Copertina
Autore Fabio Giovannini
Titolo Delitti politici
SottotitoloQuindici misteri italiani
EdizioneNuovi Equilibri, Viterbo, 2013, Senza finzione , pag. 132, cop.fle., dim. 12x19x0,9 cm , Isbn 978-88-6222-333-1
LettoreRiccardo Terzi, 2013
Classe storia criminale , paesi: Italia: 1940 , paesi: Italia: 1960 , paesi: Italia: 1980 , paesi: Italia: 2000
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Indice


Introduzione                                     3

        DELITTI DI STATO

Sangue sul primo maggio
La strage di Portella della Ginestra             8

Cecchini a Roma
L'assassinio di Giorgiana Masi                  16

Una spietata esecuzione
Il caso Fausto e Iaio                           22

        OMICIDI ACCIDENTALI?

Un delitto moderno
Il caso Montesi                                 30

Il primo mistero della Repubblica
Il caso Mattei                                  38

        SCOMPARSI NEL NULLA

L'imam perduto
Il caso Musa Sadr                               46

Due reporter scomodi
Il caso Toni e De Palo                          53

Il segreto di Davide
Il caso Cervia                                  60

        I SUICIDATI

Il banchiere impiccato
Il caso Calvi                                   68

Un cadavere e una bottiglia
Il caso Castellari                              75

Un volo dal cavalcavia
Il caso Bove                                    82

        MORTE IN VATICANO

Veleni ecclesiastici
La scomparsa di Papa Luciani                    90

Tre cadaveri eccellenti
Il caso Estermann                               98

        SENZA MANDANTI

La squadraccia e il comunista
Il caso Petrone                                106

Sterminare i diversi
Il caso Ludwig                                 112


Appendice                                      119


 

 

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Pagina 2

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Questo libro è rilasciato con licenza Creative Commons-Attribuzione-Non commerciale-Non opere derivate 2.5 Italia. Il testo integrale della licenza è disponibile all'indirizzo http://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/2.5/it/.

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Pagina 3

INTRODUZIONE


Oggi, la politica italiana è diventata sempre più sinonimo di corruzione, malversazione e persino collusione col crimine organizzato, fino a farsi quasi luogo comune nelle polemiche contro la "casta". Uno sport pericoloso, quello del tiro ai politici, perché rischia di mettere in discussione la democrazia stessa e invocare, forse involontariamente, soluzioni autoritarie o salvifici tecnocrati. Ma è indubbio che oltre le truffe, le ruberie, le appropriazioni di beni pubblici, ci sono stati nella storia della Repubblica anche innumerevoli delitti, dove la politica (e lo Stato, attraverso i servizi segreti e i suoi apparati) ha avuto un ruolo di primo piano, da protagonista. Si tratta spesso di "delitti senza assassini", perché i killer non sono mai stati trovati o i mandanti sono rimasti nell'ombra.

Questo libro è un memorandum su quindici sanguinosi misteri italiani, nei quali la politica si è intrecciata con l'assassinio. Non i grandi casi di terrorismo (come le stragi dell'eversione nera o i delitti delle Br), esplicitamente indirizzati a fini politici, ma alcuni celebri casi rimasti insoluti, dove si estende l'ombra della politica e dello Stato, (compreso quello vaticano) tutti omicidi o decessi sospetti per i quali non è stato individuato alcun responsabile o dove i mandanti restano ignoti.

Da tempo, l'opinione pubblica italiana si appassiona ai "gialli" della cronaca nera, o almeno i mass media dedicano spazio infinito a crimini e delitti, di cui si analizza nel dettaglio ogni particolare. Meno attenzione hanno avuto, di fatto, le vicende che troverete nelle prossime pagine. Eppure sono tutti episodi misteriosi, non privi di aspetti inquietanti e dove sempre compare la mano della politica, sotto forma di personaggi delle istituzioni, esponenti dei partiti, servizi segreti per definizione "deviati".

Non troverete rivelazioni, né nuove prove o nuovi indizi, ma solo ciò che è noto a chiunque voglia leggere con spirito critico quanto è apparso nel corso degli anni su quotidiani e altre fonti di informazione. L'approccio è quello di uno scrittore che si avvicina a notizie "giornalistiche", rispettando la realtà e precisione dei dati, ma tentando di comunicarle con uno stile e un punto di vista personale.

Manca un grande mistero italiano, tra questi quindici delitti politici: l'assassinio di Pier Paolo Pasolini. Una vicenda oscura per la quale non basterebbe un libro intero (e del resto ne sono stati scritti diversi). Ma Pasolini merita di essere ricordato proprio in apertura di questo volume, perché è stato tra i primi e i più decisi nel denunciare gli intrecci tra crimine e politica. A lui è quindi dedicato questo memorandum di delitti politici. Ricordando le sue parole nel celebre articolo del 1974 per il "Corriere della sera", che troverete integralmente in appendice:

"Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l'arbitrarietà, la follia e il mistero".

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Pagina 8

SANGUE SUL PRIMO MAGGIO

LA STRAGE DI PORTELLA DELLA GINESTRA


È il 1947 e in un bar di Roma, in via del Traforo all'angolo di via Rasella, ci sono delle persone intorno a un tavolino che discutono fra loro. Siamo nel cuore della capitale, perciò potrebbero essere impiegati di qualche ufficio del centro città, o lavoratori che prendono un caffè durante un momento di pausa. Quelle persone, però, non sono impiegati e non sono lavoratori in pausa. Un paio di loro sono personaggi con una lunga storia alle spalle, fascisti scampati alla Resistenza che stanno cercando di sovvertire il nuovo corso della politica italiana, attraverso varie organizzazioni come l'Unione patriottica, guidata da un generale dei carabinieri. E con i fascisti c'è anche un rappresentante della nobiltà nera di Roma, sempre disponibile a dare appoggio a qualsiasi piano eversivo. Insieme a quelle persone ce n'è una con un forte accento siciliano, che spesso usa parole in dialetto. Un uomo giovane, dallo sguardo un po' beffardo, con un grosso anello all'anulare destro. Ha una tasca della giacca piena di foglietti scritti in stampatello, con una calligrafia incerta. Si chiama Salvatore Giuliano, ma tutti lo chiamano "Turiddu". È un bandito, ricercato, ma sempre capace di sfuggire alla giustizia.

In quella chiacchierata al tavolino del bar di via del Traforo si decide il destino di tante persone che vivono, ignare, a moltissimi chilometri di distanza. Si decide la loro morte.

In quella riunione al tavolino di un bar, molto probabilmente, si discute l'organizzazione della prima strage del dopoguerra che anticipa la "strategia della tensione", proseguita per vari decenni.

Tra un caffè e un cappuccino, quegli uomini stavano progettando un massacro.

In provincia di Palermo c'è la Piana degli Albanesi, che ospita una vallata collinosa, Portella della Ginestra. Lì il primo maggio 1947 circa tremila contadini, con le loro famiglie, si riuniscono per celebrare la festa dei lavoratori, ma anche la recentissima vittoria del Blocco del Popolo alle elezioni per l'Assemblea Regionale. Sono contadini combattivi, impegnati nella lotta per l'occupazione delle terre, contadini che sperano nei partiti di sinistra per il loro riscatto e per liberarsi dalla piaga del latifondismo.

Mentre quella folla si appresta ad ascoltare i discorsi dei sindacalisti, raffiche di mitra cominciano a falciare la vallata. Provengono dalle colline, dove cecchini nascosti sparano per uccidere. Muoiono undici persone, tra cui due bambini, altre trenta restano ferite.

Chi sparava dalle colline a Portella della Ginestra? Un rapporto dei carabinieri parlò subito di «elementi reazionari in combutta con i mafiosi locali». E presto verrà la conferma proprio da Salvatore Giuliano, che si vantò di aver guidato l'attacco a quei contadini inermi. Non sorprendeva la sua rivendicazione, dato che "Turiddu" era un personaggio ambiguo, disponibile per la sua ambizione a qualsiasi compromesso. Era un bandito di campagna, ma importante per chi voleva concretizzare una strategia che destabilizzasse l'Italia. Perché era un bandito che "controlla il territorio". Giuliano cavalcava spregiudicatamente la politica, per interesse e per megalomania. Si era fatto alfiere del separatismo siciliano, coniugandolo all'anticomunismo più estremo. Del resto, era entrato in contatto con i fascisti fin dal 1944, quando sulle montagne tra Partinico e Montelepre ricevette addestramento militare da un gruppo nazifascista della Repubblica di Salò (lo testimonia un documento del controspionaggio Usa). E si era costruito con abilità un'immagine di eroe romantico e spaccone, forse percependo il ruolo importante, già negli anni Quaranta, dei mezzi di comunicazione di massa. Posava volentieri per servizi fotografici, come un divo, mettendosi astutamente in posa: si faceva riprendere mentre fingeva di sparare, mentre guardava l'obiettivo con gli occhi torvi e i pollici infilati gagliardamente nella cintura, oppure accanto all'anziana madre. Tutto per accreditare la "grandezza" del suo personaggio e coprire meglio gli intrighi che stava compiendo.

Il bandito Giuliano cavalcò spregiudicatamente diverse opzioni politiche, spesso in modo strumentale. E cercò di vendere il suo micropotere criminale agli Usa, in funzione anticomunista e per indebolire il primo governo postfascista.

In una lettera, nella primavera del 1947, che inviò al presidente degli Stati Uniti Harry Truman, Giuliano chiedeva sostegno per le sue iniziative contro il Pci e per la secessione della Sicilia:

Noi vogliamo unirci agli Stati Uniti d'America. La nostra organizzazione è ormai interamente compiuta: abbiamo già un partito antibolscevico pronto a tutto, per eliminare il comunismo dalla nostra amata isola. Non possiamo più tollerare il dilagare della canea rossa. Noi fortunatamente non crediamo nel paradiso che Stalin ha promesso. Noi risveglieremo la coscienza del popolo, scacciando il comunismo dalla nostra nobile terra, che fu fatta per la democrazia. Noi non permetteremo a questa gente ignobile di toglierci la libertà. Signore, vi preghiamo di ricordare che centinaia di migliaia di uomini aspettano d'essere liberati.

Permettete, caro signore, che vi ossequi il vostro umilissimo e devoto servitore

Salvatore Giuliano


Dopo la strage, a Giuliano spettava di aiutare l'organizzazione di un vero e proprio colpo di Stato. Ma la sconfitta delle sinistre nelle elezioni del 1948 rese inutile il tentativo estremo di usare la forza per bloccare "i comunisti". Così anche Giuliano perse importanza per il disegno destabilizzatore. E le sue interviste, le sue lettere ai giornali, il suo esibizionismo cominciarono a rivoltarsi contro di lui. Era servito per il massacro di Portella, ma sapeva troppo e parlava troppo. Mano a mano che si sentiva scaricato, cominciava anche a lanciare pericolosi avvertimenti, in particolare tentando di coinvolgere il potentissimo ministro degli Interni Mario Scelba. Così perse gli appoggi che aveva meticolosamente costruito. E anche la mafia lo riteneva ormai scomodo.

Il 5 luglio 1950 la storia di Turiddu finì in un cortile di Castelvetrano, in una pozza di sangue. La versione ufficiale dei carabinieri si attribuì il merito dell'esecuzione: Giuliano, braccato dai militari, avrebbe tentato la fuga tra le vie di Castelvetrano e una sventagliata di mitra lo avrebbe finito, mentre stringeva in pugno una pistola.

Questa spiegazione della morte di Giuliano apparve subito poco convincente e presto si fece strada un'altra verità: il bandito fu ucciso nel sonno da un suo cugino (e complice), Gaspare Pisciotta. Poi venne organizzata una messinscena per accreditare la tesi del conflitto a fuoco. Ora, quello che sapeva troppo era proprio Pisciotta, luogotenente di Giuliano e tra gli attentatori di Portella della Ginestra. Al processo per la strage verrà condannato, ma anche a lui si doveva tappare la bocca per sempre e seguì la sorte del suo capo: sarà ucciso misteriosamente in carcere, avvelenato secondo un copione che negli anni a venire leggeremo spesso in altre vicende oscure.

Con la scomparsa di Giuliano e Pisciotta sembrava fosse svanito anche il problema di scoprire la verità sulla strage di cui erano stati esecutori. Il processo aveva evidenziato la complicità tra latifondisti, fascisti e banditismo mafioso per fermare le sinistre con una strategia terroristica. Una strategia che funzionò: la grande avanzata delle sinistre che si era registrata in Sicilia venne bloccata. E gli effetti di quella strategia arriveranno fino ai nostri giorni, se si considera lo stato di difficoltà estrema vissuto dalla sinistra in Sicilia, una regione diventata poi clamoroso serbatoio di voti per Forza Italia.

Fascisti, latifondisti e mafiosi erano dunque i colpevoli di quella strage. Mancava un soggetto, però, sul banco degli imputati, un soggetto che solo oggi viene alla luce con chiarezza. Con il passare degli anni, gli archivi dei servizi segreti di mezzo mondo hanno cominciato ad aprirsi, a "desecretare" documenti. E ostinati ricercatori e storici si sono messi sulle tracce di elementi nuovi per capire la verità sulla storia italiana più segreta. Tra quei ricercatori c'è Giuseppe Casarrubea, che ha indagato per anni tra le carte dei servizi americani, inglesi, italiani e sloveni.

Quello che emerge è il ruolo decisivo in quella strategia terroristica, e nella stessa strage di Portella della Ginestra, del governo americano.

Spulciando tra gli archivi dei servizi, si scopre un documento del Sis del 25 giugno 1947, dove si parla proprio del bar di via del Traforo che abbiamo citato: «Il bandito Giuliano è stato più volte segnalato, anche e soprattutto in ordine ai suoi contatti con le formazioni clandestine di Roma. Fu precisato il luogo degli incontri con i capi del neofascismo (bar sito a via del Traforo, all'angolo di via Rasella)». E ad appena cinquanta metri dal bar Traforo c'è via Due Macelli e la casa di proprietà di una duchessa che ospitò le riunioni di fondazione dell'Unione patriottica anticomunista (Upa), un'organizzazione clandestina appoggiata nell'ombra dai servizi segreti americani. Per quei servizi a Roma agiva un personaggio, fra i tanti: James Jesus Angleton, nome in codice Artefice, esponente dell'Oss, il servizio segreto americano da cui nascerà la Cia. Angleton non ha ancora trent'anni quando dirige il misterioso X-2, un ufficio dell'Oss in Italia, e l'altrettanto misterioso Oso (Office of Special Operations), una struttura ancora coperta dal segreto di Stato. Segaligno, con gli occhiali, Angleton rimarrà ai vertici dello spionaggio americano per molti anni e la sua figura è al centro anche del film di Robert De Niro The Good Shepherd (L'ombra del potere, 2006). Nei documenti, ritrovati tanti anni dopo quegli avvenimenti, si scopre senza alcun dubbio il suo ruolo nel finanziamento dei gruppi eversivi che collaboravano con Giuliano.

Il compito di Angleton, nell'Italia degli anni 1944-1947, era quello di impedire l'avanzata del Pci con ogni mezzo. La guerra fredda stava sorgendo e, per gli Stati Uniti, l'Italia era una zona decisiva dello scacchiere internazionale. A questo scopo servivano tutte le forze disponibili, dai superstiti fascisti ai mafiosi. Angleton si era distinto con una delle sue "operazioni speciali" già nel 1945: organizzò la fuga rocambolesca di Junio Valerio Borghese e di altri gerarchi fascisti, travestendoli da ufficiali americani a bordo di una jeep. Da quella decisione americana di proteggere uno dei più spietati fascisti della Repubblica sociale nasce la nuova linea anticomunista postbellica: unire reduci del fascismo, aristocrazia nera e criminalità organizzata.

Forse in quel bar di via del Traforo, all'angolo di via Rasella, in quelle chiacchierate tra Salvatore Giuliano, fascisti e aristocratici, c'era anche un uomo magro, di trent'anni, con gli occhiali e dall'accento americano.


IL RAPPORTO DELLA QUESTURA DI PALERMO

"Il primo corrente, poco prima di mezzogiorno, pervenne alla compagnia esterna dei Carabinieri una grave notizia: in contrada Portella della Ginestra, territorio di Piana degli Albanesi, era stato sparato sulla folla che celebrava la festa del lavoro in concorso con le popolazioni di S. Giuseppe Jato e Sancipirello, e vi erano diversi morti e feriti.

Dai primi accertamenti si poté stabilire che la mattina, come era stato praticato l'anno avanti e come si era praticato anche gli anni anteriori al periodo fascista, molti elementi delle popolazioni dei Comuni di Piana degli Albanesi, di San Giuseppe Jato e di Sancipirello, appartenenti, per lo più, alle rispettive Camere del Lavoro e accompagnati anche dai familiari, si erano recati, come d'intesa, a piedi, a cavallo e anche su carri, in località Portella di Ginestra, un pianoro sito in territorio di Piana degli Albanesi, tra i monti Pizzuta e Cometa, distante circa km. 5 da Piana, allo scopo di celebrare la festa del lavoro e, nel contempo, fare una scampagnata.

Tutti si radunarono attorno a una specie di podio, formato da un grosso masso di pietra e da altri sassi sovrapposti, podio da dove, gli anni anteriori al fascismo, aveva parlato alle folle radunate per l'identico scopo il propagandista Barbato. Da esso, in attesa che giungesse l'oratore ufficiale sign. Pedalino della Federterra, si mise a parlare Schirò Giacomo di Paolo e Damiani Calogero, calzolaio, segretario della sezione del Psi di San Giuseppe Jato; ma non aveva dette che poche frasi, riscuotendo gli applausi della folla, che si sentì una sparatoria. Non si comprese, da principio, di che si trattasse e molti credettero che fossero detonazioni di fuochi artificiali, in segno di giubilo.

La sparatoria continuò, con brevi intervalli tra una scarica e l'altra. Dopo pochi minuti, accanto al sindaco di Sancipirello cadde, grondante sangue, un giovane di Piana degli Albanesi; cadevano, feriti, altri giovani ragazzi, cadevano anche animali che pascolavano lì vicino. Allora si capì che si sparava sulla folla e tutti, presi dallo spavento, si sparpagliarono in diverse direzioni, oppure cercavano riparo dietro ai grossi sassi".

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Pagina 68

IL BANCHIERE IMPICCATO

IL CASO CALVI


«Tre frammenti di tessuto e un biglietto recante la scritta N2 pregressa gamba sinistra; grosso frammento di miocardio, lingua in toto, e venti frammenti di visceri assortiti; due frammenti e un pezzo di carta recante la scritta baffi; grosso frammento di collo più cinque altri frammenti».


Questo elenco di reperti è contenuto in un verbale che accompagna una scatola con undici vasi per istologia pieni di paraffina e formalina, più cinquantotto vetrini di prelievi su una salma. Una scatola che per vent'anni, fino al 2002, ha riposato in un armadio dell'Istituto di medicina legale di Milano, nell'archivio generale.

Quei reperti erano frammenti di un corpo importante, il corpo di un uomo celebre, morto di morte violenta. Una scritta contrassegna i reperti: "Calvi Roberto 2-11-82". Nei vasi si trovano «frammenti di visceri prelevati nel corso della prima necroscopia», recita ancora il verbale medico.

Quei pezzi di corpo, separati in undici vasi, appartenevano a un uomo che per anni aveva attraversato con successo la finanza italiana. Rispettato, temuto, referente di fiducia per il Vaticano, ma anche per la massoneria, capace di costruire un vero e proprio impero bancario. Prima di diventare una salma fatta a pezzi dai medici, quell'uomo frequentava papi e cardinali, generali sudamericani, politici italiani di governo, imprenditori di antiche dinastie (Rizzoli) o di improvvisa fortuna (Berlusconi). Nel 1946, Calvi aveva cominciato a lavorare al Banco Ambrosiano, un istituto finanziario definito "la banca dei preti".

Nel corso degli anni ne scalò i vertici, fino a diventarne presidente. La sua ascesa è stata caratterizzata da spregiudicate operazioni all'estero, tramite la creazione di fantomatici istituti di credito in Centro e Sud America. E soprattutto si è avvalso di stretti legami con lo Ior, la banca del Vaticano di monsignor Paul Marcinkus. Ma, a un certo punto, quelle frequentazioni non bastavano e gli interlocutori più assidui erano diventati Licio Gelli e una schiera di faccendieri, da Umberto Ortolani a Flavio Carboni. Per acquisire altro potere, Calvi si iscrisse alla P2 e partecipò alla scalata per conquistare il "Corriere della sera". Le operazioni finanziarie si erano fatte sempre più audaci, i giochi si erano spostati anche a est, per aiutare la Chiesa (e la Cia) a far cadere i regimi socialisti. Il sogno era quello di avere mano totalmente libera in Italia, per portare avanti affari senza regole, senza controlli: abbattere la Costituzione, con il Piano di rinascita democratica di Gelli, sembrava il modo migliore per avere altro potere e altro denaro. Ma il Banco Ambrosiano entrò in grave crisi e, nel maggio 1981, Calvi fu arrestato per esportazione clandestina di valuta e condannato a quattro anni. In libertà provvisoria, tentò di far fronte al "crack" del suo impero finanziario, ma senza esito.

Quando il castello di carte del Banco Ambrosiano cade in rovina, Calvi si trova abbandonato dai soci impronunciabili del suo passato. I suoi ultimi giorni, prima di diventare una salma da consegnare alle autopsie, sono i giorni di un uomo in fuga. Braccato, inseguito. Da chi, non è mai stato appurato con certezza, come in tutti i misteri italiani. Sapeva troppo, questo è certo. E troppi erano stati danneggiati dal fallimento clamoroso della sua banca. Si dice che nella catastrofe della sua rete di istituti di credito avrebbero perso vari miliardi boss mafiosi del calibro di Riina, Provenzano e Madonia.

Da mesi Calvi gira armato, sua figlia lo ha visto mettere metodicamente una pistola nella sua valigetta nera a soffietto dove tiene i documenti più importanti. Una valigetta destinata a scomparire, dopo la sua morte, per poi essere consegnata al missino Giorgio Pisanò e mostrata spettacolarmente da Enzo Biagi in tv, prima ancora che fosse consegnata agli investigatori: ma dentro ormai ci sono solo carte senza importanza, un'agenda vuota, una foto di famiglia e tanti mazzi di chiavi.

Aveva paura che lo ammazzassero, Roberto Calvi, se doveva portarsi una pistola nella borsa. In ogni caso sapeva di rischiare molto, tanto da convincere i suoi familiari a scappare in America, al sicuro. Così, agli inizi del giugno 1982, decide di far perdere le sue tracce.

Il pomeriggio di venerdì 11 giugno prende un aereo per Venezia, poi con un'auto a noleggio va verso Trieste. Lì incontra misteriosi personaggi che devono agevolare la sua fuga all'estero, per lui difficile da quando gli è stato ritirato il passaporto, dopo l'arresto e la condanna per esportazione illegale di capitali. Da complici ottiene anche un passaporto falso, intestato a Gian Roberto Calvini. Sembra uno scherzo, la scelta di quel nome, oppure un'ostentazione di sicurezza e arroganza. O forse chi gliel'ha procurato voleva metterlo nei guai. Comunque, riesce a usarlo senza difficoltà, nessuno lo ferma. Va in Austria e il 15 giugno da Innsbruck vola a Londra con un aereo privato.

Non può soggiornare negli hotel di lusso a cui è abituato e prende una stanza in un residence poco appariscente, a Chelsea. Passerà le ultime notti in quella cameretta, l'appartamento 881, dove farà le ultime riunioni della sua vita con una corte di personaggi che appaiono amici, ma forse sanno già che il suo destino è segnato.

Dopo due giorni dall'arrivo a Londra, Calvi riceve una notizia che deve impaurirlo ancora di più. Giovedì 17 giugno, infatti, cade dal quarto piano della sede del Banco Ambrosiano la sua segretaria, che per venticinque anni gli era stata al fianco, certamente depositaria a sua volta di molti segreti. Aveva un forte esaurimento nervoso, si dirà, e sulla scrivania lascia un messaggio di insulti per Calvi: «Che vergogna, scappato. Sia stramaledetto per tutto il male che fa a tutti noi del Banco e del gruppo, della cui immagine eravamo a suo tempo così orgogliosi».

Un suicidio, apparentemente. Ma non tutti la pensano così. «Secondo me l'hanno buttata di sotto», dirà in seguito la moglie di Calvi in un'intervista. «Hanno trovato le scarpe sistemate per bene in ufficio. Un po' strano, no? Io sono convinta che l'hanno ammazzata, perché era l'anello debole della catena».

Roberto Calvi, invece, sa di essere l'anello più importante di quella catena e la morte della sua segretaria non è certo un buon segno, comunque siano andate le cose. Facile pensare che anche lui mediti di uccidersi, in quella situazione. Del resto, già nella notte dell'8 luglio 1981 aveva inscenato un suicidio in carcere: novanta pastiglie di Valium, una ferita al polso. Un gesto molto plateale che aveva lasciato tanti dubbi. E forse, anche a Londra, più che a un vero suicidio pensa a un'altra messa in scena, per poter poi scomparire nel nulla. Qualcuno può averlo indotto a credere che fosse quella la strada giusta. Magari, lo ha istruito su come allestire un finto suicidio, cosa portare con sé per poi lasciare tutto su un cadavere ignoto e irriconoscibile. 0 forse non c'è stàto nemmeno bisogno di quel trucco: un po' di cloroformio e poi un killer abile che porta a termine il delitto.

Tutti i forse sono rimasti aperti, dopo le 7 e 30 del 18 giugno, quando viene scoperto un cadavere appeso a un ponte sul Tamigi, il Blackfriars Bridge, semi immerso nell'acqua. È il cadavere di Calvi: vestito con un abito leggero, senza cravatta, un orologio d'oro al polso, fermo alle ore 1 e 50. In tasca soldi, passaporto, fogli di carta. E soprattutto molti chili di mattoncini, uno infilato anche nei pantaloni. Servivano per appesantirsi e garantire una morte sicura nell'impiccagione, o erano un segnale allusivo, dato che i mattoni sono simbolo massonico, così come il ponte da cui penzola il cadavere, il ponte dei "frati neri" (nome di una loggia di Edimburgo)?

Per le prime indagini britanniche è certamente un suicidio: non è stato drogato, non ci sono ferite sul corpo a parte i segni sul collo lasciati dal cappio. Ma è difficile pensare che un uomo non più giovanissimo, che per di più soffriva di vertigini, possa compiere vere e proprie acrobazie (sovraccaricato tra l'altro dai mattoni), scendendo per una ripida scaletta a sei metri dalle acque del Tamigi, per poi aggrapparsi a dei tubi sospesi nel vuoto, assicurare una corda a un sostegno e impiccarsi.

I dubbi sul suicidio cresceranno sempre più negli anni a venire. Per la morte del banchiere, saranno indagati esponenti mafiosi, il faccendiere Flavio Carboni e Licio Gelli. I processi non sono mai arrivati ad accertare la verità, ma la moglie di Calvi continua a sostenere la sua tesi: «La massoneria ha deciso di uccidere Roberto, poi la mafia ha fatto il suo lavoro che è quello di ammazzare; però anche al Vaticano faceva comodo che Calvi morisse».

Il corpo di Calvi diventò così un oggetto da dissezionare, fino a essere frammentato in quegli undici vasi di formalina. La prima autopsia fu effettuata a Londra da un medico inglese, la seconda in Italia nel novembre 1982. Ma quel corpo doveva rimanere senza pace: oltre alle due autopsie, nel 1998 fu ordinata la riesumazione della salma. 0 meglio, di quel che ne rimaneva, come dimostrano gli undici vasi trovati a Milano. Si scoprirà che non sono presenti lesioni ossee al collo, nonostante la corda di un metro e mezzo che dovrebbe averlo impiccato. Esami e accertamenti effettuati nel 2003 parlano di segni sul collo che potrebbero essere di strangolamento e non dovuti all'impiccagione. E poi ci sono le suole delle scarpe, senza residui di zinco ramato, che invece rivestiva i tubi dell'impalcatura su cui Calvi si sarebbe arrampicato per potersi impiccare. E mani e unghie sono perfettamente pulite, mancano le tracce di silicio o calcio che dovevano rimanere presenti se Calvi avesse toccato i mattoni che aveva indosso.

La carriera di un grande protagonista della finanza italiana finisce così in un macabro sezionamento. I pezzi del suo corpo rimangono vent'anni chiusi in quella scatola. Ma anche attorno a quella scatola, dove riposavano la lingua e altri brandelli di Calvi, c'è il mistero. Viene trovata nel 2002, sembra per puro caso, da una dottoressa che si stava occupando del trasloco dei reperti di quei locali. Una scatola abbandonata, mai messa a disposizione degli investigatori, nonostante contenesse reperti decisivi. Solo imperizia? Solo la notoria superficialità tutta italiana?


FINANZIERI CONTRO IL COMUNISMO

Pochi ricordano che i finanzieri immischiati negli affari più torbidi della storia italiana si dichiaravano fermamente anticomunisti, anzi rivendicavano le loro operazioni avventurose in nome della lotta al comunismo. Proprio Roberto Calvi ne ha lasciato una testimonianza, nelle lettera inviata a Giovanni Paolo II il 5 giugno 1982: «Sono stato io che, di concerto con autorità vaticane, ho coordinato in tutto il Sud America la creazione di numerose entità bancarie, soprattutto allo scopo di contrastare la penetrazione e l'espandersi di ideologie filomarxiste...». E, con tono intimidatorio, aggiungeva: «Sono proprio molti coloro che vorrebbero sapere da me se ho fornito armi o altri mezzi ad alcuni regimi di Paesi del Sudamerica per aiutarli a combattere i nostri comuni nemici, e se ho fornito mezzi economici a Solidarnosc o anche armi e finanziamenti ad altre organizzazioni di Paesi dell'Est».

Michele Sindona, in un'intervista rilasciata dopo la morte di Calvi dichiarava:

Non si è suicidato, è stato ucciso... So soltanto che è gente che detesta Gelli, me e Calvi, perché siamo accesi anticomunisti. Io solo conosco fino in fondo l'impero di Calvi, io solo sono a conoscenza dei veri legami con l'America latina. Come lui ho tentato di stabilire un argine anticomunista ed in questo sono stato appoggiato dall'ambasciata statunitense.

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VELENI ECCLESIASTICI

LA SCOMPARSA DI PAPA LUCIANI


Vaticano, 29 settembre 1978, ore 5 e 30. Il segretario particolare del Papa cerca Albino Luciani, che da trentatré giorni è diventato pontefice, nella cappella dove di solito a quell'ora si reca a pregare. Non lo trova. Si dirige verso la stanza privata del Santo Padre. Entra. Il Papa è sul letto, con la luce accesa. Nelle mani stringe un libro, l'Imitazione di Cristo. Non si muove. È morto. Il segretario dà l'allarme.

Questa è la versione ufficiale sulla morte di Giovanni Paolo I, una morte che a distanza di oltre trent'anni continua a suscitare polemiche. Riavvolgiamo la pellicola e torniamo a quella stessa mattina, ma con un altro copione.

Vaticano, 29 settembre 1978, ore 5 del mattino. Suor Vincenza Taffarel, che da tempo si prende cura di Papa Luciani, porta come sempre un caffè leggero per il pontefice, come sempre batte due o tre volte alla porta e lascia la tazza del caffè all'esterno della camera da letto papale. Dopo qualche minuto la suora torna e vede che il caffè è ancora al suo posto. Ribatte alla porta: nessuna risposta. Entra, sposta la tenda che separa il letto dal resto della stanza. Adagiato sul fondo del letto c'è il Papa, immobile. Il corpo è tiepido. Suor Vincenza gli sente il polso, ma non ci sono pulsazioni. Nelle mani il pontefice stringe alcuni fogli con degli appunti. La suora dà l'allarme.

Questa seconda versione sul ritrovamento del Papa è stata raccontata proprio da Suor Vincenza, presto allontanata dal Vaticano. Chi ha mentito? Chi ha davvero trovato per primo il Papa ormai defunto? E in che posizione era il corpo del Papa? Cosa stringeva tra le mani?

Sembrerebbero dettagli insignificanti, ma non lo sono: immediatamente, infatti, si sollevarono dubbi sulla scomparsa di Papa Luciani. Sembrava incredibile che a un mese dalla sua elezione il Papa fosse morto, così improvvisamente, dopo essere sempre apparso sorridente e sereno, senza un sintomo di malessere. Come è noto, i dubbi si sono accresciuti giorno per giorno, alimentati proprio dal comportamento della Chiesa. Nonostante le circostanze straordinarie del decesso di Giovanni Paolo I, non fu effettuata alcuna autopsia. Il medico che analizzò il corpo del Papa parlò di infarto miocardico. Si istituì una piccola commissione di cardinali che accettò (pur senza avvallarlo) il primo referto medico. Poi si procedette all'imbalsamazione del pontefice, ufficialmente senza altri esami medici.

Certo è che alla morte di Luciani molti tirarono un sospiro di sollievo. Erano sfuggiti alla rimozione dal proprio incarico, ad esempio, il potentissimo segretario di Stato del Vaticano, cardinale Jean-Marie Villot, e il capo dello Ior, la banca del Papa, monsignor Paul Marcinkus. Quando il 6 agosto 1978 era morto Paolo VI, iniziò una dura battaglia per la successione, che vedeva contrapposte in particolare due fazioni: da una parte le logge massoniche vicine allo Ior e dall'altra la tentacolare Opus Dei. Il 26 agosto un conclave brevissimo elesse Papa il patriarca di Venezia, Albino Luciani: nell'impossibilità di mediare tra le diverse opzioni in campo, si scelse un candidato apparentemente debole, incapace di nuocere ai due schieramenti contrapposti, disponibile a lasciare mano libera a chi stava lottando per la supremazia. Un calcolo sbagliato, perché al contrario Papa Luciani dimostrò subito una personalità fortissima, dietro l'apparenza mite e sorridente. Innanzitutto rifiutò molte ritualità tradizionali (disse no all'incoronazione, alla tiara e alla sedia gestatoria, abbandonò il "plurale maiestatis" rivolgendosi alla folla in prima persona), poi si espresse contro la Chiesa delle ricchezze e per la trasparenza delle operazioni finanziarie ecclesiastiche, arrivando a sostenere che un vescovo non poteva presiedere una banca.

In uno dei suoi primi discorsi, Papa Luciani disse: «La proprietà privata per nessuno è un diritto inalienabile ed assoluto. I popoli della fame interpellano in maniera drammatica i popoli dell'opulenza». Un Papa che a pochi giorni dalla sua elezione pronuncia frasi del genere poteva dare fastidio a molti. Soprattutto a quanti avevano deciso di utilizzare la Chiesa per una vera e propria crociata contro il comunismo, con l'obiettivo di dare la spallata finale ai regimi socialisti dell'est europeo. Come poteva prepararsi a quella battaglia un Papa che tuonava contro la proprietà privata e l'opulenza occidentale?

Insomma, qualcuno capì che il nuovo Papa, invece di essere un remissivo pontefice di transizione, era "incontrollabile".

Chi lo aveva conosciuto nel corso della sua carriera ecclesiastica non ignorava il suo carattere volitivo, addirittura irremovibile. Era un tradizionalista, non certo un rivoluzionario, ma già nel 1968 aveva dimostrato un'apertura controcorrente verso la pillola anticoncezionale. Nei suoi discorsi usava un linguaggio semplice, adatto ai mass media, capace di comunicare molto più del suo predecessore: un ulteriore pericolo, se il Papa si fosse fatto megafono di posizioni sgradite ai settori più oltranzisti della Chiesa.

Dopo la morte di Luciani si è cercato di accreditare un'immagine del Papa come di un uomo malato, debole fisicamente (altri sostengono esattamente il contrario: il medico personale del Papa ha detto di non aver mai prescritto medicinali al Papa perché «non ce n'era nessun motivo»). Forse, se davvero Luciani era di salute fragile, si sperava cinicamente in un suo aggravamento abbastanza rapido per il carico eccessivo di lavoro (ma nessuno poteva prevedere che la sua salute sarebbe crollata in soli trentatré giorni), mentre nel frattempo si aggiustavano i rapporti di forza e le spartizioni del potere curiale. O forse divenne necessario affrettarne la fine.

Monsignor Matteo Ducoli, vescovo di Belluno, alle telecamere di Giovanni Minoli ha dichiarato che sulla morte del Papa furono date dal Vaticano «comunicazioni non del tutto precise ed esatte». E ha aggiunto: «In quel momento una parola, anche una sola parola, poteva far esplodere delle bombe».

Proprio le menzogne sulle circostanze del ritrovamento del corpo, però, si trasformarono in bombe. Si negò che il Papa fosse stato trovato morto da una suora, perché probabilmente la si riteneva un'ipotesi "sconveniente" per un pontefice. Ma per quale ragione mentire sul libro che il Papa teneva tra le mani? La notizia che si trattasse dell' Imitazione di Cristo fu data alla stampa di tutto il mondo dal gesuita Padre Francesco Farusi, ex direttore della Radio Vaticana. Poche ore dopo, Farusi scoprì di aver dato un'informazione falsa: la verità era che il Papa impugnava degli appunti, «dei quali non si è detto e non si dirà nulla». Secondo il giornalista David Yallop, che scrisse un libro-inchiesta di successo ( In nome di Dio , Pironti, 1997) per dimostrare che il Papa era stato ucciso, in quegli appunti c'era il nuovo organigramma della curia: nei fogli ci sarebbe stata la conferma che il Papa voleva rimuovere Marcinkus, e proprio questa sarebbe stata la causa dell'omicidio, per Yallop si trattava insomma della "pistola fumante". A uccidere il Papa, secondo Yallop, era stato un veleno estratto da una pianta, la digitale purpurea.

Le "bombe" temute da monsignor Ducoli si sono moltiplicate insieme alle innumerevoli versioni sulla morte del Papa. Il teologo Gianni Gennari sostiene, sulla base delle confidenze di un alto prelato, che un medico consigliò al Papa di assumere un calmante e che Luciani avrebbe sbagliato la dose: l'errore avrebbe provocato una vasodilatazione e quindi il decesso. A sua volta, Don Giacomo Marzorana, del Centro "Papa Luciani", ha citato un'ennesima versione di quanto accadde quella notte: il pontefice sarebbe morto nel suo ufficio e poi trasportato nella sua stanza ormai cadavere. Le stesse gerarchie ecclesiastiche contribuiranno a complicare il quadro. Nel 1987, il Vaticano, allarmato dalle polemiche crescenti, assegna allo scrittore John Cornwell il compito di scrivere un libro sulla fine di Giovanni Paolo I, concedendogli libero accesso alle stanze vaticane. Cornwell sostiene che il Papa morì per un grumo di sangue entrato in circolo e che il decesso avvenne tra le 21.30 e le 22.30. Ma Suor Vincenza, alle 5 del mattino, trovò il corpo ancora tiepido, e quando i tecnici di medicina legale videro il corpo, intorno alle 10, affermarono che la morte risaliva a quattro o cinque ore prima, in base al colorito e alla rigidità del cadavere. Inoltre Cornwell rivela che la veste da notte del Papa era strappata. Perché? Luciani sarebbe morto in piedi, cadendo poi in terra (tesi sostenuta anche dal periodico "30 giorni", diretto da Giulio Andreotti). Il suo segretario lo avrebbe sollevato per metterlo sul letto e in quell'operazione la veste si sarebbe strappata. Ma lo strappo potrebbe avere una ragione molto più allarmante, una lotta contro degli assassini. Tra i tanti misteri che circondano la morte di Papa Luciani, infatti, c'è anche quello di un libro del 1988 su una suora tedesca ritenuta veggente, Erika Holzach: la donna afferma di aver avuto una visione dove Giovanni Paolo I viene ucciso da due uomini, entrati nella sua stanza con una siringa. Sembrerebbero affermazioni assurde, basate su indimostrabili percezioni extrasensoriali: ma la prefazione al libro su suor Erika era di uno stimatissimo teologo, Hans Urs Von Balthasar. Si trattava di un messaggio trasversale per qualcuno?

Allusioni in codice sono senz'altro contenute in un altro libro che in forma romanzesca appoggia la tesi della cospirazione, La morte del Papa (Cavallo di ferro, 2006), scritto da Luis Miguel Rocha sulla base di documenti che gli sarebbero stati consegnati da un misterioso agente segreto. Del resto, nel film Il Padrino parte III, diretto da Francis Ford Coppola nel 1990, si assiste esplicitamente all'omicidio di Papa Luciani: il pontefice viene avvelenato su ordine di una rete criminale che vede uniti mafia, politica, settori del Vaticano e della finanza.

Chi non si è affidata a perifrasi è stata la moglie di Roberto Calvi, un'altra vittima eccellente degli intrighi di quegli anni. In un'intervista a "L'Europeo", nell'agosto 2006, la signora Calvi affermava: «La mia opinione è che Papa Luciani l'abbiano ucciso. Perché non volevano che scoprisse le malefatte all'interno del Vaticano e dello Ior. Marcinkus aveva paura che il Papa scoprisse i suoi segreti».

Con la scomparsa di Albino Luciani, il conclave poteva finalmente sancire i nuovi rapporti di forza. Il 16 ottobre 1978, con il sostegno dell'Opus Dei, Karol Wojtyla viene eletto Papa.


L'OMBRA DI MARCINKUS

Per la morte di Papa Luciani, i sostenitori della teoria del complotto hanno indicato esplicitamente un possibile mandante: monsignor Paul Marcinkus.

Di Marcinkus si parlava addirittura già nel 1970 tra le pagine del celebre La strage di Stato:

La centrale di finanziamenti Usa al neofascismo italiano è la Continental Illinois Bank di Cicero, Illinois, che concentra enormi capitali provenienti in massima parte dall'industria bellica americana. La Continental fornisce la copertura finanziaria alla italiana Banca Privata Finanziaria, della quale si serve Michele Sindona. La Continental, inoltre, è una delle maggiori consociate dell'istituto per le Opere di Religione, la centrale della finanza vaticana il cui nuovo responsabile è monsignor Paul Marcinkus, originario di Cicero.

Amante della bella vita, elegante, giocatore di golf, capace di intessere rapporti con governi e politici (della sua amicizia si è vantato Giulio Andreotti), Marcinkus era stato guardia del corpo di Paolo VI (si narra che proprio lui deviò il pugnale di un attentatore, durante un viaggio papale nelle Filippine) prima di essere posto alla guida dello Ior.

Mino Pecorelli, il giornalista misteriosamente assassinato, sul suo settimanale "Op" del 12 settembre 1978 pubblicò l'elenco di oltre cento prelati e religiosi cattolici che sarebbero stati affiliati alla massoneria, appartenendo a una Gran Loggia Vaticana: tra i nomi c'erano Marcinkus e il Segretario di Stato Jean Villot. In seguito a quell'articolo, Papa Luciani avrebbe ordinato un'inchiesta interna. E molti testimoni ricordano che il pomeriggio precedente alla sua morte, Giovanni Paolo I ebbe un burrascoso incontro proprio con Villot.

Con la morte di Luciani, monsignor Marcinkus perdeva un pericoloso avversario, ma doveva andare incontro a guai con la legge: nel 1987 la magistratura italiana emise un mandato di cattura contro di lui per il crack dell'Ambrosiano; ma Marcinkus aveva passaporto diplomatico vaticano e, in base ai Patti Lateranensi, non si diede seguito all'indagine.

Marcinkus è morto in Arizona il 20 febbraio 2006.

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PIER PAOLO PASOLINI

Io so.


Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato "golpe" (e che in realtà è una serie di "golpe" istituitasi a sistema di protezione del potere).

Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969.

Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974.

Io so i nomi del "vertice" che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di "golpe", sia i neo-fascisti autori materiali delle prime stragi, sia infine, gli "ignoti" autori materiali delle stragi più recenti.

Io so i nomi che hanno gestito le due differenti, anzi, opposte, fasi della tensione: una prima fase anticomunista (Milano 1969) e una seconda fase antifascista (Brescia e Bologna 1974).

Io so i nomi del gruppo di potenti, che, con l'aiuto della Cia (e in second'ordine dei colonnelli greci della mafia), hanno prima creato (del resto miseramente fallendo) una crociata anticomunista, a tamponare il '68, e in seguito, sempre con l'aiuto e per ispirazione della Cia, si sono ricostituiti una verginità antifascista, a tamponare il disastro del "referendum".

Io so i nomi di coloro che, tra una Messa e l'altra, hanno dato le disposizioni e assicurato la protezione politica a vecchi generali (per tenere in piedi, di riserva, l'organizzazione di un potenziale colpo di Stato), a giovani neo-fascisti, anzi neo-nazisti (per creare in concreto la tensione anticomunista) e infine criminali comuni, fino a questo momento, e forse per sempre, senza nome (per creare la successiva tensione antifascista). Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro a dei personaggi comici come quel generale della Forestale che operava, alquanto operettisticamente, a città Ducale (mentre i boschi italiani bruciavano), o a dei personaggio grigi e puramente organizzativi come il generale Miceli.

Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro ai tragici ragazzi che hanno scelto le suicide atrocità fasciste e ai malfattori comuni, siciliani o no, che si sono messi a disposizione, come killer e sicari.

Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli.

Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi.

Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l'arbitrarietà, la follia e il mistero.

Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell'istinto del mio mestiere. Credo che sia difficile che il mio "progetto di romanzo", sia sbagliato, che non abbia cioè attinenza con la realtà, e che i suoi riferimenti a fatti e persone reali siano inesatti. Credo inoltre che molti altri intellettuali e romanzieri sappiano ciò che so io in quanto intellettuale e romanziere. Perché la ricostruzione della verità a proposito di ciò che è successo in Italia dopo il '68 non è poi così difficile.

[...]

Ora, perché neanche gli uomini politici dell'opposizione, se hanno - come probabilmente hanno - prove o almeno indizi, non fanno i nomi dei responsabili reali, cioè politici, dei comici golpe e delle spaventose stragi di questi anni? È semplice: essi non li fanno nella misura in cui distinguono - a differenza di quanto farebbe un intellettuale - verità politica da pratica politica. E quindi, naturalmente, neanch'essi mettono al corrente di prove e indizi l'intellettuale non funzionario: non se lo sognano nemmeno, com'è del resto normale, data l'oggettiva situazione di fatto.

L'intellettuale deve continuare ad attenersi a quello che gli viene imposto come suo dovere, a iterare il proprio modo codificato di intervento.

Lo so bene che non è il caso - in questo particolare momento della storia italiana - di fare pubblicamente una mozione di sfiducia contro l'intera classe politica. Non è diplomatico, non è opportuno. Ma queste sono categorie della politica, non della verità politica: quella che - quando può e come può - l'impotente intellettuale è tenuto a servire.

Ebbene, proprio perché io non posso fare i nomi dei responsabili dei tentativi di colpo di Stato e delle stragi (e non al posto di questo) io non posso pronunciare la mia debole e ideale accusa contro l'intera classe politica italiana.

E lo faccio in quanto io credo alla politica, credo nei principi "formali" della democrazia, credo nel Parlamento e credo nei partiti. E naturalmente attraverso la mia particolare ottica che è quella di un comunista.

Sono pronto a ritirare la mia mozione di sfiducia (anzi non aspetto altro che questo) solo quando un uomo politico - non per opportunità, cioè non perché sia venuto il momento, ma piuttosto per creare la possibilità di tale momento - deciderà di fare i nomi dei responsabili dei colpi di Stato e delle stragi, che evidentemente egli sa, come me, non può non avere prove, o almeno indizi.

Probabilmente - se il potere americano lo consentirà - magari decidendo "diplomaticamente" di concedere a un'altra democrazia ciò che la democrazia americana si è concessa a proposito di Nixon - questi nomi prima o poi saranno detti. Ma a dirli saranno uomini che hanno condiviso con essi il potere: come minori responsabili contro maggiori responsabili (e non è detto, come nel caso americano, che siano migliori). Questo sarebbe in definitiva il vero Colpo di Stato.

"Corriere della Sera", 14 novembre 1974

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