semplicità pratica può confliggere con la bellezza (quando, per esempio, questa si manifesti attraverso una matematica sofisticata), la semplicità logica si accompagna sempre a essa, e anzi ne è una componente essenziale.

[...]

Il fisico, dunque, è autorizzato ad accettare una teoria bella che abbia ricevuto sul piano sperimentale un verdetto (temporaneamente) sfavorevole, e a rigettare una teoria brutta che sia invece empiricamente di successo. Rievocando alcune conversazioni avute con Dirac negli anni Trenta, George Gamow , pioniere della fisica nucleare, elaborò la seguente casistica dei rapporti tra teoria ed esperimento (e tra estetica ed empirismo):

Caso I. Se una teoria elegante è in accordo con gli esperimenti, non c'è da preoccuparsi.

Caso II. Se una teoria elegante è in disaccordo con gli esperimenti, gli esperimenti devono essere sbagliati.

Caso III. Se una teoria inelegante è in disaccordo con gli esperimenti, non tutto è perduto, perché perfezionando la teoria si può fare in modo che si accordi con gli esperimenti.

Caso IV. Se una teoria inelegante è in accordo con gli esperimenti, la situazione è senza speranza.


Quest'ultimo è, secondo Dirac, il caso dell'elettrodinamica quantistica di Feynman , Schwinger e Tomonaga, il cui strabiliante accordo con i dati è, a suo parere, del tutto fortuito, simile a quello della vecchia teoria quantistica di Bohr, che dava, in molti casi, risultati in linea con le osservazioni, pur essendo basata su un'idea - le orbite atomiche - che la meccanica quantistica matura avrebbe poi dimostrato essere sbagliata.

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È il momento di affrontare una questione cruciale: in che cosa consiste la bellezza di una legge fisica o di una teoria? Dirac afferma che essa non è definibile con precisione, non più di quanto lo sia la bellezza artistica, ma, diversamente da questa, "trascende i fattori personali" ed è "la stessa in tutti i paesi e in ogni tempo". Possiamo provare a tracciarne meglio i contorni ricostruendo la genesi dell'estetica scientifica del fisico inglese.

In Recollections of an Exciting Era, la nota autobiografica dedicata agli anni 1919-1930, Dirac ricorda di aver cominciato a sviluppare una profonda sensibilità per la bellezza matematica studiando, con Peter Fraser a Bristol, la geometria proiettiva - una geometria che non fa uso dei consueti concetti metrici (angoli, distanze, eccetera). Questa rimarrà una sorta di strumento privato di ricerca per Dirac, il quale dichiarerà di avere spesso ottenuto i suoi risultati ragionando geometricamente e di averli solo in un secondo momento tradotti nel linguaggio dell'algebra e dell'analisi, più familiare agli altri fisici.

Dirac continua a coltivare la geometria proiettiva a Cambridge, dove insegna Henry Frederick Baker, che ha appena avviato la pubblicazione dei Principles of Geometry, una monumentale opera in sei volumi. Baker è un esteta, tipico rappresentante di un milieu intellettuale profondamente influenzato dai Principia Ethica di Moore, e in particolare dall'idea che bello sia un valore morale supremo, tra i più degni di essere perseguiti. Non è un caso, dunque, che sia proprio al seminario matematico di Baker che un Dirac ventiduenne parla per la prima volta di "bellezza" di una legge fisica. Negli appunti manoscritti del suo intervento troviamo questo passo:

Il fisico moderno non ritiene che le equazioni con cui ha a che fare siano arbitrariamente scelte dalla Natura. C'è una ragione (che egli deve trovare) per cui esse sono quelle che sono: una ragione tale che, una volta scoperta, lo studio di queste equazioni risulterà più interessante di quello di tutte le altre. [...] Nel caso della teoria gravitazionale, per esempio, la legge dell'inverso del quadrato della distanza non riveste un maggiore interesse - bellezza? - per il matematico puro di qualunque altra legge di potenza. Ma la nuova legge di gravità [di Einstein] possiede una proprietà speciale, l'invarianza rispetto a trasformazioni generali di coordinate, ed essendo la sola semplice legge dotata di questa proprietà, può attrarre l'attenzione del matematico puro.


La legge einsteiniana della gravità - sottolinea qui Dirac - è bella agli occhi del fisico e del matematico perché combina due proprietà: è dettata da un principio di ordine superiore (una simmetria, l'invarianza generale di coordinate) ed è la più semplice legge compatibile con tale principio. Essa possiede dunque un elevato grado di necessità, o inevitabilità (non potrebbe essere diversa da come è), e di semplicità (descrive con il minimo numero di concetti un'ampia varietà di fenomeni). Sono questi gli ingredienti della bellezza per il giovane Dirac. È una formula estetica presente sotto traccia anche nei suoi scritti successivi, come si evince dall'accento che egli pone sulle simmetrie (quella relativistica in particolare) quali elementi costitutivi delle teorie fisiche dotate di bellezza.

Le simmetrie - e altri princìpi simili di grande generalità -, in quanto "leggi che le leggi di Natura devono osservare" (l'espressione è di Eugene Wigner), sono fattori che determinano e semplificano le teorie, fornendo loro quella particolare qualità che consiste - come afferma Steven Weinberg - nella "bellezza di una struttura perfetta, in cui tutte le parti si adattano l'una all'altra e niente può essere cambiato - la bellezza della rigidità logica".

Se spiegare qualcosa significa acquisire delle ragioni per cui quel qualcosa deve essere così com'è e non altrimenti, allora i princìpi primi come le simmetrie spiegano le leggi fisiche, e una teoria bella, cioè una teoria semplice e necessaria basata su princìpi di questo genere, è più esplicativa, nel senso che rende la Natura meno contingente. Per questo "il criterio estetico non è solo un mezzo per trovare delle spiegazioni scientifiche e giudicare la loro validità, ma è parte integrante di ciò che intendiamo per spiegazione". Dovremmo allora convenire con Dirac che la fisica, nel suo cammino verso una spiegazione sempre più completa dei fenomeni naturali, non può che tendere a una crescente bellezza.

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Un "moderno aristotelico"?


Una rivoluzione scientifica di cui Dirac non è protagonista ma attento osservatore è la nascita della cosmologia contemporanea, determinata, da un lato, dalla relatività generale di Einstein, dall'altro, da due risultati di grande rilievo: la scoperta, da parte di Edwin Hubble nel 1929, che le galassie si allontanano con una velocità proporzionale alla loro distanza, segno di un'espansione cosmica, e l'ipotesi, avanzata da Georges Lemaitre nel 1931, di una singolarità iniziale (l'"atomo primitivo") da cui sarebbe scaturito l'universo così come lo conosciamo (questa idea, rivisitata da Gamow nel 1948, ha poi dato origine alla teoria del Big Bang).

Dirac dà alla cosmologia un unico contributo, che rappresenta una sfida a quello che egli ritiene un pregiudizio infondato: l'invariabilità nel tempo della fisica. Se l'universo è in evoluzione - questo il suo argomento - non c'è alcun motivo per credere che le leggi che lo descrivono siano rimaste le stesse dalla sua origine a oggi, cioè su una scala temporale di alcuni miliardi di anni. Negli articoli cosmologici del 1937 - una brevissima lettera su Nature e un lavoro più lungo sui Proceedings of the Royal Society - Dirac parte dalla constatazione che il rapporto tra l'intensità della forza elettromagnetica e quella della forza gravitazionale è un numero molto grande, dell'ordine di 10^39. Secondo Dirac, le leggi della Natura non possono contenere numeri arbitrariamente grandi: la loro comparsa deve essere accidentale, legata a qualche circostanza contingente. Il fatto che l'età attuale dell'universo, misurata in unità atomiche di tempo, sia pari proprio a 10^39 suggerisce un legame tra le due quantità: la forza elettromagnetica sarebbe molto più intensa della forza di gravità solo perché la osserviamo in un'epoca tarda (in unità atomiche di tempo) rispetto alla nascita dell'universo. Questa ipotesi ha una conseguenza immediata e, in linea di principio, controllabile: l'intensità della forza gravitazionale, misurata dalla costante di Newton G, dovrebbe gradualmente diminuire. L'effetto sarebbe quantitativamente piccolissimo, ma, se osservato, segnalerebbe che la fisica non è immutabile.

Dirac prevedeva che G variasse in maniera inversamente proporzionale all'età dell'universo. Ma nel 1948 Edward Teller fece notare che ciò era inammissibile. Se l'andamento fosse quello, visto che la luminosità del Sole cresce rapidamente con G, la temperatura della superficie terrestre sarebbe stata in passato molto più alta, raggiungendo, 500 milioni di anni fa, valori tali da rendere impossibile l'esistenza di organismi viventi, un fatto in palese contraddizione con le prove fossili. Ciononostante, Dirac rimase affezionato all'idea di un cambiamento nel tempo di G e continuò a promuoverla, anche se non più nei termini originari. Il suo lavoro del 1937 diede comunque inizio a una serie di ricerche sulla variazione delle costanti di Natura che hanno avuto interessanti ripercussioni in cosmologia e in teoria della gravitazione, e sono ancora di grande attualità.

L'ipotesi dei grandi numeri di Dirac si collocava in un particolare contesto scientifico: quello contrassegnato, a metà degli anni Trenta, dal tentativo sistematico, messo in atto da Arthur Stanley Eddington, di derivare le costanti di Natura da considerazioni a priori (con esiti piuttosto discutibili e una deriva chiaramente numerologica), e dagli studi di Edward Milne, volti a dedurre razionalmente le leggi dinamiche dal principio di omogeneità dell'universo, senza il bisogno di informazioni empiriche. Tutti questi approcci teorici furono violentemente criticati, poco dopo la comparsa dell'articolo di Dirac su Nature, dal fisico Herbert Dingle, che parlò di un "moderno aristotelismo", denunciando il rifiorire, tra i suoi colleghi, della dottrina secondo cui "la Natura è il prodotto visibile di princìpi generali noti alla mente umana indipendentemente dalla percezione sensoriale". Agli esponenti di quella che considerava una vera e propria "cosmolatria", accomunati dal disinteresse per le osservazioni e da una smodata venerazione per i "princìpi" e per la matematica, Dingle opponeva la lezione di Galileo, secondo cui la Natura "nulla cura che le sue recondite ragioni e modi d'operare sieno o non sieno esposti alla capacità degli uomini".

Il principale bersaglio polemico di Dingle era l'idealista Eddington che, nella sua opera più controversa, Relativity Theory of Protons and Electrons, apparsa l'anno prima (1936), aveva scritto:

Non c'è niente nell'intero sistema delle leggi fisiche che non possa essere dedotto in modo non ambiguo da considerazioni epistemologiche. Un'intelligenza che non conosca il nostro universo, ma che conosca il sistema di pensiero con il quale la mente umana interpreta per se stessa il contenuto della sua esperienza sensoriale, dovrebbe essere in grado di conseguire tutta la conoscenza della fisica che abbiamo ottenuto mediante l'esperimento.


Dirac, nel 1939, avrebbe sostenuto - come abbiamo visto - qualcosa di simile, mettendo però la "conoscenza completa della matematica" al posto delle "considerazioni epistemologiche" e dei "sistemi di pensiero".

Eddington rispose all'attacco di Dingle ribadendo orgogliosamente la propria epistemologia non galileiana. "Gran parte dello schema attuale della fisica - scrisse - è deducibile da argomenti a priori e quindi non costituisce una conoscenza di un universo oggettivo". Non c'è, secondo Eddington, alcun elemento oggettivo nelle leggi di Natura e nelle costanti universali; l'oggettività risiede solo "nei dettagli dei sistemi e degli eventi particolari", e sono questi a essere forniti dall'osservazione.

Alieno da questo genere di considerazioni filosofiche, Dirac replicò a Dingle con una semplice dichiarazione di circostanza:

Lo sviluppo efficace della scienza richiede il giusto equilibrio tra due metodi: da un lato, la costruzione a partire dalle osservazioni, dall'altro, la deduzione - mediante il puro ragionamento - da ipotesi congetturali. Penso che il mio lavoro soddisfi questo requisito.

Ma è indubbio che tra i due metodi della fisica teorica - quello bottom-up, che muove da una base fenomenologica, e quello top-down, che muove da princìpi generali e da una base matematica - la sua preferenza andasse nettamente al secondo, che seppe elevare a vette di ineguagliabile virtuosismo. "Sembrava in grado di far apparire le leggi della Natura dal puro pensiero - ha detto di lui Freeman Dyson - ed è stata questa purezza a renderlo unico".

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Pagina 35

Proprio nei giorni in cui Dirac moriva, nell'autunno del 1984, questo obiettivo sembrò essere a portata di mano: due fisici, lo statunitense John Schwarz e il britannico Michael Green (che avrebbe in seguito occupato la stessa prestigiosa cattedra di Dirac a Cambridge, quella lucasiana di matematica, già di Newton), dimostrarono che una teoria quantistica di minuscole corde vibranti, le "stringhe", dotata di una simmetria chiamata "supersimmetria" e contenente una sola costante (la tensione delle stringhe), non solo unificava le particelle e le forze, ma era priva di infiniti e matematicamente coerente. Per un po', il sogno di Dirac parve avverarsi. Lee Smolin ha descritto efficacemente gli umori della comunità dei fisici durante la "rivoluzione delle stringhe" del 1984:

La sensazione era che potesse esistere soltanto una teoria coerente per unificare tutta la fisica e, dato che la teoria delle stringhe sembrava farlo, doveva essere corretta. Non si doveva più dipendere dagli esperimenti per verificare le teorie! Quella era roba da Galileo. Ormai bastava la matematica per esplorare le leggi della Natura. Eravamo entrati nell'era della fisica post-moderna.


Ben presto, però, si scoprì che la teoria delle stringhe era meno univoca di quanto si credesse: c'erano tante teorie possibili, tutte ugualmente valide, e una notevole arbitrarietà nella geometria dello spazio-tempo in cui vivono le stringhe. Il grande salto, insomma, non si era compiuto, e appare tuttora lontano.

La strada percorsa dai teorici delle stringhe è stata quella che Dirac aveva immaginato: nuove matematiche e nuove idee sulle entità fisiche fondamentali. Ma egli considerava illusoria la speranza dí arrivare a una descrizione completa del mondo con una singola mossa teorica.

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LA RELAZIONE
TRA LA MATEMATICA E LA FISICA
(1939)



Nello studio dei fenomeni naturali, il fisico ha due metodi per compiere dei progressi: 1) il metodo dell'esperimento e dell'osservazione; 2) il metodo del ragionamento matematico. Il primo consiste essenzialmente nella raccolta di dati selezionati; il secondo permette di fare predizioni su esperimenti che non sono stati ancora effettuati. Non c'è alcuna ragione logica per cui il secondo metodo debba essere possibile, ma si è scoperto nella pratica che esso funziona e produce buoni risultati. Ciò va attribuito a qualche qualità matematica nella Natura, che l'osservatore casuale non sospetterebbe, ma che nondimeno svolge un ruolo importante nello schema della Natura.

Si potrebbe descrivere la qualità matematica nella Natura dicendo che l'universo è costituito in modo tale che la matematica è uno strumento utile per la sua descrizione. Tuttavia, alcuni progressi recenti della fisica mostrano che questa è un'affermazione troppo superficiale. Il collegamento tra la matematica e la descrizione dell'universo va molto più in profondità, e lo si può cogliere appieno solo grazie a un esame scrupoloso dei vari fatti che lo strutturano. Lo scopo principale del mio discorso sarà quello di illustrare tutto ciò. Tratterò del modo in cui le opinioni dei fisici al riguardo sono state gradualmente modificate dai recenti sviluppi nella fisica, e farò poi qualche congettura sul futuro.

Prendiamo come punto di partenza lo schema della scienza fisica che era accettato da tutti nel secolo scorso, lo schema meccanicistico. Esso considera l'intero universo come un sistema dinamico (ovviamente di estrema complessità), soggetto a leggi del moto che sono essenzialmente di tipo newtoniano. Il ruolo della matematica in questo schema è quello di rappresentare le leggi del moto tramite equazioni, e di ottenere per esse delle soluzioni in riferimento alle condizioni osservate.

[...]

Quello che rende la teoria della relatività così accettabile per i fisici, sebbene essa infranga il principio di semplicità, è la sua grande bellezza matematica. Questa è una qualità che non si può definire, non più di quanto si possa definire la bellezza nell'arte, ma che gli studiosi di matematica non hanno alcuna difficoltà a percepire. La teoria della relatività ha introdotto - in una misura che non ha precedenti - la bellezza matematica nella descrizione della Natura. La relatività ristretta ha cambiato le nostre idee di spazio e di tempo in un modo che si può riassumere dicendo che il gruppo di trasformazioni cui è soggetto il continuum spazio-temporale non è più il gruppo di Galileo, ma quello di Lorentz. Questo secondo gruppo è molto più bello del primo - anzi, da un punto di vista matematico, il primo è un caso speciale degenere del secondo. La teoria della relatività generale prevede un altro passaggio abbastanza simile, ma in questo caso l'incremento in bellezza è considerato minore che nella teoria ristretta, con il risultato che la teoria generale è accettata con meno decisione.

Vediamo così che occorre trasformare il principio di semplicità in un principio di bellezza matematica. Il ricercatore, nel suo sforzo di esprimere matematicamente le leggi fondamentali della Natura, deve mirare soprattutto alla bellezza matematica. Deve prendere ancora in considerazione la semplicità, ma subordinandola alla bellezza (Einstein, per esempio, nello scegliere una legge di gravità, prese quella più semplice compatibile con il suo continuum spazio-temporale, ed ebbe successo). Accade spesso che i requisiti di semplicità e bellezza coincidano, ma laddove entrino in conflitto, il secondo deve avere la precedenza.

[...]

Consideriamo ora la portata della qualità matematica nella Natura. Secondo lo schema meccanicistico della fisica o la sua modifica relativistica, per la descrizione completa dell'universo occorre non soltanto un sistema completo di equazioni del moto, ma anche un insieme completo di condizioni iniziali, ed è solo alle prime che si applicano le teorie matematiche. Le seconde sono ritenute non trattabili da un punto di vista teorico e determinabili solo tramite l'osservazione.

L'enorme complessità dell'universo è attribuita a un'enorme complessità delle condizioni iniziali, cosa che le colloca oltre l'ambito della discussione matematica.

[...]

Questa situazione insoddisfacente viene peggiorata dalla nuova meccanica quantistica. Malgrado la stretta analogia tra i loro formalismi matematici, la vecchia meccanica e la meccanica quantistica differiscono drasticamente circa la natura delle loro conseguenze fisiche. Secondo la vecchia meccanica, il risultato di qualunque osservazione è determinato e lo si può calcolare teoricamente a partire da certe condizioni iniziali; ma con la meccanica quantistica c'è in genere un'indeterminazione, dovuta alla possibilità che si verifichi un salto quantico, e il massimo che si può calcolare è solo la probabilità di ottenere un particolare risultato. La questione di quale risultato si conseguirà in uno specifico caso risiede al di fuori della teoria. Ciò non deve essere attribuito a un'incompletezza della teoria, ma è essenziale per l'applicazione di un formalismo come quello della meccanica quantistica.

Dunque, secondo la meccanica quantistica abbiamo bisogno, per una descrizione completa dell'universo, non solo delle leggi del moto e delle condizioni iniziali, ma anche delle informazioni su quale salto quantico si verifica in ciascun caso. Queste informazioni devono essere incluse, insieme alle condizioni iniziali, nella parte di descrizione dell'universo che risiede al di fuori della teoria matematica.

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LA VERIFICA DEL TEMPO
(1979)



Le grandi scoperte scientifiche si fanno in due modi. Talvolta i tempi sono maturi per una certa scoperta e molti sono già sulla pista giusta. La ricerca diventa allora una gara, e chi la vince si aggiudica il merito della scoperta. Se scorrete la lista dei vincitori del Nobel, vedrete che spesso i premi sono assegnati a due o tre persone che hanno lavorato sullo stesso argomento e il merito viene diviso tra i vincitori della gara. Questo tipo di scoperta è tale che, se la persona che l'ha realizzata non fosse mai esistita, presto sarebbe stata compiuta da qualcun altro.

C'è poi un altro tipo di scoperta scientifica in cui un individuo lavora da solo, segue nuove linee di pensiero per conto proprio, senza rivali né concorrenti. Si inoltra in nuovi ambiti di pensiero che nessuno ha mai esplorato in precedenza. Il lavoro di Einstein è perlopiù di questo tipo. Se non fosse esistito Einstein, le sue scoperte non sarebbero state fatte da altri per molti anni o molti decenni. Einstein, da solo, ha cambiato completamente il corso della storia della scienza.

La teoria della relatività di Einstein rimase sconosciuta, salvo che a pochi specialisti, fino alla fine del 1918, al termine della Prima guerra mondiale. Fu allora che quella teoria irruppe con un impatto straordinario. Presentò al mondo un nuovo modo di pensare, una nuova filosofia. Arrivò in un periodo in cui tutti, vincitori e vinti, erano stanchi della guerra. La gente voleva qualcosa di nuovo. La relatività venne incontro a questo desiderio, diventando un tema centrale del discorso pubblico. Consentiva alla gente di dimenticare per un po' gli orrori della guerra appena terminata.

[...]

Di recente, ai tre controlli empirici classici se ne è aggiunto un quarto. Riguarda il tempo impiegato dalla luce a passare vicino al Sole. La teoria di Einstein prevede un rallentamento. Questo si può osservare proiettando onde radar verso un pianeta posto dietro al Sole, e poi osservando il tempo impiegato dalle onde riflesse a tornare sulla Terra. Con l'uso delle onde radar il ritardo è ancora una volta influenzato dalla corona, e di nuovo dobbiamo usare due lunghezze d'onda diverse per separare l'effetto della corona da quello relativistico. Le osservazioni sono state compiute da Irwin Shapiro e forniscono un'ulteriore conferma della teoria di Einstein.

Questo elenco dei successi della teoria di Einstein è impressionante. In ciascun caso la validità della teoria è confermata, con maggiore o minore precisione a seconda delle osservazioni e delle incertezze che esse comportano.

Supponiamo ora che compaia una discrepanza, ben accertata, tra teoria e osservazione. Come bisognerebbe reagire? Come avrebbe reagito lo stesso Einstein? Dovremmo ritenere la teoria essenzialmente sbagliata?

Direi che la risposta all'ultima domanda è un no deciso. Chiunque apprezzi la fondamentale armonia che esiste tra il modo in cui funziona la Natura e alcuni principi matematici generali non può non sentire che una teoria di tale bellezza ed eleganza deve essere sostanzialmente corretta. Se dovesse apparire una discrepanza in qualche sua applicazione, essa non potrebbe che essere causata da qualche aspetto secondario di quell'applicazione, non adeguatamente considerato, e non da un fallimento dei princìpi generali della teoria.

Einstein, nel costruire la sua teoria della gravitazione, non cercava di spiegare qualche risultato osservativo. Al contrario. Tutto il suo modo di procedere tendeva alla ricerca di una teoria bella, una teoria come l'avrebbe scelta la Natura. Era guidato solo dal requisito che la teoria avesse la bellezza e l'eleganza che ci si aspetta di trovare in una descrizione fondamentale della Natura. Il suo lavoro muoveva esclusivamente dall'idea di come la Natura dovrebbe essere e non dalla necessità di dar conto di certi risultati sperimentali.

Ovviamente, ci vuole un vero genio per poter immaginare come debba essere la Natura affidandosi soltanto al pensiero astratto. Einstein ne era capace. In qualche modo egli ebbe l'idea di collegare la gravitazione alla curvatura dello spazio. Riuscì a sviluppare uno schema matematico che incorporava quell'idea. Era guidato solo da considerazioni relative alla bellezza delle equazioni. Il risultato di questo modo di procedere è una teoria di grande semplicità ed eleganza nelle sue idee di base. Ne deriva la netta convinzione che i suoi fondamenti devono essere corretti, del tutto indipendentemente dal suo accordo con le osservazioni.

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