Copertina
Autore Luciano Gallino
Titolo La lotta di classe dopo la lotta di classe
EdizioneLaterza, Roma-Bari, 2012, Saggi Tascabili 370 , pag. 214, cop.fle., dim. 11x18x1,7 cm , Isbn 978-88-420-9672-6
CuratorePaola Borgna
LettoreGiorgia Pezzali, 2012
Classe politica , economia , lavoro , globalizzazione , paesi: Italia: 2000 , paesi: Italia: 2010
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Indice


    Prefazione                                                  V

1.  Esistono ancora le classi sociali?                          3

2.  La lotta di classe nel mondo                               21

3.  La globalizzazione come progetto politico                  38

4.  La competitività come lotta di classe                      63

5.  Le divisioni interne della classe dei lavoratori globali   83

6.  La redistribuzione del reddito dal basso verso l'alto     104

7.  L'austerità dei bilanci pubblici come lotta di classe     123

8.  Lavoro flessibile in una società rigida                   149

9.  La lotta di classe nella vita quotidiana                  172

10. Per un ritorno alla dialettica tra le classi              194


 

 

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Pagina 3

1.
ESISTONO ANCORA LE CLASSI SOCIALI?



D. Top manager e leader politici, anche da sinistra, sono di recente tornati ripetutamente sull'idea che parlare degli operai, ovvero dei lavoratori dipendenti in genere, come se fossero una classe sociale sia un ritornello frusto e che la lotta di classe sia un residuo arcaico della rivoluzione industriale. Occorre dunque ragionare sulla società italiana e sulla società globale in termini del tutto nuovi, prendendo atto del fatto che le classi sociali, con riferimento alle quali sono state descritte e analizzate le società sin dalla metà dell'Ottocento, non esistono più?

R. Bisogna cominciare con una distinzione. Chi afferma che le classi sociali non esistono più muove in genere dalla constatazione che non si vedono più manifestazioni di massa che siano chiaramente attribuibili ad una data classe. Oppure intende dire che non vi sono più partiti di un certo peso elettorale che per il loro statuto o programma si rifanno chiaramente all'idea di classe sociale. In questi casi si può convenire che negli ultimi decenni le classi sociali, e con esse la lotta di classe, sono diventate assai meno visibili. Il che pare dar ragione a chi arriva a concludere che, non essendo le classi visibili e la lotta di classe chiaramente discernibile, non esistono più le classi. Però una classe sociale, come disse qualcuno tempo fa, distinguendo tra la classe in sé e la classe per sé, non è delimitata o costituita soltanto dal fatto di dar forma ad azioni collettive in quanto espressioni di un conflitto, o da una forte presenza pubblica di partiti che fanno delle classi e magari della lotta di classe la loro bandiera. Una classe sociale esiste indipendentemente dalle formazioni politiche che ne riconoscono o meno l'esistenza, e perfino da ciò che i suoi componenti pensano o credono di essa.

Ricorrendo ad un'espressione che risale anch'essa a parecchio tempo addietro, far parte di una classe sociale significa appartenere, volenti o nolenti, ad una comunità di destino, e subire tutte le conseguenze di tale appartenenza. Significa avere maggiori o minori possibilità di passare, nella piramide sociale, da una classe più bassa ad una classe più alta; avere maggiori o minori possibilità di fruire di una quantità di risorse, di beni materiali e immateriali, sufficienti a rendere la vita più gradevole e magari più lunga; disporre oppure no, in qualche modo, del potere di decidere il proprio destino, di poterlo scegliere. Per definire una classe, insomma, è necessario ma non basta dire che è una comunità di destino: rientra nella definizione anche la possibilità per chi vi appartiene di poter influire sul destino stesso, di poterlo in qualche misura cambiare.

Ci sono poi altri motivi che inducono molti, da tempo, ad affermare che le classi sociali non esistono più. Uno di essi è la relativa omogenizzazione dei consumi e dello stile di vita della classe operaia, o classe lavoratrice, e delle classi medie. Le famiglie degli operai e dei muratori, dei magazzinieri e dei conducenti di autobus hanno in molti casi l'automobile, la tv a schermo piatto, il telefono cellulare, la lavatrice, vivono in un alloggio di proprietà, mandano i figli a scuola almeno sino alla fine delle superiori e fanno le vacanze al mare: proprio come le famiglie dei dirigenti d'azienda, dei professionisti, dei funzionari della pubblica amministrazione, dei commercianti, dei piccoli imprenditori che formano la classe media ovvero la piccola e media borghesia, come si chiamava una volta. Qui occorre naturalmente precisare: un conto è lo stile di vita o il consumo di massa visivamente osservabile; altra cosa è la qualità del lavoro che un individuo svolge, la possibilità di crescita professionale, la probabilità di salire nella scala sociale, il fatto di avere o non avere qualcuno sulla testa che dice ad ogni momento che cosa devi fare. In questa prospettiva le differenze di classe rimangono cospicue, anche se a causa della Grande Crisi esplosa nel 2007, e diventata una Grande Recessione che durerà forse molti anni, una parte della classe media ha subìto una sorta di processo di proletarizzazione.

Un altro motivo per affermare che le classi sociali non esistono, che risale ancor più lontano nel tempo, ma che anche oggi si sente riproporre da politici di destra non meno che di centro-sinistra, è grezzamente ideologico. Esso suona così: operai, dirigenti e proprietari hanno tutti interesse a che un'impresa funzioni bene e faccia buoni utili. Sono, si dice, nella stessa barca. Asserire che hanno interessi diversi e quindi appartengono a classi obiettivamente contrapposte è un'idea priva di senso, si sostiene, e anzi dannosa per tutte le parti in causa. Perciò operai e sindacati devono essere "complici" dei manager e dei proprietari: è arrivato a dirlo nientemeno che un ministro del Lavoro italiano, Maurizio Sacconi, rompendo una tradizione che ha visto succedersi in tale carica politici dediti a trovare i modi per regolare il conflitto strutturale tra le due parti, non a camuffarlo. Quasi due secoli e mezzo fa, Adam Smith aveva spiegato perfettamente perché l'idea che operai e padroni possano o debbano essere "complici" non sta in piedi: gli operai, per la posizione che occupano, vorrebbero sempre ottenere salari più alti; i padroni, per i mezzi di produzione che controllano, vorrebbero pagare sempre salari più bassi.


D. Classe operaia, classe lavoratrice, classe media. Ma come si fa a stabilire che certi gruppi o strati sociali appartengono all'una o all'altra classe? Alla fine, anche un artigiano può dire giustamente di essere un lavoratore. E un dirigente che guadagna cinque o dieci volte più di un operaio è pur sempre un dipendente che può essere licenziato.

R. "Classe operaia" e "classe lavoratrice" sono sinonimi, come si ricava anche dall'uso che ne viene fatto in diverse lingue sin dai primi decenni dell'Ottocento. In inglese si è sempre parlato di working class, ponendo così in primo piano il processo generico di lavoro, mentre tedeschi, francesi e spagnoli hanno sempre parlato di Arbeiterklasse, classe ouvrière e clase obrera, espressioni che richiamano piuttosto le persone che svolgono un particolare tipo di lavoro. Quest'ultimo si distingue da ogni altro perché presenta in modo congiunto e inscindibile due caratteri: richiede un'attività fisica ovvero corporea, in prevalenza manuale, oltre che intellettuale, e si svolge alle dipendenze di altri perché il soggetto non possiede i mezzi per lavorare in proprio. Con il progresso tecnologico è accaduto che in molti lavori la componente fisica si sia ridotta a paragone di quella intellettuale, ma è tuttora presente anche là dove si usano le tecnologie più avanzate. Stare davanti a un computer per otto ore al giorno, per dire, eseguendo operazioni predeterminate della durata media di un minuto, come avviene in un call center, comporta un notevole impegno corporeo oltre che intellettuale.

Ora, se si accoglie l'idea che la classe operaia o lavoratrice è formata da coloro che sul lavoro debbono impegnare sia il corpo che la mente, e lo prestano in quanto dipendenti da un datore di lavoro, si possono individuare anche i caratteri di altri raggruppamenti che sono invece riconducibili alla classe media. Gli artigiani, ad esempio, svolgono un lavoro con una importante dose di manualità, ma non sono alle dipendenze di nessuno. Per contro gli insegnanti, i funzionari pubblici, gli impiegati amministrativi di un'impresa lavorano come dipendenti, ma la componente della manualità è irrilevante. Gli uni e gli altri possono essere quindi considerati come parte della classe media. Θ ovvio che esistono vari altri raggruppamenti così caratterizzabili, e senza dubbio il confine tra classe operaia-lavoratrice e classe media è talora sfumato. Nondimeno mi pare che con queste definizioni si possa stabilire con chiarezza sufficiente chi appartiene all'una o all'altra.

Volendo complicare un poco la definizione, si potrebbe aggiungere che la classe operaia o lavoratrice è costituita dagli individui che con la loro forza lavoro, erogata alle dipendenze di qualcuno, assicurano la produzione delle merci e del capitale, mentre rientrano nella classe media coloro che assicurano la circolazione delle une (ad esempio con il trasporto e il commercio) e dell'altro (ad esempio con il credito). Un tempo quest'ultima era chiamata piccola e media borghesia, per distinguerla dall'alta borghesia formata da imprenditori, redditieri (i proprietari di grandi patrimoni), proprietari terrieri e immobiliari, alti dirigenti delle imprese e della pubblica amministrazione.


D. Max Weber, il maggior studioso del Novecento circa i rapporti tra economia e società, utilizzò il termine destino per riferirsi alla differenziazione delle possibilità di vita determinata dalla possibilità di utilizzazione di beni o del lavoro sul mercato. "Un elemento costantemente presente nel concetto di classe è rappresentato dal fatto che la qualità delle possibilità offerte sul mercato rappresenta la condizione comune del destino di tutti gli individui", egli scrisse in un testo pubblicato postumo nel 1922. Θ questo il significato del termine destino a cui ti riferisci?

R. Direi di sì. Destino non è un termine astratto. Significa avere o no un buon livello di istruzione e poterlo trasmettere; poter scegliere o no dove e come abitare; vivere in salute più o meno a lungo; fare un lavoro gradito, professionalmente interessante oppure no; avere o non avere preoccupazioni economiche; dover temere oppure no che il più modesto incidente della vita quotidiana metta in serie difficoltà sé o la propria famiglia. Da questo punto di vista, le classi sono delle realtà concrete oggi come sempre lo sono state nella storia. Più che mai da quando esiste l'industrializzazione, che fa dipendere il destino individuale dalla possibilità o dalla impossibilità di essere indipendenti sul lavoro.

Quello che caratterizza l'epoca contemporanea è che, da un lato, per ogni individuo appartenere a una comunità di destino risulta – se ne renda conto o meno – come una sorta di determinazione ineludibile, ferrea, e quindi siamo dinanzi ad un processo che vede ancor sempre, almeno dal punto di vista della posizione occupata nella società, le classi sociali come comunità di destino aventi una loro perentoria esistenza. Dall'altro lato manca invece, anche in prospettiva, lo sviluppo, la formazione di una o più classi che, oltre ad essere oggettivamente determinate, siano anche in grado di agire come soggetto per modificare in qualche misura il loro stesso destino. Nei termini della distinzione di origine marxiana richiamata poco sopra, manca cioè il passaggio dalla classe in sé alla classe per sé, intendendo con questo il passaggio della classe dallo stato di mera categoria oggettiva allo stato di soggetto consapevole e quindi capace di intraprendere un'azione politica unitaria.


D. In questa prospettiva, l'espressione lotta di classe cosa significa?

R. Significa due cose a un tempo. Per chi non è soddisfatto del proprio destino, delle vicende che la vita appare proporgli anche per un lontano futuro, significa mobilitarsi per tentare di migliorare, insieme con altri che si trovano nella medesima condizione, il proprio destino con diversi mezzi; o, quanto meno, per evitare che esso peggiori. Ma c'è anche l'altra situazione, quella di coloro che sono soddisfatti del proprio destino e vorrebbero difenderlo, o che in ogni caso vedono con apprensione la possibilità che venga compromesso. Questa situazione rinvia alla lotta di classe condotta da parte di coloro che già in passato hanno avuto in essa la meglio, qualificandosi in qualche modo come i suoi vincitori.

Bisogna ancora tenere presente che in ambedue i casi chi vuol difendere la propria posizione sociale – perché difendere il proprio destino significa appunto questo – o al contrario vuole migliorarla, non è detto che debba farlo unicamente scendendo in piazza, facendo risonanti discorsi pubblici, intervenendo a manifestazioni oppure organizzandole. La lotta di classe ha aspetti appariscenti ed altri che lo sono assai meno. La lotta di classe ha componenti economiche, riguardanti il reddito che si ottiene con il lavoro o con il capitale, la ricchezza di cui la propria famiglia dispone, ovvero la distribuzione dell'uno e dell'altra; in sostanza, componenti che toccano la possibilità di godere o meno di benefici materiali. E ovviamente ha componenti politiche, che hanno a che fare con la possibilità di riuscire a esercitare o meno un qualche potere nei luoghi dove si decidono le leggi, le norme che regolano la vita di una società e, in essa, di tutte le classi sociali.

Esiste anche una lotta culturale. Essa consiste, ad esempio, nel far risaltare i meriti della posizione sociale che si occupa e descrivere invece in modo negativo la posizione sociale di altri, in specie delle classi con cui una determinata classe si trova a competere, a lottare. Questa forma di lotta può consistere anche nel tentare di dimostrare che chi ha un destino ingrato – sul piano del lavoro, della salute, dell'educazione, della fruizione di aspetti significativi dell'esistenza, della mancanza di potere e di prospettive – in fondo lo deve unicamente a se stesso. Tale schema interpretativo fa parte da almeno duecento anni della lotta di classe, ma viene oggi utilizzato come forse mai in passato. Da un lato si descrive la propria posizione, quando essa è gratificante, come il risultato di un merito; dall'altro si descrive come il risultato di un demerito, se non di una colpa, la posizione di chi, invece, da quella sorta di gabbia di ferro in cui si trova in qualche modo racchiuso trae risorse scarse, mancanza di potere e una vita un po' più breve, povera e crudele.


D. Ammesso che oggi esista qualcosa che si possa definire lotta di classe, quale sarebbe la sua caratteristica saliente?

R. V'è un fatto storicamente comprovabile: tra la fine della seconda guerra mondiale e la fine degli anni Settanta-inizio anni Ottanta, la classe operaia, e più in generale la classe dei lavoratori dipendenti a partire da chi lavora in fabbrica, ha ottenuto, in parte con le sue lotte, in parte per motivi geopolitici, miglioramenti importanti della propria condizione sociale. Anche senza volerli chiamare, alla francese, i gloriosi Trent'anni, si è trattato di un periodo in cui decine di milioni di persone hanno avuto per la prima volta un'occupazione stabile e relativamente ben retribuita. Basti pensare, per quanto riguarda il nostro paese, che ancora nel 1951, anno del primo censimento dopo la guerra, esistevano in Italia centinaia di migliaia di braccianti pagati a giornata, su chiamata mattutina di un caporale, che lavoravano mediamente 140 giorni all'anno.

Per questi strati sociali, un impiego stabile nell'industria ha rappresentato un notevole avanzamento sociale. Sono aumentati i salari reali; sono stati introdotti o ampliati in molti paesi, Italia compresa, i sistemi pubblici di protezione sociale, dalle pensioni fondate sul metodo a ripartizione (in base al quale il lavoratore in attività contribuisce a pagare la pensione di quelli che sono andati a riposo, metodo che le mette al riparo dai corsi di Borsa e dall'inflazione) al sistema sanitario nazionale; si sono ridotti gli orari di lavoro di circa 2-300 ore l'anno (che vuol dire quasi due mesi di lavoro in meno); si sono allungate di settimane le ferie retribuite. Infine si sono estesi in diversi paesi, a partire dal nostro, i diritti dei lavoratori ad essere trattati come persone e non come merci che si usano quando servono o si buttano via in caso contrario. Queste conquiste, a cominciare dai sistemi pubblici di protezione sociale, sono state il risultato di riforme legislative – rinvio qui al nostro Statuto dei Lavoratori del 1970, voluto da un ministro del Lavoro socialista, Giacomo Brodolini, e redatto in gran parte da un giovane giuslavorista socialista pure lui, Gino Giugni – non meno che di imponenti lotte sindacali. Senza dimenticare il movimento degli studenti che in Italia come in Francia e in Germania contribuì sul finire degli anni Sessanta a inserire nell'agenda politica la richiesta di una democrazia più partecipativa.

Va rilevato che le conquiste in parola erano anche il risultato di un quadro geopolitico che è poi cambiato rapidamente dopo la fine degli anni Ottanta. Ad Oriente c'era infatti la grande ombra dell'Urss, il gigante di cui si temevano le mosse, che si poteva considerare in qualche modo rappresentato in Occidente da partiti politici di peso, come il Partito comunista in Francia e in Italia. Le classi dominanti sono state così indotte a cedere una porzione dei loro privilegi, tutto sommato limitata. In ogni caso ciò ha voluto dire una riduzione del potere di cui godevano, dovuta in parte alle lotte dei lavoratori, in parte al convincimento che fosse meglio andare in quella direzione affinché l'ombra ad Oriente non esercitasse troppa influenza nel contesto politico occidentale.

Verso il 1980 ha avuto inizio in molti paesi – Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Italia, Germania – quella che alcuni hanno poi definito una contro-rivoluzione e altri, facendo riferimento ad un'opera del 2004 dello studioso francese Serge Halimi, un grande balzo all'indietro. Le classi dominanti si sono mobilitate e hanno cominciato loro a condurre una lotta di classe dall'alto per recuperare il terreno perduto. Simile recupero si è concretato in molteplici iniziative specifiche e convergenti. Si è puntato anzitutto a contenere i salari reali, ovvero i redditi da lavoro dipendente; a reintrodurre condizioni di lavoro più rigide nelle fabbriche e negli uffici; a far salire nuovamente la quota dei profitti sul Pil che era stata erosa dagli aumenti salariali, dagli investimenti, dalle imposte del periodo tra la fine della seconda guerra mondiale e gli anni Ottanta.

In sostanza non è affatto venuta meno la lotta di classe. Semmai, la lotta che era stata condotta dal basso per migliorare il proprio destino ha ceduto il posto a una lotta condotta dall'alto per recuperare i privilegi, i profitti e soprattutto il potere che erano stati in qualche misura erosi nel trentennio precedente.

La caratteristica saliente della lotta di classe alla nostra epoca è questa: la classe di quelli che da diversi punti di vista sono da considerare i vincitori – termine molto apprezzato da chi ritiene che l'umanità debba inevitabilmente dividersi in vincitori e perdenti – sta conducendo una tenace lotta di classe contro la classe dei perdenti. Θ ciò che intendo per lotta di classe dopo la lotta di classe.

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D. La classe dominante di cui hai chiaramente analizzato la base oggettiva nel complesso dell'organizzazione sociale si configura come un soggetto collettivo d'azione?

R. Questa classe dominante globale esiste in tutti i paesi del mondo, sia pure con differenti proporzioni e peso. Essa ha tra i suoi principali interessi quello di limitare o contrastare lo sviluppo di classi sociali – quali la classe operaia e le classi medie – che possano in qualche misura intaccare il suo potere di decidere che cosa convenga fare del capitale che controlla allo scopo di continuare ad accumularlo: quali merci produrre, a che prezzo venderle, dove e con quali mezzi, nel caso di un'impresa industriale; oppure come creare direttamente denaro per mezzo del denaro, nel caso di una società finanziaria.

Naturalmente la classe in questione persegue anzitutto lo scopo di difendere le sue rendite e i suoi profitti, che tra l'altro sono enormemente saliti negli ultimi venti o trent'anni. Basterà ricordare che i top manager delle grandi imprese, industriali e non – ovvero il presidente e l'amministratore delegato in Italia, il Ceo (Chief executive officer) in Usa, il Pdg (President-Directeur Général) in Francia, il presidente o direttore del consiglio di gestione (Vorstand) e del consiglio di sorveglianza (Aufsichtrat) in Germania –, percepivano intorno agli anni Ottanta compensi globali dell'ordine di 40 volte il salario di un impiegato o di un operaio. Al presente il rapporto è salito in media a oltre 300 volte, con punte che negli Stati Uniti possono raggiungere 1000 volte il salario di un lavoratore dipendente. Ciò è dovuto non solo all'aumento dello stipendio base, del premio di risultato e di altri benefits, ma anche al vastissimo ricorso all'uso delle opzioni sulle azioni come remunerazione.

Una frazione della classe capitalistica transnazionale o globale che appartiene ad un determinato paese può trovarsi a volte in conflitto con l'analoga frazione di classe che appartiene a un paese diverso – fenomeno che si verifica anche entro la classe lavoratrice. Nell'insieme, però, detta classe ha come elemento aggregante, come fattore di trasformazione della classe in sé nella classe per sé, un processo che nel suo caso non solo è avviato ma è fortemente consolidato. Θ un processo che si avvale di una quantità di strumenti diretti e indiretti per condurre una efficace lotta di classe contro coloro che in qualche modo riuscirono ad ottenere un miglioramento delle proprie condizioni nei primi trent'anni del secondo dopoguerra. In tale processo rivestono un peso notevole la circolazione internazionale dei top manager da un'impresa all'altra, i loro convegni, i sistemi di comunicazione che utilizzano ad ogni momento, oltre ai potenti strumenti di elaborazione ideologica di cui si possono avvalere. La classe capitalistica senza confini nazionali di cui parlo si presenta dunque come una realtà che opera a scala globale tanto sul piano materiale che su quello ideologico. Perciò si può considerare una classe per sé a tutti gli effetti, oltre che una classe in sé.

Questo processo di integrazione in una unica classe universale, capace di agire ovunque e su ogni piano come un soggetto unitario, si verifica in alto grado dalla parte dei vincitori, ma appare ben lontano dal realizzarsi tra le sconfinate file dei perdenti.


D. Θ possibile separare la classe che detiene il potere economico dalle classi che la sostengono sul terreno politico e culturale?

R. Anzitutto la classe capitalistica transnazionale fruisce di un poderoso collante ideologico che è sostenuto da decine di "serbatoi del pensiero", operanti soprattutto in Europa e negli Stati Uniti. Essa possiede inoltre un grosso peso politico. Le leggi in tema di politiche fiscali, deregolazione della finanza, riforme del mercato del lavoro, privatizzazione di beni comuni – dall'acqua ai trasporti pubblici – emanate in diversi paesi dagli anni Ottanta in poi, e che oggi il Fondo monetario internazionale (Fmi), la Banca centrale europea (Bce) e la Commissione europea (Ce) vorrebbero imporre senza eccezioni a tutti i membri dell'Unione europea (Ue), o quanto meno a quelli dell'eurozona, sono state una parte essenziale della controffensiva a cui mi riferivo prima.

Tale controffensiva non avrebbe mai avuto il successo che ha avuto se non avesse potuto prender forma di e appoggiarsi su leggi, decreti, normative e direttive che sono stati concepiti e approvati appositamente dai parlamenti, sotto la spinta delle lobbies industriali e finanziarie, in vista di un duplice scopo: indebolire il potere delle classi lavoratrici e delle classi medie, e accrescere allo stesso tempo il potere della classe dominante. A ciò vanno aggiunti i finanziamenti, dell'ordine di centinaia di milioni l'anno, che dette lobbies erogano a favore dei candidati alle elezioni politiche: mi riferisco a deputati, senatori e presidenti della Repubblica – in quest'ultimo caso, ovviamente, nei paesi come Usa e Francia dove il presidente viene eletto dal popolo – dei quali le corporations industriali e finanziarie intendono assicurarsi la benevola attenzione allorché saranno in carica.

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Capitali dell'ordine di trilioni di dollari sono stati investiti in complicatissimi titoli compositi che le banche, non solo americane ma anche europee, hanno creato e diffuso in un modo che si è rivelato disastrosamente inefficiente. O meglio: che la crisi stessa ha mostrato essere inefficiente quanto rischioso. Dopodiché gli enti finanziari sono stati salvati dal fallimento dai governi, sia tramite aiuti economici diretti (oltre 15 trilioni di dollari in Usa; 1,3 trilioni di sterline nel Regno Unito; almeno un trilione di euro in Germania), sia indirettamente, forzando i paesi con un elevato debito pubblico a pagare interessi astronomici sui titoli di Stato in possesso degli enti medesimi. I quali sono in prevalenza banche francesi e tedesche i cui bilanci sono stati disastrati sia dai titoli tossici (così detti perché formati da crediti ormai considerati inesigibili) che hanno creato a valanga o hanno acquistato in gran quantità negli anni Duemila, sia da un eccesso di denaro preso in prestito da altre banche o dalle banche centrali, al fine di concedere a loro volta fiumi di prestiti da portare fuori bilancio. E così nei bilanci pubblici si sono aperti vuoti paurosi, per colmare i quali si chiede non a chi ha causato la crisi, bensì ai lavoratori e alle classi medie, di tirare la cinghia. E forse questa una delle espressioni più crude e meno studiate della lotta di classe condotta dai vincitori contro i perdenti.

Per quanto possa apparire strano, tutto ciò comporta che la lotta di classe dal basso, dovesse mai riprendere, dovrebbe avere tra i suoi primi obiettivi una riforma del sistema finanziario. La crisi ha dimostrato che quelli che sembravano metodi straordinariamente astuti per distribuire il rischio tra masse di investitori e di risparmiatori lo hanno in realtà concentrato, rischiando di far crollare l'intero sistema economico mondiale. Per cui, al fine di evitare di pagare una seconda volta i costi della crisi, i cittadini lavoratori dovrebbero pretendere delle riforme incisive in tale campo. Purtroppo ne siamo ben lontani. A oltre cinque anni dallo scoppio della crisi, non è stata effettuata nessuna approfondita riforma del sistema finanziario. Quella del presidente Obama dell'estate 2010 ha appena scalfito la superficie del problema, non da ultimo per la feroce opposizione delle lobbies finanziarie, ampiamente rappresentate nel Congresso Usa sia dai repubblicani sia da numerosi democratici; e quella in gestazione nella Ue è ancora più inconsistente. Con tutti i rischi che il sistema finanziario internazionale continua a proporre e riproporre, in particolare a danno delle classi perdenti. Per quanto riguarda invece i vincitori, i componenti della classe capitalistica transnazionale, dalle crisi essi escono in generale con redditi e patrimoni rafforzati.

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In Italia si può ricordare l'abolizione dell'imposta comunale sugli immobili (Ici), di cui sicuramente molti cittadini si sono rallegrati, ora ripristinata. Purtroppo, però, l'abolizione dell'Ici ha svuotato per diversi anni le casse dei comuni, i quali a quei medesimi cittadini hanno dovuto tagliare asili, scuole, servizi alla famiglia, trasporti locali, assistenza alle famiglie svantaggiate. Un'altra forma di lotta di classe per mezzo del fisco in Italia è consistita nella ripetuta serie di condoni fiscali – ormai non si contano più – che sono stati un premio elevatissimo, mai visto in nessun altro paese europeo, per chi non paga le tasse; viceversa essi sono stati beffardamente punitivi per tutti coloro che, vuoi per senso civico vuoi per l'impossibilità di sottrarsi, le tasse le pagano.

Vi sono anche paradossi nella normativa fiscale italiana. Essa stabilisce che l'aliquota minima, quella che si paga su un reddito imponibile fino a 15.000 euro, è del 23%. L'aliquota sale al 27% per la fascia di reddito da 15 a 28.000 euro. Per contro l'aliquota unica applicabile sulle rendite da capitale – che si guadagnano non dico dormendo, ma quasi, si tratti di opzioni sulle azioni, di dividendi, o di aumento del valore delle stesse: è sempre denaro che cresce senza dover lavorare – è stata per decenni solamente del 12,5%. E l'aliquota più bassa che si sia mai vista nei paesi Ue, dove si è sempre andati dal 20% in su quanto a imposta sulle rendite da capitali, persino nella Francia di destra. Ora un decreto legge del 2011 ha elevato questa aliquota al 20% a decorrere dal 1° gennaio 2012. Tuttavia siamo pur sempre dinanzi al paradosso: un lavoratore con un imponibile di 28.000 euro – quota entro la quale rientra la maggior parte dei lavoratori dipendenti – deve versare 6960 euro di imposte (sia pure al lordo di modeste detrazioni), a fronte di 1500 ore annue di lavoro pagate meno di venti euro l'una, mentre su un introito della stessa entità un redditiere da capitale ne paga soltanto 5600, senza dover lavorare neppure un'ora. E la medesima aliquota pagherà anche se quella rendita si moltiplica per mille. Da notare, inoltre, che in Italia è stata pressoché abolita l'imposizione sulle eredità, almeno relativamente ai discendenti diretti, con argomenti ineffabili di questo tipo: "non è giusto che uno crei un'impresa, messa in piedi con le fatiche di una vita, e poi debba pagare un'imposta quando viene trasmessa ai figli". Ora, l'imposta la pagano non il fondatore bensì i figli, che si trovano in regalo un bene che sovente non hanno contribuito a creare. Se sul valore effettivo di un'impresa, o su quello di un alloggio, sul valore insomma di qualsiasi bene che venga trasmesso ai successori, si pagasse un'imposta del 10 o 15%, parrebbe difficile sostenere che viene sequestrato il patrimonio messo insieme con una vita di lavoro.

Quanto alle imposte sulle società, uno studio della KPMG, nota società di servizi finanziari operante anche in Italia, condotto in 80 paesi e pubblicato nel 2010, mostra come il tasso medio dell'imposizione fiscale sia stato ridotto tra il 1995 e il 2010 dal 38 al 25%. Tra gli Stati più generosi nei confronti delle società vi sono la Germania, che ha tagliato detto tasso di 22 punti, dal 51,6 al 29,4%; la Grecia, che di punti ne ha tagliati 16 (dal 40 al 24%); l'Irlanda, che lo ha dimezzato, passando dal 24 al 12,5%; e l'Italia, che lo ha ridotto di quasi 10 punti (dal 41,3 al 31,4%).

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D. Quali altri modi vi sono per condurre la lotta di classe dall'alto verso il basso utilizzando come strumento il processo legislativo?

R. Metterei in primo piano le politiche e le relative leggi che nei paesi sviluppati, anziché combattere la disoccupazione e la povertà, le sanciscono come mali inevitabili. Gli Usa e la Ue hanno speso o impegnato almeno 18 trilioni di dollari per salvare gli enti finanziari "troppo grandi per lasciarli fallire". Per contro, allo scopo di rilanciare l'occupazione, gravemente colpita dalla Grande Recessione, sono stati spesi pochi miliardi. In Italia la manovra economica dell'agosto-settembre 2011 ha tagliato in tre anni 45 miliardi di servizi alle famiglie, pensioni, sanità, trasporti pubblici, e non un solo euro è stato destinato a creare direttamente occupazione. La stessa manovra è stata ulteriormente inasprita a dicembre dal nuovo governo Monti.

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Dimezzare la povertà estrema e il numero degli affamati entro il 2015 fa parte dei famosi Obiettivi di Sviluppo del Millennio, scaturiti dalla Dichiarazione adottata dai 198 paesi presenti al vertice del Millennio delle Nazioni Unite svoltosi nel settembre 2000. Θ ormai certo – siamo nel 2012 – che a causa della crisi in molti paesi questi obiettivi, per gran parte dei quali la data ultima indicata è appunto il 2015, non verranno raggiunti. Non lo saranno perché gli Stati benestanti, le loro classi dominanti e i membri locali della classe capitalistica transnazionale non intendono spendere i dollari o gli euro necessari per condurre efficacemente la lotta contro la povertà e la fame. Il reddito del mondo supera ormai i 65 trilioni di dollari (65.000 miliardi). Il rapporto 2003 sullo Sviluppo umano dell'Onu stimava che per sradicare la povertà estrema e la fame ci sarebbero voluti 76 miliardi di dollari l'anno. Si può supporre che ai nostri giorni l'importo sia salito, a dire molto, a 100 miliardi.

Ora, c'è da chiedersi che razza di mondo sia quello che produce valore per 65.000 miliardi di dollari l'anno e non ne trova un centinaio – pari a un seicentocinquantesimo del totale – per sconfiggere la povertà estrema e la fame. I governi dei paesi ricchi sostengono di avere le casse vuote. Tra questi, i governi italiani si distinguono in modo particolare. Nella classifica dell'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) dei 23 paesi donatori per l'Aiuto pubblico allo sviluppo, l'Italia si colloca al penultimo posto, avendo dedicato alla cooperazione allo sviluppo nel 2009 solo lo 0,16% del prodotto interno lordo, molto lontano dall'obiettivo dello 0,5% entro il 2010 e dello 0,7% entro il 2015, cui l'Italia ha più volte aderito insieme agli altri paesi più industrializzati. Dietro di noi c'è solo la Corea.


D. Anche questa sarebbe una forma di lotta di classe?

R. Anche questo si deve a una politica dei governi attenta a non disturbare coloro che hanno un reddito elevato: in qualche misura, infatti, se si decide di versare qualche miliardo per combattere la povertà e la fame, o esso viene ulteriormente tolto ai sistemi di protezione sociale che già si trovano sotto il tiro micidiale delle politiche di austerità, oppure deve essere richiesto sotto forma di imposizione fiscale alle classi più ricche. In un paese come l'Italia, ciò equivarrebbe a qualche centinaio di euro all'anno per redditi al di sopra dei 200.000 euro circa. Un prelievo di certo non punitivo per nessuno, che però appare impossibile da realizzare. Per tre motivi: perché è una meta a cui non viene attribuito alcun peso; perché coloro che denunciano un reddito del genere sono una frazione minima di quelli che lo percepiscono davvero; e non da ultimo perché i rappresentanti degli interessi della classe dominante sono la maggioranza in parlamento.

Per diverse vie le modeste risorse che vengono destinate a ridurre in misura apprezzabile la povertà e la fame nel mondo rappresentano una forma di lotta di classe. Una lotta indiretta, diversa dalla lotta fiscale, ma non meno importante perché significa indifferenza totale per la sorte di miliardi di persone. Ho citato altre volte la battuta di un personaggio che fu tempo addietro presidente della Banca mondiale – quindi non propriamente un sovversivo – e che si chiamava James Wolfensohn. Il quale ebbe a dire: quando una metà del mondo all'ora di pranzo guarda in tv l'altra metà che sta morendo di fame, la civiltà è giunta alla fine. Questa battuta tutto sommato è una efficace epitome – o forse epitaffio – della lotta di classe condotta contro i più poveri.

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Pagina 38

3.
LA GLOBALIZZAZIONE
COME PROGETTO POLITICO



D. Sin qui abbiamo parlato di lotta di classe in generale e a livello mondo. Sembra quasi inevitabile, a questo punto, introdurre nel quadro che stiamo delineando un processo di cui si parla ormai da alcuni decenni, e cioè la globalizzazione economica.

R. La globalizzazione è stata definita innumerevoli volte come un aumento, mai sperimentato prima, dell'interdipendenza tra le economie nazionali. Si tratta di una definizione che è innanzitutto storicamente scorretta, poiché l'economia mondiale già nel 1914 aveva raggiunto un cospicuo grado di integrazione, andato in pezzi a causa della Grande Guerra e dei trattati di pace che ne seguirono, e recuperato soltanto più di mezzo secolo dopo. In secondo luogo è tautologica, cioè non spiega nulla. Per spiegarla bisogna anzitutto notare che sotto il profilo economico la globalizzazione dei nostri tempi, a datare da fine anni Settanta-inizio anni Ottanta, è consistita in due movimenti. Imprese americane ed europee di ogni dimensione sono andate a costruire nuovi impianti nei paesi in via di sviluppo allo scopo di conquistare più facilmente, producendo sul posto, i mercati locali; nel contempo, hanno scoperto che conveniva produrre in questi paesi anche le merci richieste dai mercati dei loro paesi d'origine. Pertanto, da oltre un decennio, due terzi del commercio internazionale sono formati da merci che vengono fabbricate a basso costo nei paesi emergenti da imprese controllate da corporations americane ed europee e vengono poi "esportate" in Usa e in Europa come se fossero prodotti originali di un'impresa straniera. Per fare un esempio, non un solo Ipad o Iphone delle decine di milioni venduti ogni anno viene prodotto in America, dove sono stati progettati. Sono fabbricati in centinaia di fabbriche distribuite in dozzine di paesi asiatici. L'Iphone, ad esempio, è composto da circa 140 pezzi di cui nemmeno uno è fabbricato negli Usa.

Ma ciò che occorre sottolineare è che la globalizzazione, oltre ad essere un progetto economico-industriale, è stata anche un progetto politico.

Sotto il profilo politico, la globalizzazione è stata mossa da un duplice intento: anzitutto poter disporre di masse di salariati che avessero meno potere di quello che avevano acquisito le classi lavoratrici americane ed europee – mi riferisco ancora all'America del New Deal e all'Europa del trentennio successivo alla seconda guerra mondiale – di incidere sulla distribuzione del reddito, sul governo delle imprese, sull'organizzazione del lavoro. In secondo luogo, si è puntato a ridurre il potere e a comprimere sia i salari che i sistemi di protezione sociale di cui godevano la classe operaia e le classi medie nei loro paesi d'origine.

Per ridurre il potere di un avversario come la classe operaia, non esiste mezzo migliore che togliere di mezzo le basi materiali della sua esistenza. La classe operaia, il movimento dei lavoratori, i sindacati nascono e si sviluppano in una situazione storica ben precisa: la creazione e lo sviluppo nei paesi occidentali della fabbrica e di quelle sedi dove i prodotti della fabbrica vengono venduti, l'insieme del cosiddetto terziario (la distribuzione, il commercio, i servizi alle imprese e alle famiglie). Quindi si è fatto il possibile per portar via le fabbriche dai luoghi in cui esse avevano conosciuto il massimo sviluppo, e dove si era affermato progressivamente il potere delle classi lavoratrici di incidere sulla distribuzione del reddito, sul governo delle imprese, sull'organizzazione del lavoro.

In poche parole, dagli Stati Uniti e dall'Europa, che vuol dire soprattutto l'Unione europea – e in particolare l'eurozona, che conta oggi 17 paesi, ed è quella economicamente più forte –, un gran numero di fabbriche e di servizi che girano attorno ad esse è stato trasferito nei cosiddetti paesi emergenti, dove sono state investite migliaia di miliardi di dollari per realizzare impianti produttivi che avrebbero potuto essere tranquillamente creati in gran parte nei paesi d'origine.


D. A quali dei paesi emergenti ti riferisci in particolare?

R. In prima battuta, già negli anni Ottanta, i cosiddetti "investimenti diretti all'estero" sono stati convogliati soprattutto verso la Cina; altri imponenti flussi di capitali hanno preso la strada verso India, Filippine, Indonesia, America Latina. Lo scopo iniziale è stato ovunque il medesimo: poter disporre di una forza lavoro sottomessa, flessibile, pagata cinque o dieci volte di meno che negli Usa o nella Ue, praticamente priva di qualsiasi diritto (o meglio senza alcuna legge che proteggesse i suoi diritti), con una presenza sindacale praticamente inesistente e nessuna tutela ambientale. L'obiettivo, insomma, era quello di ottenere una completa libertà d'azione nei paesi emergenti – una libertà d'azione impossibile nei paesi d'origine (Stati Uniti ed Unione europea) dove le grandi corporations erano e sono vincolate da una serie di leggi e di norme nate dalle lotte operaie e dal movimento sindacale, oltre che dagli interventi, almeno per qualche tempo, dei partiti socialdemocratici e democristiani. La Cina, prima, e per certi aspetti anche l'India, in seguito, non sono paesi emersi nell'economia mondiale unicamente con le proprie forze: sono stati in larga misura una creatura dell'Occidente, con il quale solo più tardi hanno iniziato a competere.


D. Quali forme ha preso questo trasferimento della produzione all'estero?

R. Varie e molteplici. Ci sono state le delocalizzazioni nude e crude, per cui uno stabilimento viene chiuso nel Veneto e va a produrre in Romania, o è trasferito dall'Illinois ad una provincia cinese. In altri casi non c'è stato bisogno di chiudere un impianto per portarlo altrove: semplicemente non si è aperto un impianto nel paese dove aveva sede legale la società madre. Anziché aprirlo nel paese d'origine, lo si è aperto in un altro paese. Naturalmente vi sono delle differenze a seconda delle finalità produttive. Θ evidente che se una corporation produce hamburger o caffè espresso, come fanno le catene di McDonald's o Starbucks, la sede degli impianti e dei centri di vendita non poteva che essere installata nel paese in cui quei prodotti vengono smerciati. Tuttavia, in molti altri casi la produzione poteva benissimo aver luogo nel paese d'origine della corporation; nondimeno gli impianti sono stati trasferiti altrove. Oggi si stima che intorno all'80% e più dell'industria del tessile e dell'abbiamento sia stato spostato dagli Stati Uniti e dall'Europa in India e altrove; il 95% dell'industria di giocattoli è stato trasferito in Cina; i microprocessori, che sono il cuore di tutti i computer, per l'80-90% vengono fabbricati in Thailandia; la maggior parte degli altri componenti dei nostri pc e portatili e notebooks e tablets è prodotta in Cina, Taiwan o altri paesi asiatici che hanno raggiunto notevoli capacità nelle produzioni d'alta tecnologia.

Alla de-industrializzazione in patria – estesa e drammatica è stata quella degli Stati Uniti – è seguita l'emigrazione all'estero dei servizi, resa possibile dalle tecnologie informatiche. Produzione e manutenzione di software, contabilità delle carte di credito, pratiche notarili, prenotazioni di linee aeree, gestione di fondi pensionistici: sono innumerevoli i servizi che le corporations americane ed europee hanno trasferito all'estero.

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4.
LA COMPETITIVITΐ COME LOTTA DI CLASSE



D. Ripartiamo dalle vicende Fiat di questi ultimi anni. La sequenza delle mosse relative al piano di Pomigliano del 2010 e a quello di Mirafiori del 2011 è stata presentata come indispensabile per reggere alla competizione internazionale.

R. Poiché l'amministratore delegato pro tempore Sergio Marchionne ha sempre voluto far credere che gli Stati Uniti siano il modello da imitare quanto a competitività delle imprese e modernità delle relazioni industriali, mi rifarei a un episodio accaduto di recente in quel paese. Ai primi di dicembre 2010, un senatore che si autodefinisce indipendente e progressista, Bernie Sanders, ha fatto un lungo discorso nel Senato degli Stati Uniti. Val la pena di ricordare qui alcuni punti da lui toccati che sembrano attagliarsi piuttosto bene al caso italiano e con esso al caso Fiat. Anzitutto ha notato come gran parte dell'industria manifatturiera degli Stati Uniti sia stata delocalizzata, con una perdita dell'ordine di milioni di posti di lavoro solo in questo settore; la produzione è stata trasferita in Cina, India, Vietnam, Messico e altrove. Poi Sanders ha ricordato un suo viaggio del 2009 in Vietnam, dove ha visitato diverse fabbriche i cui operai, in prevalenza donne, guadagnavano in media 50 centesimi di dollaro l'ora. Ha aggiunto che durante quel viaggio era stato raggiunto da una buona notizia relativa ai salari dei paesi emergenti: nel Bangladesh era infatti stata approvata una legge che aumentava il salario minimo da 23 a 36 centesimi di dollaro. Infine Sanders ha ricordato l'accordo Chrysler-Fiat, per effetto del quale i lavoratori neo-assunti dopo il salvataggio dell'azienda e il rinnovo del contratto, di cui si è parlato anche nel nostro paese, vengono pagati la metà di quelli assunti in precedenza – 14 dollari l'ora invece di 28 – pur lavorando fianco a fianco con compagni che guadagnano il doppio.

Le riflessioni del senatore americano ci consentono di comprendere meglio il tema della competitività intesa sia come lotta della classe dominante contro i lavoratori, sia come fattore che alimenta varie forme di conflitto interno alle classi.

Abbiamo già notato che imprese grandi, medie e piccole hanno delocalizzato per sfruttare al meglio i bassi salari dei paesi emergenti e il livello bassissimo del costo totale del lavoro. Bisogna infatti ricordare che mentre sui nostri salari al lordo delle imposte, e in minor misura anche su quelli americani, grava tra il 40 e il 50% di contributi obbligatori destinati ai sistemi di protezione sociale, in quei paesi tali oneri per i datori di lavoro sono quasi inesistenti. Per ragionare sulla competitività come lotta di classe bisogna partire da questo punto: le imprese occidentali sono andate in paesi dove il costo del lavoro è minimo allo scopo di accrescere il rendimento dei capitali e i profitti, nonché per poter vendere a minor prezzo i loro prodotti negli stessi paesi d'origine, estromettendo dal mercato la concorrenza che non ha delocalizzato. Hanno così voltato le spalle alle conquiste degli ultimi sessanta-settant'anni non solo della classe operaia, ma anche della classe media.

Sanders ha anche ricordato che lo scopo dei repubblicani del Congresso, e perfino di molti democratici, è precisamente quello di annullare tutte le conquiste in tema di protezione sociale ottenute dalle classi lavoratrici e dalle classi medie negli ultimi decenni. La delocalizzazione, infatti, non consiste soltanto in uno spostamento della produzione, in un mutamento dell'organizzazione produttiva. Essa costituisce un attacco diretto alle condizioni di lavoro e di vita di quelli che restano nel proprio paese: quando le imprese delocalizzano, assieme alla produzione scompare anche il lavoro, e in molti casi proprio il lavoro ben pagato e ragionevolmente protetto dell'industria manifatturiera.

C'è poi l'altro aspetto della competitività come fattore di conflitto interno alle classi. Θ chiaro che un lavoratore che guadagnava 25 dollari o 20 euro l'ora, il quale vede sparire il lavoro, ben sapendo che esso sarà svolto da suoi simili – in India, in Vietnam, in Cina o in Africa – che si accontentano di una retribuzione dieci volte inferiore, finirà per provare sentimenti di frustrazione e risentimento verso quei lavoratori. In questo modo si divide la classe lavoratrice, opponendo gli interessi di quanti escono dalle campagne e sono disposti a lavorare per meno di un dollaro l'ora, a quelli di coloro che o perdono il lavoro oppure, come i neo-assunti della Chrysler, per garantirselo devono lavorare a metà salario rispetto ai compagni.

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D. Torniamo al tema della competitività. Se non è vero, come pure è stato affermato, che l'Italia è tra gli ultimi in classifica per efficienza del lavoro, l'Ocse rileva che il divario fra l'Italia e i paesi più performanti continua ad ampliarsi in particolare a causa della bassa produttività del lavoro italiano. Perché l'Italia non ha saputo reggere negli ultimi anni il passo con gli altri paesi?

R. Anzitutto bisogna dire che la classifica del World Economic Forum che ci ha posti nel 2010 al 118° posto su 139, dietro paesi come il Ghana, la Namibia e la Costa d'Avorio, è stata usata in modo del tutto improprio — sia dall'amministratore delegato della Fiat in alcune sue dichiarazioni che da molti commentatori. La classifica in questione non parla affatto di efficienza del lavoro, bensì di efficienza del mercato del lavoro. In altre parole, non è intesa a valutare la produttività delle ore lavorate e nemmeno del singolo lavoratore. Si riferisce invece alla maggiore o minore facilità di licenziare il personale o di assumerlo in rapporto all'andamento della produzione — un'ossessione tipica delle politiche del lavoro neoliberali. Inoltre, la classifica è stata stilata guardando non tanto alla normativa in essere, che avrebbe assegnato all'Italia un indice molto basso circa i vincoli ai licenziamenti (mi riferisco al metodo di misurare la strictness of employment protection dell'Ocse), quanto raccogliendo soprattutto il parere di manager, dirigenti, forse di qualche politico o ministro del Lavoro, i quali hanno espresso la loro personale opinione di parte sulla possibilità di assumere o licenziare esistente nel loro paese. Ove si tenga presente questo dettaglio non da poco, si può ben comprendere come l'Italia sia collocata dietro alla Namibia, al Ghana e alla Costa d'Avorio in una classifica della facilità di licenziare; si può anzi aggiungere che va considerata una vera fortuna essere al 118° posto (diventato il 123° nella medesima classifica pubblicata nel 2011), anziché al decimo o al quinto. In una simile classifica è infatti insita l'idea che il lavoro possa, e anzi debba, venire trattato come una merce, che è possibile procurarsi o buttare da parte senza badare ad altre considerazioni. Un'idea in conflitto radicale con la nostra Costituzione

Θ peraltro vero che le statistiche Ocse relative alla efficienza del lavoro, ovvero alla sua produttività, ci pongono molto in basso tra i paesi Ocse. Da noi la produttività del lavoro è pressoché ferma dal 1995. In più di 15 anni è aumentata appena del 2%, mentre in altri paesi è aumentata del 15-20% (in Germania più del 25). Però bisogna anche ricordare che l'Ocse usa correttamente il concetto di produttività, in quanto lo intende come valore aggiunto per ora lavorata. Per contro i media, i manager, molti imprenditori e quasi tutti i politici, intendono la produttività come quantità di pezzi sfornati all'ora da un operaio, restando con ciò aderenti ad un'immagine della produttività resa celebre dal film Tempi Moderni di Charlie Chaplin. Produrre un elevato valore aggiunto per ora di lavoro non deriva affatto dal lavorare più in fretta, e ben poco dal lavorare meglio nel senso di non sprecare tempo, non fare pause, compiere solo i movimenti prestabiliti e simili. La quantità di valore aggiunto per ora lavorata deriva in massima parte dal tipo di prodotto che un'impresa sa inventare o sviluppare; dai mezzi di produzione che si utilizzano; dalla strutturazione complessiva del processo di fabbricazione; infine dall'organizzazione del lavoro. In altre parole, è strettamente legata all'entità degli investimenti in ricerca e sviluppo, sia nel pubblico che nel privato. Questa voce vede l'Italia quasi ultima in classifica tra i maggiori paesi Ue. Infatti l'Italia spende in questo tipo di investimenti circa l'1% del Pil, laddove quasi tutti gli altri paesi Ocse vi destinano tra il doppio e il triplo. Le nostre imprese private, ricordo ancora, hanno smantellato o ridotto drasticamente l'attività dei loro centri di ricerca, mentre la ricerca pubblica soffre, oltre che di gravi carenze organizzative, anche di continui tagli di fondi. Il risultato tangibile e duraturo che si è ottenuto è un valore aggiunto insolitamente basso per ora lavorata.

Causa non ultima di tale situazione è il fatto che l'industria italiana – che pure riesce a esportare e tiene in piedi intere regioni grazie all'impresa piccola e media — continua a produrre in gran parte oggetti e servizi che sono intrinsecamente a basso valore aggiunto. Di conseguenza si trova a competere soprattutto sul costo del lavoro. Se si producono oggetti – siano essi piastrelle, mobili, elettrodomestici e perfino auto – che ormai tutti al mondo sanno produrre, il valore aggiunto è scarso perché non c'è l'originalità del prodotto che crea un mercato. Il primo a non essere competitivo è il prodotto, non il suo costo. Per contro, si è finito con il ribaltare tutta la questione della produttività in termini di ritmi e costo del lavoro, benché lo stesso Sergio Marchionne avesse detto pochi anni fa, nel 2006, che il costo del lavoro non riguarda più del 5 o 6% del costo totale del prodotto – nel settore auto, come in molte altre produzioni ipermeccanizzate. Ragion per cui bisognerebbe preoccuparsi soprattutto del restante 95% e non di quella modesta percentuale.

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7.
L'AUSTERITΐ DEI BILANCI PUBBLICI
COME LOTTA DI CLASSE



D. Hai richiamato più volte il modello sociale europeo. In proposito hai fatto osservare che gli interventi diversi di cui è oggetto per salvare i bilanci pubblici possono essere considerati uno dei risultati della controffensiva delle classi dominanti contro le classi dominate. Come spieghi che tali misure trovino sostenitori anche nei governi di centro-sinistra?

R. In effetti le politiche di austerità introdotte dai governi Ue, compreso quello italiano, si connotano sempre più come una lotta di classe condotta dalle forze economiche e politiche al potere contro chi dal potere è escluso. Sono in prevalenza governi di destra o di centro-destra, e i governi così orientati interpretano, seppure in modi diversi, gli interessi delle classi dominanti, quelle che detengono il potere nella finanza, nell'industria, nelle grandi corporations. Essi, inoltre, debbono far fronte alle richieste ineludibili di organizzazioni anch'esse di destra, quali la Commissione europea, la Banca centrale europea, il Fondo monetario internazionale. Così come debbono preoccuparsi del giudizio delle agenzie di valutazione, entità strettamente private che all'epoca del capitalismo finanziario arrivano nientemeno che a far tremare gli Stati. Di conseguenza la controffensiva delle classi dominanti verso le classi lavoratrici e medie ha preso anche forma di tagli rilevanti allo Stato sociale europeo.

Un aspetto incongruo delle politiche di austerità, le quali sono in sé politiche arcignamente di destra, è che vengono sovente condotte da governi di centro-sinistra, oppure da governi di centro-destra eredi dimentichi di quelle politiche democristiane che hanno contribuito non poco a sviluppare lo Stato sociale. Per quanto attiene al primo caso, si veda cos'è accaduto in Grecia, in Spagna, in Portogallo. In questi paesi i governi socialisti e socialdemocratici al potere, sinché sono durati, dapprima hanno mentito ai loro stessi elettori sulle cause della crisi (e quando non mentivano mostravano di non aver capito assolutamente le radici profonde di essa); dopodiché hanno imposto a suon di colpi di maggioranza parlamentare misure di austerità intrinsecamente di destra. Ridurre a ogni costo la spesa pubblica; avviare un piano di privatizzazioni dei servizi pubblici; vendere al miglior offerente il patrimonio terriero e immobiliare dello Stato; modernizzare il sistema dí welfare e le relazioni sindacali, che significa in realtà far arretrare di decenni sia il primo che le seconde: sono tutte ricette di destra che la crisi iniziata nel 2007 ha contraddetto in ogni possibile modo, ma che parecchi governi Ue, combinando ideologia liberista, incompetenza e a volte una buona dose di ipocrisia, hanno ora rispolverato come fossero rimedi alla crisi.

Non parlo a caso di ipocrisia. Si pensi al governo tedesco, con la sua pretesa di imporre ai paesi membri di adottare severi tagli allo Stato sociale in ossequio alla sacralità del bilancio in pareggio e al dovere di porre fine a decenni di spese pubbliche eccessive. In realtà, il suo scopo ultimo è quello di salvare le banche tedesche, che sin dai primi anni 2000 sono tra le più malandate della Ue. Soltanto il fallimento della Hypo Real Estate, nel 2009, è costato allo Stato federale più di 100 miliardi di euro. Altri 40 sono stati iniettati nel suo bilancio nell'autunno del 2010. Sarebbe facile citare altri casi simili. Vi sono poi le banche regionali, quasi tutte a maggioranza pubblica. Secondo una stima di fine 2009 del BaFin, l'ente di sorveglianza dei servizi finanziari, il settore bancario pubblico tedesco era esposto a rischi di investimento e di insolvenza da parte dei creditori per un totale di 355 miliardi. Da allora sono in corso affannose campagne di ristrutturazioni organizzative e finanziarie, anche a colpi di fusioni e acquisizioni, per tentare di rimettere in sesto le suddette banche, che costituiscono ben 15 delle 20 maggiori banche tedesche. In altre parole, gratta i proclami sull'austerità da perseguire, e trovi bilanci di enti finanziari in dubbie condizioni da salvare.

Altro paradosso: la diagnosi giusta, riassumibile nella formula "l'austerità impicca l'economia", sta diventando un grido di destra. Nell'estate 2011, in Grecia, il capo dell'opposizione Antonis Samaras, rappresentante dell'ultra destra, ha raccolto nelle piazze decine di migliaia di persone denunciando l'austerità che la maggioranza socialdemocratica (risicata, ma pur sempre maggioranza) voleva imporre, col rischio di aggravare la recessione e di condannare gran parte della popolazione a decenni di povertà. Un messaggio di sinistra viene lanciato dal leader della destra e fa presa su elettorati di destra, come mostra il successo delle formazioni di orientamento simile presenti in decine di paesi europei. Di fatto, poco dopo, il governo socialdemocratico di Papandreu è caduto per essere sostituito da un governo di destra, di cui fanno parte anche ministri dal passato inequivocabilmente fascista.

Pensiamo anche ai democristiani in Germania: si tratta della formazione politica che a suo tempo ha dato un significativo contributo allo sviluppo dello Stato sociale tedesco, durante la ricostruzione e nei lustri (se non decenni) seguenti. Ora eccola che impone tagli, restrizioni e misure che portano chiaramente all'impoverimento delle classi lavoratrici e medie e che rischiano di creare seri problemi all'economia – anche se la Germania al momento vive sull'enorme eccedenza delle esportazioni proprie grazie al deficit delle medesime che fan registrare gli altri paesi Ue.


D. Quale lo sbocco politico possibile delle misure di austerità nel medio periodo? Possiamo affermare che il mondo si muove verso destra?

R. Temo di sì, anche se le proteste contro questo mondo, che dovrebbero risuonare soprattutto a sinistra, stanno diventando – come ho appena detto – anche un messaggio di destra. Va ricordato un caso storico, da cui gli attuali governi europei non sembrano avere imparato nulla. Le misure eccessivamente punitive imposte alla Germania nel 1919, alla conferenza di Versailles, erano misure che distruggevano l'economia tedesca. Nel saggio Le conseguenze economiche della pace, pubblicato l'anno dopo, John Maynard Keynes , che aveva presenziato ai lavori, sosteneva che punire così severamente un intero popolo significava minare alla radice alcune componenti essenziali della civiltà europea. Il terribile decennio di Weimar – terribile sotto il profilo economico – e poi il nazismo nascono di lì. Quando Hitler fece la sua prima piccola rivoluzione e finì in carcere dove scrisse – nella tranquillità di una prigione molto ospitale – il Mein Kampf , le grida dei suoi che risuonavano in giro proclamavano che gli alleati avevano affamato il popolo, generato povertà, e provocato lo smarrimento e la perdita di ogni dignità. Quelle erano le piazze di Monaco nel 1923 e negli anni successivi. Un decennio dopo Hitler saliva al potere.

Dinanzi a queste lezioni della storia i politici dei governi europei sono stati troppo a lungo penosamente miopi. La storia del Novecento e molti segni recenti attestano che lo sbocco politico più probabile delle misure di austerità potrebbero essere regimi autoritari di destra. Nell'estate 2011 il capo dell'eurogruppo (formato dai ministri dell'Economia e delle Finanze della zona euro) Jean-Claude Juncker ha affermato che, a causa delle misure di austerità, la sovranità dei greci risulterà massicciamente limitata. Poiché l'austerità ha ovunque la stessa faccia, c'è da aspettarsi che verrà limitata anche la sovranità dei portoghesi, degli spagnoli, degli italiani. E in effetti all'Italia sta succedendo proprio questo, in forza delle perentorie richieste che le ha rivolto nell'autunno 2011 la troika Ce-Bce-Fmi. Ciò accade in genere perché i governi eletti dal popolo hanno scelto da tempo di mettersi a rimorchio del sistema finanziario, anziché provare a riformarlo – come invece si sarebbe dovuto fare subito dopo il collasso, nell'autunno 2008, di grandi gruppi finanziari come Bear Stearns, Lehman Brothers, AIG (negli Usa), Hypo Real Estate (in Germania), Northern Rock, Royal Bank of Scotland (nel Regno Unito). Quando, con le parole del ministro dell'Economia tedesco dell'epoca, Peer Steinbrόck, il mondo era stato sull'orlo dell'abisso. O quantomeno nel momento in cui la crisi delle banche è riesplosa sotto forma di crisi dei bilanci pubblici, nella primavera del 2010. Non avendo riformato il sistema finanziario, ed avendolo anzi aiutato a diventare più grande e potente di prima, í governi Ue si trovano ora esposti alle sue pretese, senza più mezzi per difendersi.

Il problema è che le organizzazioni cui i governi mostrano di aver ceduto la sovranità economica – ossia la troika appena citata, più le agenzie di valutazione che grazie al governo Usa hanno il monopolio di tale attività – non godono di alcuna legittimazione politica. E così, fedeli al loro ruolo di organi democraticamente eletti, incapaci di individuare alternative se non quella di soggiacere al dettato di organi mai eletti da nessuno – quali appunto la Ce, la Bce, il Fmi –, i governi Ue sono stati unanimi nell'esigere dalla Grecia e dall'Italia per prime di ridurre drasticamente il loro debito pubblico, imboccando un severo percorso di austerità. Un percorso economicamente e politicamente autolesionistico che nondimeno tutti i governi Ue puntano a imporre ai loro cittadini. Le responsabilità della politica in questo senso sono evidenti, come abbiamo visto parlando di politica dominata dall'isteria del deficit.

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D. In che cosa consiste più precisamente il paradosso?

R. Il paradosso risiede nel fatto che da un lato abbiamo la crisi dei bilanci statali, con l'aumento del deficit, cresciuto di dieci volte in pochi anni, e il corrispettivo aumento del debito pubblico; dall'altro accade che i paesi europei, tanto quelli governati da forze politiche di destra o di centrodestra quanto quelli governati da forze di centro-sinistra, sono arrivati alla conclusione che il modo migliore per risanare i bilanci consista nel tagliare la spesa inerente alle varie componenti dello Stato sociale. La lotta di classe è evidente nel fatto che i paesi europei nel loro complesso, come ho già ricordato, hanno speso o impegnato circa tre trilioni di euro (compreso il Regno Unito, una volta fatta la conversione dalla sterlina all'euro) per salvare le banche e in generale le istituzioni finanziarie in crisi, dopodiché per risanare i bilanci han pensato bene di effettuare massicci tagli allo Stato sociale. Giustificandoli perché saremmo di fronte a un insostenibile eccesso della spesa per pensioni, sanità, famiglie, sostegno al reddito e assistenza agli invalidi.

Come ho anticipato in questa conversazione, l'intero ragionamento dei paesi europei appare concentrato sull'eccesso di uscite dal bilancio dello Stato, uscite che sarebbero dovute alle varie voci dello Stato sociale. Non si accenna nemmeno al fatto che i problemi dei bilanci pubblici – che sicuramente esistono, anche se sono enfatizzati per le ragioni sbagliate – sono dovuti per un verso a uscite che non hanno niente a che fare con le spese per lo Stato sociale, come avviene nel caso dei fondi spesi per salvare istituzioni finanziarie. E per l'altro verso sono dovuti – ma di questo abbiamo già detto – al calo delle entrate derivante dalle politiche fiscali degli ultimi decenni, che in varie forme hanno portato a una riduzione sostanziale delle entrate, sia sotto forma di imposte personali sui redditi sia sotto forma di imposte sulle società. Più l'altissimo onere dell'elusione e dell'evasione fiscale da parte dei privati come delle imprese.

Questa distorsione del ragionamento economico, che è anche una distorsione del ragionamento politico a favore delle classi più benestanti, configura tra l'altro una sorta di autolesionismo economico e sociale. Lo è per diversi motivi: accresce la frustrazione, il malcontento della popolazione e anche il conflitto interno ai singoli paesi, quale che sia la forma che esso poi prende. Milioni di famiglie che hanno perso il lavoro o lo vedono a rischio nel vicino futuro si vedono pure tagliare i sostegni al reddito, e nel contempo vedono aumentare fortemente i costi della sanità e dell'istruzione (com'è accaduto nel caso inglese, dove in pochi anni le tasse universitarie sono salite da circa 1000 sterline a 9000), mentre peggiorano la qualità e la quantità dei servizi pubblici. Ciò ingenera frustrazione e rabbia, sia nelle classi a reddito più basso, gli operai, sia in gran parte della classe media (impiegati, tecnici, insegnanti), perché la minaccia della disoccupazione e del lavoro precario, da un lato, e la realtà dei tagli allo Stato sociale, dall'altro, toccano fortemente anche loro.

Alla fine l'austerità necessaria per risanare i bilanci pubblici viene concentrata unicamente sulle spese necessarie per sostenere lo Stato sociale. Non già sul complesso delle spese, come attesta fra tante altre voci di bilancio la decisione del nuovo governo italiano presieduto da Mario Monti di continuare a spendere svariati miliardi al fine di acquistare aerei o navi da combattimento, per difendersi non si sa da chi. O per realizzare grandi opere prive di ogni razionalità tecnica o economica, come la Tav Torino-Lione o la Milano-Genova, la cui esigenza sarebbe imposta in ambedue i casi da un aumento del traffico merci. Prova tu a spiegare da quale paese arrivino le minacce, o perché gli abiti arrivati dall'India via mare o i formaggi francesi dovrebbero, seppure i loro container lo permettessero, viaggiare a 300 km all'ora. Simili impuntature, dalle quali appare sin troppo scoperto se non il disinteresse per le condizioni di vita e di lavoro dei più, quanto meno una loro scarsa conoscenza, hanno come primo risultato di accrescere le tensioni sociali, i risentimenti, la frustrazione. Stati d'animo che non si può mai prevedere quale orientamento, anche politico, possano prendere.

C'è poi una seconda conseguenza: tagliando le spese per l'istruzione pubblica o aumentandone i costi diretti e indiretti (e dunque rendendone in ambedue i casi l'accesso più difficile); assottigliando ulteriormente i fondi per la ricerca; riducendo le ore di insegnamento nelle scuole su- periori; aumentando le tasse per l'istruzione universitaria, l'Unione europea finirà per produrre una generazione di persone in complesso meno istruite. In Italia si è arrivati addirittura al punto di abbassare l'età dell'obbligo scola- stico da 16 a 15 anni, in forza di un articolo del "Colle- gato lavoro" della legge finanziaria 2010. L'ultimo anno di obbligo può essere infatti soddisfatto con un eguale periodo di apprendistato in azienda. Ciò avviene mentre si continua a parlare di economia della conoscenza, di scientificizzazione dell'economia, di un'economia sempre più immateriale e quindi sempre più fondata su persone che dominano l'universo del linguaggio, dei simboli, della matematica. Austerità significa, in realtà, operare efficace- mente per abbassare il livello culturale della popolazione. Un altro guaio dei bilanci austeri, che guardano soltan- to alle spese dello Stato sociale e non ad altre voci di spesa 130 131 taggio di disporre di un sistema pubblico avente la finalità etico-politica di proteggere ciascuno dai principali rischi di un'ordinaria esistenza. Considero questo l'elemento di maggior peso, che oc- corre assolutamente difendere. I costi dell'essere umano sono così elevati, così imprevedibili per ogni individuo, così onerosi per le famiglie e per la persona quando non si riesce a coprirli, da richiedere che la responsabilità di sopportarli sia assunta dalla società nel suo insieme, ovve- ro dallo Stato, come uno degli scopi più alti della politica, anziché essere accollata senza remore né mediazioni al singolo individuo. E questa l'idea che, ad onta delle enor- mi differenze di storia, cultura, linguaggio o geografia che li dividono, può far crescere nei cittadini dell'Unione il senso profondo di far parte di un grande progetto di incivilimento, di progresso sociale, che non ha parago- ni nel mondo. E porli in questo modo in condizione di affrontare le sfide che li attendono, a cominciare dalle riforme: quelle eventuali del modello sociale, ma anche quelle strutturali in campo economico e finanziario che appaiono ormai indispensabili per rendere (forse dovrei dire di nuovo) democraticamente governabile, e governa- ta, l'Unione europea. 8. LAVORO FLESSIBILE IN UNA SOCIETΐ RIGIDA D. A partire dagli anni Ottanta alcuni sociologi hanno so- stenuto la perdita di rilevanza delle classi sociali, afferman- do che nelle società contemporanee non esiste un ambito di disuguaglianza sopraordinato ad altri a cui riportare le disuguaglianze specifiche tra gruppi. L'obiezione più radica- le alla nozione di classe, e all'utilità di ricorrervi, è fondata sull'idea che il lavoro stia perdendo gran parte della sua ri- levanza sociale e che, in base al modo di partecipare ad esso, non sia oggi possibile identificare raggruppamenti sociali di- stinti ed omogenei quanto a situazioni complessive di vita. Avremmo assistito, cioè, ad una attenuazione dei legami tra posizione occupazionale e condizioni complessive di vita e alla differenziazione e pluralizzazione delle disuguaglianze. Il ragionamento svolto sin qui va chiaramente in altra di- rezione. Quali argomenti utilizzeresti in risposta ad obiezio- ni del tipo di quelle esposte? Le classi occupazionali possono ancora, almeno in embrione, essere considerate delle classi sociali? E ancora utile prestare attenzione alla configurazio- ne dell'organizzazione sociale del lavoro e del mercato, alle classi che in tale sfera si radicano e alle disuguaglianze che si strutturano intorno ad esse? R. All'obiezione che il lavoro stia perdendo la sua rile- vanza sociale risponderei che, dato e non concesso che sia vero, il fenomeno riguarda prevalentemente i lavoratori dei 149 paesi sviluppati, cioè alcune centinaia di milioni di lavora- tori, a fronte di un proletariato globale che si stima abbia superato il miliardo e mezzo. Guardando al di là dell'Eu- ropa occidentale – perché questa considerazione si applica soprattutto ai paesi di altre aree del mondo e assai meno ai nuovi membri dell'Unione europea – si fatica a ricono- scere un'attenuazione del legame tra posizione occupazio- nale e condizioni di vita. In paesi quali la Cina, l'India, le Filippine, il Vietnam, l'Indonesia e in tanti altri in via di sviluppo, questo legame rimane più forte che mai. Lo è in specie nelle fabbriche globali, quelle che hanno dai cinque ai trent'anni di età (in luogo del secolo e mezzo di quelle dei paesi più sviluppati), dove il legame fra genere di lavo- ro, condizioni in cui si svolge e qualità della vita è catego- rico come lo è stato nel corso della Rivoluzione industriale. Nelle fabbriche globali il tipo di lavoro e ogni aspetto delle condizioni in cui una persona fornisce la sua pre- stazione – orari, ritmi di produzione, esposizione a lavo- razioni nocive, rischi ambientali, sottomissione ai capi e ai dirigenti, livelli salariali – sono fattori determinanti delle condizioni di vita. Lo stesso si osserva più che mai nell'economia informale: dove è vero che non esiste come nelle fabbriche globali la dipendenza diretta tra lavoro in fabbrica (o in un cali center, o in una qualsiasi azienda di servizi) e condizioni di vita, ma dove un miliardo e più di persone vivono condizioni di vita strettamente collegate al fatto di operare in situazioni di assenza quasi totale di diritti, riconoscimento sociale, libertà di accedere ad al- cuni elementi essenziali perché una vita si possa conside- rare decente. Mi pare, quindi, che l'obiezione secondo la quale il lavoro perde rilevanza valga sì e no per una quota minoritaria di lavoratori dei paesi ancora relativamente benestanti dell'Europa occidentale. Paesi in cui, accanto al lavoro dipendente, si sono sviluppate nuove forme di lavoro come il volontariato e diverse tipologie di lavoro flessibile che un certo numero di persone gradisce. Sono queste, in effetti, che portano ad allentare il legame stretto che esisteva nella fabbrica di un tempo tra posizione oc- cupazionale e condizioni complessive di vita. Ma si tratta, sul totale della popolazione attiva dell'Occidente, di una quota assai ristretta. Da tutto ciò si ricava che, se guardiamo all'insieme del mondo che si è andato industrializzando, appare più che mai giustificato parlare di un proletariato globale le cui condizioni di lavoro e le connesse condizioni di vita ricor- dano da vicino quelle del proletariato industriale di metà Ottocento, nei paesi ch'erano allora in via di sviluppo. D. Fa differenza l'essere occupati o il non esserlo, ma anche esserlo in maniera dignitosa oppure no. Dal 2008, la Confe- derazione internazionale dei sindacati, che conta nel mondo 150 milioni di aderenti (compresi gli iscritti a Cgil, Cisl e Uil), promuove la Giornata mondiale del lavoro dignitoso. L'espressione "lavoro dignitoso" è dell'Organizzazione inter- nazionale del lavoro, che la usa per riferirsi al lavoro che as- sicura a chi lo presta alcune specifiche sicurezze, da un salario il cui importo sia sufficiente per un'esistenza decorosa alle tutele sindacali, dalla possibilità di sviluppo professionale ad una pensione accettabile. Secondo l'Ilo, decent work deficits si danno pure nell'economia formale. Della relazione tra ini- ziativa economica privata e dignità umana, abbiamo visto, si occupa anche la nostra Costituzione. Torniamo al lavoro atipico e alle condizioni in cui esso si svolge, al quale abbiamo sinora riservato brevi cenni. Sulla linea della definizione di "lavoro dignitoso" appena richia- mata, si può affermare che la flessibilità priva il lavoro della sua dignità? R. Il lavoro flessibile è per diverse ragioni un'espressione della flessibilità del movimento del capitale all'epoca della finanziarizzazione, estesa non solo alle attività economi- che tradizionali ma ad ogni immaginabile attività umana. Abbiamo già detto che dagli anni Ottanta in poi si sono accumulate con particolare rapidità masse colossali di ca- 151 pitali finanziari – si pensi ai 60 trilioni di dollari gestiti dagli investitori istituzionali che circolano nel mondo alla ricerca affannosa di rendimenti più elevati della media. Al solo enunciare questa finalità ci si dovrebbe fermare a riflettere, perché non si vede bene come tutti possano battere la media, conseguire cioè rendimenti superiori ad essa. Resta il fatto che i trilioni di capitali, in dollari o euro, che circolano in totale libertà per il mondo perseguono appunto tale scopo: ottenere il rendimento più alto pos- sibile, che significa in genere più alto della media delle plusvalenze che si ottengono dalle transazioni speculative aventi per oggetto azioni, obbligazioni, polizze di credito, divise o derivati. La ricerca di rendimenti elevati estesa a tutto il mondo richiede un capitale altamente mobile, ossia impone che esso si muova con grande flessibilità. Un gestore di fondi o un trader devono essere in grado di spostare milioni di dollari o di euro non appena scorgano sullo schermo del loro computer la possibilità di conseguire un guadagno trasferendo capitali da un impiego ad un altro, da un pac- chetto azionario o un fondo d'investimento a un altro. Un simile scambio si può fare ormai in pochi secondi per- fino a mano, ovvero in millesimi di secondo quando sia un computer a captare l'opportunità di guadagno. Non si deve infatti trascurare che circa tre quarti delle transazioni borsistiche giornaliere aventi origine negli Usa, e la metà di quelle originate nella Ue, sono oggi interamente auto- matizzate. Questa ricerca di flessibilità del capitale, allo scopo di trovare in giro per le piazze finanziarie del mondo gli impieghi più redditizi, ha trascinato con sé la necessità di imporre anche alla forza lavoro la massima flessibilità. A fronte della estrema flessibilità del capitale, una grande impresa non può consentire che proseguano de- terminate attività industriali o di servizio, con il lavoro che le alimenta, quando esse appaiono avere rendimenti pari o inferiori alla media del settore. Altrimenti può succedere che un azionista di peso – che può essere un fondo comu- ne di investimento, o magari un fondo pensione – decida di ritirare dall'oggi al domani i capitali investiti nell'impre- sa stessa. Il lavoro deve adeguarsi. Dal punto di vista della produzione capitalistica, ormai estesa a tutto il mondo, esso viene considerato nulla più di una voce di costo. In quest'ottica, la forza lavoro legata a produzioni di beni o di servizi che appaiono offrire un rendimento non soddi- sfacente al fiume di capitali che circola per il mondo deve essere di conseguenza abbandonata al più presto, sostitui- ta, tagliata, ridotta. Naturalmente può anche verificarsi il contrario, e cioè che la forza lavoro debba essere ampliata per far fronte a un mercato che cresce, grazie a un'inizia- tiva finanziaria o industriale che mostra di avere successo. Ma poiché nulla è stabile nel mondo finanziarizzato, anche i nuovi posti di lavoro debbono essere instabili. Le occupazioni atipiche sono precisamente un modo per conseguire la massima flessibilità del lavoro, al fine di rispecchiare in misura soddisfacente la necessaria flessibi- lità di impieghi e di circolazione del capitale. Il lavoro a tempo indeterminato e a orario pieno implica complicate procedure di licenziamento e comunque conflitti sindacali e sociali. Viceversa, se si moltiplicano i contratti di breve durata, sia pure regolari, o i lavori che uno svolge soltanto su chiamata, il problema è superato. Infatti, quando con- venga al datore di lavoro, basta non effettuare la chiamata, oppure non rinnovare il contratto occasionale o di colla- borazione (o come si chiami nei diversi paesi che hanno inventato decine di tipi di lavoro flessibile). I governi italiani si sono molto adoperati, a partire dagli anni Novanta, nel moltiplicare le tipologie dei lavori flessi- bili, con i relativi contratti atipici. Il cosiddetto "pacchetto Treu", la legge che insieme ad altri provvedimenti ha intro- dotto il lavoro in affitto, è del 1997. Il decreto attuativo del- la legge 30 è del settembre 2003: combinandosi con le leggi precedenti, ha portato ad oltre 45 il numero di contratti atipici. Peraltro anche Francia, Germania e Gran Bretagna e vari paesi minori hanno moltiplicato in ogni modo la fles- sibilità dell'occupazione affinché la capacità del lavoro di compiere le flessioni richieste – chiamiamola così – assomi- gli sempre più alla rapidissima circolazione del capitale. E così il lavoro è stato assoggettato a una forma di rinnovata mercificazione. Il trentennio successivo alla seconda guerra mondiale fu un periodo di de-mercificazione del lavoro, la cui epitome può leggersi nel primo articolo del rinnovato statuto dell'Organizzazione internazionale del lavoro. Nel lontano 1944 esso stabiliva che "il lavoro non è una merce". La giurisprudenza e la legislazione hanno seguìto fino agli anni Ottanta questo indirizzo. Ma all'inizio di quegli anni si è verificato un forte movimento di inversione ed è co- minciato quello che anche molti autori dell'Organizzazio- ne internazionale del lavoro definiscono un nuovo periodo di mercificazione del lavoro. Mercificare il lavoro significa che esso può e deve es- sere comprato, venduto, scambiato, affittato al pari di un qualsiasi arredo, una macchina, un utensile. E questo il principio che ha caratterizzato la situazione e le cosiddet- te riforme del mercato del lavoro, quali le leggi Hartz in Germania, soprattutto per quanto riguarda i giovani, negli ultimi quindici, vent'anni. Siamo ormai, nel nostro paese come pure in altri, dinanzi a un 75% di nuove assunzioni, ovvero di nuovi avviamenti al lavoro, che avvengono ogni anno con contratti di breve durata, agevolmente cancella- bili o non rinnovabili, in sostanza affatto precari. Insom- ma, l'intera scena del mondo del lavoro è stata sconvolta per poter rendere i movimenti del lavoro il più possibile somiglianti ai movimenti del capitale in circolazione nel mondo. D. Gli oneri che tale modo di organizzare il lavoro im- pone hanno un peso, un significato e anche una durata di- versa a seconda del sistema lavorativo in cui il lavoratore dipendente è collocato; penso ad esempio a lavori ad elevata qualificazione e autonomia intrinseca che da varie forme di flessibilità potrebbero anche trarre vantaggio. R. Ciò in parte è vero, poiché per un certo periodo, ad esempio quando si è in possesso di capacità professiona- li che in quel momento appaiono scarse sul mercato del lavoro in genere o in uno specifico settore produttivo, e per di più si è giovani e non si fanno ancora progetti per il futuro, che appare lontano e sterminato, la flessibilità può anche essere ben accetta. Un biologo, un fisico, un informatico, che dispongano di approfondite conoscenze tecnologiche e scientifiche che in quel momento capita si- ano ricercate dai laboratori e dall'industria, possono trarre notevoli vantaggi dalla possibilità di accumulare diverse esperienze, combinare differenti periodi lavorativi, alter- nare periodi di lavoro e di studio. Ciò è possibile da un lato perché il reddito che la persona riesce a realizzare per qualche tempo è comunque relativamente elevato; dall'al- tro perché si tratta di un investimento professionale che renderà in futuro. Va però subito precisato che questa condizione può riguardare al massimo una ristretta quota dell'insieme dei lavoratori flessibili. E un errore farne il paradigma dei nuovi tipi di lavoro, perché se ne ricava una rappresenta- zione del tutto fuorviante. Per la gran massa dei lavoratori flessibilità non significa altro se non contratti di breve du- rata; reddito incerto; impossibilità di costruirsi un solido percorso professionale, con tutti gli effetti negativi che ne conseguono: una vita sotto la sferza della precarietà. Il tratto che accomuna gran parte dei lavori flessibili è appunto il loro essere precari, predicato che – a rigor di dizionario – riassume due cose. Anzitutto l'essere in varia guisa, codesti lavori, e da diversi punti di vista, insicuri, temporanei, soggetti a revoca, senza garanzia di durata, fu- gaci. In secondo luogo, come dice bene l'etimo del termine "precario", sono lavori che bisogna pregare per ottenere. A volte in senso figurato, non di rado in senso materiale: una persona con un contratto di sei mesi prossimo a sca- dere e due figli da tirar su finisce per pregare letteralmente il datore di lavoro di rinnovarle il contratto. Il senso della 155

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