Copertina
Autore Paul Ginsborg
Titolo Salviamo l'Italia
EdizioneEinaudi, Torino, 2010, Vele 60 , pag. 134, cop.fle., dim. 10,5x18x1,2 cm , Isbn 978-88-06-20226-2
LettoreDavide Allodi, 2010
Classe storia contemporanea d'Italia , paesi: Italia: 2010
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Indice


  3      Prologo

 23   I. Vale la pena di salvare l'Italia?

 23      1. «La consolante dottrina del progresso»
 28      2. «Le figure profonde»
 34      3. Patriottismo e nazionalismo
 41      4. Il posto dell'Italia nel mondo moderno

 46  II. La nazione mite

 47      1. L'autogoverno
 54      2. Dentro e fuori Europa
 62      3. Eguaglianza
 71      4. Mitezza

 85 III. Salvare l'Italia da che cosa?

 86      1. Una Chiesa troppo forte in uno stato troppo debole
 95      2. L'ubiquità del clientelismo
102      3. La ricorrenza delle dittature
108      4. La povertà delle sinistre

112  IV. Chi salverà l'Italia?

113      1. I volontari del Risorgimento
118      2. Sulla potenzialità politica dei ceti medi oggi
125      3. Alleanze e leadership
128      4. Con che mezzi?



 

 

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Pagina 12

In Italia oggi il tema del declino e della decadenza è presente nel dibattito pubblico in forma altrettanto penetrante. Esistono molte coincidenze con i primi anni del XIX secolo, soprattutto quanto alla decadenza dei costumi. Ma esistono anche importanti differenze. Una è la sensazione attuale di declino cosmico, nel senso di un mondo invecchiato a rischio di imminente distruzione. Si tratta di un'ansia molto contemporanea, ben lungi dalle preoccupazioni delle generazioni del Risorgimento. Un'altra differenza riguarda il declino economico, che è un'ossessione contemporanea come vedremo tra breve. Una terza differenza riguarda la questione religiosa, cosí presente nell'aspra critica mossa dal Risorgimento alla Chiesa cattolica, ma quasi assente nella critica odierna. Il potere ecclesiastico - economico, politico, mediatico - rimane molto forte in Italia ma bassa è la frequenza ai sacramenti e quella domenicale.

Complessivamente, esiste oggi un senso di insoddisfazione profondo quanto quello di duecento anni fa e forse piú insidioso, poiché apparentemente induce passività piú che protesta.

Partiamo dalle famiglie. Nessun grande letterato chiama in causa, come fece Foscolo, i modelli di vita famigliare prevalenti. I cicisbei non esistono piú da tempo, e altrettanto vale per l'educazione in convento delle ragazze, ma permane un profondo disagio. La vita famigliare contemporanea equivale a una vera e propria educazione a diventare «liberi cittadini», per dirla con Foscolo? Non credo. Sotto un certo profilo oggi i membri delle famiglie sono piú liberi e godono di maggiori diritti rispetto al passato - di fare scelte riguardanti la propria vita, di viaggiare, di votare alle elezioni. Sotto un profilo diverso sono intrappolati dai modelli di consumo e di egoismo imperanti che rischiano di essere piú perniciosi di quelli del primo Ottocento. Le famiglie italiane hanno molte virtú - la vicinanza emotiva, le forti solidarietà tra generazioni, la capacità profondamente radicata di godersi la vita -, tutte caratteristiche che chi viene dal Nord individualista e piú freddo invidia. Ma hanno poche virtú civiche e il modello su cui oggi si basa la vita famigliare, quello del mercato globale, non contribuisce a rendere le famiglie italiane piú consapevoli delle loro responsabilità complessive.

In tutto questo i meccanismi di trasmissione della cultura moderna hanno un ruolo cruciale. Le battaglie culturali decisive non sono piú quelle degli inizi del XIX secolo, quando piccoli gruppi di letterati polemizzavano aspramente sui meriti del romanticismo e del classicismo. Esse si collocano invece nella cultura popolare e su scala di massa. La televisione, come è noto, è lo strumento culturale predominante in circa l'80 per cento delle case italiane. Non è un mezzo, bensí un soggetto, il piú potente protagonista culturale della scena contemporanea. La televisione non è un male assoluto, come tentò di teorizzare Karl Popper negli ultimi anni della sua vita. Nella storia italiana essa ha avuto un ruolo essenziale nella diffusione di un'unica lingua nazionale e un senso di comunità nazionale. Ma quando il controllo della televisione è concentrato in pochissime mani e nel caso italiano quasi esclusivamente in due sole mani ben curate, allora è uno strumento profondamente insidioso. Scodella un pasto infinito di soap opera, calcio, varietà e reality show inesorabilmente condito da quantità industriali di spot pubblicitari, tutti orientati a rafforzare il modello «lavora e spendi» della vita quotidiana nel capitalismo consumista. La televisione nella sua forma attuale ci seduce e anestetizza tutti. Nulla in essa, per tornare a Berchet, ci incoraggia «ad altri pensieri ed a piú vaste intenzioni».

In termini storici la Repubblica italiana, fondata nel 1948, sotto molti aspetti è stata un successo - la sua costituzione è una delle migliori del mondo, la sua popolazione è uscita dalla miseria, il livello di partecipazione politica resta tuttora fra i piú alti d'Europa. La storia italiana, detto altrimenti, è stata caratterizzata da un pluralismo e un progresso reali. E sebbene la pubblica istruzione lasci molto a desiderare, l'Italia repubblicana, nei suoi piú di sessant'anni di storia, è stata in grado di creare cerchie sempre piú ampie di cittadini dotati di istruzione superiore.

Eppure la Repubblica non è rispettata e le sue istituzioni non sono amate. È nel vivere lo stato che le nostre esperienze divergono da quelle del primo XIX secolo. I patrioti ottocenteschi avevano un forte senso di identità nazionale, intesa come unità geografica, linguistica e culturale, ma non avevano uno stato. Fu proprio nell'incapacità storica di costruire uno stato unitario che essi identificarono una delle maggiori carenze degli italiani. Oggi l'Italia ha uno stato, ma scarso senso della nazione. I due concetti - stato e nazione - sono intimamente correlati in termini sia teorici sia pratici. Nel caso italiano il senso di identità nazionale è stato profondamente minato da uno stato che si è rivelato spesso inadempiente, dotato di leggi complesse e incerte, di una pubblica amministrazione zoppicante e corrotta, di un sistema giudiziario dalla lentezza esasperante. Il dodicesimo rapporto annuale Gli italiani e lo stato (dicembre 2009) indica un livello straordinariamente basso di fiducia nelle istituzioni dello stato repubblicano; mentre il presidente della Repubblica gode della fiducia del 70,3 per cento della popolazione adulta, e il sistema scolastico di un sorprendente 57,5 per cento, la fiducia nel parlamento è crollata al 18,3% e quella nei partiti politici a un misero 8,6.

Da questa inadeguatezza istituzionale di fondo è nata una vita politica caratterizzata in superficie da polemiche di forte intensità, addirittura melodrammatiche, ma da una scarsa efficacia riformatrice. La destra ha scelto una versione personalistica e populista - ad alto rischio - della politica moderna. La sinistra pare totalmente disorientata dagli eventi degli ultimi vent'anni, incapace di reagire alla fine del comunismo, priva in gran parte di idee o di coraggio intellettuale. I tentacoli della partitocrazia, creazione collettiva della classe politica italiana, si spingono fin nelle viscere della società, controllandone le risorse e distribuendole in maniera assai discutibile.

La reazione a questo stato di cose negli anni 1992-1994 assunse la forma non di una rivoluzione - ormai evenienza sempre piú rara - ma di una campagna, combattuta in primo luogo dalla magistratura, per ripulire la vita pubblica italiana. Per un breve lasso di tempo l'Italia fu in prima linea in Europa con una magistratura relativamente indipendente in guerra contro la corruzione di politici, imprenditori e amministratori. Gli avvenimenti del 1820-21 e quelli del 1992-94, ovviamente diversi sotto molti aspetti, presentano nondimeno interessanti analogie. I rispettivi protagonisti volevano porre la vita pubblica italiana su basi completamente diverse, costituzionali nel primo caso, legaliste nel secondo. Ma in entrambi i casi essi erano troppo isolati in seno alla società italiana perché le vittorie iniziali si consolidassero. Nel caso degli anni 1992-94, l'isolamento ebbe carattere politico, con il partito ex comunista incapace di cogliere il momento e porsi con chiarezza alla guida della coalizione riformatrice. Soprattutto mancò la partecipazione di una cospicua parte del paese. I magistrati invocavano un ritorno generale alla legalità, ma questo avrebbe costretto molte famiglie a porsi una serie di domande decisamente scomode sul proprio comportamento, su quanto la cultura politica dominante fosse anche la loro stessa cultura.

Il fallimento del 1992-94 indica che l'efficace definizione del Sismondi di un'Italia «corrotta e snervata» è pertinente oggi come nel 1833. A dire il vero, se allora si avvertiva uno stato piú o meno costante di decadenza dell'Italia, oggi è quanto mai reale la sensazione di rapido declino. Nelle statistiche annuali riguardanti la percezione della corruzione a livello globale pubblicati da una Ong berlinese, Transparency International, l'Italia continua a perdere terreno: dal 31° posto nel 2002 è passata al 41° nel 2007, al 55° nel 2008 e addirittura al 63° nel 2009. Ormai è preceduta da paesi come Turchia, Cuba, Namibia, Samoa, Giordania e Bahrain, per citarne solo alcuni. I governi di Silvio Berlusconi, che hanno detenuto il potere per la maggior parte dell'ultimo decennio (2001-6, 2008-10), non hanno mai dato l'impressione di preoccuparsi di questo drammatico deteriorarsi della morale pubblica. Al contrario, gran parte della legislazione approvata, come ad esempio la parziale depenalizzazione del falso in bilancio, i frequenti condoni edilizi, la nuova normativa sulle grandi opere e sulle infrastrutture, lo scudo fiscale che consente il rientro in patria dei capitali illegalmente esportati su pagamento di una ridotta ammenda, ha agito contro la trasparenza, la concorrenza e il controllo, e in favore di un capitalismo rampante e clientelare.

È in questo contesto di declino della morale pubblica che va collocata la continua espansione delle organizzazioni criminali in tutta la penisola. Un tempo era la mafia siciliana a catalizzare l'attenzione mondiale e gli studi accademici. Non è piú cosí. Il diffondersi dell'illegalità in alcune parti della Puglia, della Campania e della Calabria, in precedenza relativamente immuni, le sempre piú numerose connessioni tra i gruppi criminali e l'economia del Centro e del Nord del paese, la corruzione che pervade i rapporti sociali descritta da Roberto Saviano nel suo famoso Gomorra, sono prova dell'avanzare di un cancro che non trova paralleli nell'Italia dei primi decenni dell'Ottocento.

Data la drammaticità di questa situazione socio-morale - che invoca una radicale azione riformatrice - lo storico può solo osservare con stupore che il dibattito prevalente sul declino della nazione, che assorbe le energie e le risorse delle élite alla guida del paese, ha per oggetto quasi interamente l'economia. Siamo sommersi da parametri sia effimeri, come i dati quotidiani sull'andamento della borsa, sia piú durevoli, come la crescita annuale del Pil, misurata sia in volume totale sia pro capite. Complessivamente i dati economici di questo tipo indicano un lento ma inesorabile declino dell'Italia e quelli del commercio mondiale mostrano un deciso calo per l'Italia in termini percentuali di attività di vendita di merci e di servizi commerciali pegli ultimi dieci anni.

La prosperità economica conta - è effettivamente uno dei principali pilastri su cui le nazioni costruiscono la loro storia. Ma non può essere l'unico metro di comparazione del benessere. Adam Smith fu un grande economista ma era anche professore di filosofia morale all'Università di Glasgow. Scrisse La ricchezza delle nazioni (1776) ma anche La teoria dei sentimenti morali (1790). La necessità di ravvivare il legame tra economia e morale - usandolo come metro per valutare l'operato del governo - è oggi un imperativo assoluto.

Inoltre non è solo la mole di ricchezza che conta - l'Italia, pur in relativo declino, resta tra le dieci maggiori economie del mondo -, ma come viene distribuita. L'Italia, come vedremo, è uno dei piú diseguali tra i paesi capitalisti avanzati. Anche se il divario reddituale tra i ricchi e i poveri in Italia non è cresciuto drammaticamente negli ultimi trent'anni come in Gran Bretagna o negli Stati Uniti, resta assai ampio. Per qualunque repubblica degna di questo nome si tratta di un criterio di valutazione cruciale. Tanto piú dal momento che studi recenti hanno dimostrato che il Pil pro capite è un indicatore assai meno significativo del generale benessere di una nazione rispetto alla forbice tra il 20 per cento piú ricco e piú povero della popolazione. Il disagio interno alla nazione è proporzionale all'entità del divario. Entrerò nel dettaglio di questa tesi nel mio secondo capitolo.


Torniamo all' Italia di Canova, in lacrime sulla tomba dell'Alfieri. Nessuna raffigurazione della nazione è a mio giudizio piú distante dai modelli di genere prevalenti nell'Italia contemporanea. Benché le donne italiane siano piú istruite, piú libere e godano di maggiori diritti rispetto a qualunque altra epoca nella storia dell'Italia unita, esse soffrono ancora ai margini di una sfera pubblica prevalentemente maschile. Il problema va oltre l'urgente bisogno di parità di genere. Sin dalla sua nascita, la televisione commerciale italiana ha proiettato sul piccolo schermo un'immagine talmente riduttiva della donna da guadagnarsi un dubbio primato in tutta Europa. I rapporti di genere nella cosiddetta tv "generalista" sono caratterizzati dall'onnipresenza di presentatori e comici maschi di mezza età che hanno voce e potere, accompagnati da soubrette semivestite il cui ruolo è di sorridere, danzare e applaudire, senza parlare. La telecamera le inquadra dal basso e di schiena evidenziandone in ogni possibile occasione i dettagli anatomici. Raramente lo sguardo erotico maschile è stato costruito in maniera cosí cruda e infantile, e le donne cosí palesemente ridotte a oggetto. Ad alcuni lettori questo aspetto potrà forse apparire di relativa importanza, ma non esiste miglior indicatore della salute o del malessere di una nazione della sua autorappresentazione in termini di genere.

Il 19 novembre 1810, lo storico svizzero Sismondi scrisse alla contessa di Albany per manifestarle apprezzamento per il monumento in Santa Croce di cui la nobildonna era committente. Trovava la personificazione dell'Italia di «rara beltà, toccante e nobile» come una «regina in lutto». Ma osservò anche come ella non fosse parte integrante del sepolcro, bensí separata, una «spettatrice» nella «folla raccolta a piangere il trapasso del grand'uomo». In termini metaforici dobbiamo puntare su questa immagine di un'Italia staccata dalla tomba. È tempo che smetta di piangere, riponga il fazzoletto, raccolga la cornucopia e inceda maestosa tra la folla di piazza Santa Croce. Nel bene e nel male il suo paese la aspetta.

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2. «Le figure profonde».

Purtroppo la storia non finisce qui. Il nazionalismo presenta lati oscuri da cui certo l'Italia non è esente. Il discorso nazionalista - di ogni tipo di nazionalismo - divide il mondo tra "noi" e "loro", creando continuamente "l'altro" da temere, da odiare e da combattere. Considera l'identità nazionale un sistema di valori assoluti a cui subordinare necessariamente il resto. Il discorso nazionalista inoltre "naturalizza" il nazionalismo nel senso che lo fa apparire naturale come l'aria che respiriamo. Come osservava il socialdemocratico austriaco Otto Bauer già nel 1924, se pensiamo alla nostra nazione, ci vengono alla mente la patria, la casa paterna, i giochi dell'infanzia, il maestro di scuola, i baci che ci hanno emozionato, e un senso di piacere ci pervade. Ma il processo non si ferma all'innocente celebrazione dell'appartenenza. Alla fin fine identificando la nazione con il proprio io le persone (soprattutto gli uomini) sono spinti a uccidere o a morire per essa. In un recente e agghiacciante saggio sul nazionalismo americano gli autori si domandano quale sia il collante della nazione. La risposta è inequivocabile: il sacrificio di sangue. «La creazione di sentimenti tanto forti da tener unito il gruppo esige periodicamente la morte volontaria di una significativa quota dei suoi membri ...] questo rituale trova la sua massima espressione nella guerra».

Nei suoi innovativi studi sul discorso nazionalista in Italia e in Europa nel XIX secolo, Alberto Mario Banti ha esaminato molte delle ombre del nazionalismo, quelle che vorremmo dimenticare ma che sono onnipresenti. Nello «spazio delle figure profonde», cosí lo definisce Banti, la nazione è rappresentata in vari modi. Innanzitutto come un'unica famiglia allargata che affonda le radici nella storia remota e si proietta nel lontano futuro. È una comunità di discendenza, unita da vincoli di sangue, che condivide caratteristiche etniche comuni, la stessa lingua e le stesse memorie storiche. Essa occupa un territorio specifico i confini del quale possono essere (e molto spesso sono) oggetto di aspre contese e infine di guerre con i vicini trasformati in nemici.

La seconda figura profonda è quella che assomma amore, onore e virtú. Il compito degli uomini della nazione, guerrieri maschi, è di difendere l'onore delle persone amate, soprattutto di sesso femminile. La necessità di proteggere la purezza e l'onore delle donne della nazione e di vendicare la violenza sessuale perpetrata su di loro dai nemici diventa una narrazione ricorrente.

La terza e ultima figura si incentra sul duplice tema della sacralità e del sacrificio, che ci conduce nel regno della sofferenza, del lutto e della morte. Il nazionalismo diventa esperienza sacra e la salvezza del paese si ottiene necessariamente per il tramite di una lunga serie di martiri. È questo il senso delle parole di Settembrini citate all'inizio del presente capitolo. Nell'Europa cristiana il discorso della sofferenza e della morte finalizzate alla redenzione altrui gode naturalmente di enorme risonanza. Il nazionalismo è un credo molto meno laico di quanto parecchi di noi vorrebbero credere.

Guardare alle nazioni con questi occhi, riconoscerne il lato oscuro, esaminarne le figure profonde, è un processo salutare, l'antidoto necessario ad atteggiamenti sconsiderati di appartenenza ed esaltazione. Tuttavia gli storici manifestano una giusta cautela nei confronti di ogni tentativo di fissare un unico modello statico e immutabile di discorso e di prassi nazionale. Le nazioni e il nazionalismo, pur vantando importanti elementi di continuità, mutano nel tempo.

Assumendo come campo di indagine la storia italiana ed europea dell'Ottocento, possiamo identificare intorno alla metà del secolo uno spartiacque decisivo in questo senso. Il momento utopico della «primavera dei popoli» del 1848 fece pensare che ogni nazione puntasse a un futuro autonomo e pacifico. Nel Lombardo-Veneto si verificarono insurrezioni spontanee antiaustriache. A Venezia il 22 marzo 1848 l'avvocato di origine ebraica Daniele Manin, ritrovatosi a capo della rivoluzione cittadina, ritto sul tavolo di un caffè in piazza San Marco, circondato da arsenalotti e giovani borghesi cinti di fasce tricolori, proclamò la nuova Repubblica. Il suo era un messaggio di fraternità, non violenza, federalismo e moderazione:

Noi siamo liberi, e possiamo doppiamente gloriarci di esserlo, giacché lo siamo senza aver versato goccia né del nostro sangue né di quello dei nostri fratelli; perché io considero come tali tutti gli uomini. Ma non basta aver abbattuto l'antico governo; bisogna altresí sostituirne con uno nuovo, e il piú adatto ci sembra quello della Repubblica, che rammenti le glorie passate, migliorato dalle libertà presenti. Con questo non intendiamo già di separarci dai nostri fratelli italiani, ma anzi formeremo uno di que' centri, che dovranno servire alla fusione successiva a poco a poco di questa Italia in un sol tutto. Viva dunque la Repubblica! Viva la libertà! Viva San Marco!.

Un volantino del 9 aprile 1848 diretto ai «Tedeschi dell'Austria» da parte de «gl'italiani della Lombardia e della Venezia» esprimeva un simile nazionalismo, pervaso dalla convinzione dell'imminente riconciliazione di tutta l'umanità:

Voi, Tedeschi, rientrate gloriosi nella grande famiglia germanica; noi, Italiani, rientriamo nella nostra cara famiglia italiana. Non piú si parli di oppressori e di oppressi, non piú odii, non piú rancori; noi siamo tutti liberi; saremo amici e fratelli.

Cattaneo sintetizzò in modo inimitabile le convinzioni di quel momento: ogni nazione scrisse, «vide che la libertà delle altre era condizione necessaria alla sua».

Ma solo in rare e fuggevoli occasioni il linguaggio del nazionalismo assunse questi toni. Anche nell'esperienza del 1848-49, troviamo movimenti nazionali in lotta per l'egemonia sullo stesso territorio - magiari contro rumeni e altre minoranze in Ungheria, tedeschi contro cechi ecc. I decenni successivi alla sconfitta delle rivoluzioni del 1848-49 (Venezia fu l'ultima città europea a cadere nell'agosto 1849), videro mutamenti cruciali nel carattere del nazionalismo. Non solo i nazionalismi si moltiplicarono in tutto il continente, con una scia di grande instabilità, ma vennero alla ribalta nuove dottrine di superiorità e inferiorità razziale. Al contempo il darwinismo sociale, l'applicazione alla storia umana delle teorie di Darwin sulla sopravvivenza del piú forte, forní altre frecce velenose all'arco del discorso nazionale. Le nazioni come l'Italia passarono rapidamente da una fase di liberazione nazionale a una di competitività internazionale. L'antagonismo assunse forma non solo di dispute su territori di confine, ma sempre piú di aspre tensioni su scala mondiale, nel momento in cui le nazioni piú potenti rivendicavano ciascuna per sé una parte dei territori ancora oggetto di conquista. Lo storico Peter Gay ha giustamente titolato il terzo volume della sua grande opera sulla cultura borghese dell'Ottocento The Cultivation of Hatred, poiché gli imperialismi rivali si prepararono per un bagno di sangue senza precedenti, tragico e spaventoso: la Prima guerra mondiale.

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Pagina 46

Capitolo secondo

La nazione mite


In risposta al pregnante interrogativo posto da Giulio Bollati direi che la via italiana alla modernità passa oggi attraverso quattro elementi fra di loro correlati, tutti presenti in misura diversa nel passato italiano. Due hanno carattere politico, uno di appartenenza geografica, l'ultimo è una virtú sociale. Il primo elemento risiede nella lunga tradizione di autogoverno urbano presente in Italia, che durante il Risorgimento tocca l'apice nel patriottismo difensivo delle repubbliche democratiche di Venezia e di Roma nel 1848-49. Il secondo è l'intrinseca vocazione europea dell'Italia, in questo cosí diversa dalla Gran Bretagna. Il terzo elemento è la ricerca dell'eguaglianza, perseguita solo da piccole minoranze nel Risorgimento, ma essenziale per arrivare a dar vita a una repubblica degna di questo nome. L'ultimo elemento della costruzione di un paradigma moderno della nazione è il piú inusuale ma anche potenzialmente il piú efficace: la presenza nella storia italiana della mitezza come virtú sociale.

Descriverò per sommi capi tali caratteri nell'ambito di questo capitolo, per ritornarvi brevemente alla fine del libro. A scanso di equivoci sottolineo che non mi accingo a sostenere la tesi che questi quattro elementi siano predominanti nella storia d'Italia. Cosí non è. Né intendo imbarcarmi in un esercizio teleologico a indicare l'ineluttabile procedere della storia italiana verso esiti prestabiliti. Nulla garantisce il trionfo del modello alternativo che propongo. Mi preme piuttosto rinvenire tracce storiche spesso dimenticate, soprattutto quelle presenti nel Risorgimento, e sostenerne la validità come punti di riferimento per il futuro. Gli elementi individuati non hanno la forza storica delle «figure profonde» di Banti. Ma sono nondimeno presenze significative nella storia d'Italia, fattori degni di essere identificati e coltivati perché contribuiscono a una visione della nazione moderna assai diversa, che si distacca dal terribile nazionalismo del secolo scorso. Nel ricercarli mi propongo di seguire l'esortazione già ricordata di Simone Weil: «Concepirle in modo assolutamente chiaro... affondarle per sempre in quella parte dell'anima dove i pensieri si radicano; e tenerle presenti in ogni decisione. È forse possibile, in questo caso, che le decisioni, benché imperfette, siano buone».

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Pagina 48

[...] Né va dimenticato che, pur andando fiero delle sue origini lombarde, Cattaneo era esplicito sul fatto che la virtú non fosse esclusiva prerogativa di un'unica nazione o di un singolo gruppo etnico. Riflettendo sugli accadimenti degli anni 1848-49 egli scrisse: «barbaro può suonare quanto tedesco, quanto francese, quanto italiano; e che dei barbari ogni nazione ha i suoi [corsivo suo]».

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Pagina 50

Per Cattaneo autogoverno e presa di coscienza da parte dei cittadini andavano di pari passo. L'autogoverno non poteva esser valido se basato sull'ignoranza e l'interesse personale, oppure se veniva delegato a figure carismatiche di livello locale o nazionale - il moderno equivalente dei principi e dei condottieri. Doveva essere invece un apprendistato, un confronto basato sulle opinioni e gli interessi di ciascuno. Le rivoluzioni degli anni 1848-49 portarono altra acqua al mulino di Cattaneo. L'intera Europa si entusiasmò nel vedere due città italiane, Venezia e Roma, costituirsi in repubbliche democratiche fondate sul suffragio universale maschile e impegnarsi per molti mesi nell'eroica difesa della libertà, municipale e nazionale. Purtroppo per Cattaneo e per il destino del Risorgimento tutto, l'insurrezione milanese del marzo 1848, la piú straordinaria di tutte le rivoluzioni europee dell'epoca - a composizione popolare e a guida repubblicana -, non diede vita a un analogo esperimento di autogoverno repubblicano.

All'unità d'Italia, nel 1861, si giunse in maniera del tutto diversa da quanto auspicato da Cattaneo e indicato dalle esperienze di Venezia e Milano. La monarchia piemontese trionfò nell'intera penisola, introdusse un governo fortemente centralizzato e fondò il sistema parlamentare su un suffragio molto ristretto, in base a criteri censitari. Lungi dal salvaguardare le libertà locali e incoraggiare l'autogoverno, il nuovo regno assegnò ampi poteri ai prefetti e ai sindaci.

Tutto ciò era un controsenso per Cattaneo ma nei suoi scritti posteriori al 1860 non v'è traccia apparente di un approccio secessionista. Benché l'Italia fosse stata fondata come stato monarchico e centralizzato, contrariamente ai principi profondamente repubblicani e federalisti di Cattaneo, egli non si dedicò a minarne le basi, bensí a tentare di migliorarla. I suoi modelli erano la confederazione elvetica e gli Stati Uniti d'America. Cattaneo inseguiva il sogno di un equivalente italiano, gli «Stati Uniti d'Italia» li definiva, in cui venisse garantito pieno riconscimento a culture, sistemi giuridici e tradizioni diverse, e da questa eterogeneità l'Italia unita attingesse forza".

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Pagina 85

Capitolo terzo

Salvare l'Italia da che cosa?


In questo capitolo procederò a un'analisi piú approfondita di quei fattori che considero di ostacolo al tipo di rinascita che ho delineato. Molti sono stati menzionati, ma solo en passant, nel Prologo. Naturalmente la lista potrebbe allungarsi notevolmente, ma lo spazio concesso da questo libro mi costringe a scelte radicali.

Misurarsi sul campo della causalità storica è sempre un'impresa ardua. Richiede un costante esercizio di equilibrio tra cause a lungo e a breve termine; tra agency e struttura, valutando l'interdipendenza (o il peso rispettivo) della scelta consapevole da un lato e delle strutture impersonali dall'altro; tra visibilità e invisibilità, controbilanciando il primato frequentemente attribuito alla sfera politica con altre sfere, spesso meno evidenti. In considerazione di ciò ho individuato quattro grandi pericoli da cui l'Italia moderna deve essere tutelata: una Chiesa troppo forte in uno stato troppo debole; l'ubiquità del clientelismo; la ricorrenza della forma dittatura; e infine la povertà delle sinistre. I primi due sono di carattere strutturale e di lungo termine, gli altri due piú immediati, di carattere congiunturale, individuale e politico. Naturalmente non attribuisco a nessuno di essi valore di tara, non li tratto cioè come componenti irremovibili, "antropologiche" o permanenti.

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Pagina 125

3. Alleanze e leadership.

Mi sono concentrato su un'unica componente della società italiana, ma è ovvio che l'Italia dev'essere condotta fuori dalla situazione attuale da un'ampia alleanza di forze sociali, delle quali i "ceti medi riflessivi" sono solo una parte, pur significativa.

Vorrei tornare indietro per un momento al Risorgimento e citare Carlo Cattaneo per l'ultima volta. È sua la magnifica descrizione di come varie forze sociali trovarono un terreno comune nella lotta contro gli austriaci nel periodo antecedente al marzo 1848. In alcuni punti è di sorprendente attualità. Per Cattaneo il processo di costruire un fronte comune fu lento ma continuo, una componente della società dopo l'altra acquisirono «la coscienza nazionale», dando vita lentamente a una spinta inarrestabile:

Ella [la coscienza nazionale] si svolse prima in coloro che avevano piú bisogno di libertà negli studj, nei commerci, nei viaggi [...] Poi si destò mano mano, anche nei magistrati, ch'erano pure accuratamente spiati e trascelti a essere arnesi di obbedienza: nei sacerdoti, benché domati dall'episcopale superbia a tradurre anche l'evangelio in dottrina di servitú: nei contadini, benché tenuti dagli avari e gelosi padroni quanto piú vicino si potesse alla natura di bestiami: per ultimo nei cortigiani medesimi, a cui le dovizie e la nobiltà non sembravano presidio alla dignità del vivere, ma diritto ad andare inanzi a tutti nella viltà. Questa mutazione degli animi era lenta, ma continua, universale; irreparabile a qualsiasi scaltrimento di polizia.

Il processo descritto da Cattaneo trova paralleli in altre situazioni in cui la tirannia, variamente definita e praticata, ha permeato profondamente la nazione. Nel costruire un ampio fronte di opposizione a essa gli autori della grande tradizione marxista del Novecento hanno sempre posto l'accento su una necessaria gerarchia delle forze sociali. Nei Quaderni dal carcere Gramsci ricorre all'immagine del treno. Naturalmente il proletariato è la locomotiva e le altre forze sociali sono i vagoni, disposti in base al rispettivo potenziale politico. Come scriveva Gramsci, «restando ferma la funzione di "locomotiva" della prima forza, occorre esaminare le diverse combinazioni "piú utili", atte a costruire un "treno" che avanzi il piú speditamente nella storia». La storia non è stata benevola nei confronti di questi schemi. Oggi in Italia la classe operaia, un tempo concentrata nelle grandi fabbriche, consapevole del proprio potere e dotata di abilissimi leader sindacali, ha subito un consistente processo di smembramento e atomizzazione. Sarebbe difficile sostenere che occupi una posizione di primo piano nella critica della società moderna o del moderno consumo. Significative percentuali dei suoi appartenenti votano per una o l'altra parte della coalizione di Berlusconi, soprattutto per la Lega Nord. Con l'inasprirsi della crisi è terreno sempre piú ricettivo per discorsi razzisti e populisti.

Tuttavia bisogna badare a non esagerare, come fanno molti commentatori, che annunciano la «morte della classe operaia» fondamentalmente assoggettata a una visione neoliberale globale del mondo. Negli ultimi dieci anni anche settori significativi dei lavoratori sindacalizzati si sono messi in movimento. Il 73,6 per cento del lavoro in Italia resta dipendente e vede retribuzioni in calo, diritti in rapida contrazione e precariato in aumento. Sembra un tragico ritorno alla versione ottocentesca dei rapporti lavoro-capitale, descritti dai contemporanei di Cattaneo se non da Cattaneo stesso.

In queste condizioni è necessario evidenziare le possibilità di un'ampia alleanza sociale e politica tra significative porzioni delle classi popolari e dei ceti medi. Non è necessario identificare un'unica classe che si ponga alla guida di un simile movimento. L'alleanza sarebbe contro il governo Berlusconi, contro il consenso neoliberale che egli rappresenta, contro il "sado-monetarismo", secondo la definizione che si è rapidamente diffusa - il tentativo cioè di far pagare alle classi lavoratrici e ai ceti medi la crisi mondiale nata dalla cupidigia dei ricchissimi.

Un'alleanza del genere richiede idealmente una leadership politica di tipo particolare - non settaria, disinteressata al potere personale, capace di unire piú che di dividere, fortemente critica nei confronti delle prassi politiche e dei rapporti patrono-cliente cosí tipici di ogni settore della politica e della società italiana. Una leadership collettiva di questo genere - di leader carismatici ne abbiamo forse già abbastanza in Italia - servirebbe a promuovere al contempo la giustificata difesa di interessi materiali e un profondo rinnovamento culturale.

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