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| << | < | > | >> |IndiceLA BATTAGLIA CONTRO L'EUROPA Prefazione 11 Introduzione 15 1. Le vere cause della crisi europea 27 Il ruolo delle banche europee nella crisi, p. 27 La socializzazione delle perdite, p. 33 La grande redistribuzione (dal basso verso l'alto), p. 40 La finanziarizzazione del debito pubblico, p. 44 La controrivoluzione neoliberista, p. 50 La disunione europea, p. 55 2. Le conseguenze economiche di Angela Merkel 69 L'austerità e i suoi effetti, p. 69 L'ossessione per il debito pubblico, p. 69 L'austerità che non doveva fare male, p. 77 I dati della crisi in Italia e in Europa, p. 79 L'Italia peggio che nel 1929, p. 80 Il pericolo della deflazione, p. 82 Impazzimento collettivo o guerra di classe?, p. 83 La trappola del fiscal compact, p. 88 L'imbroglio della disoccupazione di equilibrio, p. 97 La germanizzazione dell'Europa e la mezzogiornificazione della periferia, p. 104 Il nuovo nazionalismo economico tedesco, p. 110 Il salvataggio "nascosto" delle banche tedesche, p. 118 Il "salvataggio" dei PIIGS, p. 122 Il ruolo della BCE nella crisi, p. 129 3. Una via d'uscita dalla crisi 160 Né uscita dall'euro né unione politica, p. 160 «Una Lehman al quadrato», p. 162 Un evento senza paragoni storici, p. 165 La svalutazione che non funziona, p. 173 Svalutare la moneta per svalutare il salario, p. 177 L'uscita dall'euro e il presunto miracolo del 1992, p. 179 L'euro e il declino italiano, p. 180 La questione dei rapporti di forza, p. 182 Il paradosso politico dell'"uscita concordata", p. 187 Più Europa?, p. 193 L'eurozona a 19 è riformabile, p. 198 La sinistra che deve puntare a "meno Europa", p. 202 Elogio della spesa pubblica, p. 206 Θ la domanda, stupido!, p. 206 Il pasto gratis di Keynes, p. 208 Per risparmiare occorre spendere, p. 212 La spesa pubblica nel lungo periodo, p. 214 I computer sono figli della spesa pubblica, p. 216 L'incertezza radicale e il ruolo dello Stato, p. 218 Il controllo centralizzato dei salari, p. 227 Una banca centrale amica dello Stato, p. 233 Spendiamo per i nostri nipoti, p. 234 Un'altra politica economica per l'eurozona, p. 235 Più lavoro e più reddito per risolvere la crisi sociale e umanitaria, p. 237 Rilanciare gli investimenti pubblici, p. 252 Una nuova politica industriale, p. 264 Ristrutturare i debiti (sia pubblici che privati), p. 270 I certificati di credito fiscale e le euro-cambiali, p. 284 Keynes a Francoforte: il riequilibrio dell'eurozona, p. 287 L'ideologia del tasso di cambio flessibile, p. 287 Mr Keynes ha un piano: l'euro!, p. 290 L'euro e la crisi da bilancia dei pagamenti, p. 293 Le differenze tra l'euro e il bancor, p. 294 Il piano Keynes applicato all'eurozona, p. 296 Ringraziamenti 305 Note 307 |
| << | < | > | >> |Pagina 11Predatori del mondo intero, adesso che mancano terre alla vostra sete di totale devastazione andate a frugare anche il mare. Avidi se il nemico è ricco e arroganti se è povero. Gente che né l'Oriente né l'Occidente possono saziare. Solo voi bramate possedere con pari smania ricchezza e miseria. Rubano, massacrano, rapinano, e con falso nome lo chiamano impero. Rubano, massacrano, rapinano, e con falso nome lo chiamano nuovo ordine. Laddove fanno il deserto, lo chiamano pace. PUBLIO CORNELIO TACITO Parafrasando Tacito, potremmo dire: «Hanno fatto un deserto e ora la chiamano ripresa». A otto anni dallo scoppio della crisi finanziaria, l'Europa è stremata dall'austerità, dalla stagnazione economica, da disuguaglianze sempre più gravi e dal crescente divario tra paesi del centro e della periferia. La stessa parola "crisi", che rimanda a un fenomeno di rottura e di breve periodo, è ormai inadeguata a descrivere quello che appare come un cambiamento strutturale ma forse sarebbe meglio dire una ristrutturazione deliberata dell'economia e della società. La democrazia viene esautorata a livello nazionale e non viene sviluppata a livello europeo. Il potere è sempre più concentrato nelle mani di istituzioni tecnocratiche che non rispondono delle loro decisioni e in quelle dei paesi più forti dell'Unione. Allo stesso tempo, cresce in tutto il continente un'ondata di populismo, con l'affermarsi in alcuni paesi di pericolosi movimenti nazionalisti. Eppure non vi è ancora un consenso non dico a livello mainstream, ma neanche a sinistra sulle ragioni che ci hanno condotto fino a questo punto, e su come uscirne. Uno dei motivi che mi hanno spinto a iniziare l'edizione inglese di questo libro (The Battle for Europe, Pluto Press), nell'estate del 2012, era precisamente la mancanza di un'analisi esaustiva, critica e accessibile di quello che stava accadendo, che fosse in grado di integrare in un unico quadro analitico le diverse crisi che componevano "la crisi". Per come la vedevo e per come la vedo ancora oggi , si trattava di un problema politico ancor prima che teorico: il fatto che le politiche di austerità imposte dall'establishment europeo, che sarebbero state impensabili solo qualche anno prima, incontrassero relativamente poca resistenza poteva imputarsi in buona parte all'incapacità dei cittadini di comprendere le dinamiche in corso. E dunque di reagire. Oggi non si può certo dire che le cose siano migliorate. Anzi: per certi versi sono addirittura peggiorate. Il perdurare della crisi economica e la vergognosa gestione della vicenda greca hanno sì trasformato la crisi in un argomento di dibattito diffuso e questo è senz'altro un elemento positivo , ma hanno anche determinato un progressivo imbarbarimento del dibattito pubblico, sempre più dominato da logiche nazionalistiche («prima gli italiani») e semplificazioni illusorie e solo apparentemente radicali («fuori dall'euro»). Nel frattempo molti dei miti fondativi alla base del "regime di austerità" dobbiamo stringere la cinghia perché stiamo finendo i soldi; abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità; il problema è l'eccessivo debito pubblico ecc. si sono persino rafforzati. Per quanto mi riguarda, rispetto a quando è uscita l'edizione inglese, a inizio 2014 e dunque rispetto ad alcune delle proposte in essa avanzate , sono diventato molto meno ottimista sulla capacità dei movimenti europei antiausterità di ottenere un cambio di rotta senza un ribaltamento radicale degli equilibri politici nei singoli Stati membri e nell'eurozona nel suo complesso. Pur criticando la superficialità di certe posizioni che potremmo definire "neosovraniste", riconosco che è necessario un riposizionamento da parte di tutti coloro che come me si sono a lungo identificati in una posizione di "Europa democratica e di sinistra" che immagina(va) di poter riformare l'eurozona e l'Unione Europea in una direzione più democratica e progressista (keynesiana). Da un lato bisogna prendere atto che i tedeschi (e la loro galassia) non saranno mai disposti ad accettare almeno nel breve termine una riforma dell'eurozona in questo senso. Dall'altro, però, bisogna anche ribadire che l'uscita individuale e unilaterale di un singolo paese (come può essere la Grecia, ma lo stesso discorso vale anche per l'Italia), al fine di recuperare la tanto agognata "sovranità monetaria", rimane una pericolosa illusione nel momento in cui i rapporti di forza sono fortemente sbilanciati ovunque a favore del capitale e in cui la deflagrazione incontrollata della zona euro rischierebbe di precipitare l'Europa e l'economia globale nel caos finanziario, in quella che Barry Eichengreen ha definito una «Lehman al quadrato». In questa fase, dunque, la prospettiva per chiunque voglia allargare nuovamente la sfera pubblica al fine di rilanciare l'occupazione e gli investimenti non può che essere quella di trasformare i rapporti di forza sia all'interno dei singoli paesi che tra i paesi stessi per riuscire a incidere sui processi reali invece di subirli passivamente (a prescindere dall'obiettivo strategico che uno si dà). Il che vuoi dire che il lavoro che ci aspetta è lungo e faticoso, e che non esistono scorciatoie o soluzioni miracolistiche. In quest'ultimo anno e mezzo, ho anche approfondito alcuni aspetti della crisi e cambiato opinione su altre questioni. Considero dunque la presente edizione italiana rivista, approfondita, aggiornata e adattata per l'Italia insieme a Guido Iodice, cofondatore e animatore del sito Keynes blog, con cui ho intrecciato nel tempo un proficuo scambio intellettuale, a partire dalla nostra comune ammirazione per il celebre economista britannico un importante passo avanti rispetto all'originale. E, sperabilmente, l'inizio di un percorso comune con tutti coloro che, come noi, non hanno nessuna intenzione di morire "austeriani". THOMAS FAZI, Gennaio 2016 | << | < | > | >> |Pagina 15[...] Lo scenario alternativo non è però più rassicurante perché significa che Draghi e Merkel riusciranno a "cuocere" la pietanza: i paesi periferici. La Grecia non è che il caso più eclatante. Ciò a cui si assisterebbe in questo caso sarebbe quindi non solo una crisi alla giapponese, con bassissima crescita dell'eurozona, ma la continuazione della divaricazione tra centro e periferia e l'acquisizione delle grandi imprese dei paesi periferici da parte di quelle degli Stati dominanti, peraltro già iniziata. Una sorta di colonizzazione, insomma, favorita dai processi di privatizzazione e liberalizzazione. Il quantitative easing va visto in questo contesto come il tentativo di offrire una valvola di sfogo alle tensioni interne dell'eurozona, riportando gli spread a livelli innocui per la tenuta dell'euro e "assicurando" la solvibilità degli Stati indebitati in cambio delle riforme che, deprimendo il lavoro, favoriscono il capitale. Ma c'è di più: l'intento esplicito di Draghi è, attraverso il QE, quello di aumentare le dimensioni del mercato finanziario europeo, in particolare per gli strumenti derivati, oggi troppo piccolo in relazione al PIL, se confrontato con quello delle economie anglosassoni. Questo, insieme alle acquisizioni delle imprese dei paesi periferici da parte dei capitali del centro, porterà, nelle intenzioni del duo Merkel-Draghi, alla nascita di un "capitale europeo": non più quindi diciannove capitali nazionali in conflitto tra loro. Θ un progetto ambizioso, di grande portata, ed è ciò che si trova a sfidare chiunque voglia immaginare un esito progressista della crisi europea. Quella di Merkel e Draghi, in questo senso, è stata ed è, davvero, la battaglia contro l'Europa, contro il modello sociale europeo, contro le costituzioni interventiste, contro i residui del compromesso socialdemocratico-keynesiano che sono sopravvissuti alla rivoluzione liberista nei decenni scorsi. Non sorprende quindi che la reazione della parte più debole delle popolazioni europee, colpita dalle politiche seguite nell'Unione, sia stata in alcuni casi (Italia, Francia) uguale e contraria anch'essa quindi contro l'Europa attraverso il consenso a partiti antieuropei che si pongono, tra l'altro, l'obiettivo di uscita dei rispettivi paesi dall'eurozona o addirittura dall'Unione Europea. Ma nell'ultimo anno si è affacciata anche un'alternativa progressista a questa Europa. L'emergere di forze politiche come SYRIZA in Grecia, Podemos in Spagna, il Blocco di Sinistra in Portogallo e lo Sinn Féin in Irlanda sembra dire che esistono gli spazi per un conflitto in Europa e non contro di essa. Queste forze, pur diversissime tra loro per genesi, sono accomunate da prospettive vicine. Prima di tutto si tratta di forze della sinistra radicale (tutte aderiscono nel Parlamento Europeo al gruppo della Sinistra Unitaria) al di là dei distinguo propagandistici (come nel caso di Podemos). In secondo luogo, si tratta di forze che ritengono l'Unione Europea compresa la moneta unica un terreno di conflitto e non un progetto da abbattere. Infine, e non appaia una contraddizione, si tratta di forze che credono nella funzione dello Stato nazionale. Esse hanno compreso cioè che conquistare il governo degli Stati nazionali è l'unica arma efficace per mutare i rapporti di forza in Europa, nel momento in cui il Parlamento Europeo già di per sé privo di poteri decisivi è succube di una grande coalizione tra le forze liberiste, quelle conservatrici e quelle (almeno nominalmente) progressiste. Se ci si passa l'ardito paragone, queste forze ambiscono a fare svolgere agli Stati membri dell'Unione Europea il ruolo che gli Stati federati ricoprirono nel processo che portò all'inserimento, nella costituzione degli Stati Uniti, del Bill of Rights i primi dieci emendamenti che stabiliscono i diritti individuali e limitano il potere del governo federale. Sia chiaro, nulla è semplice o scontato. Quello che le forze progressiste possono ottenere nelle attuali circostanze è l'apertura di un percorso, non un rapido ribaltamento delle politiche europee, impossibile da immaginare dati i rapporti di forza, le sconfitte storiche accumulate dalla sinistra, la resilienza dell'ideologia e della pratica neoliberiste. La vicenda greca appare emblematica. Se da un lato il governo Tsipras ha dovuto, volente o nolente, piegarsi ai diktat della troika, dall'altro la sua battaglia ha aperto la discussione su un tema tabù, vale a dire la ristrutturazione del debito pubblico che, secondo il governo tedesco, trasformerebbe l'UE in una transfer union. Eppure la piccola, debole e ricattabile Grecia ha trovato alleati importanti su questo punto, dagli Stati Uniti alla Francia al Fondo Monetario Internazionale, mettendo chiaramente in evidenza l'insostenibilità del debito pubblico ellenico e l'impossibilità di continuare nella politica "extend and pretend", estendere i prestiti facendo finta che i debiti siano sostenibili. Θ poco? Θ tanto? Secondo noi è quello che realisticamente poteva ottenere un paese che rappresenta una minuscola frazione del PIL dell'UE e che è stato isolato finanziariamente dal resto del mondo, rendendo il suo potere di ricatto («se mi cacciate dall'euro crolla tutto») solo potenziale. C'è da chiedersi quanto potrebbe cambiare la situazione se arrivassero al governo di paesi importanti non l'Italia, sia chiaro, perché da noi la sinistra radicale è profondamente inadeguata alla sfida forze che abbiano anche solo una frazione della determinazione dimostrata da Tsipras. In questo percorso, insomma, si potranno avere ritirate, sconfitte e persino temporanee capitolazioni, in un cammino tutt'altro che lineare. La moneta unica in quanto tale non è il terreno di scontro sul quale tali forze dovrebbero giocare la partita, altrimenti sarebbero sconfitte in partenza. Sia per motivi economici, come spiegheremo, sia per motivi prettamente politici, come si è visto nelle elezioni greche del settembre 2015, nelle quali la sinistra "no-euro" non è riuscita neppure a entrare in parlamento. L'atteggiamento delle forze progressiste non può quindi essere quello di distruggere l'euro, né quello di accettare passivamente che sia utilizzato per "cuocere" i paesi periferici e le classi subalterne. Chi propende per la prima soluzione commette l'errore di credere che l'uscita unilaterale di un paese dall'euro non avrebbe conseguenze sistemiche sul resto dell'area e sull'economia globale. Costoro, con i loro superficiali ragionamenti ceteris paribus e con le loro ipersemplificazioni, alimentano un'illusione pericolosa, che nasce dall'errore di paragonare l'euro a un semplice accordo di cambio fisso e dal non tenere in conto che l'esistenza dell'euro ha già modificato profondamente le economie, rendendole interconnesse, soprattutto dal punto di vista finanziario, come mai nel recente passato. Dall'altra parte coloro che invece pretendono di continuare con il business as usual, come se nulla fosse, mettono a rischio non tanto l'euro ma il progetto stesso di integrazione europea, esponendolo al rischio di una deriva politica verso la destra estrema di fasce di popolazione sempre più impoverite. Chi si ritiene europeista dovrebbe porsi in alternativa a entrambi questi esiti. Tutto dipenderà, come sempre, dai rapporti di forza e dalle scelte che faranno gli elettori. Nessun esito è scontato. Al contrario, la battaglia per l'Europa è più che mai aperta. THOMAS FAZI GUIDO IODICE , Gennaio 2016 | << | < | > | >> |Pagina 27Il ruolo delle banche europee nella crisi Al tempo dello scoppio della bolla dei mutui subprime era diffusa in Europa l'idea secondo cui la crisi finanziaria, della quale il nostro continente cominciava a sentire gli effetti, fosse unicamente il risultato di una bolla speculativa sviluppatasi negli Stati Uniti e poi "esportata" in Europa. Θ un'idea che ancora oggi gode di un certo seguito. Ma questa versione degli eventi, secondo cui le banche e le istituzioni europee furono semplici "vittime collaterali" di una crisi generatasi oltreoceano, costituisce una lettura estremamente parziale dei fatti. Come scriveva Luciano Gallino , «non si è affatto trattato di una crisi americana seguita da una crisi europea; in realtà la prima e la seconda sono due volti, o due fasi, di una medesima crisi del capitale finanziario». Le banche europee hanno contribuito allo scoppio della crisi del 2008 e alla crisi del debito sovrano che ne è scaturita in misura equivalente, se non addirittura superiore, alle banche statunitensi. [...] Quattro paesi hanno presentato programmi di aiuti alle banche che vanno dai 600 miliardi della Germania agli 850 del Regno Unito (che nel 2008 ha anche parzialmente nazionalizzato due banche, la Royal Bank of Scotland e la Lloyd Banking Group). I programmi di altri quattro paesi variavano tra i 320 miliardi dell'Olanda e i 350 della Francia. L'ammontare del sostegno pubblico effettivamente utilizzato dalle istituzioni finanziarie è stato di 960 miliardi di euro nel 2008 e 1100 miliardi nel 2009: oltre 2000 miliardi di euro in soli due anni. Si tratta di una cifra colossale, che ovviamente gli Stati non avevano a portata di mano; si sono dovuti rivolgere ai mercati finanziari per trovare i capitali necessari. In altre parole, gli Stati sono stati costretti a prendere a prestito dai mercati finanziari il denaro necessario per salvare quegli stessi mercati, trasferendo così una montagna di debito direttamente dal settore privato al settore pubblico. Un caso esemplare di socializzazione delle perdite (dopo anni di privatizzazione dei profitti). Agli interventi statali a sostegno delle banche bisogna aggiungere anche il sostegno della BCE. A partire dal settembre 2008, la Banca Centrale Europea ha adottato una serie di misure per sostenere le banche UE, comprese in un "programma di credito potenziato" che di fatto ha offerto una fonte illimitata di fondi alle banche della zona euro. Tra fine 2011 e inizio 2012, poi, attraverso l'operazione LTRO la BCE ha prestato oltre 1000 miliardi alle banche (a tassi vicini allo zero). Alla luce di questi numeri, è utile rammentare che, nel 2010, l'eurozona rischiò di spaccarsi perché gli Stati non riuscivano a mettersi d'accordo sull'esborso di poco più di 100 miliardi di euro per "salvare" la Grecia.
Θ importante sottolineare che le colossali somme di
denaro iniettate dagli Stati e dalla BCE nelle banche europee in questi anni non
sono state accompagnate da alcuna
conditionality
(per esempio sull'impiego di tali fondi a favore dell'economia reale), né
tantomeno da una seria riforma del sistema finanziario, per evitare perlomeno
l'insorgere di un'altra crisi. Si è trattato in sostanza di
un assegno in bianco. Un trattamento ben diverso da
quello riservato in seguito agli Stati dell'UE.
La socializzazione delle perdite
Questo ci porta a uno dei principali miti fondativi del "regime di austerità", ossia l'idea molto diffusa ancora oggi secondo cui la causa principale dell'eurocrisi sarebbe l'eccessivo debito pubblico dei paesi europei, a sua volta causato da un'eccessiva spesa pubblica. Il concetto è stato "formalizzato" per la prima volta dal ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schδuble alla fine del 2010 in un articolo che ebbe ampia diffusione in Europa. Nell'articolo il ministro affermava che: - l'avventatezza del sistema finanziario non è la vera causa della crisi dell'eurozona ma semplicemente «la causa scatenante»; - la vera causa della crisi è il debito pubblico eccessivo di molti Stati membri; - questo a sua volta è stato causato da anni di eccessiva spesa pubblica da parte di paesi che per troppo a lungo «hanno vissuto ben al di sopra delle loro possibilità» una frase che nei mesi e negli anni successivi sarebbe diventata un vero e proprio mantra; - i livelli di deficit e di debito vanno ridotti «al più presto», prima che sia «troppo tardi»; l'unico modo per ridurre i livelli di deficit e di debito è ridurre la spesa sociale; - rilanciare la crescita per mezzo degli investimenti pubblici non è un'opzione; - l'eurozona va riformata al fine di imporre una maggiore «disciplina fiscale» agli Stati membri;
- questi ultimi devono imparare «a vivere dei propri
mezzi e a rafforzare la loro competitività».
Come è noto, nel giro di poco tempo questa lettura estremamente ideologica e del tutto infondata delle origini della crisi che costituisce una vera e propria riscrittura della storia della crisi finanziaria fu elevata a verità incontestabile, anche per mezzo di una martellante campagna mediatica. Un fatto che forse meriterebbe una riflessione a sé, considerando quanto questa versione dei fatti si discosti dalla realtà. | << | < | > | >> |Pagina 40La grande redistribuzione (dal basso verso l'alto)Prima di passare ad analizzare la risposta delle autorità europee alla crisi, nel capitolo 2, ci preme però approfondire un po' meglio la questione del debito pubblico. Abbiamo mostrato come prima della crisi sia il rapporto deficit-PIL che quello debito-P1L dell'eurozona nel suo complesso così come della maggior parte dei paesi della periferia fossero in linea, o quasi, con i parametri di Maastricht, e come l'aumento cospicuo del deficit e del debito pubblico verificatosi nei paesi dell'UE in seguito alla crisi sia imputabile quasi per intero ai salvataggi del sistema bancario. Questo è un dato innegabile. Allo stesso tempo, è altrettanto vero che in molti paesi europei, tra cui l'Italia (e in generale in tutti i paesi avanzati), negli ultimi trent'anni il debito pubblico è effettivamente aumentato in maniera molto significativa (per poi scendere nuovamente, in media anche se non ovunque, tra la metà degli anni Novanta e il 2007).
Ma questo non è dovuto a un aumento della spesa
pubblica in questo periodo come sostengono i fautori
dell'austerità quanto all'erosione delle entrate pubbliche, dovuta a una
debole crescita economica, alla stagnazione dei salari e soprattutto alla
controrivoluzione fiscale degli ultimi trent'anni. In base alla convinzione
del tutto smentita dai fatti che tasse più basse stimolino la crescita e
finiscano per aumentare le entrate
dello Stato, secondo la dottrina della
trickle-down economics,
gli Stati europei, come del resto tutti i paesi
avanzati, hanno iniziato dal 1980 a imitare la politica fiscale americana. Sono
così proliferati i tagli alle tasse e
ai contributi sui profitti delle società, sui redditi dei più
ricchi, sui grandi patrimoni, sui contributi degli imprenditori ecc. Nei paesi
dell'UE l'imposta sui redditi alti è passata, in media, dal 50 per cento nei
primi anni Novanta al 40 per cento nella metà degli anni Duemila
(per poi risalire leggermente in seguito alla crisi). Lo
stesso dicasi dell'imposta sul reddito d'impresa, che oggi nell'UE è arrivata ai
minimi storici: 23 per cento in media, rispetto al 35 per cento del 1995 e alla
media statunitense del 40 per cento. Queste politiche antiredistributive hanno
aggravato sia le disuguaglianze sociali,
che oggi hanno raggiunto livelli record in molti paesi
europei, sia i deficit pubblici. Scrive il collettivo francese degli
économistes atterrés:
Tali politiche fiscali hanno costretto i governi a prendere a prestito
denaro dalle famiglie più ricche e dai mercati per finanziare i deficit così
creati. Si potrebbe a questo proposito parlare di effetto "jack-pot": con i
soldi risparmiati sulle tasse, i ricchi hanno potuto acquistare i titoli del
debito pubblico emessi per finanziare il deficit
causato dalla riduzione delle tasse. Θ sorprendente come
i leader politici siano riusciti a convincere i cittadini che
i lavoratori, i pensionati e i malati siano i responsabili del
debito pubblico. L'incremento del debito pubblico in
Europa o negli USA non è dunque il risultato di politiche
keynesiane espansive o di costose politiche sociali, ma è
piuttosto il risultato di politiche in favore di pochi fortunati: tasse e
contributi più bassi hanno aumentato il reddito disponibile di coloro che ne
hanno meno bisogno, con l'effetto che questi ultimi hanno potuto accrescere
ulteriormente i loro investimenti in titoli pubblici, poi
rimborsati con gli interessi dallo Stato attraverso le entrate fiscali pagate da
tutti i contribuenti. Nel complesso, si è messa in moto una forma di
redistribuzione verso l'alto, dalle classi più povere alle più ricche,
attraverso il debito pubblico, la cui controparte è sempre la rendita
privata.
In Europa l'impatto delle politiche neoliberiste (e in particolare della liberalizzazione dei flussi di capitale) sui livelli di disuguaglianza e sui bilanci pubblici è stato per certi versi più deleterio che altrove per due motivi: la pratica del dumping fiscale e il proliferare di numerosi paradisi fiscali nel cuore del continente. [...] Secondo lo studio di Murphy, l'Italia è il paese che subisce le perdite maggiori a causa dell'evasione fiscale: circa 180 miliardi l'anno, pari all'incirca al 250 per cento del deficit annuale. Scrive Murphy: «L'evasione e l'elusione fiscale minano la sostenibilità delle economie europee e hanno senza dubbio contribuito in maniera decisiva a creare la "crisi del debito" che ora minaccia le condizioni di vita di milioni di europei e il futuro stesso dell'UE», nonché a impoverire sempre di più la collettività, in quanto gli Stati si sono visti "costretti" a compensare la riduzione delle entrate aumentando la tassazione sul lavoro, tagliando i servizi o, appunto, indebitandosi sempre di più. Detto in parole semplici, negli ultimi decenni gli Stati hanno rinunciato a tassare i grandi patrimoni attivamente per mezzo di politiche fiscali antiredistributive o passivamente, tollerando il fenomeno dell'evasione fiscale e hanno iniziato a chiedere loro in prestito, con il dovuto interesse, i soldi che hanno smesso di chiedere loro sotto forma di imposizione fiscale. In pratica, il debito pubblico, da strumento di politica economica nell'interesse pubblico, si è trasformato progressivamente in un meccanismo di "welfare al contrario". | << | < | > | >> |Pagina 160Né uscita dall'euro né unione politica
La recente vicenda greca ha ingrossato le fila di coloro
che, anche a sinistra, vedono l'uscita dall'euro come una
conditio sine qua non
per uscire dalla crisi e rilanciare la
crescita e l'occupazione nei paesi della periferia europea.
Riteniamo che questa sia una conclusione comprensibile,
ma affrettata. Θ comprensibile perché risponde a un istinto che anche chi scrive
ha provato durante la notte di
trattative tra il governo greco e i creditori, che sui social
media è stata definita un "colpo di Stato". Lo spettacolo
di un capo di governo sottoposto a una tortura psicologica da parte dei suoi
omologhi, costretto ad accettare misure punitive e in molti casi così assurde da
risultare ridicole, può legittimamente indurre a ritenere irriformabili
l'Unione Europea e l'euro o, di più, a considerare la distruzione della moneta
unica una questione di democrazia e non di economia. Non ci preoccuperemo di
contestare questo punto di vista perché, se depurato dalla propaganda che
sovente lo accompagna e che spesso offusca
il giudizio politico complessivo sulla vicenda, non sarebbe così lontano da
quello di chi scrive, se solo vivessimo
in un mondo totalmente opposto a quello reale. Un mondo in cui i paesi sono
relativamente isolati finanziariamente e non strettamente interconnessi come
sono nel mondo e nell'Europa reali, un mondo in cui tutte le monete sono uguali
tra loro invece che essere gerarchicamente subordinate al dollaro e alle altre
valute di riserva, un mondo in cui l'euro è solo un'unità di conto e non una
moneta vera come in effetti è, un mondo in cui i cambi
dipendono dalle bilance commerciali e non dai movimenti di capitali, un mondo in
cui svalutare la propria moneta porta quasi solo vantaggi e quasi nessuno
svantaggio, perché gli altri accettano l'aggiustamento, un
mondo in cui la politica controlla la moneta e non il contrario: insomma il
mondo di Bretton Woods, nel quale non è un paradosso! i cambi erano
tendenzialmente fissi. Potremmo continuare. Il problema è che quel mondo
non esiste più, e se da un lato è giusto lottare per tornare
a quel sistema (o anche crearne uno migliore), dall'altro
è illusorio pensare che ciò avverrà in tempi rapidi e pericoloso agire come se
quel sistema esistesse ancora. La politica è l'arte del possibile e bisogna per
ora assumere la moneta unica come un dato.
John Maynard Keynes
C'è però un'altra posizione diametralmente opposta
a quella dei no-euro che ci preoccuperemo di contestare: quella di chi ritiene
che per risolvere la crisi dell'euro occorra fare gli "Stati Uniti d'Europa".
Non perché chi scrive sia contrario in linea di principio a una
prospettiva simile. Tutt'altro! Ma perché,
nelle attuali circostanze,
dovrebbe essere evidente a tutti che quando
si parla di "cessione di sovranità", di "unione fiscale", di
"Tesoro europeo", di "unione politica", non si sta parlando di creare uno Stato
federale, ma di sottoporre in modo ancor più stringente gli Stati alla
disciplina fiscale tedesca. Al contrario, ciò che ci pare necessario,
nelle attuali circostanze,
è ricominciare daccapo il processo costituente europeo dando maggiore spazio di
manovra agli Stati. Qualcosa in questo senso è avvenuta (la "comunicazione sulla
flessibilità", la possibilità di scorporare gli investimenti destinati al "piano
Juncker" dal computo del deficit), ma su questa strada va fatto molto di
più e rapidamente. Non ci vuole "più Europa" per salvare l'Europa e neppure per
salvare l'euro. Ce ne vuole di meno.
«Una Lehman al quadrato» In questi anni, molti economisti e commentatori hanno provato a immaginare le conseguenze di una possibile uscita dell'Italia dall'euro. Il problema di molte di queste analisi è che esse assumono implicitamente che, dopo l'uscita dell'Italia dalla moneta unica, l'euro, l'Europa e il resto del mondo continuino a funzionare come se nulla fosse. L'uscita dall'euro viene cioè trattata come una semplice svalutazione o al limite come l'uscita da un sistema di cambi fissi, come fu nel caso dell'uscita dallo SME nel 1992. Anche se così fosse, basta vedere cosa è accaduto in alcuni paesi dell'Est Europa dopo la rivalutazione da parte della banca nazionale svizzera, a inizio 2015, per comprendere che con la finanza globalizzata anche una semplice svalutazione può produrre effetti imprevedibili. Ma nel caso dell'uscita dell'Italia dall'euro, occorre prepararsi a effetti molto più grandi e su scala molto più vasta. Come ammettono anche autori pur favorevoli alla fine della moneta unica, l'uscita unilaterale di un paese come l'Italia o la Spagna dall'eurozona determinerebbe un effetto contagio sull'intero sistema bancario europeo, che porterebbe all'uscita disordinata e in sequenza di altri paesi deboli. Esso poi colpirebbe in modo significativo la Francia e anch'essa probabilmente sarebbe costretta a uscire. Infine il contraccolpo di questa "fine al rallentatore", accompagnata dal panico dei mercati, si abbatterebbe sulle banche tedesche e sul resto del globo. Una conferma viene anche dalla lettura dei risultati dello stress test del Center for Risk Management di Losanna, che tiene conto dell'effetto contagio di un'eventuale crisi finanziaria e mostra quanto sia fragile, e interconnesso, il sistema bancario europeo. Il contagio finanziario potrebbe forse essere contenuto da un massiccio intervento della BCE e del MES, che andrebbero in soccorso delle banche e degli Stati che necessitassero di assistenza per evitare l'uscita dalla moneta unica. Molti giudicano gli strumenti finora messi in campo dall'UE (MES, unione bancaria, OMT) insufficienti allo scopo, ma, anche se ciò non fosse vero, il contagio implicherebbe comunque un nuovo credit crunch e una nuova pesante recessione, accompagnata da un rafforzamento delle spinte deflattive, che rappresenterebbero altra benzina sul fuoco dei fallimenti bancari a catena. Ma persino sulla capacità della BCE di frenare la dissoluzione incontrollata dell'eurozona e assicurare la tenuta del suo sistema finanziario si possono nutrire molti dubbi, come vedremo. Si immagini come i mercati potrebbero reagire all'uscita di un paese dall'eurozona (e all'eventuale default sulle passività verso l'Eurosistema) dopo che la Banca Centrale Europea ha esplicitamente impegnato se stessa sull'irreversibilità della moneta unica «per tutti i suoi membri» o quasi: come abbiamo visto la BCE ha tenuto un atteggiamento piuttosto ambiguo nei confronti della Grecia attraverso l'OMT e poi il quantitative easing. La credibilità della BCE, l'unico collante che ha tenuto l'euro in piedi sinora, e quindi della stessa moneta che essa emette, ne verrebbe danneggiata e l'istituto di Francoforte difficilmente potrebbe svolgere efficacemente il ruolo attuale di garanzia di tenuta dell'unione monetaria europea. Il rischio è quello di una «Lehman Brothers al quadrato», per dirla con l'economista e storico dell'economia Barry Eichengreen. La crisi del 2008 in fondo si diffuse nel mondo grazie al fallimento di una sola banca, per quanto grande. E il nuovo shock avverrebbe non dopo anni di espansione, come nel caso di Lehman, ma a valle di una dura recessione. L'enfasi di Eichengreen pare quindi appropriata, anche considerando l'eccezionalità dell'eventuale esplosione dell'area euro, come confermano i fatti che riportiamo qui di seguito. Yanis Varoufakis ha giustamente sottolineato che l'eurozona è una nave costruita male, ma farla affondare e gettarsi nell'oceano non è un'alternativa. In mancanza di quella cooperazione che non riusciamo a raggiungere su misure meno impegnative come salvare la piccola Grecia, ciò che ci attende è probabilmente l'acqua gelida e le incognite di un evento senza precedenti, non il tepore della ritrovata sovranità monetaria. | << | < | > | >> |Pagina 177Svalutare la moneta per svalutare il salarioParadossalmente, il tema fondamentale che accomuna pro e no-euro è la competitività. Competitività di prezzo, si intende, perché parliamo di moneta. Da un lato i pasdaran dell'euro pretendono che i paesi meridionali della zona euro si facciano carico degli squilibri "facendo le riforme". Vale a dire svalutando il lavoro, abbassando i salari al fine di recuperare competitività e, il prima possibile, ripagare i debiti con il centro. Dall'altra parte i no-euro dicono che ciò che occorre riallineare non è il prezzo del lavoro, ma quello della moneta. L'uscita dall'euro e la conseguente svalutazione, quindi, sono un piccolo prezzo da pagare per permettere ai lavoratori di non vedere ridotti i propri salari. Detta così, pare davvero una "cosa di sinistra". Le cose stanno un po' diversamente. Basta ad esempio guardare alla vicenda italiana per rendersene conto. La svalutazione conseguente all'uscita dell'Italia dallo SME nel 1992 coincise con una caduta della quota salari sul PIL e del salario reale. Ma non è l'unico caso. Emiliano Brancaccio e Nadia Garbellini hanno mostrato che si tratta di un fenomeno comune. Anche recentemente, se guardiamo ad esempio al Regno Unito o all'Islanda, notiamo una significativa contrazione dei salari reali dopo le rispettive svalutazioni. A spiegare perché ciò accade ci pensa Roger Bootle, vincitore del premio Wolfson 2012 per il suo piano di uscita dall'euro, in cui prende ad esempio la Grecia: Il deprezzamento della nuova moneta avrebbe quindi profonde implicazioni per i salari reali, e per il valore reale di tutti gli importi nominali fissati in dracme. Per far funzionare il deprezzamento, cioè garantire che il cambio reale scenda così come il tasso nominale, sarebbe indispensabile che il salario non salisse a compensare. La logica è disarmante e semplicissima. Se svaluti per recuperare competitività, ebbene non puoi far salire i salari nominali, che si rimangerebbero in fretta l'effetto competitivo della svalutazione. Detta in altri termini, "si svaluta la moneta e si svaluta il lavoro". Del resto quali siano gli effetti di una svalutazione competitiva sulle classi sociali lo abbiamo visto noi stessi nel 1992.
Se svalutare la moneta serve a svalutare il salario, ci si
potrebbe chiedere se una "uscita da sinistra" dall'euro
non potrebbe invece prevedere la reintroduzione dell'indicizzazione dei salari.
Θ semplice capire che si tratta
di una illusione. Se un paese dovesse uscire dall'euro, la
cosa più disastrosa da fare sarebbe indicizzare i salari all'inflazione, dando
così ai mercati l'aspettativa di nuove
inevitabili svalutazioni future per riallineare la competitività, svalutazioni
che verrebbero da essi anticipate portando la "nuova lira" o la "nuova peseta" a
crollare sui mercati valutari, rendendo i debiti in valuta estera più
gravosi e quindi accentuando il pericolo di una
balance sheet recession,
di cui abbiamo già parlato nei paragrafi
precedenti. E, ancora, una politica del genere potrebbe
innescare una spirale svalutazione-inflazione-salari e una
stagflazione simile a quella degli anni Settanta, anche se
certamente più contenuta dato il recente calo del prezzo
del petrolio, e rischierebbe di privare il paese di credito
estero a tassi accettabili proprio nel momento più delicato e difficile.
L'uscita dall'euro e il presunto miracolo del 1992 Le tesi dei no-euro spesso sembrano addebitare all'euro qualsiasi scelta di politica economica, qualsiasi ritardo dell'Italia rispetto al resto dell'Europa. In questa ossessione "flessicambista" e anti-euro si perde così di vista il contesto, quello degli anni Novanta, intriso di ideologia liberista. Da questo punto di vista, l'Italia è stata una campionessa dopo l'uscita dallo SME nel 1992: privatizzazioni, austerità, riduzione del welfare. Tutto ciò non avvenne "nonostante" la svalutazione, ma in certi casi proprio a causa di essa. Come ricordano Emiliano Brancaccio e Marco Passarella: Fu [...] proprio la svalutazione della lira ad abbattere il valore dei capitali nazionali a un punto tale da creare le condizioni ottimali per il massiccio programma di privatizzazioni realizzato nel corso degli anni Novanta. Un programma record secondo per dimensioni solo a quello del Regno Unito che già allora favorì in misura rilevante numerosi acquirenti esteri. A volte i no-euro sostengono che ciò fu dovuto all'impegno di entrare nell'euro sottoscritto con il Trattato di Maastricht, ma in realtà le politiche liberiste furono attuate ovunque, dentro e fuori l'area euro. Basti ricordare Bill Clinton che abolisce il Glass-Steagall Act, deregolamenta i derivati, spinge per creare la bolla immobiliare e riporta dopo decenni il bilancio federale in attivo. | << | < | > | >> |Pagina 182La questione dei rapporti di forzaFin qui ci siamo limitati ad analizzare il tema dell'uscita da un punto di vista strettamente tecnico. Ma a immaginare gli effetti economici di un'uscita senza prendere in considerazione le variabili politiche commetteremmo lo stesso errore di quei no-euro non tutti che analizzano gli effetti di un'uscita domani sulla base delle condizioni che sussistono oggi (o, come amano dire gli economisti, ceteris paribus, espressione latina che sta a significare 'a parità di condizioni'). Per dirla diversamente, nelle precedenti pagine abbiamo cercato di immaginare le conseguenze a nostro avviso, tutt'altro che salvifiche di un'uscita dall'euro a "condizioni storiche" (rapporti di forza tra classi, livello di autoorganizzazione delle masse lavoratrici, equilibri geopolitici ecc.) immutate, se non altro perché, purtroppo, non vi è motivo di ritenere che, nel breve, quelle condizioni subiranno alterazioni sostanziali. Detto questo, va da sé che una politica diversa potrebbe imprimere un corso diverso rispetto a quello da noi ipotizzato per l'eventuale uscita di un paese dalla zona euro. Non a caso, molti no-euro insistono sul fatto che l'uscita è "una condizione necessaria ma di per sé insufficiente"; quello che serve dicono è una "uscita a sinistra", contrapposta all'"uscita a destra" chiusura delle frontiere, repressione dei corpi estranei alla nazione, politiche economiche conservatrici ecc. auspicata dai vari partiti e movimenti "neosovranisti" riconducibili alla galassia della destra populista. Come scrive Costas Lapavitsas, uno dei principali teorici della fuoriuscita dei paesi della periferia a cominciare dal suo, la Grecia dall'eurozona, un'"uscita progressista" dovrebbe basarsi «sulla nazionalizzazione delle istituzioni finanziarie, sul controllo dei movimenti di capitale, su politiche redistributive e industriali che garantiscano l'occupazione e la crescita e sulla ristrutturazione totale dello Stato in chiave democratica». Ora, sulla bontà e sull'auspicabilità di un tale programma sempre che esso sia veramente applicabile "in un solo paese", ma questo è un altro discorso nessuna persona di sinistra potrebbe eccepire. C'è un problema, però: se in nessun paese europeo si ravvedono neanche in lontananza le condizioni politiche necessarie che presupporrebbero un ribaltamento totale dei rapporti di forza tra capitale e lavoro per implementare un programma di quel tipo, e se la possibilità di implementare un programma di quel tipo è una condizione sine qua non per un'"uscita a sinistra" dall'euro l'unica uscita che secondo Lapavitsas (e molti altri no-euro di sinistra) ha senso prendere in considerazione , viene allora da chiedersi che senso abbia insistere, qui e ora, sull' exit. Questo ci aiuta a capire la drammatica esperienza "governativa" di SYRIZA. In seguito alla decisione di Tsipras di sottoscrivere un terzo memorandum d'intesa con la troika, molti a sinistra hanno accusato Tsipras di «tradimento» e di «capitolazione» nei confronti dell'oligarchia europea. Ma sono fondate queste accuse? Θ indubbio che si tratti di un accordo economicamente e politicamente pessimo che se applicato alla lettera difficilmente permetterà all'economia greca di risollevarsi. Ma c'è anche da dire che era con ogni probabilità il miglior accordo che la Grecia potesse ottenere. Θ opportuno ricordare che Tsipras, il suo governo e il popolo greco, si sono ritrovati a ingaggiare una battaglia durissima contro alcune delle istituzioni e degli Stati più potenti al mondo, in completa solitudine da un lato la socialdemocrazia e gran parte dei socialisti europei si sono voltati dall'altra parte, e in molti casi si sono schierati contro; dall'altro i movimenti sociali non sono stati in grado di incidere sui rapporti di forza e in condizioni politiche e psicologiche difficilissime (il «Guardian» ha scritto che Tsipras è stato sottoposto a «un massiccio waterboarding mentale» nella maratona del Consiglio Europeo del 12 luglio). Nonostante questo, il premier greco ha mostrato saldezza di nervi, dignità e determinazione, ottenendo quel che un governo arrivato al potere per mezzo di regolari elezioni, sulla base di un moderatissimo programma di stampo socialdemocratico, poteva ottenere per via diplomatica, alla luce delle circostanze storicamente date, a partire dallo stato della lotta di classe in Grecia e, soprattutto, dei brutali rapporti di forza su cui si fonda l'attuale assetto europeo. Esistevano dunque delle alternative alla sottoscrizione di questo terzo memorandum? Su questo punto bisogna essere chiari: l'alternativa si chiamava uscita dall'eurozona (l'idea, suggerita anche dallo stesso Varoufakis, che esistesse una "terza via" in cui la Grecia avrebbe emesso una moneta parallela rimanendo però nell'eurozona non convince). Alla resa dei conti, però, Tsipras ha escluso la via del ritorno alla dracma. Si è trattato di un errore, come sostengono in molti? Secondo noi no. Il punto non è tanto che Tsipras non aveva il mandato per portare la Grecia fuori dall'euro (che è vero), né che si debba rimanere nell'area euro a ogni costo (ci mancherebbe), quanto il fatto che, nelle circostanze date, non sussistevano assolutamente le condizioni necessarie per limitare í gravi danni di un'uscita, né a livello interno la mancanza di un livello di mobilitazione e di radicalizzazione dei lavoratori e dei comuni cittadini greci tale da poter fronteggiare le conseguenze di un'eventuale uscita o espulsione dall'eurozona, lo scarto tra il successo elettorale di SYRIZA e il suo radicamento sul territorio, la debolezza del tessuto produttivo greco, il deficit cronico delle partite correnti ecc. , né a livello internazionale. Lo stesso premier greco è stato chiarissimo su questo punto, rivelando che né Russia né Stati Uniti avevano intenzione di aiutare una Grecia fuori dall'eurozona. Anzi, l'America ha spinto affinché la Grecia rimanesse nell'euro in cambio dell'apertura di una discussione sul debito, facendo contemporaneamente pressione sul Fondo Monetario Internazionale perché ponesse con forza la questione, come in effetti è accaduto. Come ha dichiarato Yanis Bournous, membro della segreteria politica di SYRJZA: «Noi diciamo che il memorandum di luglio non è un buon accordo, ma abbiamo dovuto firmarlo perché con il Grexit ci avrebbero liquidato le banche: questo era il ricatto. E la Grecia non ha né un tessuto produttivo, né riserve di moneta estera per poter resistere. Né la Cina né la Russia ci hanno promesso aiuti». Lo stesso Tsipras ha espresso un giudizio chiaro e severo del compromesso raggiunto, sottolineando però che, a queste condizioni, l'uscita solitaria della Grecia avrebbe avuto conseguenze disastrose. Il punto è che i limiti dell'azione del governo Tsipras sono i limiti imposti dai rapporti di forza tra i paesi e le classi, non solo in Grecia ma in tutta Europa. La responsabilità di cambiare quei rapporti di classe e di forza , però, non può restare unicamente sulle spalle di Tsipras e della Grecia, come sembrano prospettare coloro che, da fuori, invocano l'uscita della Grecia dall'euro subito e comunque, quasi che si possa considerare la Grecia, come un secolo fa la Russia, l'anello più debole del capitalismo da cui ripartire. | << | < | > | >> |Pagina 192La metafora del Titanic Europa pare avere affascinato molti, ma spesso viene utilizzata in modo fuorviante. Si tratta di un doppio errore. In primo luogo, come abbiamo detto, l'eurozona ha già colpito l'iceberg, ma non è affondata, soprattutto per merito di capitan Draghi e dei meccanismi automatici del sistema delle banche centrali dell'area euro. In secondo luogo, occorre comprendere che non siamo "tutti sulla stessa barca": il centro e la periferia dell'eurozona hanno interessi contrapposti. Il centro sta infatti traendo vantaggio dall'attuale deterioramento delle economie periferiche, il quale favorisce acquisizioni di imprese che conducono il processo di formazione di un nuovo capitale di dimensioni europee. Ma sarebbe un errore, come abbiamo detto, ritenere che un'eventuale esplosione della zona euro possa interrompere il processo di centralizzazione dei capitali e la connessa germanizzazione europea. Al contrario, potrebbe addirittura determinarne un'accelerazione, come avvertono anche due euroscettici non dogmatici come Brancaccio e Passarella:Un'eventuale svalutazione da parte dei paesi periferici ridurrebbe [...] in termini ancor più drastici il valore delle loro attività: banche, imprese, patrimonio pubblico, tutto costerebbe meno, in termini di valuta estera. L'uscita di questi paesi dall'eurozona darebbe quindi ai capitali stranieri, in particolare tedeschi, ulteriori occasioni di effettuare "shopping a buon mercato" nell'Europa del Sud: dalle isole greche alle banche italiane, le opportunità di acquisizione estera diventerebbero innumerevoli.
Esattamente come nel 1992. Se non si vuole che tale
processo si compia sulle spalle delle classi sociali subalterne, ha più senso il
ragionamento di chi sostiene la necessità di un conflitto all'interno
dell'eurozona, non di una immaginifica cooperazione con i paesi creditori per
uscirne. Un conflitto tra periferia e centro che parta dalla disubbidienza ai
memorandum della troika e arrivi a delineare un'esplicita alternativa (o almeno
un significativo emendamento) all'attuale assetto istituzionale dell'unione
monetaria. Solo se questa alternativa sarà esplicitata e sostenuta politicamente
da più paesi, si potrà sperare di costringere la Germania a "cooperare" e di
riformare l'euro.
Più Europa? Alla luce di quanto detto fin qui, risulta evidente che non riteniamo né realistico né auspicabile, nel breve termine, un approfondimento del processo di integrazione nella direzione di un'unione fiscale. Proprio chi ha a cuore il futuro dell'Unione non può non rendersi conto che, in un momento in cui le istituzioni europee sono più delegittimate che mai, forzare il processo di integrazione fiscale senza prima affrontare il nodo cruciale del deficit democratico di cui soffre l'UE accentuerebbe le tendenze centrifughe che già stanno dilaniando l'Europa: un'ulteriore cessione di sovranità che non sia accompagnata da un'equivalente cessione di rappresentatività e legittimità democratica ammesso e non concesso che questo sia auspicabile sarebbe insostenibile da un punto di vista politico. Altresì, al momento non esiste alcuna proposta convincente su come implementare questo trasferimento di rappresentatività democratica dal livello nazionale a quello sovranazionale. [...] Inoltre, alla luce degli attuali rapporti di forza in seno all'Europa, un'unione fiscale risulterebbe di fatto in un'Unione ancor più assoggettata alle politiche economiche deflattive, restrittive e mercantiliste della Germania di quanto non lo sia ora. Soprattutto se consideriamo che il maggior fautore dell'unione fiscale oggi in Europa è... sempre Wolfgang Schδuble. Nel corso dell'estate del 2015, infatti, il ministro delle Finanze ha riscosso molti consensi con la sua proposta per la creazione di un'unione fiscale e politica, dotata di un bilancio sovrano e di un superministro delle Finanze dell'Europa. Ma di che tipo di unione fiscale stiamo parlando? Schδuble ha ragione a sostenere cambiamenti istituzionali che potrebbero fornire alla zona curo i meccanismi politici che le mancano, ma dobbiamo chiederci: di che tipo di unione fiscale stiamo parlando? Come hanno ricordato negli anni numerosi economisti, un'unione fiscale degna di questo nome richiederebbe un bilancio federale pari almeno al 10 per cento del PIL dell'eurozona; trasferimenti fiscali dai paesi più ricchi verso quelli più poveri; un'autorità federale capace di effettuare spesa in deficit con il sostegno attivo della BCE; un effettivo trasferimento di rappresentatività democratica dal livello nazionale a quello sovranazionale (no taxation without representation). Purtroppo, l'unione fiscale proposta da Schδuble non soddisfa nessuna di queste condizioni. Al contrario, essa ruota attorno alla creazione di un organo indipendente col potere di veto sui bilanci nazionali un «lord supremo del bilancio dell'eurozona», nella definizione di Varoufakis ma non prevede nessun passo in avanti verso la creazione di una vera federazione democratica europea. Anzi, uno degli scopi del "piano Schδuble" sembra essere proprio quello di togliere alla Commissione Europea l'istituzione più "federale" dell'eurozona, che in teoria dovrebbe rappresentare gli interessi comuni dell'Europa i suoi poteri di controllo sui bilanci nazionali, in quanto si sarebbe mostrata troppo flessibile nell'applicazione delle regole fiscali dell'eurozona, che sono state rafforzate negli ultimi anni proprio su pressione della Germania (inoltre, la Commissione avrebbe osato prendere lievemente le distanze dalla posizione inflessibile della Germania nei confronti della Grecia). Si tratta, in sostanza, di un piano finalizzato a privare gli Stati nazionali di quel minimo di potere discrezionale che gli è rimasto, mettendo definitivamente il pilota automatico alla politica fiscale (in linea col dogma ordoliberale): il passo finale nella trasformazione definitiva dell'eurozona in una gabbia ordoliberale basata su un sistema di regole ferree e inflessibili. Come ha spiegato Varoufakis, il Grexit, secondo i calcoli di Schδuble, doveva rappresentare un passaggio cruciale per dare il via all'attuazione di questo piano, al fine di infondere «il timore di Dio» nelle altre nazioni debitrici. Particolarmente odioso, poi, che un progetto di questo tipo venga avanzato "in nome dell'Europa", nella peggior tradizione di quello che potremmo definire "europeismo di regime". Al contrario, chiunque abbia a cuore il destino dell'Europa non può che rifiutare con fermezza l'offerta di Schδuble. | << | < | > | >> |Pagina 202La sinistra deve puntare a "meno Europa"A questo punto si possono trarre alcune prime conclusioni. La prima è paradossale: per salvare l'Europa e lo stesso euro, nelle attuali circostanze occorre battersi per meno Europa, non di più, al contrario di quanto sostengono i federalisti. In altri termini, gli Stati devono riconquistare spazio fiscale e politico. Spazio fiscale per poter attuare politiche sociali e anticicliche. Spazio politico per dare legittimità a un pluralismo politico interno all'UE in cui anche le forze della sinistra siano legittimate a governare i propri Stati nazionali e attraverso di essi incidere nelle scelte comunitarie. | << | < | > | >> |Pagina 206Elogio della spesa pubblicaΘ la domanda, stupido! Θ noto che le politiche keynesiane "anticicliche", cioè quelle intese a combattere una crisi economica, la riduzione dei redditi e soprattutto la disoccupazione, consistono in un aumento della spesa pubblica al fine di ripristinare la "domanda aggregata". L'idea di base è che in una crisi economica la spesa totale è insufficiente a mantenere il pieno impiego dei fattori produttivi lavoro e capitale e che pertanto è necessario che una fonte autonoma di domanda ripristini il livello di spesa necessario a ritornare a crescere e a occupare i lavoratori rimasti disoccupati. Il sistema economico non è in grado di farlo da solo. A frenarlo vi è la sfiducia nel futuro da parte degli "uomini d'affari", come si usava dire una volta, cioè imprenditori, investitori e banchieri. I primi vedono calare le vendite e quindi non si azzardano a produrre di più, semmai producono di meno, licenziando una parte dei lavoratori e tenendo al minimo il ritmo produttivo. I secondi tendono a non comprare titoli, a non prestare denaro, mantenendolo in forma liquida, oppure, come abbiamo visto nella crisi dell'eurozona, si rivolgono a titoli esteri considerati più sicuri. I banchieri, infine, di fronte al fallimento e ai ritardi nei pagamenti di molti loro clienti, restringono i criteri per la concessione dei prestiti alle imprese e alle famiglie e, se si prova a sollecitarli con il quantitative easing, lasciano accumulare le riserve nei loro conti presso la banca centrale. L'economia rimane così impantanata in un livello di produzione minore, quello che i keynesiani chiamano "equilibrio di sottooccupazione". Non si tratta quindi tanto di "sottoconsumo", ma di "sottoinvestimento". Sono gli investimenti la componente più importante e purtroppo più volatile nell'economia di mercato. Esistono vari modi tramite i quali si può cercare di uscire da questa situazione di ingolfamento generale (general glut). Quello preferito dai banchieri centrali è abbassare il tasso di interesse. Ma, come abbiamo visto, in una crisi si può anche abbassare gli interessi a zero senza che questo, di per sé, porti a nuovi investimenti. Certo, gli imprenditori si troveranno una voce di costo più piccola, ma da un lato non è detto che le banche concedano più prestiti se non migliora la capacità di rimborso della clientela e dall'altro non è detto che gli stessi imprenditori decidano di domandare più prestiti alle banche: chi si indebiterebbe, anche a tasso zero, se pensa che la domanda futura sarà insufficiente a vendere le merci che produce? Se il tasso di interesse da solo non basta, ecco che i liberisti concepiscono un nuovo rimedio: l'"austerità espansiva". Alberto Alesína ne ha scritto diffusamente. Il pilastro su cui si basa tale dottrina è la domanda privata. E allora, ecco la risposta liberista: bisogna liberalizzare tutti i settori controllati direttamente o indirettamente dallo Stato, offrendo così nuove opportunità di business. Ma spesso neppure questo basta a ripristinare la fiducia e si rivela insufficiente soprattutto per economie grandi e mature. Ed ecco allora l'ultimo tassello della storia: le bolle. Se guardiamo all'economia americana, la sua crescita è stata in larga parte guidata dalle bolle negli ultimi decenni. Negli anni Novanta la crescita è stata trainata dalla bolla delle dot.com, dalla corsa all'oro della "new economy". Finita quell'euforia, negli anni Duemila si riscoprì la vecchia e cara bolla immobiliare, una crescita a debito che l'America ha conosciuto anche nel diciannovesimo secolo. Ma anche una bolla immobiliare, da sola, può non bastare. Bisogna fare in modo che la gente sia "costretta" a indebitarsi e spendere. Per farlo le privatizzazioni dei servizi sociali sembrano essere un toccasana. La gente deve curarsi, e se lo Stato non fornisce i servizi sanitari dovrà rivolgersi ai privati. Le assicurazioni sanitarie sono un buon canale per la spesa a debito. Un altro servizio pubblico che, privatizzato, può generare una bella quantità di domanda a debito è l'istruzione. Negli Stati Uniti gli studenti si indebitano per pagare le sempre più stratosferiche rette delle università. La montagna di debito studentesco è arrivata a 1000 miliardi di dollari. Più del debito associato alle carte di credito e all'acquisto di automobili. Un'altra fonte autonoma di domanda è quella estera. La strategia mercantilista della Germania è stata tutta intesa a sfruttare questo canale. I tedeschi amano dire che gli altri hanno vissuto al di sopra delle loro possibilità, ma la realtà è che la Germania ha vissuto al di sopra della propria domanda interna (o, per dirla diversamente, al di sotto delle sue possibilità). Se l'eccesso di debito privato rispetto ai redditi è fonte d'instabilità, come ci dice la storia del 2008, ma anche quella di tante crisi del passato, la crescita basata sulla domanda estera è un modo per esportare i propri problemi, come ci racconta la crisi dell'eurozona. Ma rimane un altro canale per crescere: la spesa pubblica. O, per essere più precisi, la spesa pubblica in investimenti. | << | < | > | >> |Pagina 218L'incertezza radicale e il ruolo dello StatoΘ un errore comune quello di credere che la burocrazia sia meno flessibile delle imprese private. Può essere così nei dettagli, ma quando devono essere fatti adattamenti su larga scala il controllo centrale è molto più flessibile. Potrebbero essere necessari due mesi per ottenere una risposta a una lettera da un dipartimento governativo, ma sono necessari vent'anni a un settore industriale privato per adeguarsi a un calo della domanda. JOAN ROBINSON Queste storie trasmettono una lezione importante, che Mariana Mazzucato ha cercato di riportare nel suo libro Lo Stato innovatore , e cioè che non solo la ricerca di base, ma anche quella applicata, compresa quella rivolta a creare prodotti commerciali, è in molti casi il risultato della spesa pubblica. E non solo nel settore informatico, ma anche in quello farmaceutico e delle biotecnologie. E il motivo è semplice: la ricerca richiede denaro, ma molto spesso fallisce. Gli imprenditori mossi da "spiriti animali" possono decidere di spendere, certo, anche in ricerca, ma molto spesso gli "spiriti animali" non bastano perché non somigliano a quelli delle tigri e dei leoni, ma a quelli degli animali domestici, come una volta Keynes scrisse a Roosevelt. E allora la mano invisibile del mercato che, come dice Joseph Stiglitz , è invisibile perché non esiste deve essere sostituita dalla mano visibile dello Stato. La storia è piena di fallimenti clamorosi del settore privato in molti campi che oggi consideriamo bene o male dominio del pubblico. Non che i governi non sbaglino, al contrario. Ma l'ideologia del fondamentalismo del mercato è capace di individuare solo i fallimenti dello Stato senza dare una soluzione alternativa credibile e migliore. Di fronte alla corruzione, la risposta liberista è "meno Stato", non "uno Stato migliore", come sarebbe logico attendersi. L'ideologia del fondamentalismo del mercato dimentica invece con estrema facilità i fallimenti del settore privato nel mantenere le promesse del capitalismo. Il settore privato è inefficiente. Se fosse efficiente, del resto, non avremmo le crisi economiche, la disoccupazione di massa, l'insoddisfazione di bisogni a volte anche primari, persino nelle economie avanzate. | << | < | > | >> |Pagina 232Il principale strumento per riuscire a garantire un controllo centralizzato dei salari e un'equa distribuzione dei redditi sono i sindacati. Il Fondo Monetario Internazionale, in uno studio recente di Florence Jaumotte e Carolina Osorio Buitron intitolato "Power from the People" ha messo in relazione il declino del numero dei lavoratori iscritti ai sindacati con la concentrazione dei redditi nelle mani delle classi sociali più ricche a partire dagli anni Ottanta. E non a caso è proprio con la sconfitta dei sindacati nei paesi occidentali (con Reagan negli Stati Uniti, Margaret Thatcher nel Regno Unito e Bettino Craxi in Italia) che il divario tra produttività e salari è divenuto insostenibile. Rafforzare i sindacati significa, tra le altre cose, prevedere migliori leggi di rappresentanza e dare preminenza ai contratti nazionali. Ma questo oggi non basta. Occorrono leggi che proteggano anche chi oggi non può essere tutelato dal sindacato. Per questo è necessario istituire un salario minimo legale, che valga qualsiasi sia il contratto stipulato. Vanno disincentivati i contratti precari, perché il lavoratore non stabilizzato è più ricattabile e quindi accetta retribuzioni minori, ad esempio attraverso una "tassa per la precarietà" da applicare ai contratti diversi da quello a tempo indeterminato. Le tipologie contrattuali andrebbero poi ridotte e ricondotte in ogni caso al contratto di lavoro di categoria, in modo da ricomporre la frattura nel mondo del lavoro che vede contratti differenti per lo stesso lavoro. Insomma, occorre fare l'esatto contrario di quanto finora i governi di destra e della sinistra "riformista" hanno fatto. Certo, con gradualità, evitando shock improvvisi, accompagnando le imprese e i lavoratori nel percorso. Ma l'importante è invertire la rotta in modo chiaro e permanente, se non vogliamo un capitalismo sempre più instabile e generatore di disuguaglianze.| << | < | > | >> |Pagina 245TASSE NAZIONALIA livello nazionale ossia in uno scenario in cui "ogni Stato è per sé" l'unica soluzione è il ritorno a una forma di tassazione molto più equa e redistributiva di quella attuale, mediante una duplice redistribuzione dell'imposizione: dai ricchi ai poveri e dai redditi da lavoro e di impresa ai patrimoni e alla rendita. Guardando all'Italia, questo vuoi dire, tra le altre cose, ridare progressività alla struttura delle aliquote dell'imposta sul reddito (a partire da una maggiore aliquota IRPEF sui redditi più elevati), appiattite nei decenni scorsi, favorendo doppiamente i redditi alti, sia attraverso l'introduzione dei regimi di tassazione separata sia mediante la riduzione delle aliquote marginali; aumentare l'imposta sulle grandi imprese, in particolar modo quelle del petrolio e del gas e quelle che non impiegano lavoro dipendente (così da distribuire anche sulle imprese il carico del finanziamento del sistema di welfare, oggi concentrato solo su lavoratori e pensionati); affiancare alle imposte sul reddito imposte non proporzionali bensì progressive sulla ricchezza, che ricostruiscano il patrimonio complessivo dei singoli contribuenti, anche reintroducendo una tassazione effettiva su successioni e donazioni, e aumentando le tasse sui capitali scudati e su quelli che rientrano dall'estero; porre fine al condono per i concessionari di video-giochi. Sul fronte della spesa, poi, svariati miliardi si potrebbero recuperare semplicemente tagliando le pensioni d'oro e le spese militari. In definitiva, un paese come l'Italia avrebbe probabilmente gli strumenti e le risorse per finanziare in proprio un programma di pieno impiego e/o altre forme di sostegno al reddito, attraverso una redistribuzione del carico fiscale e un riorientamento della spesa pubblica. In questo senso, l'idea che "dentro l'euro non esiste margine di manovra alcuno" è una semplificazione buona per quei "gattopardi" come li chiama Emiliano Brancaccio che vorrebbero uscire dall'euro lasciando tutto così com'è in termini di distribuzione del reddito e della ricchezza; non c'è nessun vincolo europeo che vieta di attuare una manovra redistributiva dalle fasce alte verso quelle medio-basse (purché questo non abbia un impatto "negativo" sulle finanze pubbliche). I problemi semmai sono altri: il rischio (tuttavia gestibile) che questo provochi un'emorragia di capitali dal paese o che scoraggi gli investimenti esteri, per esempio. | << | < | > | >> |Pagina 249UN QUANTITATIVE EASING PER LA GENTEUna proposta che invece prevede di aumentare il reddito di chi ne ha bisogno senza ricorrere né a un prelievo fiscale nazionale né a una redistribuzione fiscale tra Stati membri, e che non viola i trattati, è quella avanzata da John Muellbauer dell'università di Oxford, che si basa sulla celebre dichiarazione di Milton Friedman secondo cui esiste sempre una maniera per stimolare l'economia e arginare la deflazione: «Lanciare denaro dagli elicotteri». Ossia stampare denaro e distribuirlo direttamente ai cittadini. Una metafora ripresa da Ben Bernanke in un suo celebre discorso del 2002, in cui l'allora governatore della Fed suggerì alla banca centrale giapponese, alle prese con una spirale deflazionistica (da cui il paese non è ancora uscito), di stampare denaro per finanziare un taglio delle tasse: «Sarebbe sostanzialmente equivalente alla famosa metafora di Milton Friedman del denaro lanciato da un elicottero». Nell'eurozona, però, una soluzione come quella proposta da Bernanke sarebbe vietata dai trattati. «Si tratta dunque di capire se esiste una maniera per permettere alla banca centrale di versare il denaro direttamente nelle tasche dei cittadini senza passare per gli Stati», scrive Muellbauer, secondo cui una maniera ci sarebbe: la BCE potrebbe realizzare un versamento mensile a favore di tutti i lavoratori e i pensionati dotati di codice fiscale (o l'equivalente locale), che i governi dovrebbero semplicemente provvedere a distribuire. In alternativa, la BCE potrebbe far ricorso ai registri elettorali, indipendentemente dai governi. Guardando al precedente americano del 2001, in cui un taglio fiscale di 300 dollari per i contribuenti a basso reddito ebbe un effetto moltiplicatore pari al 25 per cento della somma distribuita, Muellbauer ipotizza che un assegno mensile da 500 euro aumenterebbe i consumi di circa 34 miliardi di euro, pari all'1,4 per cento del PIL dell'eurozona. Questo avrebbe anche il beneficio di aumentare i gettiti fiscali, riducendo in maniera significativa i disavanzi pubblici. Θ utile ricordare che da marzo 2015 la BCE ha dato il via al suo programma di quantitative easing, che prevede acquisti di titoli pubblici e privati pari a 60 miliardi di euro al mese, con dubbi impatti sull'economia reale; al contrario, se la BCE impiegasse quei soldi per offrire un assegno mensile di 200 euro a ogni cittadino dell'eurozona in quello che potremmo descrivere come un "quantitative easing per la gente" , questo darebbe probabilmente un impulso immediato alla domanda, rilanciando consumi e occupazione. Diciamo probabilmente perché l'esperienza italiana del bonus degli 80 euro dimostra quanto invece la propensione marginale al risparmio possa essere elevata. Friedman dà per scontato che l'aumento della quantità di moneta si trasformi in domanda (nominale) e quindi in crescita (nominale) del reddito, e pertanto in un aumento dei prezzi. La realtà è differente e dimostra al contrario come, di fronte a una crisi profonda come quella attuale, il pubblico può essere propenso a tesaurizzare, sotto forma di liquidità, tutto o quasi il reddito disponibile aggiuntivo. Le speranze sull'efficacia di tale misura vanno più che altro ricercate nella possibilità, per i destinatari, di rimborsare i debiti pregressi. Se funzionasse, una misura del genere non avrebbe solo benefici economici ma anche politici, in quanto contribuirebbe a placare il crescente risentimento dei cittadini contro le istituzioni europee, soprattutto nei paesi maggiormente in crisi. In un colpo solo, la BCE dimostrerebbe di prendere sul serio il suo obiettivo inflazionistico del 2 per cento e aiuterebbe a fermare l'avanzata dei partiti nazionalisti e populisti. Come scrive Muellbauer: «Alcuni paesi il pensiero va subito alla Germania si opporranno strenuamente a una misura di questo tipo, facendo appello alla prudenza e alla responsabilità. Ma la verità è che "lanciare denaro dagli elicotteri" funzionerebbe, e non c'è alcuna legge che vieta di farlo. Dopo anni di austerità e disoccupazione di massa, è ora di implementare un quantitative easing che dia all'Europa ciò di cui ha bisogno». | << | < | > | >> |Pagina 266Diverse sono le ragioni che premono per lo sviluppo di una nuova politica industriale per l'Europa: rilanciare la domanda; riequilibrare il rapporto fa pubblico e privato (che negli ultimi decenni è stato enormemente sbilanciato a favore di quest'ultimo); ridurre gli squilibri tra paesi europei e tra regioni, contrastare la crisi ecologica, promuovendo la conversione ecologia dell'Unione; disarmare l'economia, scoraggiando la produzione militare.Per affrontare queste priorità, la politica industriale può rappresentare uno strumento di fondamentale importanza. Le aree in cui si potrebbe investire sono le seguenti: - Ambiente ed energia. L'attuale modello industriale deve riorientarsi verso una maggiore sostenibilità ambientale. Il paradigma tecnologico dei prossimi decenni potrebbe essere basato su prodotti, processi e organizzazioni sociali "verdi", con un minore utilizzo di energia, di risorse e di suolo e con un impatto minore sul clima e sull'ecosistema; sullo sfruttamento delle energie rinnovabili, sull'organizzazione di sistemi di trasporto che vadano oltre il predominio delle automobili e su sistemi di mobilità integrata; sulla riparazione e sulla manutenzione di beni esistenti e su infrastrutture che proteggano la natura e la Terra. - Conoscenza e ICT. L'attuale modello industriale è dominato dalla diffusione del paradigma tecnologico basato sulle tecnologie dell'informazione e della comunicazione. L'Europa dovrebbe sfruttare il potenziale applicativo delle nuove tecnologie, la loro maggiore produttività e i prezzi più bassi. Le tecnologie ICT e le attività basate sul web stanno ridefinendo le frontiere tra la sfera economica e quella sociale, come chiaramente mostrano il successo dei software open source, del copyleft, di Wikipedia e del peer-to-peer. Le politiche dovrebbero incoraggiare l'innovazione, vista come processo aperto, sociale e cooperativo, rafforzando i common intellettuali, allentando le regole sull'accesso e la condivisione della conoscenza, piuttosto che rafforzare i diritti di proprietà intellettuale, pensati per un'era tecnologica precedente. - Salute e welfare. L'Europa è un continente segnato dall'invecchiamento della popolazione e dotato dei migliori sistemi sanitari al mondo, sviluppati sulla base di una concezione della salute come servizio pubblico. Gli avanzamenti nei sistemi di assistenza, nella strumentazione medica, nelle biotecnologie, nella genetica e nella ricerca farmacologica dovrebbero essere finanziati e regolamentati considerando le loro conseguenze etiche, ecologiche e sociali (come nel caso degli organismi geneticamente modificati, della clonazione, dell'accesso ai farmaci nei paesi in via di sviluppo ecc.). L'innovazione sociale può diffondersi nei servizi di welfare con un rilancio del ruolo dei cittadini e delle organizzazioni non profit, della fornitura di servizi pubblici e di nuove forme di organizzazione della società. | << | < | > | >> |Pagina 272Sono in molti che da tempo propongono una (parziale) cancellazione dei debiti tra centro e periferia come primo passo per la soluzione della crisi dell'eurozona. La maggior parte dei proponenti sottolinea che il debito estero sia troppo grande per essere ripagato senza che le economie debitrici si ammalino a causa dell'austerità. Tentare di ripagare il debito estero troppo rapidamente rischia di mandare in default imprese, banche e interi Stati, a danno degli stessi creditori. Come minimo sarebbe necessaria una massiccia dilazione dei rimborsi. L'opposizione a questa proposta è chiaramente di natura politica prima che economica. Non sarebbe del resto il primo caso di "giubileo" dei debiti nella storia recente, ma i tedeschi e gli altri "austeriani" mettono in evidenza che, senza questa spada di Damocle, i paesi periferici non farebbero "le riforme". [...] Nel dopoguerra accadde qualcosa di molto simile per la Germania. Il 27 febbraio 1953 fu siglato a Londra un accordo che dimezzava il debito della Germania Ovest da 30 miliardi di marchi a soli 15. Fra i paesi che condonarono il debito tedesco c'erano, oltre a Stati Uniti, Regno Unito e Francia, anche la Grecia e la Spagna, paesi che oggi sono passati dalla parte del debitore. Il debito tedesco derivava dai prestiti che la Germania aveva contratto durante gli anni Venti e í primi anni Trenta (prima dell'ascesa di Hitler), e che furono usati per pagare i danni di guerra imposti nel 1919 dal trattato di Versailles, al quale Keynes si era fermamente opposto. L'altra metà del debito era legata alle spese di ricostruzione dopo il secondo conflitto mondiale. La trattativa incluse non solo il debito pubblico detenuto da soggetti esteri, ma anche i debiti privati delle imprese e delle banche.
Prima dell'accordo il debito della Germania detenuto da
altri paesi ammontava al 25 per cento circa del PIL, una
percentuale più contenuta rispetto all'attuale livello di indebitamento estero
di Spagna, Grecia, Irlanda e Portogallo e invece vicino a quello dell'Italia. Ma
ciò che è particolarmente interessante sono le clausole sui rimborsi: la
Germania chiese, e ottenne, che i rimborsi rateali avvenissero
solo in caso di eccedenza commerciale, mentre in caso di
deficit i pagamenti venivano sospesi. Cioè la Germania
avrebbe rimborsato il debito esclusivamente con le risorse
effettivamente disponibili, evitando così di ricorrere a nuovi prestiti, come ha
dovuto fare la Grecia in questi anni. Il
parallelo con la proposta avanzata dal nuovo governo greco, cioè collegare i
rimborsi al PIL nominale, è quindi molto stretto. E colpisce che la Germania
odierna si rifiuti di trattare la Grecia così come la Grecia trattò la Germania
nel 1953. Il meccanismo di condizionalità sui rimborsi costituì inoltre un
incentivo potente per i creditori a non affliggere il debitore, qualcosa che il
governo greco ha sottolineato anche in riferimento alla propria proposta. Se i
paesi creditori volevano recuperare i loro prestiti, infatti, conveniva loro
importare merci dalla Germania. Questo indusse i paesi creditori a sopportare
anche la debolezza del marco tedesco. La bilancia commerciale della Germania
Ovest fu ampiamente in attivo durante il periodo di rimborso del debito, e così
la clausola limitativa non venne
mai applicata, ma come tutte le clausole di questo tipo il
suo successo si misura proprio sul fatto che funziona da incentivo, cosicché non
debba mai essere applicata. Se si pensa che oggi la clausola della
Macroeconomic Imbalance Procedure
dell'UE che riguarda i surplus eccessivi nella bilancia dei pagamenti viene a
malapena citata dalla Commissione Europea, e mai fatta valere, neanche come
minaccia, si capisce bene quale differenza di atteggiamento
divida il periodo del secondo dopoguerra da quello attuale. Di fatto, l'Europa
ha compiuto un passo indietro rispetto al trattato di Versailles, che impose
alla Germania pesantissime riparazioni dopo la prima guerra mondiale.
Solo che questa volta al posto della Germania ci sono i
PIIGS e al posto dei creditori c'è la Germania stessa. La
strada da seguire, invece, sarebbe quella intrapresa dopo
la seconda guerra mondiale. E, tanto per non dimenticare,
bisognerebbe ricordare ai governanti tedeschi che se c'è un
paese che ha storicamente avuto difficoltà a rimborsare i
propri debiti e ha ampiamente beneficiato della clemenza
dei creditori, questo è proprio la Germania. Nessuna lezione sulla virtù di
onorare i propri debiti può essere tenuta da una cattedra così poco credibile.
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