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| << | < | > | >> |IndicePrefazione di Giulio Giorello 7 Introduzione 11 PRIMA DELLA FILOSOFIA Curiosità e testimonianze 17 FILOSOFIA ANTICA Le origini 25 Socrate e Platone 33 Aristotele 42 Ultime voci della grecità 46 Il mondo romano, tra poesia e filosofia 51 TRADIZIONE BIBLICA E MEDIOEVO CRISTIANO I testi sacri 59 Da S. Agostino a S. Tommaso 66 FILOSOFIA MODERNA Il Rinascimento 79 Michel de Montaigne 95 Il vino secondo la "nuova" scienza: Galilei e Descartes 101 Razionalismo 105 Empirismo 109 Lumi di-vini: il Settecento 115 Immanuel Kant: Criticismo enoico 121 EBBREZZE DELLO SPIRITO Furori romantici 131 Fichte 139 Schelling, Hegel 144 Soren Kierkegaard 150 Schopenhauer, Leopardi 155 Rosso di-vino: ebbrezze e rivoluzioni 161 Da Baudelaire a Nietzsche: il sapore di una nuova Aurora 166 IL NOVECENTO: BEVITORI ERRANTI ED ENOLOGIE POSTMETAFISICHE Martin Heidegger 181 La Vienna d'inizio secolo: Wittgenstein e Freud 189 Walter Benjamin: l'ebbrezza e la sua "aura" 196 Ebbrezze dionisiache nella Parigi degli esistenzialisti 202 Gilles Deleuze o dell'ebbrezza esemplare 210 Georges Bataille o dell'ebbrezza maledetta 215 Michel Foucault: ebbrezza e follia 219 Theodor W. Adorno: ebbrezza e negazione dialettica 222 Epilogo 227 |
| << | < | > | >> |Pagina 11Filosofia e scienza, filosofia e morale, filosofia e diritto... In una compagnia tanto illustre e ormai da tempo codificata, potrebbe apparire singolare questo nuovo binomio: filosofia e vino, o, più esattamente, filosofia del vino. Pure, a ben guardare, seppure inconsueto, il binomio è tutt'altro che ingiustificato, poiché il rapporto tra vino e filosofia può aiutarci a far luce su uno degli aspetti fondamentali e più affascinanti del vero filosofare. Da sempre infatti lo spirito più autentico della filosofia è caratterizzato da una essenziale oscillazione: teso a disegnare i confini della misura consentita, di quello che può essere definito buono e vero, è a un tempo irresistibilmente chiamato a infrangerli. Se per la filosofia il problema è quello della misura, sarebbe tuttavia difficile negare che possano essere dette cose assennate e credibili intorno alla "misura" soltanto partendo da una prospettiva radicalmente "smisurata". Bisogna porsi di là dalla misura per essere in grado di misurarla. O, in altre parole, la misura non può essere misurata se non alla luce del suo oltre. Poste queste premesse, dovrebbe apparire quasi inevitabile la conclusione che gli effetti di un sano abbandono ai piaceri del vino, con la loro conseguente dis-misura, possano essere considerati parte integrante di una esperienza genuinamente filosofica. Soltanto chi li abbia sperimentati, con quella moderazione che molte menti del passato giudicavano condizione indispensabile perché la familiarità con il vino debba dirsi positiva, potrà ragionevolmente farsi consapevole del limite che separa il bene dal male o il vero dal falso. La bevanda tratta dalla vite ha infatti tutti i requisiti per essere assunta come icona dell' ambiguità che esprime il senso più profondo del vero. Nessuna autentica esperienza di verità ha mai realmente sopportato - sebbene si siano adottate le strategie più diverse per dimostrare il contrario - le univoche strettoie in cui spesso ci racchiude il dominio di una ragione troppo sobria per essere davvero credibile. Non a caso il vino, che può aiutarci a uscire dai confini di quelle strettoie, a superare la limitatezza di una ragione troppo sobriamente umana, veniva originariamente chiamato "nettare degli dei", e il nome esprimeva un vero e proprio simbolo sacro. Mentre il modo, le forme in cui la bevanda veniva di volta in volta assunta costituiscono una significativa cartina di tornasole per comprendere il modo di essere più generale nel quale di volta in volta si è espressa la vita degli uomini sin dai tempi più antichi. Se è infatti vero che il vino comincia ad acquisire una serie di importanti significati proprio da quando la cultura filosofico-religiosa (e quella poetico-letteraria) lo assumono quale simbolo di precise esperienze rituali, di rigorose pratiche conoscitive, non è meno vero che il suo utilizzo risale a tempi assai più remoti. Ricerche archeologiche attente hanno ormai provato che la vitis vitifera, pianta rampicante che cresceva spontanea nelle foreste e che è certamente all'origine di quei preziosi e delicati arbusti che sarebbero poi stati coltivati per ottenere il "nettare degli dei", affondava le sue radici nella terra già trecentomila anni fa. E nasce allora spontanea la curiosità di immaginare quale fu la sorpresa di chi per primo assaggiò il succo spremuto dal frutto di quella pianta, rimasto a lungo in qualche rudimentale contenitore. Dovette senza dubbio avvertire, quel primo "assaggiatore" (se davvero è esistito un primo "assaggiatore"), che il succo si era radicalmente trasformato, aveva preso un gusto affatto diverso, provocando una condizione strana, e certamente piacevole, che altri, dopo di lui, avrebbe definito "ebbrezza", rendendo il cervello "perspicace, vivo, inventivo, pieno di forme agili, ardenti e dilettevoli". Fonte di ebbrezza, il vino si trovò presto a svolgere un ruolo tutt'altro che indifferente nell'esercizio di pratiche religiose legate a quell'irrinunciabile desiderio di superamento dei consueti schemi quotidiani che sembrava poter condurre a un vero e proprio contatto con la divinità. Vino e spiritualità, dunque; vino e conoscenza. E sarebbe forse possibile non passare dall'accostamento con la conoscenza a quello con la filosofia? | << | < | > | >> |Pagina 28In breve, è l'influsso del nettare dionisiaco a permettere di accedere a quello che costituisce il fine più vero dei riti orgiastici e insieme purificatori connessi alla divinità dell'ebbrezza: un rapporto di perfetta "unità" con il proprio oggetto, e quindi con l'altro da se stessi.L'effetto dell'assunzione di una adeguata (ma certamente non eccessiva) quantità di vino sembra in ultima analisi costituito da una migliore visione o esperienza dell' unità - visione che in condizioni normali sarebbe destinata a sottrarsi alla potenza del vedere. L'unità, infatti, è originariamente "indeterminata". Di conseguenza, un intelletto sano, sobrio, può concepirla soltanto "concettualizzandola", rendendola "determinata", tradendo così la sua vera natura. Se, al contrario, la facoltà di comprendere viene portata all'estremo, viene fatta esplodere affinché lasci spazio a una compiuta epopteia (la contemplazione, intesa, nei Misteri Eleusini, come ultimo grado del processo di unione con il divino), l'unità potrà essere concepita, attinta, nella sua originaria indeterminatezza. Ma l'essere umano, con le sue sole forze, non può giungere a tanto; diventa allora necessaria la vis, la forza custodita nella sostanza eccitante di cui è impregnato il nettare degli dei. Ne era pienamente consapevole anche Platone. Con lui giungiamo in ambito più strettamente filosofico. Sulla scorta degli insegnamenti del pitagorico Archita (govenatore di Taranto), e di Socrate, Platone avrebbe infatti indicato nelle libagioni, di vino, ma anche più in generale di alcolici, la premessa adeguata di ogni seria meditazione filosofica. E non vi è da stupirsi che proprio da un pitagorico Platone abbia appreso la via dal vino alla filosofia, se la giornata ideale del pitagorico era in verità quale la descrive il filosofo neoplatonico Giamblico. Inaugurata da passeggiate solitarie in luoghi tranquilli, quali templi e boschi, o in ambienti gradevoli e rasserenanti (i pitagorici pensavano di dover disporre convenientemente il loro animo prima di stabilire un contatto con altre persone), la giornata veniva dedicata innanzitutto all'attività sociale dell'insegnamento e dell'apprendimento. La colazione doveva essere frugale, con pane, miele e decotto di mele, e durante il giorno non era concesso gustare vino. Ci si occupava poi degli affari della città fino a sera, e dopo aver ripreso a passeggiare, non più da soli, ma in piccoli gruppi, gli adepti delle teorie pitagoriche avevano l'obbligo di ritornare sugli insegnamenti ricevuti, esercitandosi in "buone azioni". Poi si concedevano il piacere di un bel bagno, e infine sedevano a mense comuni, in gruppi di dieci. Soltanto a questo punto entrava in scena la libagione. Una volta riunitisi tutti - afferma Giamblico - facevano libagioni e sacrifici con profumi e incenso. Poi iniziava il pranzo. Allora bevevano vino mangiando focaccia, pane, carne, verdure cotte e crude. Si nutrivano della carne degli animali che era lecito sacrificare agli dei: raramente consumavano pesce. Finito il pranzo, libavano; quindi leggevano. Era consuetudine che il più giovane leggesse e il più vecchio sorvegliasse la lettura, spiegando che cosa e come si doveva leggere. Al momento di congedarsi, il coppiere versava altro vino per libare; infine il più vecchio recitava una formula di rito e ognuno rientrava nella propria casa. Un modo, come si vede, minuziosamente ordinato di vivere le proprie giornate e di consumare la bevanda propizia alle meditazioni filosofiche. | << | < | > | >> |Pagina 36Socrate non poteva dunque non farsi testimone di un radicale rovesciamento di prospettiva; non poteva non apparire altro da quello che era. Anche nel suo rapporto con il bere: all'apparenza un ubriacone, in verità immune dagli effetti che l'eccesso del bere avrebbe provocato in ogni essere umano.Al termine del banchetto, in un'ultima sottolineatura dell'eccezionalità di Socrate uomo parallela all'eccezionalità della sua filosofia, quando tutti sono irrimediabilmente ubriachi, il filosofo, ancora e sempre padrone di sé, mette gli altri a dormire e se ne va al Liceo dove, dopo essersi lavato, "trascorse tutta la giornata come le altre volte" (Simposio, 223 d). Il "divino" Socrate - così veniva definito dai suoi seguaci - sfugge alle leggi della causa e dell'effetto. Come, con la parola, in quel dialogare continuo che è il suo modo di fare filosofia, coglie di sorpresa l'ascoltatore; così, nella sua persona, vanifica le leggi naturali, sottraendosi alle conseguenze consuete di un bere eccessivo. Non si ubriaca, non esce di senno, non va fuori di sé. Al contrario, quel sé che si interroga e dubita e interroga gli altri, sembra venire rafforzato dagli effetti del bere. Egli appare convinto che lo stato di ubriachezza cui si era soliti associare la più radicale impossibilità di essere veramente se stessi offra piuttosto la possibilità di una più autentica manifestazione di ciò che davvero si è. Nel vino dunque è la verità, anche la verità del proprio io. | << | < | > | >> |Pagina 79Agli inizi del Cinquecento (1509), Erasmo da Rotterdam, per ingannare la noia durante un viaggio di ritorno dall'Italia, compose L'elogio della follia. Parlando in prima persona, la Follia si autoelegge "fonte del primo e principale piacere della vita"; d'altra parte, si chiede, "varrebbe la pena di chiamare vita la vita se non ci fosse il Piacere?"; e non a caso - ribadisce - il grande Sofocle avrebbe scritto: "La vita è più bella quando non si ragiona." Parole che non possono non sorprendere, paragonate a quelle, appena rievocate, di Agostino o Tommaso. La verità è che, concluso il periodo medioevale, si assiste, nei rapporti tra filosofia e vino, a un vero e proprio rovesciamento di prospettiva. La civiltà occidentale ripensa in termini ben diversi l'accezione puramente metafisico-teologica che il tema del bere aveva assunto dopo i fasti dell'ebbrezza celebrati con tanta forza dall'antichità pagana quanto meno sino all'irrompere del severo rigorismo stoico o più generalmente ellenistico. Si tornano a guardare le cose secondo una prospettiva più definita e concreta. Si torna a guardare allo stesso fenomeno della follia connessa alla pratica del bere ricavandone nuove e importanti verità. I filosofi, in breve, si propongono di cominciare a prendere in seria considerazione le faccende umane per quello che sono in se stesse, iuxta propria principia. Tra gli altri, Erasmo si servì del suo Elogio per porre fine alla abitudine, ormai troppo diffusa, di spacciare le cose per quello che non sono, proponendosi di smascherare le ipocrisie della società dei dotti (particolarmente poco graditi dovevano essere ai suoi occhi gli Stoici e il loro "falso" rigorismo morale) e più in generale dell'umanità tutta intera. Senza il condimento della Follia, afferma, sembra non potersi fare esperienza, di alcun piacere. Di conseguenza, il bere in allegra compagnia gli appare una delle cose più belle che siano mai state inventate. | << | < | > | >> |Pagina 227Il nostro cammino lungo il percorso della filosofia del vino e del vino nella filosofia è giunto al termine. Si è trattato di un cammino spesso complesso, poiché complesso è il rapporto del vino con la filosofia; variegato e articolato come non poteva non essere per un argomento che tocca il cuore della riflessione occidentale: quello della giusta misura e della felicità intesa come esperienza di un "bene" cui ogni ricerca intorno all'uomo sembra irrevocabilmente destinata. Come ricerca della eu-daimonia, la filosofia è nata con Socrate; ma la parola greca per indicare tale ricerca del piacere dice che, a essere chiamato in causa, è un "demone" (daimon), seppure "buono", "benefico" (come sta a indicare il prefisso eu), lo stesso da cui Socrate si sentiva spesso chiamato dal profondo della propria anima (psyche). Un "demone" era per il Socrate narrato da Platone lo stesso Eros. Né uomo né dio, dunque, figura intermedia qual è infatti il "demone", che connette illimitato all'illimitato, il sacro al profano, l'immutabile al transeunte. Di conseguenza, la felicità e il piacere alludono già in Socrate, e quindi in Platone, a una figura "mista". Per la stessa ragione, anche l'ebbrezza dovuta al vino non può non alludere a una tale complexio. Da qui il valore paradigmatico assunto dall'ebbrezza (o dalla semplice assunzione di vino) sin dalle origini mitiche della nostra civiltà. Soprattutto per il tipo di conseguenze che può provocare sulla nostra percezione del mondo e della vita in generale. Per questo, la possibilità di misurarsi con il graduale processo di "liberazione" sensoriale e intellettuale provocato dall'assunzione della bevanda cara a Dioniso doveva diventare la più affidabile cartina di tornasole per una adeguata messa a punto delle effettive capacità di auto controllo umane, delle aporie intrinsecamente connesse a quel dominio di sé cui viene quasi sempre affidato il destino della "virtù". Poiché - e questo merita di venir chiaramente sottolineato - a differenza di altre forme di accesso all'ebbrezza, quella imperniata sull'assunzione del "buon latte d'autunno" si caratterizza per la sua costitutiva "gradualità". Mentre, per esempio, l'uso delle droghe dà luogo a un accesso per lo più immediato, e in ogni caso non graduale, alla perdita di sé, per sperimentare un effetto davvero destabilizzante attraverso l'assunzione del vino, è necessario procedere a una assunzione ripetuta, rendendo così possibile solo un graduale e progressivo obnubilamento della coscienza. In breve, bevendo vino, si possono percepire con chiarezza le diverse fasi della progressiva disgregazione dell'autocontrollo, e si può quindi deciderne la sospensione in base a una valutazione libera. In quello che può sembrare, e non è, un paradosso, l'ebbrezza da vino consente di raggiungere in modo controllato e misurato la dismisura e l'incontrollabile condizione estatica che la stessa ebbrezza rende possibili. Ha dunque tutte le caratteristiche per essere additata quale fortemente esemplare; come la sola che sembri rendere possibile abbandonarsi con moderata acquiescenza alla più smodata liceità.
In altre parole, soltanto tale ebbrezza rende praticabile un esercizio
"paradossale" compiuto tutto sul limite tra misura e dismisura, sospendendosi il
più a lungo possibile, in difficilissimo equilibrio, ai bordi di un delirio
della sragione, sempre incombente, ma insieme sempre evitabile.
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