Copertina
Autore Elio Franzini
Titolo Nelson Goodman, la filosofia e i linguaggi
EdizioneQuodlibet, Macerata, 2007, Studio , pag. 264, cop.fle., dim. 14x21,5x1,7 cm , Isbn 978-88-7462-179-8
CuratoreElio Franzini, Marcello La Matina
LettoreFlo Bertelli, 2009
Classe filosofia , epistemologia
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su BOL.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice


  7 Prefazione. On what there was


    1. Scenari e Interpretazione

 15 Elio Franzini
    Franco Brioschi: un ricordo

 27 Simona Chiodo
    «Relativismo radicale» e «irrealismo»

 41 Luciano Handjaras
    Identità ed interpretazione dell'opera d'arte
    nella teoria dei sistemi simbolici di Nelson Goodman


    2. Forma logica

 75 Wolfgang Heydrich
    Defending Goodman Against himself

109 Marcello La Matina
    Esemplificazione, Riferimento e Verità.
    Il contributo di Nelson Goodman ad una filosofia dei linguaggi

157 Paolo Valore
    Due tipi di parsimonia.
    Alcune considerazioni sul costruttivismo e il nominalismo ontologico


    3. Arti e media

171 Andrea Garbuglia
    Nelson Goodman e le tipologie.
    Verso una classificazione dei media statici e dinamici

201 Emanuela Iacono
    Educare con l'arte: Nelson Goodman e
    l'«Harvard Project Zero Development Group»

217 Sara Marilungo
    Considerazioni sull'arte contemporanea alla luce
    della teoria dell'arte di Nelson Goodman

243 Bibliografia
253 Indice dei nomi e delle cose notevoli
257 Notizie sugli autori


 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 7

Prefazione. On what there was


Talora i problemi più complessi ammettono formulazioni invero assai semplici. Così, un'equazione bigia e piccina può sintetizzare un'intera teoria e un aforisma riassumere le nebulose inquietudini o le certezze logiche di intere generazioni. Van Quine trovava curioso che il millenario «problema ontologico» potesse adattarsi al formato familiare di una domandina di sole tre parole (anzi, com'egli si esprime, di soli «three Anglo-Saxon monosyllables»): «What is there?». Certo, una domanda non è che un inizio, ma una buona domanda è già un buon inizio. E forse in tal caso le potenzialità dell'interrogativo non mutano neanche se i monosillabi si riducono a due, come, per esempio, nella traduzione in lingua ungherese.

Possiamo dire lo stesso delle risposte? Ossia: ci sono delle lingue meglio piazzate di altre nel rispondere al quesito on what there is? Gli Arabi direbbero di sì e gli Ebrei non sarebbero in disaccordo che sulle conseguenze di questo sì. San Gerolamo, da par suo, non porrebbe problemi ad una traduzione salva veritate dall'ebraico in latino, a patto che le parole originarie mantengano la stessa posizione sintattica nella versione finale (ovviamente invertendo il senso della lettura). Ma questi sembrano vezzi da filologi. La scienza contemporanea è più smagata degli antichi.

Dopo il repulisti quineano, anche gli epistemologi e i filosofi analitici sono inclini a considerare valida l'equivalenza "lingua" = "teoria". Sicché, il problema della scelta di una lingua essentially richer, più attrezzata di altre in materia di ontologia, semplicemente si dissolve. O, meglio, si sposta dall'universo delle lingue «possibili» (naturali, formalizzate, edeniche, perfette, etc.) all'unica lingua «possibile», cioè quella della teoria.

Non è più dentro una data lingua (i.e. l'ebraico o l'arabo o il greco) che si trova la casa dell'essere. Anche la ricerca della lingua perfetta – della forma grammaticale in cui asserire con verità what there is – si è trasformata nella ricerca della forma logica corretta dell'enunciato (verbale) coi suoi termini e le sue variabili, libere o vincolate. Il solito Quine invita però a non farsi illusioni in merito ai possibili resultati delle pratiche di irreggimentazione. Θ bensì vero che noi tutti parliamo in termini e parliamo di oggetti durevoli di media taglia, e così via; ma gli oggetti che asseriamo esservi non sono che posits culturali, esattamente come lo erano gli dèi omerici di quasi tre millenni fa. Se è così, ha dunque la filosofia solo laicizzato, senza poterlo espungere dai propri paradigmi, l'elemento mitopoietico? Se tutte le lingue sono solo appena l' unica lingua, non siamo noi forse – come sempre Quine avverte – dei parlanti provinciali costretti tra la Scilla della banale omofonia domestica e l'imprendibile Cariddi della esotica traduzione radicale?

Qual è il senso della questione ontologica dopo Quine? Forse la domanda «what is there?» è solo il caveat che il filosofo analitico propone all'uomo comune, perché attenda meglio al modo in cui dice quel che dice quando avanza pretese ontologiche. La domanda è solo un invito a regimentare gli ontological commitments degli enunciati usati. Θ, cioè, un fatto di linguaggio, più che un fatto di mondo in senso ingenuo. E dire "linguaggio" qui è lo stesso che dire significato: il problema ontologico glissa velocemente in una questione di semantica: cosa siamo disposti ad ammettere perché alcuni nostri termini – rimessi in forma logica – siano veri di qualcosa? Il cardine di questo approccio è chiaramente il predicato, che può essere vero di uno, di nessuno, di centomila.


***



Di queste cose a un di presso parlavamo con Franco Brioschi verso la fine del 2004, lamentando che la formulazione «Anglo-Saxon» del problema ontologico non lasciasse spazio alla pluralità dei linguaggi e dei sistemi simbolici. La versatilità dello studioso rifuggiva dai monologismi, cercando verità «a bassissima definizione» nelle pieghe delle cose, nelle latenze della materia poetica e perfino nelle incertezze della critica letteraria di ispirazione filosofico-analitica. Brioschi aveva in uggia la semiotica, che considerava alla stregua di uno dei più perniciosi idóla tribus del nostro tempo. Parimenti detestava il pregiudizio verbocentrico di certo scientismo da berlicche – anch'esso tipicamente «Anglo-Saxon» – che affida al discorso dichiarativo, assertorio, ogni pretesa veritativa sul mondo degli oggetti, sulle cose, su ciò che c'è. Quasi che il mondo fosse scritto in una sola lingua, e, per di più, a beneficio dei soli che la intendono. Per giustificare quel che di fanciullescamente naοf c'era in quel nostro rammarico, richiamammo alla mente un breve passaggio in cui Nelson Goodman sembra avere preoccupazioni simili. Vogliamo citarlo ancora a beneficio del nostro lettore:

Philosophers sometimes mistake features of discourse for features of the subject of discourse. [...] According to this line of thinking, I suppose that before describing the world in English we ought to determine whether it is written in English, and that we ought to examine very carefully how the world is spelled.

Goodman come alternativa agli eccessi del semanticismo in filosofia analitica? o Goodman paladino di un approccio analitico alle questioni di estetica? Pensammo che valesse la pena farci un convegno, cui invitare studiosi di varia appartenenza, perché si misurassero con la figura trasversale del filosofo americano. A intrigare era soprattutto il credito aperto da Goodman proprio in fatto di ontologia nei confronti dei sistemi simbolici non verbali. Come a dire che, se finora abbiamo trattato la verità come prerogativa dei linguaggi denotazionali (i linguaggi discorsivi come, p. es., la scienza, la letteratura, etc.), non si vede perché non si possa discutere di verità anche nei linguaggi che Goodman chiama esemplificazionali (che non sono esattamente linguaggi non-verbali, perché anche i linguaggi verbali posseggono aspetti esemplificazionali).

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 41

Luciano Handjaras

Identità ed interpretazione dell'opera d'arte nella teoria dei sistemi simbolici di Nelson Goodman


1. Riconcezione dell'epistemologia e linguaggi dell'arte

Nelson Goodman ha studiato analiticamente i tipi e le funzioni dei simboli e dei sistemi simbolici. La sua «teoria della notazione» individua ed organizza sistematicamente le caratteristiche sintattiche e semantiche degli elementi che funzionano come simboli: lettere in un alfabeto, note in uno spartito, movimenti in una danza o configurazioni di colori e forme in un quadro. Ciò apre ad una riconcezione dell'epistemologia. Conoscere significa operare coi simboli, è costruire mondi, fare mondi, nelle scienze come nelle arti: conosciamo o comprendiamo questi mondi producendoli o ripercorrendo le vie attraverso cui sono stati prodotti. Dunque i modi simbolici in cui conosciamo i nostri mondi si intrecciano ai modi in cui li abbiamo fatti o li stiamo facendo, ed un circuito si apre o si riapre tra conoscere e fare. Il punto di vista che Goodman ci ha chiesto di assumere è quello che guarda alle operazioni che noi compiamo coi simboli: esso chiarisce la comune struttura simbolica entro cui si dispongono scienze ed arti; soprattutto esso cerca l'unità di una cultura non attraverso la riduzione o la compartimentalizzazione dei suoi aspetti, ma attraverso un'organizzazione logica complessiva che li abbracci tutti, che li tenga insieme senza occultare quanto è contrasto o differenza.

Influisce sulla prospettiva che orienta questo progetto di Goodman la lezione, in genere poco notata, del suo maestro Morton White. Questi aveva pubblicato nel '55 un libro, The Age of Analysis, dedicato a G.E. Moore, in cui presentava al pubblico dei filosofi americani una antologia di testi di Bergson, di Husserl, di Sartre, di Croce, pensatori largamente ignorati in quel contesto di studi. L'intenzione era quella di promuovere una riunificazione in filosofia, di ristabilire un contatto tra filosofia analitica, pragmatismo e filosofia europea. Un altro suo libro, uscito l'anno successivo, portava proprio questo titolo, Toward a Reunion in Philosophy, ed in esso White prospettava un tipo di riflessione di carattere «olistico» capace di ristabilire un nesso tra conoscenza ed etica (i suoi riferimenti critici erano all'etica platonista di Moore e, del tutto in positivo, alla teoria degli atti linguistici di Austin). Il libro era dedicato questa volta a Quine e a Goodman, che egli giudicava due giovani e brillanti studiosi di temperamento radicale destinati a sviluppare con coerenza le conseguenze di quella liberalizzazione dell'empirismo a cui insieme avevano contribuito. Sappiamo dell'ottica olistica con cui Quine ha considerato il campo della scienza, e come Goodman abbia voluto estendere la portata della conoscenza ai nuovi territori dell'arte. Del resto Goodman non è stato il solo a trasgredire i limiti del conoscitivo tracciati così rigorosamente dal primo empirismo logico: Putnam, lascerà cadere il proprio realismo metafisico e adotterà il relativismo concettuale o «realismo dal volto umano» non a caso dopo la lettura di Ways of Worldmaking e, sempre rimandandoci a White di cui anch'egli era stato allievo, sosterrà l'ineludibilità di un intreccio (entanglement) tra conoscenza ed etica; Stanley Cavell poi, che nei suoi primi seminari aveva esplorato anch'egli con White il problema di una riunione tra le diverse tradizioni filosofiche, porrà con forza l'esigenza di andare oltre l'epistemologia tradizionale, verso il pensiero di Austin, Wittgenstein, Heidegger, senza che questo superamento finisse con l'avere il significato di un abbandono.

Quando Goodman scrive Languages of Art sta anche, a proprio modo, onorando quella lontana dedica di White. Egli si colloca esplicitamente sulla linea di una riconcezione dell'epistemologia che non ne contraddica o non ne disperda i risultati. Il suo spingersi al di là dei linguaggi della scienza avviene ancora per via rigorosamente logica ed empirica. La conoscenza entra in nuovi territori, si applica a nuovi tipi di oggetti, ma è sintomatico che egli eviti di porre la questione del valore. Anche in seguito Goodman non mirerà ad una Estetica, se non molto indirettamente.

E tuttavia c'è molto di nuovo ed originale già nella genesi di Languages of Art. Esso per così dire si costruisce nell'ambito del Project 0 avviato ad Harvard nel '66, e dà consistenza e direzione al progetto stesso. Si trattava di un progetto di spiccato carattere interdisciplinare, che chiamava ad un confronto effettivamente «sperimentale» studiosi di diverse prospettive concettuali, metodologie, sensibilità filosofiche ed artistiche. I primi due capitoli del libro (Rifare la realtà, sulla rappresentazione, ed Il suono delle immagini, sull'espressione) mettono a punto lo sfondo teorico su cui si appoggeranno nei capitoli successivi la Teoria della notazione e la Teoria dei sistemi simbolici goodmaniane.

Θ innanzi tutto sulla complessità di questo sfondo che dovrebbe focalizzarsi in primo luogo la nostra attenzione. Susanne Langer vi compare per i suoi studi su sentimento e forma e per la sua idea dell'opera d'arte come espressione del sentimento della vita, ma anche per il suo superamento della «paura dell'astratto» in arte, per la sua esigenza di accogliere anche in arte quella che allora era detta la «nuova logica», oltre che per il suo riferimento alle Forme Simboliche di Cassirer. Gombrich, soprattutto, è richiamato per la storia e la psicologia dell'arte, e per il rilievo che egli dà a «la parte dell'osservatore» nella percezione pittorica, ma anche Arnheim è considerato per il «pensiero visivo». Tutta la analisi del «vedere come» è una citazione di Wittgenstein e di N.R. Hanson. La concezione interattiva e cognitivamente «creativa» della metafora proviene direttamente da The Philosophy of Rhetoric di Richards, così come l'idea, poi pervasiva in Goodman, che i mondi con cui ci confrontiamo sono mondi «proiettati», costruiti secondo caratteristiche prestate loro da noi. Inoltre il testo An Analysis of Knowledge and Valuation di C.I. Lewis resta per Goodman la fonte costante anche se nascosta per l'enfasi che esso pone su come il valore estetico rappresenti un tipo di conoscenza empirica.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 68

5. La giustezza dell'interpretazione

Sarebbe possibile moltiplicare i punti di accordo o semplicemente di convergenza possibile tra Goodman e Calvino: nelle Lezioni americane che questi avrebbe dovuto pronunciare ad Harvard nel 1985 sono ripresi i temi della natura dell'opera letteraria, dell'autore, del suo rapporto con l'opera e di questa col linguaggio, dei livelli di realtà nell'opera, di una costruzione di mondi da mondi. Ed entrambi potrebbero genericamente ritrovarsi nella formulazione calviniana per cui l'opera letteraria resta sempre il luogo in cui l'esistente si cristallizza in una forma che gli conferisce senso, un senso non immobile ma capace di dividersi e di moltiplicarsi all'infinito, come in un giuoco di rifrazioni, che ogni volta si rinnova davanti agli occhi del lettore.

Ma, appunto... «davanti agli occhi del lettore»: qui, nel diverso modo di intendere questa cruciale espressione, nella diversa portata che le può essere attribuita, Goodman e Calvino si scoprono incamminati su strade diverse. Essi sono mossi da una diversa idea dell'identità dell'opera in generale. Goodman pensa l'identità in base alla struttura simbolica e referenziale, al «quando» dell'opera e alla sua fungenza; Calvino mira al «che» dell'opera, ed in quel «che» include l'incidenza delle sue interpretazioni. Per Calvino, l'opera letteraria porta in sé non solo l'impronta sintattica del testo, essa è «parola» scritta: in quanto opera che si costituisce per la lettura, essa comprende all'origine nella propria identità originaria un orizzonte di possibilità semantiche — sia dalla parte dell'autore che da quella del lettore — che le è costitutivo. (Dopotutto, osserverà poi John Searle, opponendosi ad una concezione computazionale della mente e rivendicandone il carattere intrinsecamente intenzionale, dovremmo ammettere che anche «la nozione di sintassi è essenzialmente relativa ad un osservatore»).

Abbiamo visto col «problema di Borges» con quanta determinazione Goodman abbia infine riaffermato (nonostante la sintonia che caratterizzò il suo confronto con Calvino) come in letteratura il testo sia l'opera. Ma con ciò, nell'identificare l'opera in quanto carattere, e quindi rendendola indipendente tanto dal contesto di produzione che dalla prospettiva del lettore, la relazione del testo alla sua semantica diventa un passo ulteriore, esterno e separato. Questo passo, essendo interamente governato dalla logica, ci dà accesso ad un dominio semantico del testo, per così dire, «chiuso», estensionalmente «fissato», cioè ad una rete referenziale predeterminata di termini ad oggetti. Ricordiamo come il Chisciotte di Menard fosse giudicato «al più» una nuova e diversa interpretazione del Chisciotte di Cervantes, nel senso di un arbitrario e improbabile stravolgimento della sua determinata semantica. Al contrario Calvino pensa all'opera come a qualcosa che è significante (come ci ha insegnato Gadamer) proprio per e nel suo mettersi «in gioco», vale a dire nel suo stesso aprire la propria identità all'interprete: l'analogia che Calvino stabiliva tra opera letteraria e «cristallo» non diceva solo la fissità della struttura ma al tempo stesso la molteplicità dei suoi riflessi.

Che qui vi fosse comunque una difficoltà da parte di Goodman, e che egli fosse consapevole che parte della complessità del problema rischiava di sfuggirgli, era chiaro da come egli stesso aveva sentito la necessità di prendere di petto la questione della «giustezza» (rightness) dell'interpretazione, chiudendo con essa Ways of Worldmaking. Nel libro infatti la Teoria dei sistemi simbolici restava più sullo sfondo, come presupposto, ed era il fare mondi ad essere messo a fuoco. Il fare, il comprendere, l'interpretare una versione o un mondo o un'opera si rimandano a vicenda, e uno degli obiettivi diventa anche quello di darsi un criterio per distinguere tra modi giusti e modi sbagliati di interpretare un'opera. Goodman si rivolge alla nozione di giustezza cercando in essa la via attraverso cui porre un argine alla possibile arbitrarietà dell'interpretazione, ma scopre che la giustezza tende a propria volta a relativizzarsi, a distribuirsi su piani diversi, ad indicare direzioni conflittuali, rivelandosi non suscettibile di una definizione univoca.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 109

Marcello La Matina

Esemplificazione, Riferimento e Verità. Il contributo di Nelson Goodman ad una filosofia dei linguaggi


A circa dieci anni dalla sua scomparsa, Nelson Goodman è un filosofo di difficile collocazione. In Italia è ancora poco studiato. Buona parte del merito di avercelo fatto conoscere, qua filosofo dei linguaggi, spetta al genio versatile di Franco Brioschi. Per Brioschi era chiaro il fatto che Goodman andasse considerato un filosofo analitico, piuttosto che un semiologo o uno studioso di estetica. E non per ragioni di mera etichetta; ché, anzi, la celebrata originalità di Goodman deve molto proprio alla trasversalità dei suoi interessi. Il fatto è che la filosofia di Goodman coglie aspetti della vita del linguaggio che altre, magari più note, filosofie trascurano: la pluralità delle forme simboliche, il loro legame con il corpo e le sue scritture, il valore delle pratiche entro cui si collocano i simboli e il loro uso. Non ultimo, la sua costante attenzione ai criteri di adeguatezza, non solo formale ma anche materiale, delle teorie scientifiche come dei linguaggi dell'arte. Sono persuaso che Brioschi fosse anche qui nel giusto e cercherò di mostrare che l'etichetta di «filosofo dei linguaggi» non solo non è inadeguata per definire quel che Goodman ha fatto nel campo della filosofia analitica, ma è addirittura la migliore possibile. Mi addolora la mancanza di colui che ha ispirato questo Convegno, sebbene sia non piccola consolazione il vedere qui presenti alcuni tra gli amici e colleghi che lo hanno più amato e letto, o forse tanto più amato perché anche letto. A Franco Brioschi, pertanto, dedico idealmente queste riflessioni.

In questo contributo vorrei formulare alcune considerazioni sui tre concetti che compaiono nel titolo. Le nozioni di riferimento e verità sono d'uso abituale presso i filosofi del linguaggio, mentre «esemplificazione» è termine introdotto da Goodman. Scopo di queste pagine non è tanto quello di chiarire come il nostro filosofo usi queste nozioni: esistono in proposito lavori assai ben fatti. Vorrei piuttosto vedere cosa si può fare delle intuizioni di Goodman se si vuole elaborare una filosofia delle forme simboliche che non rinunci alla eredità della filosofia analitica del linguaggio. Un buon punto di partenza è chiedersi come il nostro tradizionale approccio ai problemi del linguaggio possa essere riformulato a partire dal concetto di esemplificazione. Per ottenere questo, però, sarà necessario spostare i confini della tradizionale filosofia del linguaggio, rinunciando all'opzione internalista e accettando di includere tra i «linguaggi» anche quei sistemi simbolici — come la musica, la pittura, il teatro — che spesso non sono considerati tali. Certo, è legittimo chiedersi se «linguaggio» equivalga a «sistema simbolico» e se «simbolo» stia per quel che i semiotici chiamano «segno». Non lo faremo qui; ma, in quel che segue, «linguaggi» sarà spesso preferito a «sistemi simbolici». Tale dicitura è, per un verso, meno impegnativa, poiché non ci obbliga a sostenere per principio che un linguaggio debba essere qualcosa di sistematico. Per altro verso, è invece più impegnativa: definire qualcosa come linguaggio sembra richiedere che questa talcosa possegga una semantica: e ciò contrasta con alcune credenze del senso comune circa i modi di simbolizzazione in uso nella musica, nella espressione plastica, nei linguaggi dell'arte in generale. Vedremo come sia possibile modificare queste credenze, senza dover rinunciare all'intuizione del buon senso. Un'ultima premessa: poiché parlo a specialisti, potrò dare per conosciute molte cose, con risparmio di energia e di spazio.

| << |  <  |