Copertina
Autore G.I. Giannoli
CoautoreF. Buccella, C. Cazalé Bérard, A. Di Fazio, H. Maler, C. Schaerf, M.G. Stasolla, al.
Titolo Culture per la pace
Edizionemanifestolibri, Roma, 2003, Indagini , pag. 272, dim. 145x210x18 mm , Isbn 978-88-7285-355-9
CuratoreG.I. Giannoli, S. Morante, R. Mordenti, P. Quintili
LettoreRenato di Stefano, 2003
Classe politica , diritto , guerra-pace , storia , storia della tecnica , semiotica
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Indice

PREMESSA                                                   9

PARTE PRIMA                                               15
STORIA, FILOSOFIA, ANTROPOLOGIA

Presentazione di Paolo Quintili                           17

Islam e modernità: un confronto non risolto sullo sfondo
di molti conflitti di Maria Giovanna Stasolla             27

Illuminismo islamico e modernità. La risposta razionale
allo "scontro di civiltà" di Paola Vasconi                47

La legislazione antiterrorismo dopo gli attentati dell'
11 settembre 2001: il regresso dal concetto di uomo al
concetto di cittadino di David Terracina                  53

La possibilità di capire un conflitto reale
di Guido Traversa                                         67

PARTE SECONDA                                             71
SEMIOTICA E CRITICA TESTUALE

Presentazione di Raoul Mordenti                           73

La creazione del nemico. Antisemitismo, islamofobia e
razzismo di guerra di Ruggero Taradel                     91

Pierre Bourdieu critico dei media in guerra
di Claude Cazalé Bérard                                  115

Semantica e retorica della guerra imperiale nei media
francesi. L'esempio della guerra in Afghanistan nel
2001 di Henri Maler                                      135

PARTE TERZA                                              153
SCIENZE NATURALI E SOCIETÀ

Presentazione di Silvia Morante                          155

Scienza, tecnologia e armi di Franco Buccella            165

Scienza e guerra. Progresso scientifico e sviluppo
delle tecnologie militari di Carlo Schaerf               169

Guerra e territorio. Una prospettiva storica sugli
effetti delle guerre su territorio e persone
di Massimo Zucchetti                                     187

Le grandi crisi ambientali globali: un sistema in agonia,
il rischio di guerra di Alberto Di Fazio                 209

 

 

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Pagina 9

PREMESSA



In alcuni appunti redatti intorno al 1955, a corredo del dramma Madre Courage e i suoi figli, Bertolt Brecht osservava:

Gli spettatori d'una catastrofe si attendono - ben a torto - che i colpiti ne traggano qualche ammaestramento. Fintantoché le masse saranno oggetto della politica non potranno mai vedere, negli avvenimenti che le toccano, un esperimento ma soltanto una fatalità. Dalle catastrofi non impareranno nulla più di quanto una cavia possa imparare di biologia l.

In particolare, era opinione di Brecht che dalla guerra non fosse possibile imparare alcunché di positivo, neanche il ripudio di ogni guerra ulteriore:

La sventura, da sola, è una cattiva maestra; i suoi allievi, imparano la fame e la sete ma non altrettanto spesso la fame di verità e la sete di sapere. I mali non bastano a fare del malato un medico. Vedere da lontano, vedere da vicino non basta a fare, d'un testimone oculare, un esperto2.

A questa opinione alquanto pessimistica sulle capacità di discernere le atrocità della guerra (da parte di chi la guerra aveva promosso o accettato, salvo restarne una vittima), Brecht aggiungeva una considerazione di tutt'altro tono: probabilmente, anche il pubblico tedesco, che aveva partecipato in qualche forma alla guerra hitleriana, non avrebbe capito fino in fondo il senso di quel lavoro teatrale. Tuttavia, la ragione per cui Brecht aveva voluto scrivere il dramma era proprio quella di stimolare negli spettatori la convinzione che la guerra conduce soltanto a sciagure:

se la Courage continua a non imparare nulla, il pubblico, osservandola, dovrebbe, secondo me, imparare qualcosa. [...] il problema dei mezzi artistici più idonei si riduce al seguente quesito: come possiamo noialtri autori teatrali attivare socialmente (scuotere, mettere in moto) il nostro pubblico? Tutti i mezzi artistici, vecchi o nuovi che siano, capaci di dare un aiuto in tal senso, dovremmo sperimentarli in funzione di questo scopoJ.

Diffondere una cultura di pace, mettere in mostra e demolire le ragioni di chi propugna e scatena le guerre sembrava - già negli anni '50 del secolo scorso - un'impresa qualificante, assegnata al lavoro intellettuale.

Tuttavia, come è apparso chiaro successivamente, malgrado l'opposizione alla guerra sia stata in tutto il mondo un tratto comune, caratteristico della migliore cultura post-bellica, non si può dire che i quattro decenni successivi al secondo conflitto mondiale siano stati davvero dei tempi di pace. Anche se il conflitto non ha assunto l'aspetto di un'unica deflagrazione mondiale, in Asia, in Africa e in America Latina è stata condotta per quattro decenni una guerra di predominio effettivo, senza quartiere. Persino ai confini dei due blocchi imperiali - in Grecia, nel Messico, nell'America Centrale, oppure nei paesi dell'est europeo - il conflitto è stato più volte gestito con la forza brutale dei mezzi militari. Come era già accaduto nella seconda metà del XIX secolo, anche nel corso del '900 s'è dunque registrata una fatale aporia: la resistenza dei popoli oppressi al potere imperiale, che si è espressa sovente nella forma delle lotte di liberazione nazionale, non s'è mai risolta - salvo rare e temporanee eccezioni - nella emancipazione effettiva di quei popoli dal pericolo di nuove guerre, o nell'indipendenza reale dei territori liberati dalla presenza straniera.

Agli inizi del '900, negli strati più avanzati della cultura e della lotta sociale, s'era andata diffondendo l'idea che il processo di costituzione degli stati nazionali fosse ormai terminato, sicché nessuna guerra avrebbe potuto avere ormai il supporto delle classi lavoratrici. Come aveva proclamato nel 1907 Jean Jaurès, al congresso di Stoccarda dell'Associazione Internazionale dei Lavoratori:

Ora che i grandi popoli d'Europa sono costituiti, non ci sono altro che guerre capitalistiche.

Trasformare le guerre capitalistiche in altrettante occasioni per abbattere il capitalismo: fu allora questa la posizione unanime assunta dalle avanguardie dell'emancipazione sociale in tutti i paesi evoluti. Ma, al di là della visione alquanto angusta, eurocentrica, che ispirava quelle analisi e quelle intenzioni, i fatti avrebbero dimostrato che il nodo concettuale e concreto della guerra era tutt'altro che sciolto. Di lì a poco sarebbe scoppiata la prima guerra mondiale, che avrebbe spaccato proprio in nome della difesa degli interessi divergenti d'ogni nazione lo stesso movimento internazionale dei lavoratori.

Successivamente, fino a giungere all'epoca nostra, la guerra di Spagna, la seconda guerra mondiale, le guerre in Indocina e in Corea, la guerra di liberazione in Algeria, la guerra del Vietnam tanto per citare quelle più note e significative - avrebbero dimostrato che c'era ancora spazio, nel mondo, per una distinzione tra guerre «giuste» e guerre «ingiuste», tra guerre «difensive» e guerre «offensive», tra guerre di liberazione e guerre imperialistiche. Lo stesso Brecht, ritenendo che fosse errato e fuorviante porre sullo stesso piano tutte le guerre, volle aggiungere nella sua Condanna di Lucullo il «canto dei legionari caduti», un lamento corale, nel quale i combattenti morti per una causa ingiusta esprimono il loro rimpianto, per avere prestato il loro servizio a Lucullo e non avere soccorso piuttosto le popolazioni aggredite, in difesa del loro paese.


Perché dunque oggi, agli inizi del secolo nuovo, dopo queste esperienze, bisognerebbe invece perseguire in ogni caso la pace, senza molti aggettivi? Perché dunque - fermo restando il diritto di resistenza, sul piano dell'etica e della norma - ogni distinzione tra guerra «giusta» e guerra «ingiusta» potrebbe in qualche modo arretrare, nella scala dei nostri giudizi, affermandosi invece il valore d'una pace assoluta, radicata, duratura e diffusa?

È sempre arduo e rischioso pretendere di stabilire qualche criterio assoluto. Si rischia di essere smentiti dai fatti, da eventi più forti dei nostri principi «assoluti»; si rischia di rimanere spiazzati per accadimenti gravissimi, in grado di modificare le coscienze degli uomini, come accadde quasi un secolo fa a molti esponenti del movimento operaio. Però, se si può dare un senso alla straordinaria mobilitazione dei milioni di donne e di uomini che sono scesi in piazza in tutti i paesi, per manifestare - nelle settimane in cui stiamo scrivendo - la loro opposizione più netta a quella mostruosità concettuale che è l'idea stessa d'una «guerra di difesa preventiva», allora si può cercare di dire che sì, la ricerca d'una pace senza aggettivi ha probabilmente un valore profondo, nell'epoca che noi stiamo vivendo.

Una delle tesi principali intorno alla quale ruotano i saggi raccolti in questo volume è infatti in sintesi questa: che con l'unificazione completa del mercato mondiale e con l'affermarsi dell'egemonia d'una sola potenza - sul terreno della tecnica, dell'economia, degli stili di vita e delle armi - la guerra (e il suo corrispettivo, il terrore) possa diventare una forma fisiologica, nella quale può consolidarsi l'attuale dominio. L'attuale tendenza del sistema dominante può svuotare qualsiasi prerogativa delle istituzioni democratiche, può portare a un regresso impensabile dell'apparato giuridico, dando luogo ad uno stato perenne d'emergenza, trattando ogni dissenso come una manifestazione del «nemico», respingendo l'antagonismo verso le posizioni più estreme, distruttive e suicide. Pur con tutte le distinzioni del caso (riferibili al fatto che il primo fondamentalismo è oggi l'espressione di alcune parti soccombenti, mentre l'altro è l'espressione di una minoranza dominate), il fondamentalismo religioso e quello militare si sostengono insieme, facendo intravedere scenari devastanti, in cui le stesse conquiste fondamentali dell'era moderna sembrano messe in questione.

Per contro, la lotta per la pace - in quanto lotta contro la forma specifica nella quale tende ad organizzarsi oggi il sistema internazionale del dominio - può costituire davvero l'ambito dentro al quale può raccogliersi la moltitudine dei popoli, per la costruzione d'un mondo più giusto e, proprio per questo, poco incline alle suggestioni di guerra.

La lotta per estendere il movimento della pace è per noi, in primo luogo, una lotta che si compie sul terreno della ragione. Come ebbe a notare Erasmo, cinque secoli fa:

Se giudichi peggior condizione per uno Stato quella in cui i peggiori prevalgono, la guerra è il regno dei più scellerati e in guerra brillano coloro che in pace inchioderesti al patibolo.

Tuttavia, lo stesso Erasmo era piuttosto incline a giudicare con pessimismo la lotta condotta sul solo terreno della cultura:

Ecco anche qui un altro genere di guerre, certo meno cruento ma non meno folle [...]; addirittura in una stessa università il retorico è in guerra col logico, il teologo dissente dal giurista, e persino nella medesima disciplina lo scotista è in conflitto col tomista, il nominalista col realista, il platonico con l'aristotelico, a tal segno che nemmeno sui punti più minuti esiste accordo tra loro e sono frequenti i duelli più fieri su questioni di lana caprina.

Ma l'epoca in cui Erasmo scriveva era appunto quella in cui iniziava lo storico processo di costituzione dei popoli, l'alba delle moderne nazioni. Al giorno d'oggi, nell'epoca del nuovo Impero, può invece darsi che risulti sempre più manifesto, agli occhi delle moltitudini d'ogni parte del mondo, che è proprio nell'interesse del mondo, o della stragrande maggioranza di esso, opporsi ad ogni guerra, porre le condizioni perché tutto questo si affermi, come un orizzonte possibile. Per questo, come è stato notato:

Lavorare sulla parola e per la parola è il compito che ci sta davanti. Ciò di cui abbiamo bisogno, sopra il clamore assordante del conflitto, il quale tutto cancella e rende sordi anche i meglio disposti, è che torni a risuonare e farsi udire una modesta voce umana, quella di cui ognuno di noi può esser capace.

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Pagina 27

ISLAM E MODERNITÀ:
UN CONFRONTO NON RISOLTO SULLO SFONDO
DI MOLTI CONFLITTI


di Maria Giovanna Stasolla
Università di Roma "Tar Vergata"



Qualunque riflessione sull'Islam contemporaneo non sembra poter prescindere dalla questione del rapporto fra Islam e modernità e, di conseguenza, fra Islam ed uno degli assunti primari di quest'ultima, cioè la democrazia, essendo evidentemente l'esistenza di un fenomeno come il fondamentalismo islamico la prova della difficoltà, per alcuni dell'impossibilità, dell'Islam di conciliare o adeguare i suoi valori a quelli di cui democrazia e modernità sono il prodotto, o addirittura la prova della estraneità dell'Islam a quei valori.

Il fondamentalismo in quanto tale è un fenomeno globale: ne esiste uno cristiano, serbo e americano, uno ebraico, uno indù e nondimeno la sua variante islamica si distingue particolarmente perché l'Islam politico (diversamente per esempio dal fondamentalismo indù) rivendica diritti universali.

Sulla definizione di fondamentalismo le opinioni sono diverse: «religiosità anti-modernistica», «rinascita del religioso», ecc. ma in sostanza quella che è in atto sembra essere piuttosto una strumentalizzazione generalizzata del dato religioso per fini politici anzitutto, ma anche socio-economici e culturali, con modalità estremamente differenziate in relazione alla diversità dei contesti e delle finalità da raggiungere. L'identificazione del fondamentalismo con il terrorismo è operazione superficiale e inaccettabile come lo è quella fra Islam e fondamentalismo, essendo il primo una religione, il secondo un'ideologia politica.

[...]

Trasformando l'Islam in un insieme di norme di comportamento, rifiutando ogni dimensione culturale a vantaggio di un Islam pronto per l'uso e adattabile a tutte le situazioni, dal deserto afgano all'università americana, il neo-fondamentalismo è un prodotto e nello stesso tempo un agente della moderna deculturazione. Il wahhabismo saudita, l'Islam dei Taliban come il radicalismo di Bin Laden sembrano essere ostili a tutto ciò che è espressione della cultura, anche musulmana: basti pensare alla distruzione della tomba del Profeta ad opera dei Wahhabiti o a quella dei Buddha di Bamyan o delle Torri di New York. Questi movimenti sono fondamentalisti nel senso che mirano a restaurare la pretesa purezza del primo Islam offuscata dalle successive costruzioni umane. Insistendo sull' Umma, essi si rivolgono di fatto ad una universalità vissuta dai musulmani che non si identificano né in un territorio né in una nazione. La Umma dei fondamentalisti è quella del mondo globale, dove l'uniformizzazione dei comportamenti sia improntata al modello dominante americano o alla ricostruzione di un modello dominato immaginario. Alcuni hanno rilevato nel comportamento dei fondamentalisti dei tratti propri alle sette fondamentaliste protestanti, anch'esse ostili ai contenuti culturali e attente solo ai codici di comportamento, che trovano seguito in ambienti recentemente deculturalizzati, come gli immigrati ispanici negli Stati Uniti.

Questa tendenza religiosa si traduce in una radicalizzazione politica nel momento in cui su di essa interviene un altro fattore che è quello della islamizzazione di uno spazio di contestazione anti-imperialista e terzomondista. Si vuole dire che fra sviluppo del neofondamentalismo e terrorismo non vi è rapporto automatico, bensì esiste un terreno comune di cui il wahhabismo saudita può essere considerato l'espressione più compiuta.

Alcune considerazioni per concludere: da questa descrizione, certamente non completa, dei movimenti e delle ideologie che nel mondo islamico contemporaneo esprimono il dibattito e le contraddizioni sull'elaborazione della modernità, spero possano essere stati chiariti almeno alcuni degli aspetti di un problema complesso. Sono in corso mutamenti profondi, nulla è irrimediabilmente compromesso, la «riforma» dell'Islam potrebbe percorrere strade diverse rispetto a quella neo-fondamentalista che al presente sembra prevalere. Ancora una volta il ruolo dell'Occidente potrebbe essere decisivo nel determinare questa scelta.

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Pagina 53

LA LEGISLAZIONE ANTITERRORISMO
DOPO GLI ATTENTATI DELL'11 SETTEMBRE 2001:
IL REGRESSO DAL CONCETTO DI UOMO
AL CONCETTO DI CITTADINO


di David Terracina
Università di Roma "Tar Vergata"



L'analisi del contenuto e degli effetti delle disposizioni legislative, introdotte a seguito degli attentati di New York dell'11 settembre 2001, deve essere necessariamente preceduta dal richiamo di alcune nozioni di carattere generale che, sebbene dovrebbero essere ormai di dominio comune ed acquisite al patrimonio giuridico-culturale di ogni Stato che si voglia definire «di diritto», troppo spesso vengono ignorate.

Mi riferisco, in buona sostanza, ai principali atti normativi adottati sulla scia emotiva della tragedia umanitaria consumatasi durante l'ultimo conflitto mondiale e, in particolare, agli artt. 1, 2, 7, 8, 10, 11, 23 e 26 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo adottata dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948 - con i quali, rispettivamente, si riconosce che gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti; che ad ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciati nella Dichiarazione senza distinzione alcuna; che tutti sono eguali dinanzi alla legge e hanno diritto, senza alcuna discriminazione, ad un'eguale tutela da parte della legge, e che tutti hanno diritto ad un'eguale tutela contro ogni discriminazione che violi la Dichiarazione; che ogni individuo ha diritto ad un'effettiva possibilità di ricorso a competenti tribunali nazionali contro atti che violino i diritti fondamentali a lui riconosciuti dalla costituzione o dalla legge; che ogni individuo ha diritto, in posizione di piena uguaglianza, ad un'equa e pubblica udienza davanti ad un tribunale indipendente ed imparziale; che ogni individuo accusato di reato è presunto innocente sino a che la sua colpevolezza non sia stata provata legalmente in un pubblico processo nel quale egli abbia avuto tutte le garanzie per la sua difesa; che ogni individuo ha diritto al lavoro, alla libera scelta dell'impiego, a giuste e soddisfacenti condizioni di lavoro, nonché ad una remunerazione equa e soddisfacente che assicuri a lui stesso e alla sua famiglia un'esistenza conforme alla dignità umana e che ogni individuo ha diritto all'istruzione - nonché agli artt. 5, 6 e 14 della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell'Uomo e delle Libertà Fondamentali del 4 novembre 1950 - dove viene stabilito che nessuno può essere privato della libertà a meno che non sia detenuto regolarmente in seguito a condanna da parte di un tribunale competente, se è in regolare stato di arresto o detenzione per violazione di un provvedimento emesso, conformemente alla legge, da un tribunale, se è stato arrestato per essere tradotto dinanzi all'autorità giudiziaria competente, se si tratta dell'arresto o della detenzione di una persona per impedirle di entrare irregolarmente nel territorio o di una persona contro la quale è in corso un procedimento di espulsione. Ogni persona arrestata o detenuta deve essere tradotta al più presto dinanzi ad un giudice e ha diritto di essere giudicata entro un termine ragionevole; ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente ed imparziale, costituito per legge. Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione.

[...]

Ebbene, è proprio il passaggio dallo status di cittadino a quello di uomo che, almeno all'interno degli Stati definiti «occidentali», sembrava definitivamente acquisito ed irreversibile.

[...]

Tutte le disposizioni di legge richiamate in precedenza sembrano, dunque, aver tradito lo spirito dei principi fondamentali dei diritti dell'uomo a cui si è approdati con tanti sacrifici. Che cosa è successo, allora, realmente, da un punto di vista normativo, dopo l'11 settembre? Ebbene, dal punto di vista normativo è successo ciò che è successo in tutte le altre manifestazioni della vita sociale. A una cultura di tolleranza si è sostituita una cultura del sospetto e questa cultura è stata prontamente recepita in tutti gli atti legislativi che hanno fatto seguito all'11 settembre. Ma la cosa più grave è che si sono compiuti degli enormi passi indietro rispetto alle conquiste di civiltà a cui si era giunti subito dopo la Seconda Guerra Mondiale con la Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo e con la Dichiarazione Europea dei Diritti dell'Uomo e delle Libertà fondamentali. Il processo di creazione di uno jus cosmopoliticum, iniziato da Kant già nel XVIII secolo, si è, dunque, bruscamente interrotto e il risultato di tale interruzione è il regresso dal concetto di uomo come centro di titolarità dei diritti a quello di cittadino.

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Pagina 165

SCIENZA, TECNOLOGIA E ARMI


di Franco Buccella
Università di Napoli «Federico II»



Per buona parte della storia dell'umanità la tecnologia ha progredito in maniera empirica e la sistemazione scientifica dei principi, sui quali era fondata, è posteriore all'invenzione.

L'ingegnosa scoperta della ruota, non frenata dall'attrito radente, perché il punto di contatto è fermo, precede di molto la meccanica newtoniana e la scoperta matematica che il rapporto tra la lunghezza della circonferenza e quella del raggio non è un numero razionale.

Macchine belliche, come l'ariete e la catapulta, basate sul principio della conservazione della quantità di moto, hanno calcato la scena dei conflitti militari ben prima dell'enunciazione di questo principio.

Imbarcazioni a vela hanno solcato i mari ben prima che Archimede affermasse che un corpo immerso in un liquido riceve una spinta verso l'alto pari al peso del liquido spostato e che la fluidodinamica degli aeriformi svelasse come il vento spingeva le vele.

Gli stessi specchi ustori archimedei sono anteriori agli enunciati dell'ottica geometrica. Costruzioni immense come le piramidi o eleganti come gli archi hanno preceduto le leggi delle statica.

Tuttavia la speculazione scientifica ha accompagnato l'uomo dagli albori della civiltà: con gli studi astronomici degli egiziani, interessati a capire la periodicità delle provvidenziali inondazioni del Nilo; con gli studi dei babilonesi e soprattutto dei greci, quando hanno raggiunto elevati livelli intellettuali con l'intuizione eraclitea dei quattro elementi, terra, acqua, aria e fuoco (oggi diremmo solidi, liquidi, gas e plasmi) e con quella di Aristarco di Samo sul sistema eliocentrico. In epoca ellenistica, come descrive il prezioso libro di Lucio Russo La rivoluzione dimenticata, grandioso è il progresso in matematica, fisica e chimica, che ha il suo epicentro in Alessandria. A quel tempo i romani vedevano come il fumo negli occhi l'affrancamento dell'uomo dalla fatica, che avrebbe recato pregiudizio alla proficua tratta degli schiavi, e non a caso la biblioteca di Alessandria fu distrutta dalle fiamme.

Con l'avvento delle macchine a vapore il vantaggioso rapporto tra l'unità di calore e quella di lavoro stimola la costruzione del mirabile edificio concettuale della termodinamica, che stabiliva quali trasformazioni fossero possibili, legando le limitazioni all'irreversibilità dei processi reali.

Diverso è il caso dell'elettromagnetismo. I fulmini, giustamente temuti per i loro effetti devastanti, furono attribuiti all'ira di Giove e la circostanza che alcuni materiali come l'ambra, se strofinati, fossero in grado di attirare oggetti leggeri appariva un fenomeno semi-magico di scarso interesse pratico.

Le stesse torture alle rane di Galvani ed almeno all'inizio la pila di Volta apparvero manifestazioni di ingegnosità degne di miglior fine. La legge di Coulomb, simile a quella di gravitazione universale, non appariva foriera di grandi conseguenze, anche se a posteriori la sua molto maggiore intensità a livello microscopico poteva far sospettare grandi potenzialità.

Il movimento delle cariche, la corrente elettrica, genera il campo magnetico e da questo è influenzato. Un campo magnetico (elettrico) variabile nel tempo genera un campo elettrico (magnetico). Questi fenomeni sono mirabilmente sintetizzati nelle equazioni di Maxwell, che per la loro sublime eleganza matematica sono un notevole candidato a prova ontologica. Le onde elettromagnetiche si propagano nel vuoto alla velocità della luce, che è appunto costituita da una banda di frequenze dette appunto del visibile (mentre per frequenze inferiori si hanno i raggi infrarossi e le onde Hertziane; per frequenze superiori gli ultravioletti, i raggi X e i raggi gamma).

I fenomeni elettromagnetici hanno avuto enormi ricadute tecnologiche: la luce elettrica, gli elettrodomestici, la batteria, il trasformatore e la dinamo delle automobili, la radio, la televisione, le centrali idroelettriche e le comunicazioni satellitari. Tra quelle non gradite la sedia elettrica, i timer ed i telecomandi per provocare esplosioni a distanza di tempo o spazio.

Di spazio e tempo parla una delle due rivoluzioni scientifiche del Novecento, la relatività: implicita nella forma delle equazioni di Maxwell quella ristretta (ma genialmente interpretata da Einstein con l'interpretazione unitaria dello spazio tempo, detto alla greca il cronotopo); geniale perfezionamento della teoria di Newton (basata sull'invarianza rispetto a qualsiasi trasformazione delle coordinate) quella generale.

La conseguenza più rilevante dal punto di vista pratico delle teorie einsteiniane è l'equivalenza tra massa e energia, che a causa del valore immenso del fattore di conversione, il quadrato delle velocità della luce, rende estremamente redditizia la trasformazione di massa in energia. Sono le reazioni chimiche associate al metabolismo, legate ai processi molecolari, a fornire energia agli esseri viventi. I valori molto più elevati delle energie in gioco nei processi nucleari comportano conseguenze molto più gravi.

L'altra rivoluzione scientifica, la meccanica quantistica, ha permesso di interpretare i fenomeni atomici e molecolari, determinati dalle interazioni elettromagnetiche delle particelle cariche che compongono gli atomi: i protoni positivi insieme ad un loro consimile neutro (neutrone) costituiscono il nucleo centrale dell'atomo, circondato da una nuvola di elettroni di carica opposta.

La meccanica quantistica per i fenomeni macroscopici è coerente con la dinamica classica, allo stesso modo che per piccole velocità rispetto a quella della luce si possono trascurare gli effetti relativistici. La meccanica quantistica spiega l'origine del sistema periodico di Mendeleev, e permette una descrizione quantitativa dei fenomeni microscopici, in particolare dei semiconduttori (dei quali sono costituiti i transistor) e del laser (utilizzato in chirurgia, ma anche per guidare le bombe verso il loro obiettivo).

La comprensione, sempre nell'ambito della meccanica quantistica, delle reazioni nucleari ha permesso la costruzione di micidiali ordigni (utilizzati due volte contro il Giappone) e di reattori nucleari per la produzione di energia (purtroppo associati al ricordo della catastrofe di Chernobyl ed a numerosi altri incidenti, come quello in Giappone, che ha richiesto il sacrificio della squadra che ha spento il reattore ormai sfuggito al controllo). L'impatto bellico delle scoperte scientifiche è ben esemplificato dall'incubo nel quale si è trasformato il sogno dell'uomo di volare, dal mito di Icaro e dai temerari esperimenti di Leonardo agli invisibili strumenti di distruzione, che dal cielo vigliaccamente seminano morte su chi non si piega al dispotico volere imperiale di chi ha attualmente la supremazia militare.

Questo divario tra le potenzialità dei progressi scientifici degli ultimi due secoli e la maturità civile dell'Umanità rischia di mettere in discussione la sopravvivenza della nostra specie, insidiata dall'ottusità di chi, per non voler mettere in discussione il suo stile di vita stoltamente consumistico, inquina con protervia il nostro pianeta, perseguendo con la violenza la rapina e l'uso dissennato delle sue risorse.

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Pagina 209

LE GRANDI CRISI AMBIENTALI GLOBALI:
UN SISTEMA IN AGONIA, IL RISCHIO DI GUERRA



di Alberto Di Pazio
Osservatoro Astronomico di Roma
Global Dynamics Institute



1. INTRODUZIONE

L'incombenza della crisi energetica, della crisi climatica, della crisi idrica, agricola, della deforestazione, della desertificazione e di altre gravi crisi ambientali globali - tutte attive su scale temporali di 10-20 anni - rende assolutamente necessario tenerne conto, nell'analizzare le guerre recenti, attuali e future. È altrettanto necessario valutare il grado di dipendenza dei conflitti presenti e futuri da tali crisi e dagli schieramenti e dalle politiche messi in atto dai vari paesi nel tentativo di sopravvivere ad esse. Voglio qui riassumere le diverse crisi in atto ed imminenti, con i loro impatti economici e ambientali e con le loro conseguenze militari.

Ciò che mi preme evidenziare è l'assoluta irresolvibilità di tali crisi con misure di puri shift tecnologici (e cioè rimanendo nel BAU - business-as-usual politico-economico) e la corrispondente inassorbibilità di tali crisi nell'attuale sistema economico-politico di mercato. Questo - come risulterà più che evidente insieme al dominio delle risorse energetiche ed agricole è uno dei maggiori motivi di tensione bellica indotta dalle crisi suddette (e non solo tra nord e sud del mondo). Al tempo stesso, questa è una opportunità storica (pur nel drammatico pericolo generale per la sopravvivenza) per tutte le forze antagoniste al presente dominio del mercato e del pensiero unico neo-liberista, in quanto le crisi che andiamo a descrivere sono tutte intrinseche ed inscindibili dai meccanismi stessi di funzionamento del mercato (o del capitalismo, per usare un termine più preciso, andato - chissà perché - quasi in disuso). Non è detto che tale opportunità venga colta in tempo e diffusamente, e il nostro contributo deve essere anche quello di presentare ed analizzare scientificamente i fatti, i fenomeni e le proiezioni, in modo esaustivo, chiaro e scevro da ogni timore di dire «troppo». Al tempo stesso è necessario accompagnare questa analisi con la descrizione altrettanto scientifica e chiara delle «soluzioni» o dei modi - quando esistono - per mitigare le diverse crisi. Particolare attenzione dedicherò alla crisi energetico-petrolifera, esaminando il grado di dipendenza delle attività di base della società umana dall'energia dei combustibili fossili e la sempre più stretta interazione con la crisi climatica. I pericoli di conflitti - regionali e globali - saranno altresì esaminati soprattutto in relazione alla disputa concernente le risorse energetiche, alla contesa che riguarda i mezzi e il territorio per produrre alimenti e alla lotta per il dominio delle risorse idriche.

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