Autore Riccardo Falcinelli
Titolo Figure
SottotitoloCome funzionano le immagini dal Rinascimento a Instagram
EdizioneEinaudi, Torino, 2020, Stile Libero Extra , pag. 522, ill., cop.fle., dim. 13,5x21,5x3,5 cm , Isbn 978-88-06-24388-3
LettoreDavide Allodi, 2021
Classe arte , critica d'arte , teoria dell'arte , storia dell'arte , storia sociale , design , fotografia , illustrazione , comunicazione












 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice


    I       Spazio

  5 Il potere del centro
 36 Seduzioni di periferia


    II      Forme

 61  Il trionfo del rettangolo
 77  Proporzioni magiche e industriali
100 Dintorni dorati e psicologici
122 Dentro l'abisso


    III     Percezione

141 Il braccio degli impressionisti
155 Una testa per una porta
176 Il visitatore inaspettato


    IV      Meccanismi

195 Strade, stracci, coltelli e pistole
214 La spinta degli alberi
228 La scoperta del fulcro


    V       Topologia

247 La gravità è nell'occhio di chi guarda
26s La direzione degli angeli e quella dei demoni
286 Molto rumore per una diagonale


    VI      Composizione

309 Metafisica delle ciotole
330 Teoria dell'occhiata
344 Le regole dell'orizzonte
358 La bilancia di Hitchcock
376 Il vuoto si addice ai cerbiatti
391 Le ginocchia del reporter


    VII     Medium

409 Le dimensioni di un volto
433 La sensibilità delle forbici
449 Destino di un torero
465 Come si costruisce un paradiso


476 Nota al testo
477 Elenco iconografico
500 Bibliografia
513 Indice dei nomi
521 Ringraziamenti


 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 77

Proporzioni magiche e industriali


Negli stessi anni in cui a Parigi si ridefinisce l'idea di arte - mentre il Salon detta legge e Claude Lantier aspira all'assoluto -, a Lipsia, in Sassonia, c'è un uomo che non è un artista ma si dedica a esperimenti stravaganti che con l'arte in qualche modo hanno a che fare. Ad esempio prende le misure di porte, finestre, libri, quadri e le confronta fra loro; vuole capire perché gli esseri umani scelgano certe forme e non altre, perché alcune risultino piú piacevoli, preferibili, ossia: «belle». Cosí si accorge che nelle case contadine le finestre sono quadrotte, mentre in quelle borghesi tendono alla verticalità, e attribuisce la ragione - con l'inevitabile classismo dei tempi - al gusto ineducato dei ceti popolari. Si domanda poi lo stesso riguardo alla forma dei dipinti, tentando di individuare quale sia il rettangolo perfetto. Del resto - come abbiamo visto nel capitolo precedente - se tutte le immagini sono rettangoli, chiedersi se c'è un rettangolo più «artistico» di un altro non è una domanda poi cosí bizzarra.

Quest'uomo si chiama Gustav Theodor Fechner ed è considerato l'inventore della psicologia sperimentale. Il culmine delle sue ricerche, pubblicate nel 1879, coincide con un test che oggi sappiamo fallace ma importante per la storia della cultura visiva. Scelti alcuni partecipanti, Fechner propone una serie di rettangoli diversi e chiede quale preferiscano.

Ribadisce di non pensare a oggetti reali, di non farsi influenzare dal ricordo di cose conosciute, e di concentrarsi solo sul rettangolo in sé, come forma pura, assoluta. A un secondo gruppo chiede invece di disegnare in libertà il rettangolo che reputano piú bello. Poi, incrociando i dati di queste indagini, conclude che il rapporto 1:1,618 possiede una superiorità estetica (cioè grossomodo un rapporto 5:8). Si tratta del cosiddetto «rettangolo aureo», il cui nome, decisamente mistico, si riferisce a una straordinaria particolarità: è una forma che contiene sé stessa all'infinito.

Ovvero se al suo interno si disegna un quadrato basato sul lato minore, la parte che rimane è a sua volta un rettangolo aureo, e dunque dentro a questo posso costruire un ulteriore quadrato e ciò che resta sarà ancora un rettangolo aureo, e cosí via, ancora e ancora. Non succede con nessun'altra proporzione.

All'epoca i risultati del test infiammano gli animi, anche perché tengono insieme le due anime della cultura romantica: da una parte la ragionevolezza del metodo scientifico, positivista, verificabile (almeno in apparenza); dall'altra le pulsioni misticheggianti che rintracciano nel mondo naturale cabale ermetiche e significati nascosti. In definitiva è come se uno studioso avesse dimostrato l'esistenza di Dio con riga, compasso e indagini di mercato.

Fechner era difatti convinto che ogni corpo, e dunque ogni forma, fossero dotati di un'anima e che si potesse trovare una legge in grado di mettere in rapporto i due mondi: quello interiore e quello materiale. In quest'ottica scovare il rettangolo perfetto significava individuare l'equazione che lega l'essenza delle forme geometriche con quella umana.

Purtroppo è un minestrone ottimo per un romanzo esoterico, ma privo di fondamento. Ogni volta che qualcuno ha rintracciato la presenza del rettangolo aureo nelle opere piú diverse - per esempio nel Partenone - è forte la sensazione che ci sia un autoconvincimento e che si prendano le misure per farsi tornare i conti. Del resto, dei test condotti da Fechner solo il primo confermava la sua tesi: alla richiesta di disegnare in libertà, nessuno dei partecipanti tracciò il famigerato rettangolo, e nel primo esperimento la proporzione magica, per quanto vincitrice, aveva ricevuto solo il trentacinque per cento delle preferenze in una scala di dieci. Non proprio un dato schiacciante.

In realtà - come hanno mostrato molti studi condotti nel XX secolo - non sembrerebbe esistere in assoluto un formato preferito dall'uomo, anzi, il dato piú importante nelle scelte sarebbe sempre il confronto: ossia qualcosa piace in relazione a qualcos'altro che piace meno, non come forma in sé.

A ogni modo gli artisti sono sempre stati interessati a certe questioni, specialmente nella seconda metà dell'Ottocento. Torniamo allora, per un momento, al romanzo di Zola.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 94

In Occidente la verticalità è associata al ritratto da tempi remoti e comunica non solo lo stare eretti ma anche un modo preciso di occupare lo spazio. Se però la figura è distesa, ecco che il formato perfetto diventa quello orizzontale. Può sembrare una mera faccenda pratica, eppure contiene risvolti ideologici.

Per esempio se diamo una scorsa alla pittura di nudo, ci accorgiamo che la maggioranza dei corpi maschili è raffigurata in piedi, mentre quelli femminili sono sdraiati, e quindi spesso i primi occupano quadri verticali, le seconde, orizzontali. Sul piano storico la causa va rintracciata nella committenza che per secoli è stata composta esclusivamente da maschi: e dunque mentre al nudo virile si chiede di rappresentare valori di forza ed eroismo con cui identificarsi, quello femminile è sentito come preda, come oggetto sessuale già pronto per essere consumato. Stare in piedi pone il protagonista in un ruolo attivo, stare stesi, passivo, in senso letterale e metaforico. Non a caso le donne dormono o hanno lo sguardo altrove: non sono consce di essere guardate, perché chi le spia ha il controllo della situazione.

Le rare volte che troviamo un uomo nudo disteso o è un morto oppure ha sfumature omoerotiche: a cominciare dal famoso Adamo di Michelangelo nella Cappella Sistina, sdraiato come fosse su un letto, una posa che all'epoca si addiceva più a una venere dormiente che non a un condottiero. Ecco perciò che il formato non è affatto un elemento neutro ma è portatore di valori politici e di complesse visioni del mondo. Insomma: il verticale è stato prevalentemente un ritratto, qualcuno distante e volitivo che ci si para davanti, affermando sé stesso; l'orizzontale è un paesaggio, un territorio o una donna nuda, cioè qualcosa che si stende nello spazio, che si possiede o che si conquista.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 176

Il visitatore inaspettato


Sono in aeroporto, in fila per il controllo passaporti. Tocca a me: mi avvicino e porgo il documento al poliziotto. Lui lo prende, lo guarda, poi mi fa: «Vada pure. Arrivederci». «Arrivederci», rispondo.

Sul passaporto la mia faccia è composta per rendermi riconoscibile, o meglio, identificabile: il volto è frontale, scontornato su un fondo chiaro, il collo e le spalle si vedono appena. Quanto tempo ha dedicato il poliziotto a guardare la foto? Non piú di un paio di secondi. Quella che si dice «un'occhiata».

Qualche ora dopo sono ad Amsterdam, al Rijksmuseum. Passeggio per le sale, mi fermo di fronte all' Autoritratto da giovane di Rembrandt. Lo dipinge nel 1628, a ventidue anni. È un quadro misterioso: ci fissa, ma non vediamo i suoi occhi. La luce colpisce il collo e la guancia, lasciando il viso al buio. Lo guardo a lungo, osservo le pennellate, mi perdo nei dettagli: la forma dell'orecchio è strepitosa, è solo un grumo di pittura striata, eppure è sufficiente a farci sentire il lobo polposo che si piega verso il basso, simile a una goccia. Tutte cose che in una riproduzione è piú difficile notare.

Quanto tempo ci passo? Dieci minuti? Venti? E' tanto o poco? Quanto tempo serve per capire un dipinto, o perlomeno per vederlo davvero? Dieci minuti bastano per Rembrandt? E i due secondi che in aeroporto hanno rivolto alla mia fototessera sono stati abbastanza? Il poliziotto avrà dedicato tempo alla forma delle mie orecchie? È decisamente improbabile.

Un famoso storico dell'arte del XIX secolo diceva che nei quadri bisogna guardare le orecchie. Si chiama Giovanni Morelli e nasce nel 1816, a Verona, da genitori ugonotti scappati dalla Francia.

[...]

Che ciascuno osservi le immagini in base alla propria esperienza di vita, sembra assodato. Eppure per lungo tempo si è pensato che tutti fossimo attenti alle stesse cose. Tra Otto e Novecento gli studi di psicologia partivano dall'assunto che esistesse un universale umano della visione. Anche le ricerche artistiche delle avanguardie poggiano su un presupposto affine: quando Kandinskij, Klee, Itten o Mondrian parlano di composizione dànno per scontato che sussistano dei criteri uguali in ogni individuo. In fondo anche l'ambizione ecumenica della pubblicità si è basata sull'idea che si possa vendere la stessa bibita a chiunque attraverso un layout perfetto ed efficace.

Sull'onda di queste riflessioni, negli anni Venti, Sergej Éjzenštejn , alla ricerca dei principi di massimo vigore espressivo, si chiede se sia possibile pensare le immagini come stimoli, a cui segue sempre una medesima risposta da parte del pubblico, un po' come il cane di Pavlov che finisce per salivare ogni volta che sente il suono della campanella. Quest'idea razionale e deterministica viene però sconfessata dopo le prime proiezioni di Sciopero!, il suo primo lungometraggio, del 1924. Éjzenštejn, per raccontare la violenza della polizia zarista sui rivoluzionari, alterna le scene di lotta politica con quelle dei buoi sgozzati al macello in un serrato montaggio parallelo:

Tuttavia, mentre il pubblico cittadino è suggestionato da tanta efferatezza, quello di campagna, abituato all'uccisione degli animali, rimane freddo e poco coinvolto. Segno che è impossibile inventare un'immagine che funzioni e piaccia a tutti.

A trovare una conferma scientifica di quest'idea ci pensa un altro russo, qualche anno dopo. Nel 1967 Alfred Lukyanovich Yarbus, un fisiologo, pubblica uno studio sui movimenti oculari, frutto di vent'anni di esperimenti, che viene subito riconosciuto per il valore rivoluzionario.

Fino a quel momento l'idea piú diffusa era che l'occhio cogliesse la scena come un insieme. Si pensava cioè alla visione come a un processo passivo: le cose ci si parano davanti e noi le vediamo. Punto. Yarbus dimostra che al contrario, per ragioni fisiologiche, l'occhio si muove di continuo: ossia, siccome la retina è foderata di recettori piú densi nel mezzo e piú radi in periferia, dobbiamo elaborare l'ambiente una porzione per volta, spostando lo sguardo e facendolo ricadere nell'area di massima acuità. L'occhio dunque non vede la realtà in un lampo, piuttosto la esplora come si muovesse su una mappa.

Per studiare questo meccanismo Yarbus sperimenta alcune lenti a contatto a specchio che, mentre il soggetto guarda un'immagine, riflettono la luce su un foglio sensibile lasciandoci una traccia. Si evidenza cosí che l'occhio non solo si muove senza sosta, ma insiste su alcuni punti che trova piú rilevanti:

Ad esempio questo è il tracciato dell'osservazione, di circa tre minuti, di una bambina vista di fronte. Anche ignorando la foto di partenza è affascinante riconoscere gli occhi e la bocca nel percorso grafico, cioè quei dettagli maggiormente carichi di informazione su cui lo sguardo è tornato piú volte.

Questa invece è l'esplorazione - durata quasi dieci minuti - del dipinto di Isaak Levitan, Il bosco di betulle (1889):

Risulta chiaro che un ruolo cruciale è giocato dai contorni degli oggetti: si noti come lo sguardo ha accompagnato i tronchi nella loro lunghezza, come abbia percorso le cose, «tastandole», simile alle mani dei ciechi quando vogliono conoscere le qualità del mondo.

Il dato piú importante sul piano culturale è però un altro. In un esperimento che ha fatto scuola, Yarbus mostra a un gruppo di persone Il visitatore inaspettato (1884) di Repin e poi, a ciascuno, pone delle domande. Viene fuori che il tipo di richiesta influisce sulla balistica delle pupille. Ovvero, chiedendo quali siano le condizioni economiche della famiglia, i partecipanti esplorano i vestiti; mentre al quesito sull'età dei protagonisti l'attenzione si sposta sulle facce. I percorsi cambiano ogni volta, a seconda del compito richiesto, ma anche a seconda della cultura dell'osservatore, del momento della vita, del contesto generale. Yarbus ne conclude che i movimenti oculari riflettono i processi del pensiero umano, e la traccia che ne rimane è il modo in cui abbiamo ragionato di fronte a una data immagine in un certo lasso di tempo:

Si racconta che il test fosse doloroso e le sedute molto lunghe, ed è chiaro che fastidi simili avevano ricadute sui risultati dell'esame. Oggi le tecnologie digitali, attraverso occhiali e schermi predisposti, permettono di analizzare i movimenti oculari durante azioni complesse, mentre il corpo è in movimento naturale nello spazio. Si chiama eye tracking ed è uno strumento sempre piú usato nelle statistiche commerciali. Negli ultimi dieci anni, difatti, si sono moltiplicate le indagini sui comportamenti visivi del pubblico, un ambito di particolare interesse specialmente per il marketing e la psicologia sperimentale. La domanda delle grandi aziende è alla fine sempre la stessa: cosa guardano le persone e perché. E i risultati spesso non sono prevedibili o in linea con quanto ci si aspetterebbe.

Ad esempio un focus recente ha studiato i comportamenti di fronte a una campagna pubblicitaria per Dolce & Gabbana. Il layout è di tipo classico, lo vediamo in alto nella pagina. Sulla sinistra il volto del testimonial, l'attrice Scarlett Johansson, sulla destra, in basso, il prodotto e il marchio. Tramite un software - che ha registrato fissazioni e movimenti oculari del gruppo campione - si è ricavata una heatmap, una «mappa di calore», chiamata così perché ricorda il cromatismo delle previsioni meteo, dove più le tinte sono calde piú è stato il tempo dedicato all'esplorazione. Il risultato sconfessa due tra i piú diffusi luoghi comuni del marketing: che il sesso aiuti a vendere di più e che la pubblicità serva a promuovere le merci. Si nota difatti che la maggiore attenzione - sia degli uomini sia delle donne - è rivolta al viso dell'attrice e non alla scollatura, senza dubbio generosa: il seno di Scarlett è stato di certo osservato, ma meno della sua fronte. Il secondo punto è ancora piú significativo: la boccetta di profumo ha incuriosito meno della modella. Se ne deduce che le campagne sulle pagine dei magazine non si fanno per vendere un prodotto preciso quanto per ribadire il valore di un brand e presidiare la fortezza del prestigio.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 376

Il vuoto si addice ai cerbiatti


Si racconta di un americano che commissionò un dipinto a un vecchio artista giapponese. Una volta terminato, il quadro presentava, nell'angolo in alto, un uccello appollaiato su un ramo di ciliegio. Il resto della tela era vuoto. Doveva trattarsi, con molta probabilità, di qualcosa del genere:

All'americano il risultato non piacque e chiese di metterci qualcos'altro, secondo lui andava riempito di piú, perché, cosí com'era, gli sembrava tutto un po' spoglio. Il maestro giapponese disse che non poteva accontentarlo. L'americano insistette: «Perché no? Perché non ci mette qualche altra cosa?» «Perché, se riempio il quadro, all'uccello non rimarrà spazio per volare».


Questo racconto tradizionale giapponese contiene un tipico insegnamento zen: il vuoto è inseparabile dal pieno, o meglio, è il vuoto che rende sensato il pieno. Le forze che governano l'universo, lo Yin e lo Yang, sono in rapporto dinamico tra loro, in un incessante divenire in cui nessuna deve prevalere sull'altra.

Ho detto «vuoto» e «pieno», ma parlando di pittura potrei dire bianco e nero, denso e liquido, corposo e trasparente.

Nel capitolo precedente abbiamo visto come una delle clausole piú usate nel mondo moderno sia quella di equilibrare la figura principale con un contrappeso. Tuttavia si può anche decidere di non farlo: ci si può rifiutare di bilanciare e lasciare quello spazio libero. Come una frase musicale interrotta sul piú bello, come un discorso non finito che rimane appeso a mezz'aria, quell'assenza genera una tensione, suscitando nell'osservatore una spinta a completare l'apparente mancanza. E ciò che è accaduto in Oriente dove, per tradizione, il pieno non bilancia il vuoto, lo rende eloquente.


Laozi - leggendario filosofo cinese, e presunto autore del Daodejing - già nel VI secolo tesse un elegante elogio dello spazio negativo: «Trenta raggi formano una ruota ma è il buco al centro che la rende utile». E nell'arte cinese lo spazio libero è sempre stato importante quanto quello disegnato.

Secondo gli storici, a introdurre in pittura il gusto per le lacune visive sarebbe stato Yuan Ma, paesaggista della dinastia Song, che pian piano comincia a spingere i soggetti verso i bordi del quadro, inventando quello stile che suona tipicamente orientale e che viene chiamato non a caso «pittura dell'angolo». L'arte Song è autorevole, prestigiosa, imitata, e questa sensibilità per il decentramento si diffonde presto in gran parte della cultura figurativa orientale con un movimento parallelo alla diffusione del buddhismo «chan», ossia quello che poi in Giappone sarà battezzato «zen».

Un esempio classico è La grande onda di Kanagawa (1830) di Hokusai. Sulla destra c'è un ampio campo libero che serve all'onda per «poter volare», cioè innalzarsi verso l'alto e poi infrangersi. In lontananza si intravede il monte Fuji. Hokusai ci sta dicendo che per far vedere una cosa non importa che sia grande o piccola, quel che conta sono i rapporti tra lei e tutto il resto. Non è privo di curiosità che la grande onda ricordi proprio l'ossatura del tao, anzi: ne pare quasi la traduzione poetica. E, come nel tao una briciola di bianco è contenuta nel nero, cosí il puntolino del Fuji è avvolto dal mare in mezzo al cielo. Non è un semplice paesaggio marino, è un'allegoria cosmologica: il vuoto, l'asimmetrico, il decentrato sono cruciali, perché cosí è sentita la vita.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 391

Le ginocchia del reporter


Il 12 aprile del 1861, allo scoppio della Guerra di secessione americana, Alexander Gardner ha quarant'anni e da cinque fa il fotografo di professione. La sua è una di quelle carriere rapide e di successo: è nato in Scozia, ma è a Washington che diventa popolare immortalando i soldati in partenza per il fronte; ritratti che piacciono, e ne fanno in poco tempo il fotografo preferito della presidenza Lincoln. Cosí, nel luglio del '63, viene incaricato di fotografare il campo di battaglia di Gettysburg in Pennsylvania, consegnando alla storia lo strazio dei caduti.

A conflitto finito, il lavoro è raccolto in un'opera antologica intitolata Gardner's Photographic Sketch Book of the War: due eleganti volumi, rilegati in pelle, con cento stampe da album in formato «imperial» (circa un A4 moderno), ciascuna accompagnata da un breve testo. È una hit immediata: in un anno ne vengono stampate due edizioni. La guerra si rivela infatti, per paradosso, anche una forma di intrattenimento: basti pensare che il settanta per cento delle foto scattate in mezzo ai caduti è stereoscopico; le prime figure in 3D non le inventa perciò il cinema, ma sono quelle dei morti veri da ammirare con un apposito visore seduti in salotto.

Dopo la Guerra di Crimea, quella di secessione è la prima tragedia di cui abbiamo una cronaca visiva completa, sia dei cadaveri (più di mezzo milione) sia dei sopravvissuti, dai generali piú noti ai soldati semplici. Un corpus di immagini che viene subito divulgato per suscitare sentimenti di partecipazione tra i civili. Una guerra moderna, visuale e giornalistica, combattuta anche con le armi della propaganda. Tra le foto piú famose della raccolta di Gardner c'è quella qui sotto, un tiratore scelto nordista, morto sul campo di Gettysburg:

L'immagine diventa subito un'icona di massa, simbolo della ferocia bellica, e viene riprodotta infinite volte, sui giornali, nei libri di storia e nei manuali scolastici. È una delle prime foto destinate al consumo culturale.

Cent'anni dopo, però, nel 1961, Frederic Ray - un collaboratore del «Civil War Times» - nota qualcosa che era passato inosservato per quasi un secolo: confrontando tutti gli scatti raccolti nell'album, si accorge che lo stesso morto di Gettysburg compare in un'altra foto, ma in una posizione e con uno scenario diverso.

Ecco il secondo scatto, e lo stesso uomo:

Ray ne deduce che Gardner e i suoi collaboratori hanno manipolato la scena di almeno una delle due foto, spostando il cadavere del cecchino di quaranta iarde e mettendolo in posa di fronte a un fondale piú fotogenico per enfatizzarne il dramma. A suffragare l'ipotesi contribuisce la scoperta che il fucile che si vede accanto al cadavere non era in uso a quei tempi da parte dei tiratori. Una messinscena, dunque? Non proprio. La faccenda è piú complessa.

William Frassanito, che nel 1975 ha condotto una meticolosa ricostruzione dei modi in cui erano fabbricate immagini di questo tipo, ha evidenziato che certe manipolazioni non erano reputate all'epoca negative o fraudolente. La fotografia è appena nata e il modello visivo di riferimento è per tutti la pittura, non c'è perciò nulla di male a sistemare un caduto in modo più «artistico», anche perché a garantire la verità fotografica basta il fatto che il morto sia davvero morto, e morto in guerra. Gardner insomma non ha agito in malafede.


Che Cézanne o Morandi passino la vita a spostare ciotole e bottiglie non ci stupisce piú di tanto, ma che Gardner muova un cadavere ci suona immorale o perlomeno indegno della sua deontologia. Secondo la sensibilità attuale una foto di reportage non dovrebbe avere nessun tipo di elaborazione, varrebbe cioè la teoria di mio fratello: nel presepe le pecore si mettono dove capita e non bisogna intervenire ma solo testimoniare.

In inglese la distinzione è ribadita pure dal linguaggio: la foto diretta del reale è chiamata straight, lo scatto del mondo cosí com'è; si dice invece staged quella costruita («stage» non a caso è il nome del palcoscenico e del teatro di posa). Nella cultura contemporanea una foto è «vera» solo nel primo caso, altrimenti si tratta di un'immagine artistica o pubblicitaria; e la guerra, nella sua urgenza, ci aspettiamo che sia raccontata senza filtri, che il fotografo non sia un pittore bensí un reporter. Cosí, per ragioni opposte, accettiamo che la foto di moda sia invece recitata, apertamente finta: nei toni, nei gesti, nell'illuminazione. La conseguenza teorica è che può esserci composizione solo nelle foto di fiction e mai nella cronaca. Detto in altre parole, per noi, oggi, la differenza fra reportage e messinscena non è di tipo figurativo ma politico.

Di certo nel Novecento l'uso subdolo della manipolazione fotografica ha contribuito a diffondere un atteggiamento complottistico nei confronti del potere: non ci fidiamo mai fino in fondo di quello che vediamo e dunque una foto, per essere davvero un testimone, deve esibire in modo inconfutabile la sua veridicità. Alla base di questi convincimenti c'è l'esperienza dei grandi reporter del XX secolo che, raccontando l'attualità dalle zone nevralgiche del pianeta, hanno consolidato la differenza tra documento e fiction. Una tale separazione - che può sembrare ovvia e di mero buon senso - è però tutta da dimostrare e se ne può discutere a lungo. È chiaro che se una foto di guerra è manipolata smette di essere una testimonianza e diventa un'immagine di propaganda; nondimeno ipotizzare foto davvero neutre, prive di un punto di vista, è impossibile. Le testimonianze, tutte le testimonianze, sono sempre, almeno in parte, interpretazioni della realtà. Anche perché le idee morali sono figlie della storia e ogni epoca ne stabilisce i parametri e le condizioni: quello che è considerato accettabile nel Rinascimento è diverso da ciò che è reputato lecito nell'Ottocento, nei comportamenti e pure nell'arte.

Dobbiamo perciò concludere, a distanza di un secolo, che le foto dei caduti di Gettysburg sono un documento della guerra e, allo stesso tempo, anche la prova di un gusto e di una sensibilità. Le due cose non si escludono.

[...]

Portiamo il discorso alle sue conseguenze estreme:

È l'uccisione di David Haines, cooperante britannico, avvenuta il 13 settembre 2014 in una località segreta, uno dei video di propaganda filmati e diffusi su internet dall'Isis. Il titolo è inequivocabile: A Message to the Allies of America. Una delle immagini piú sconvolgenti degli ultimi anni: una decapitazione in mondovisione, condivisa su un social network per avvertire e impressionare il nemico. Nei fotogrammi successivi Haines viene ucciso in modo efferato. E sappiamo che è tutto vero.

Se ci pensiamo bene, però, ci accorgiamo che tra gli aspetti più inquietanti c'è il fatto che questa scena possiede una forma visiva studiata con cura, a cominciare dall'arancione con cui è vestita la vittima, colore che, in un gioco di ribaltamenti, rimanda alle tute dei detenuti di Guantánamo, il controverso carcere di massima sicurezza dove gli Stati Uniti rinchiudono proprio i prigionieri catturati in Afghanistan e Pakistan. Se vuoi farti capire dal nemico devi farlo con i linguaggi a cui è abituato, e qui l'Isis si rivolge agli occidentali usando i codici di una serie televisiva, nell'inquadratura, nel taglio, nel layout. Perché nella società di massa è l'ordinamento visivo che rende le immagini impressionanti e memorabili, e allora anche il piú autentico degli omicidi ha bisogno di un briciolo di allestimento per risultare efficace. È una testimonianza ma c'è composizione per amplificarne la crudeltà.

A questo punto ci troviamo costretti a ribaltare un paradigma consolidato: la composizione non è qualcosa che attiene soltanto alle faccende artistiche, né è una volontà formale infilata per motivi espressivi o estetici dentro un'opera. La composizione prima di essere una faccenda di bella forma riguarda la forma sensata, cioè precisa, parlante. Ed è qualcosa che riconosciamo come spettatori, una qualità che appartiene a chi inventa ma pure a chi guarda. Non è una mera questione di eleganza, è prima di tutto un sistema ordinativo, un terzo elemento tra noi e il visibile.


Spostiamoci a questo punto su una vera foto di reportage, una delle piú emblematiche del XX secolo, scattata l'8 giugno del 1972 in Vietnam. Un'immagine che può aiutarci a rendere ancora piú articolato il nostro ragionamento.

Siamo a Tràng Bàng, un paese al confine con la Cambogia, quando un gruppo di cacciabombardieri dell'aviazione sudvietnamita colpisce per errore alcune costruzioni civili e un tempio, in cui avevano trovato rifugio Kim Phúc, una bambina di nove anni, e la sua famiglia. Le bombe sono al napalm: il braccio sinistro di Kim prende fuoco e il vestito si disintegra: cosí lei scappa lungo la Route 1, corre insieme ai soldati e agli altri abitanti del villaggio che si stanno spostando verso le posizioni gestite dall'esercito del Sud. La scena viene ripresa da vari reporter tra cui un ragazzo di ventun anni, Nick Út, che aveva perso un fratello, pure lui fotografo, in servizio per l'Associated Press. La foto fa il giro del mondo e la mattina dopo è in prima pagina sul «New York Times». Ha un'eco enorme e, secondo alcuni commentatori, avrebbe persino contribuito alla fine della guerra. Un'immagine può tanto?

È stata studiata, commentata, analizzata decine di volte. È divenuta negli anni una testimonianza imprescindibile nella storia visuale moderna, quella che si dice un'icona culturale. C'è però forse ancora un aspetto su cui meditare e che può aiutarci a rendere piú complessi i confini che definiscono cos'è la composizione in un'immagine.

Quel giorno sulla Route 1 c'erano altri fotografi, Út non era da solo. Qui sopra, per esempio, vediamo una foto scattata da un reporter della United Press, un'altra agenzia stampa, a qualche momento di distanza da quella di Út.

Ho cercato a lungo il nome del suo autore, senza trovarne traccia: dopo cinquant'anni risulta solo che era un reporter della United. Út invece è noto, ha ricevuto numerosi riconoscimenti, tra cui il premio Pulitzer e il World Press Photo. Ora la domanda è: se il Pulitzer è rivolto al valore giornalistico, perché si premia proprio questa foto e non l'altra? Dire che quella di Út è piú bella non basta, e comunque sarebbe un giudizio superficiale e fuori luogo.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 414

Per rendere meglio l'idea riprendiamo in mano una delle icone piú riprodotte dell'ultimo secolo: La grande onda di Hokusai, che abbiamo già incontrato nel nostro racconto.

Si tratta di una xilografia realizzata intorno al 1830: non una pittura, non un pezzo unico, bensí un'opera grafica che, già a monte, nasce in piú copie partendo da una matrice di legno incisa a mano. La coloritura a tinte piatte e il disegno essenziale ne hanno fatto un'insuperata fonte di ispirazione per i linguaggi moderni. Usata, copiata, citata all'infinito e nei contesti piú disparati, da quelli colti a quelli commerciali: Debussy nel 1905 la vuole in copertina per la partitura del suo La Mer e la riproduce alta trentaquattro centimetri. Da allora le successive copertine debussiane hanno seguito la falsariga, su vinili e cd, e ogni volta l'immagine ha un'altezza diversa. In questi casi le copie sono in realtà fotografie della stampa d'epoca, trasformate in matrici e stampate di nuovo.

La maggior parte del pubblico l'ha conosciuta cosí. Riprodotta. In quanti però l'hanno vista dal vero? Chi saprebbe dire, con certezza, quanto è davvero grande la grande onda?

Eccola stampata a dimensioni reali, «uno a uno», proprio come fu incisa ai tempi di Hokusai. La tavola originale è alta in tutto ventisei centimetri, qui ne entra solo un dettaglio. Se si prova a scorrere i polpastrelli su questa pagina si può avere un'idea precisa della grandezza che il pubblico poté toccare due secoli fa.


Portiamo il discorso un po' più avanti. Osserviamo adesso queste due donne: a sinistra una Madonna di Giotto realizzata intorno al 1310; a destra la Madre migrante, una famosa fotografia di Dorothea Lange del 1936.

Quella giottesca è una tavola di pioppo, dipinta a tempera, alta circa ottantacinque centimetri. Quella di Lange è invece un'emulsione ai sali d'argento e dunque chiedersi quali siano le sue vere dimensioni è privo di senso.

Il negativo conservato alla Library of Congress di Washington è un pezzo di nitrato alto dieci centimetri, ma questo non conta, visto che il destino delle foto è di essere stampate, e le si può fare piccole come francobolli o giganti come poster. E ciascuna di queste esecuzioni è sempre la foto vera.

La comparsa della fotografia ha comportato una rivoluzione epistemologica nella storia delle immagini, anzitutto per un suo fondamento essenziale: se escludiamo la breve epoca dei dagherrotipi, due stampe di uno stesso negativo sono entrambe esemplari di una stessa foto, entrambe originali. Cosa ancora piú evidente oggi che la matrice è un file digitale, copiabile e trasmissibile senza perdita di qualità.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 453

Tuttavia la profezia che l'aura delle opere avrebbe risentito di questa sovraesposizione non si è avverata fino in fondo, o almeno non come aveva previsto Benjamin. Oggi, a distanza di un secolo, le persone vanno al Louvre proprio per vedere l'originale della Gioconda che fino a quel momento hanno conosciuto solo per mezzo di riproduzioni. Il fascino del quadro non sta piú nei meriti intrinseci della pittura, ma nel trovarsi di fronte all'originale di qualcosa conosciuto tramite libri, magliette, poster, tazze e film. In molti si fanno un selfie accanto a Monna Lisa, né piú né meno che se avessero incontrato un vip per strada. Ci vanno perché quella esposta è quella autentica. In altre parole il pubblico (colto e popolare) prova di fronte agli originali un senso amplificato dell'aura, di certo diverso da quello di un uomo dell'Ottocento, ma non per questo meno mistico. Una sensazione simile è possibile proprio grazie alla riproducibilità.

Prendere la riflessione di Benjamin senza nessun correttivo rischia dunque di farci sfuggire il vero ruolo della tecnica nella società attuale, perché in un secolo le cose sono cambiate in modo inevitabile.

Per capirlo proviamo a ribaltare il discorso:

Questa «cosa», quando è stata dipinta nel XIII secolo, non era un'opera d'arte. Era un oggetto che, nell'ambito della religione cattolica, veniva messo sopra un certo tipo di tavolo, detto altare, e in alcuni momenti accompagnava le funzioni liturgiche, in altri gli si rivolgevano preghiere. Questa cosa non era stata realizzata per apprezzarne il cromatismo o la composizione. Né era concepita per essere ammirata in un museo o appesa in salotto. Non era neppure pensata per essere venduta e comprata in base al suo valore culturale e, anzi, attribuirle un prezzo sarebbe parso sacrilego. Per farla breve: questa cosa non era ritenuta un quadro, non era un'opera d'arte.

Ora guardiamo questo:

È un quadro. Cioè un oggetto, realizzato nel 1860, con finalità estetiche ed espressive. È stato fatto per essere ammirato, perché se ne apprezzassero il cromatismo e la composizione; per essere appeso in salotto e, in taluni casi, contemplato in una mostra o in un museo; per essere venduto e comprato in base al suo valore culturale, e piú un artista diventava famoso piú si poteva rinegoziarne il prezzo. In altre parole: questa cosa è stata creata con l'intento preciso di essere un'opera d'arte.


Ora, però, se prendo l'icona del XIII secolo, la mostro a qualcuno fermato in mezzo alla strada e gli chiedo che cos'è, è molto probabile che mi dica che è un «quadro» o un dipinto o un'opera d'arte. Come mai?

Per questa ragione:

È il sito del Metropolitan Museum di New York, dove entrambi gli oggetti sono conservati. L'icona di Berlinghiero e la madre di Corot compaiono una affianco all'altra: basta inserire la parola «mother» dentro il motore di ricerca. In questo modo il museo, e pure l'editoria, la critica d'arte, i mass media, attraverso la riproduzione suggeriscono che le due cose possiedano alcune proprietà comuni.

E, d'altronde, che dire di questo?

È il libro che state leggendo.

Ecco perché Benjamin ha colto i presupposti del problema ma non le conseguenze: è la riproducibilità che ha reso «arte» cose che arte non erano, e che istilla il sentimento che un'icona del XIII secolo e un quadro dell'Ottocento appartengano a una stessa classe di oggetti. È insomma l'uso reiterato dei dipinti, il vederli riprodotti su poster, tazze e felpe, che li ha trasformati in capolavori. Certo: l'abuso ha demolito un tipo di aura, ma ne ha creata un'altra, forse anche più potente: il mito dell'arte.


Le testimonianze piú antiche di figure disegnate risalgono all'epoca paleolitica, tra i venticinque e i cinquantamila anni fa. Le immagini piú recenti, almeno dal punto di vista del linguaggio e della tecnica, sono quelle digitali: sia di tipo intenzionale ed espressivo, come quelle dei videogiochi, sia di tipo burocratico, come quelle registrate dalle telecamere di sorveglianza sparse ormai ovunque.

Oggi perciò, grazie alla tecnica, queste sono le immagini:

Mettere insieme un quadro rinascimentale con una radiografia, una foto d'autore col frame di una partita di calcio è un arbitrio. E di certo sarebbe parso illogico a un pittore medievale. A ogni modo guardando sinotticamente questi oggetti ci viene spontaneo chiamarli «immagini», e anzi - a dire la verità - non abbiamo a disposizione un altro termine per tenere insieme cose tanto diverse. Non è solo una faccenda di nomenclatura, ma appunto di tecnologia. Nelle epoche passate un vaso era un vaso, un dipinto un dipinto, e un testimone oculare era un testimone oculare. Oggi il vaso è riprodotto accanto al dipinto e accanto alla testimonianza della video-camera di sorveglianza, e poiché la tecnica che ci permette di riprodurli è la stessa, le tre cose finiscono per condividere alcune qualità comuni.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 465

Come si costruisce un paradiso


Lalla Romano ha raccontato in un'intervista che un giorno andò a trovarla a casa Elsa Morante e quando entrò nel suo studio esclamò: «Ah! Il paradiso!» riferendosi a una parete tappezzata di ritagli e figure di vario tipo, tra cui molti dipinti.

Romano era all'epoca conosciuta come romanziera, il rapporto tra lei e Morante era dunque di amicizia ma anche di assonanza professionale. In gioventú, prima di dedicarsi alla scrittura, Romano era stata pittrice: aveva studiato con Casorati in quello che nella Torino degli anni Trenta era un atelier artistico e soprattutto culturale. È perciò plausibile che quel muro fosse un insieme di figure significative, dal valore simbolico e pure affettivo.

Il collezionare immagini, il fermarle al muro con lo scotch o con una puntina, non è però un'attività che riguarda solo i pittori, gli scrittori o gli artisti. Quasi tutti, in modo piú o meno sistematico, raccogliamo reperti iconografici in giro per il mondo. Foto, pitture, disegni, magari locandine o fotogrammi di film famosi. Alcune comprate nel bookshop di un museo, altre prese da libri e riviste, più qualche brandello di quotidiano ormai ingiallito. Spesso è la cucina uno dei luoghi privilegiati per la costruzione di certi palinsesti, e specialmente il frigorifero su cui la lista della spesa si affianca al disegno di un figlio piccolo, a un magnete o al souvenir di qualche viaggio. Negli ambienti domestici trovare I girasoli di Van Gogh accanto a uno scampolo di giornale è un'esperienza abbastanza comune.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 468

Accanto agli artisti, anche i filosofi, gli storici e gli intellettuali cominciano a trarre vantaggio dalla compagnia delle riproduzioni. Tanto per dirne una: Sigmund Freud aveva nel suo studio una copia della Gradiva, un bassorilievo con una menade al passo che gli ispirerà un testo cruciale per la psicoanalisi. Freud è - insieme a Darwin e Einstein - una di quelle figure che si studiano a scuola perché hanno rinnovato il punto di vista sulle cose dando una direzione al mondo moderno. Freud in psicologia, Darwin in biologia, Einstein in fisica. A questo elenco manca il nome di un quarto pensatore che ha rivoluzionato la vita delle immagini ma che siccome non ha lasciato testi coerenti e organici non è mai rientrato nei programmi ministeriali o nel bagaglio della cosiddetta cultura generale.

Si chiama Aby Warburg e nasce ad Amburgo nel 1866 in una delle dinastie di banchieri piú ricche d'Europa. È primogenito, erede di una fortuna spaventosa, però ama lo studio e lo appassionano cosí poco gli affari di famiglia che, come Esaú, decide di cedere al fratello la primogenitura in cambio di un'unica cosa: questo gli dovrà comprare tutti i libri che desidera, senza eccezioni, per sempre e senza limiti di spesa. Di cosa si interessa Warburg? Wikipedia dice che era uno storico dell'arte, in realtà ancora oggi si fa fatica a classificarlo, e anche per questo è meno famoso di altri eminenti personaggi. Semplificando un po' potremmo dire che lo appassionavano alcune costanti antropologiche - condensate in pose e gesti convenzionali - di cui la storia dell'arte è una depositaria eccellente. Non gli interessava insomma Botticelli in quanto artista, ma il fatto che le sue figure mettessero i piedi nella stessa posizione delle donne dei bassorilievi antichi, un dato fascinoso perché Botticelli non poteva aver visto quei bassorilievi. Col senno di poi, potremmo dire che prima di Warburg gli storici dell'arte erano attenti ai capolavori, dopo di lui hanno cominciato a interessarsi alle immagini, cioè a quei processi di costruzione figurativa, a prescindere dal fatto che si tratti di grandi opere, di cose banali o persino brutte.

Ma veniamo al cuore del discorso: l'opera ambiziosa e incompiuta di Warburg consiste in tanti pannelli su cui ferma con delle puntine le immagini che andava raccogliendo:

Ritagli d'arte di ogni epoca - con una particolare attenzione per il mondo classico greco e romano - e pure foto e disegni. Gli accostamenti possono essere audaci, specie per i tempi: Warburg attacca, accanto a un dipinto di Delacroix, la foto di una campionessa di golf contemporaneo, di quelle che si trovano sulle pagine dei rotocalchi. È significativo che le opere d'arte vengano accostate a materiali di consumo. In passato ogni rappresentazione viveva chiusa nel suo contesto, un'icona sacra non entrava in prossimità né fisica né psicologica con una figura mondana. La norma del mondo moderno è invece l'opposto. Quando si sfoglia un giornale o si guarda la tv, è comune vedere una foto di reportage, magari crudissima, affiancata a un servizio di moda.

A questo proposito Marshall McLuhan sosteneva che i media sono «protesi»: non semplici strumenti, non mere tecnologie, bensí estensioni dei nostri sensi. Ecco: da un certo momento in poi le riproduzioni sono divenute protesi che hanno affinato la capacità umana di stabilire legami tra mondi distanti. Ovvero se una scultura antica e un ritratto moderno sono fatti dello stesso materiale, cioè una foto, viene piú facile confrontarli, cosí come se oggi un film, un dipinto o una foto mi scorrono davanti su uno stesso device, come lo schermo di un cellulare, vederci delle attinenze non è solo facile, ma inevitabile. Una circostanza materiale ha permesso un modo inedito di tessere relazioni che in passato era solo potenziale. E, appunto, un portato della fotografia e in questo senso, per Warburg, il medium ha permesso il messaggio, cioè l'investigazione critica di reperti iconografici distantissimi.

C'è infatti un aspetto su cui Warburg insiste: le immagini vanno fissate con le puntine per essere riposizionabili a seconda di come cambiano i ragionamenti, tramite accostamenti mobili e permutazioni continue. Ripensando ai chiodini con cui la Madonna ha appeso il suo santino al muro, capiamo il peso di questi puntelli mobili. A Warburg si attribuisce una famosa battuta: il buon Dio si nasconde nei dettagli. L'unica strada per arrivare in fondo è allora affiancare rappresentazioni diverse per stanare quei dettagli, costruendo un'indefinita enciclopedia visiva. In modi diversi perciò, sia Benjamin sia Warburg elaborano le loro riflessioni attraverso le possibilità e i limiti dei mass media.

Per affinare la prospettiva sulla questione dobbiamo però accostare a queste idee quelle di André Malraux , scrittore e politico francese, che nel 1947 pubblica un libro inusuale, intitolato Il museo dei musei. L'idea di Malraux è che, ancor prima della riproducibilità tecnica, sia stato il museo - riunendo insieme oggetti disparati per epoca, provenienza e tipologia - a liberare l'arte dal proprio contesto storico e a permettere un punto di vista sincretico sul passato. La riproduzione, secondo Malraux, radicalizza la logica inventata dal museo e ci mette di fronte tutta l'arte, svincolandola dalla sua concretezza materiale. Ovvero giornali, libri, cataloghi e riviste partecipano all'edificazione di questo «museo immaginario» che è uno degli aspetti piú fecondi dell'estetica contemporanea: un luogo mentale, ma pure una prospettiva inedita per lo sguardo e per la storia, che consente di ritrovare - nella produzione artistica di ogni tempo e luogo - l'attitudine umana a costruire visioni del mondo.


Un secolo fa un grande poeta, Paul Valéry , disse una cosa che poteva suonare fantascientifica e che si è rivelata invece di una precisione incredibile: nel futuro le immagini ci arriveranno a casa come l'acqua corrente dai rubinetti. Lo diceva nel 1928. Impressionante quanto ci avesse visto lungo. Che cos'è in fondo internet se non un flusso che arriva dentro casa al pari dell'acqua, del gas o dell'elettricità? Valéry coglie una sfumatura che sfugge a Benjamin e pure a Malraux: non è la riproducibilità delle immagini la cifra del mondo moderno, ma la loro trasmissibilità. Un tema che si fa ogni giorno piú stringente. L'ultima tappa di questa storia è infatti nel giugno del 2017, quando un'équipe guidata da Seth L. Shipman della Harvard Medical School è riuscita ad archiviare un'immagine dentro una cellula. Ovvero, partendo dal presupposto che le immagini elettroniche sono un susseguirsi di pixel accesi o spenti e che pure il Dna è in fondo una sequenza di informazioni, si è «salvato» il codice della foto digitale dentro il genoma di un vivente, nello specifico un ceppo di batteri, usando le cellule come fossero hard disk. La conseguenza è che è possibile estrarre quelle informazioni di nuovo e, potenzialmente, trasmetterle alle cellule figlie: cioè ricostruire quella medesima immagine attingendola dal pronipote del batterio che l'ha ereditata nel proprio profilo genetico. È una rivoluzione epistemologica senza precedenti.

Per secoli le immagini sono state artifici esterni al nostro corpo. Di creta o di marmo, di pittura o di pellicola, il loro statuto è sempre stato quello di apparire vive e coinvolgenti pur essendo fatte di materia inanimata. Ora stiamo entrando in una nuova epoca, quella della riproducibilità biologica.

I ricercatori di Harvard hanno scelto per il loro esperimento il famoso cavallo che corre di Muybridge, l'archetipo all'origine del cinema. Icona modernista per eccellenza che inaugura le magnifiche sorti novecentesche.

«Il Dna è un medium eccellente per archiviare dati, - dice Shipman, - la memoria biologica è piú piccola ed efficiente dei sistemi digitali. Per questo vogliamo trasformare i batteri in archivi storici». A Shipman non interessano le rappresentazioni in sé, quanto dimostrare che nel Dna si può archiviare una qualsiasi arbitraria sequenza di codici. Si aprono scenari vertiginosi perché, come insegna McLuhan, il medium è il messaggio. Che sia perciò possibile, tra qualche anno, caricare nel nostro Dna tante immagini come fossimo un hard disk? Assimilare Giotto e Chardin e Shining dentro di noi e fare cioè del corpo fisico il proprio paradiso non per metafora ma di fatto?

| << |  <  |