Copertina
Autore John Kenneth Galbraith
CoautoreEmiliano Bazzanella, Jonathan Swift
Titolo L'arte di ignorare i poveri
Edizioneabiblio, Trieste, 2011, Appunti 7 , pag. 56, cop.fle., dim. 12x21x0,5 cm , Isbn 978-88-97158-03-5
TraduttoreGea Polonio
LettoreRenato di Stefano, 2012
Classe economia
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Indice


    EMILLANO BAZZANELLA

    L'economia cannibale

1.  L'economia e l'Altro, 9
2.  Cannibalismo, 13
3.  Il reale che noi stessi siamo, 16
4.  Povertà e reale, 20
5.  Povertà e consumismo, 22
6.  L'economia cannibale e la decrescita, 29


    JOHN KENNETH GALBRAITH

    L'arte di ignorare i poveri, 33


    JONATHAN SWIFT

    Sul buon uso del cannibalismo, 43


 

 

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Pagina 9

L'economia cannibale
EMILIANO BAZZANELLA



1. L'economia e l'Altro

Una delle critiche che Sartre rivolge a Marx e al marxismo in genere, oltreché una scarsa considerazione dell'individuo nella sua singolarità, riguarda l'assenza di una particolare attenzione nei confronti della realtà per così dire fisica o naturale nella quale si sviluppa una società. Quasi anticipando alcune tonalità presenti nel "reale" lacaniano, infatti, Sartre ipotizza che al di là della struttura economica, ci sia a monte dei processi di socializzazione anche la penuria (in francese: rareté) ossia un'assenza costitutiva, una mancanza. In questo senso i rapporti economici tra le classi, lo sfruttamento e i processi di accumulo sarebbero innanzitutto motivati da una certa configurazione della realtà, dall'abbondanza o meno cioè di quelle che sono le cosiddette risorse naturali.

La storia dell'uomo è costellata quindi da gerarchie, rapporti di dominio e sottomissione, divisione tra gruppi sociali e così via, non soltanto a causa della sua innata predisposizione verso l'ingiustizia e la sopraffazione, ma anche in ragione del suo rapporto con l'ambiente.

[...]


6. L'economia cannibale e la decrescita

Dovremmo a questo punto trarre qualche conclusione: abbiamo visto che la proposta di Swift non è poi così iperbolica e assurda come potrebbe apparire in prima istanza poiché mette in luce – almeno dal punto di vista strutturale – le strane similarità che accomunano la povertà e il cannibalismo. Il cannibalismo rituale difende dall'Altro immanente in ogni comunità umana, ma la povertà è a suo modo un'ulteriore espressione dell'alterità nella misura in cui evidenzia la nuda vita dell'uomo, il suo esser-carne (anche nel senso merleau-pontiano del termine). Swift pensa allora di risolvere il problema della povertà auspicando provocatoriamente il cannibalismo dei bambini indigenti dell'età d'un anno, e così facendo ipotizza paradossalmente la cosa più razionale. Siffatta razionalità si desume peraltro dalla prospettiva economicista con cui egli affronta la questione, evidenziando come siano in gioco precise strategie di marketing, di logistica e di commercializzazione.

Nel mondo contemporaneo assistiamo a una sorprendente disparità nelle condizioni di vita delle popolazioni dei vari continenti: c'è una maggioranza che vive di stenti ed è malnutrita, e c'è una minoranza pingue e obesa. Agli occhi di un ipotetico extra-terrestre la cosa potrebbe apparire quantomai assurda e illogica. Ancora: perché chi ha in eccesso non dà a chi non ha nulla? Se siamo destinati all'alienazione e ad essere-altri-da-noi-stessi perché non accondiscendere a un altruismo che, a questo punto, dovrebbe apparire come la soluzione più spontanea? Perché arroccarsi in uno sterile, inutile e fallimentare egoismo?

Assistiamo a un capovolgimento dei termini in gioco: ciò che dovrebbe essere l'opzione più sensata e percorribile, viene altresì esclusa in favore della soluzione solo in apparenza più logica. La scelta dell'uomo occidentale è stata infatti quella della rimozione, in quanto la povertà rappresenta il proprio essere-Altro osceno e insostenibile. E questa rimozione ovviamente si esplica nell'esatto opposto dell'indigenza, ossia nel consumismo sistematico. L'uomo consuma perché vuole rimuovere la povertà che è il suo "essere-reale"; ignora l'indigenza nel mondo poiché nega e si distanzia da una parte oscena di sé che non vuole vedere e ammettere, ma questa parte oscena ri-torna ineluttabilmente nella misura in cui egli stesso diviene "oggetto di consumo" e quindi di cannibalismo.

Ecco palesarsi il sottile gioco di incastri in cui ci getta Swift: 1) il cannibalismo riguarda la povertà ma non nel senso economicistico ed utilitaristico esposto nel pamphlet, bensì nel fatto che la rimozione-esclusione della povertà si concretizza alfine in un cannibalismo consumistico: il povero non viene mangiato direttamente, ma viene consumato in modo traslato e occulto dallo sfruttamento, dalla non condivisione delle risorse e dall'oblio. Ciò significa che la proposta orribile di Swift è già in atto in questo momento e tutti noi siamo un po' cannibali. 2) L'eccesso consumistico e l'imperativo sociale che ci impone di rincorrere un godimento impossibile, fa sì poi che il meccanismo consumistico ci si rivolga beffardamente contro e ad essere cannibalicamente consumati siano proprio gli iniziali consumatori, noi!

Forse, comprendendo meglio l'autoriflessività di questo processo e la simmetria perversa del cannibalismo, saremo in grado di uscire dal circolo vizioso dell'economia, rompendo il gioco delle simmetrie del dono (io faccio un regalo anche a chi non me lo può contraccambiare) e non facendo più della povertà, dell'essere-Altro che tutti noi siamo, l'oggetto della nostra rimozione, bensì la radice ineludibile e positiva della nostra esistenza. Questo doppio processo costituisce l'anima del concetto della decrescita e integra il sovvertimento dell'economia della communitas compiuto dal cristianesimo.

Non essendo tuttavia più ipotizzabile un correttivo immunologico quale fu quello della Legge protocristiana, bisogna pensare a nuove forme di compensazione simboliche che non scadano tuttavia in nuovi totalitarismi. Tutto il Novecento e questo scorcio di terzo millennio sono stati caratterizzati dal consumismo quale rituale immunizzante nei confronti del reale, ma ciò a spese di un ritrarsi della dimensione simbolica. Ora, una rottura del circolo economico e del cannibalismo simmetrico (noi metaforicamente "mangiamo" i poveri del Terzo Mondo, ma siamo a nostra volta mangiati dal "mercato") dev'essere corrisposta dal ritorno di una mediazione simbolica che però deve avere un potenziale autoimmunizzante sconosciuto alle mediazioni del passato, ossia deve contenere in sé gli anticorpi per un molto probabile futuro ritorno dei pensieri forti e delle certezze assolute.

In altre parole, il ristabilimento di una struttura di senso che sorregga l'impatto della rottura del meccanismo circolare dell'economia, dovrà essere paradossalmente caratterizzato da una certa debolezza: per decrescere, insomma, ed evitare contemporaneamente i rischi di nuove tensioni sociali è necessario un nuovo supporto di senso ancora tutto da prefigurare.

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Pagina 33

L'arte di ignorare i poveri
[1985]
JOHN KENNETH GALBRAITH



Vorrei riflettere su uno dei più antichi esercizi umani, il processo per mezzo del quale nel corso degli anni, dei secoli in realtà, ci siamo impegnati a toglierci i poveri dalla coscienza.

I ricchi e i poveri hanno convissuto, sempre scomodamente e alle volte pericolosamente, sin dalla notte dei tempi. Plutarco arrivò a dire "lo squilibrio tra ricchi e poveri è il morbo più antico e fatale delle repubbliche". E i problemi che sorgono dalla reiterata coesistenza di abbondanza e miseria – in particolare il processo per cui grandi fortune sono giustificate in presenza di sfortune altrui – sono stati una preoccupazione intellettuale per secoli. Continuano ad esserlo a tutt'oggi.

Si inizia con la soluzione proposta dalla Bibbia: i poveri soffrono in questa vita ma sono meravigliosamente ricompensati nella prossima. La loro povertà è una sfortuna temporanea; se poi oltre che poveri sono anche mansueti, alla fine erediteranno la terra. Questa è, per certi aspetti, una soluzione mirabile. Permette ai ricchi di godersi i loro beni invidiando i poveri per la loro fortuna futura.

Molto, molto più tardi, nei venti o trent'anni successivi alla pubblicazione nel 1776 di La ricchezza delle nazioni , ancora all'alba della Rivoluzione Industriale in Gran Bretagna, il problema e la sua soluzione iniziarono a prendere la loro forma moderna. Jeremy Bentham , quasi contemporaneo di Adam Smith , se ne uscì con la formula che per una cinquantina d'anni influenzò straordinariamente il pensiero britannico e in una certa misura anche americano: l'utilitarismo. "Per principio di utilità" Bentham disse nel 1789, "si intende il principio che approva o disapprova ciascuna azione a seconda della tendenza che sembri avere di aumentare o diminuire la felicità della parte il cui interesse è in questione." La Virtù è, e deve essere, egocentrica. Per quanto ci fossero persone con enormi fortune e molte di più in grandi ristrettezze, il problema sociale era risolto fintantoché, di nuovo con le parole di Bentham, ci fosse "il maggior bene per il maggior numero." La Società faceva del suo meglio per più persone possibile; si accettava che il risultato potesse essere tristemente spiacevole per i molti la cui felicità non veniva perseguita.

Intorno al 1830 fu disponibile una nuova formula, altrettanto influente a tutt'oggi, per toglier i poveri dalla coscienza sociale. È associata ai nomi di David Ricardo , un agente di borsa, e Thomas Herbert Malthus , un pastore. Le sue parti essenziali sono note: la miseria dei poveri è colpa dei poveri, e lo è perché è prodotta dalla loro eccessiva fecondità: la loro lussuria terribilmente incontrollata li porta a riprodursi al limite massimo della sussistenza disponibile.

Questo è il maltusianesimo. La povertà essendo causata a letto, i ricchi non sono responsabili né della sua creazione né di eventuali miglioramenti. Comunque, Malthus non era di suo completamente privo di senso di responsabilità: raccomandava che la cerimonia nuziale contenesse un ammonimento contro il sesso eccessivo e irresponsabile – esortazione che, bisogna dire, non è accettata come metodo anticoncezionale completamente efficace. In tempi più recenti, Ronald Reagan ha detto che la forma migliore di controllo delle nascite viene dal mercato, (le coppie innamorate dovrebbero rifugiarsi ai grandi magazzini, non a letto). Malthus, bisogna dire, era almeno altrettanto pertinente.

Verso la metà del XIX secolo, una nuova forma di diniego raggiunse grande influenza, specialmente negli Stati Uniti. La nuova dottrina, associata al nome di Herbert Spencer , era il Darwinismo Sociale. Nella vita economica, come nello sviluppo biologico, la regola predominante è la sopravvivenza del più adatto. Quella frase –"sopravvivenza del più adatto" – deriva nei fatti non da Charles Darwin ma da Spencer, ed esprimeva la sua visione della vita economica. L'eliminazione dei poveri è il modo della natura di migliorare la razza. Una volta che i deboli e i disgraziati siano stati estromessi, la qualità della famiglia umana ne esce rafforzata.

Uno dei più illustri portavoce americani del darwinismo sociale fu John D. Rockefeller – il primo Rockefeller – che disse in un famoso discorso: "la rosa American Beauty può essere prodotta nel suo splendore e con la fragranza che allieta chi la osserva solo sacrificando i germogli precoci che le crescono intorno. E così è anche nella vita economica: si tratta semplicemente del compimento di una legge di natura e di una legge di Dio".

[...]


Alla fine, quando tutto il resto fallisce, ricorriamo alla semplice rimozione. È una tendenza psicologica che in varia misura è comune a tutti. Fa sì che evitiamo di pensare alla morte. Fa sì che moltissime persone evitino il pensiero della corsa agli armamenti e alla conseguente probabile estinzione. Con lo stesso processo di rimozione, ci rifiutiamo di pensare ai poveri. Sia che si trovino in Etiopia, nel South Bronx o anche in un paradiso come Los Angeles, decidiamo di tenerli fuori dai nostri pensieri. Pensa, spesso ci dicono, a qualcosa di bello.

Questi sono i sistemi moderni per sfuggire la preoccupazione per i poveri. Tutti, tranne forse l'ultimo, discendono dalla grande linea intellettuale di Bentham, Malthus e Spencer. Ronald Reagan e i suoi colleghi rientrano chiaramente in una grande tradizione – alla fine di una lunga storia di sforzi per evitare la responsabilità verso i propri compagni umani. Così sono i filosofi ora celebrati a Washington: George Gilder, un grande favorito del recente passato, che dice tra gli applausi che i poveri devono avere lo sprone delle loro sofferenze per assicurare uno sforzo; Charles Murray, che, ancora più acclamato, contempla "demolire l'intera struttura federale di previdenza sociale e supporto al reddito per lavoratori e anziani, compresi gli aiuti ai minori, Medicaid, tessere alimentari, sussidi di disoccupazione, rimborsi per infortuni, case popolari, pensioni di invalidità e" aggiunge "tutto il resto. Tagliare il nodo, perché non c'è modo di scioglierlo." Con una sorta di triage, i meritevoli verrebbero selezionati per sopravvivere; la perdita degli altri è il prezzo da pagare. Murray è la voce di Spencer ai nostri giorni: sta godendo, come si è detto, di una popolarità senza pari negli alti circoli di Washington.

La compassione, con associato pubblico sforzo, è il comportamento meno comodo e meno conveniente di questi tempi. Ma rimane l'unico compatibile con una vita completamente civilizzata. Ed è anche, alla fine, la via più sinceramente conservatrice. Non c'è paradosso: il malcontento popolare e le sue conseguenze non derivano da gente contenta – ovviamente. Nella misura in cui riusciremo a rendere la soddisfazione quanto più universale possibile, salvaguarderemo e estenderemo la tranquillità sociale e politica alla quale i conservatori, più di ogni altro, anelano.

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Pagina 43

Sul buon uso del cannibalismo
[1729]
JONATHAN SWIFT



È causa di mestizia, per quanti passano per questa grande città o viaggiano per il paese, vedere le strade, sia in città, sia fuori, e le porte delle capanne, affollate di mendicanti di sesso femminile con tre, quattro o sei bambini al seguito, tutti vestiti di stracci, e che importunano i passanti chiedendo l'elemosina. Queste madri, invece di avere la possibilità di lavorare e di guadagnarsi onestamente la vita, sono costrette a passare tutto il loro tempo andando in giro ad elemosinare il pane per i loro disgraziati bambini, i quali, una volta cresciuti, diventano ladri per mancanza di lavoro, o lasciano il loro amato paese natio per andare a combattere per il Pretendente di Spagna, o per offrirsi in vendita ai Barbados.

Penso che da ogni parte si sia d'accordo sul fatto che tutti questi bambini, in quantità enorme, che si vedono in braccio o sulla schiena o alle calcagna della madre e spesso del padre, costituiscono un ulteriore motivo di lamentela nelle attuali deplorevoli condizioni di questo Regno; e, quindi, chiunque sapesse trovare un metodo equo, facile e poco costoso per rendere questi bambini parte sana e utile della comunità, acquisterebbe tali meriti presso l'intera società, che gli verrebbe eretto un monumento come salvatore del paese.

Io tuttavia non intendo preoccuparmi soltanto dei bambini dei mendicanti di professione, ma vado ben oltre: voglio prendere in considerazione tutti i bambini di una certa età, i quali siano nati da genitori in realtà altrettanto incapaci di mantenerli di quelli che chiedono l'elemosina per le strade.

Per parte mia, dopo aver riflettuto per molti anni su questo importante problema e aver ponderato attentamente i vari progetti presentati da altri, mi son reso conto che vi erano in essi grossolani errori di calcolo. È vero, un bambino appena partorito dalla madre può nutrirsi del suo latte per un intero anno solare con l'aggiunta di pochi altri alimenti, con spesa non eccedente i due scellini, o con l'equivalente in avanzi di cibo, che la madre si può certamente procurare nella sua legittima professione di mendicante; ed è esattamente all'età di un anno che io propongo di provvedere a loro in modo tale che, anziché essere un peso per i genitori o per la parrocchia, o mancare di cibo e di vestiti per il resto della vita, contribuiranno invece al nutrimento e in parte al vestiario di migliaia di persone.

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